Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

MASSONERIOPOLI

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 MASSONERIOPOLI

MASSONERIA. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

MASSONERIA: QUELLO CHE NON TI DICONO.

 

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Massoneria non si può non parlare dei tarli che divorano il sistema Italia e le commistioni tra le cosche criminali locali con le lobbies, le caste e le massonerie deviate. Queste detengono il potere politico, economico ed istituzionale e per gli effetti si garantiscono impunità ed immunità. Delle Caste e delle Lobbies si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Della Mafia, si parla dettagliatamente anche in altra inchiesta ed in altro libro.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione." Di Antonio Giangrande

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

TINA ANSELMI ED AGOSTINO CORDOVA: I PASIONARI CONTRO LA MASSONERIA DEVIATA.

CHI COMANDA IL MONDO E LE INCHIESTE CHE NON SI DEVONO FARE.

 ‘NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

PARLIAMO DI MASSONERIA E DI CHI COMANDA IL MONDO.

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

CHI FA LE LEGGI? 

LA MASSONERIA E PALAZZO GIUSTINIANI.

IL RITO DI INIZIAZIONE.

ERO MASSONE.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

P2 E DINTORNI. CHI ERA LICIO GELLI?

A SINISTRA SI E’ PIU’ INTELLIGENTI?

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

SE NASCI IN ITALIA…

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

SE IL NEMICO NON LO PUOI BATTERE, FATTELO AMICO!

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

MASSONERIA: QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

IL FENOMENO FEMEN.

UN APPROFONDIMENTO, ANCHE LETTERARIO, SULLA MASSONERIA.

LA MASSONERIA TRA CHIESA E 'NDRANGHETA.

MAGISTRATI MASSONI, GIU' IL CAPPUCCIO!!!!

LA MASSONERIA DEL TERZO MILLENNIO. I DELITTI MASSONICI E LE NOTE DI CRONACA.  IL MISTERO DELLA MORTE DI RINO GAETANO, DI MARCO PANTANI E DEGLI ALTRI NOMI NOTI E LO SCANDALO MOSE.

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO?

GUERRA DI TOGHE.

LE CARICHE PUBBLICHE E LA MASSONERIA. FATTI AMICO UN MASSONE DI SINISTRA.

SILVIO E GIORGIO: AFFINITA’ E FRATELLANZA.

CHI NON E’ MASSONE DEVIATO, SCAGLI LA PRIMA PIETRA: MAGISTRATI, POLITICI, MAFIOSI.

LA MASSONERIA ED IL POTERE.

FINANZA E POTERE. IL GRUPPO BILDERBERG E LE TEORIE COMPLOTTISTICHE.

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

FRATELLI COLTELLI.

ABOLIAMO LA MASSONERIA?

AFFARI DEI TEMPLARI LEGHISTI.

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA, FINANZA E MAGISTRATURA.

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

MASSONI. QUEGLI UOMINI IN NERO NASCOSTI TRA POLITICA, MAGISTRATURA ED AFFARI.

MASSONERIA: GLI INSOLITI NOTI CHE SONO IN MEZZO A NOI.

MAGISTRATI ED AVVOCATI MASSONI?

PARLIAMO DI MASSONERIA.

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA.

TORINO CAPITALE, COVO DI MASSONI.

PARLIAMO DI MASSONERIA DEVIATA, MAFIA, SERVIZI SEGRETI E SETTE SATANICHE.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO E LE SETTE DI STATO.

STORIA DELLA MASSONERIA.

POLITICA E MASSONERIA.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA.

LOGGIA PROPAGANDA 2.

GLADIO.

P3 E CRICCHE ANNESSE.

LE P....POTERI OCCULTI, MA NON TROPPO.

WALT DISNEY, IL MASSONE?

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

L'UNITA' IL PECCATO ORIGINALE. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 30 gennaio 2018. L’intera storia di questo Paese andrebbe riscritta per smascherare il sistematico ricorso alla coercizione armata degli apparati dello Stato per perpetuare il potere della “borghesia compra dora” (una classe media indigena alleata con gli investitori stranieri, multinazionali, banchieri e gli interessi militari) asservita al grande capitale cosmopolita e del suo partito: la massoneria. Le origini di molti mali dell’Italia di oggi risiedono nelle circostanze con cui l’unità nazionale fu raggiunta, cioè una spietata guerra di conquista e di saccheggio scatenata dal Piemonte contro i floridi stati preunitari. Gli obbiettivi di Cavour erano quelli di garantire alla nascente industria del Nord i capitali per il suo sviluppo e un mercato per i suoi prodotti. Quindi si deve parlare di una vera e propria guerra coloniale: dove la potenza imperialista interviene direttamente per garantire la sicurezza degli investimenti e lo sfruttamento del territorio. Con l'emancipazione nazionale il grande capitale arruola tra gli indigeni il personale di cui ha bisogno: tecnici, amministratori, forze di polizia. Poi in modo più sfumato, la potenza imperialista continua a condizionare la colonia attraverso i programmi di assistenza economica, militare e culturale, ma ricorrendo anche alla corruzione, all’intimidazione, al colpo di stato e all’intervento militare diretto. Il tutto nell’interesse del grande capitale, che nel frattempo è diventato cosmopolita. In Italia il Regno del Piemonte si sostituì, all’Austria come potenza coloniale e l’unità segnò il punto di transizione dall’epoca coloniale al neocolonialismo. Di fatto termina una dominazione straniera e sorge uno Stato unitario e formalmente indipendente sul piano politico, ma pur sempre aggiogato al carro del grande capitale. Fu la grande finanza ebraica a spingere i governi europei a intraprendere le iniziative coloniali dell’Ottocento. Ciò accadde perché il grande capitale non trovava più sufficientemente remunerativi gli investimenti nelle loro nazioni d’origine. Il caso italiano non fa eccezione: furono i Rothschild di Parigi e i loro agenti a Parigi, Londra e Ginevra a finanziare le guerre d’indipendenza, la costruzione di cantieri navali, ferrovie e fabbriche di armi, l’allestimento di una moderna flotta. Re Vittorio Emanuele II e Cavour contrassero con la finanza ebraica debiti di tali proporzioni da rendere necessario il saccheggio sistematico del resto della Penisola. Questo fu il meccanismo criminale che portò all’unificazione della Penisola. L’Italia è sempre stata una terra ricca grazie ai suoi porti, alla sua collocazione geografica, alla fertilità delle campagne, all’ingegnosità dei suoi abitanti: c’era tanto da predare in Italia. La resistenza delle strutture tribali alle strutture del capitalismo avanzato provocano un fenomeno di reazione, che è possibile osservare nella storia di ogni Paese toccato dal colonialismo. Questa situazione si trova anche nel Mezzogiorno italiano e prende il nome di brigantaggio. Con l’affermazione di una classe sociale, detta borghesia compradora, da non confondere con la borghesia produttiva che fa impresa o la piccola borghesia cittadina dedita al commercio spiccio, né quella rurale dei piccoli proprietari terrieri. Ma l’agente del grande capitale nei Paesi in via di sviluppo: è la classe sociale degli amministratori, degli ufficiali dell’esercito, degli impiegati di banche straniere e multinazionali, dei liberi professionisti, la cui unica ragione è la difesa degli investimenti stranieri sul territorio minacciati dalle rivendicazioni sociali del popolo oppresso. I suoi membri traggono una rendita di posizione, che si esprime nelle forme del potere personale, del prestigio e della ricchezza. La borghesia compradora comparve in Italia alla vigilia dell’unità col preciso compito di saccheggiare il Paese per sé e per i propri padroni: i potenti banchieri israeliti di Parigi, Londra e Ginevra guidati dai Rothschild. Furono costoro, che finanziarono le guerre d’indipendenza e il processo di modernizzazione del Paese. Considerati gli interessi che essi difendono, non sorprende che governi di diverso colore politico si alternino tra loro senza che nulla cambi. (“Tutto cambia perché nulla cambi”. Tomasi di Lampedusa). Il sacco d’Italia iniziò accentrando in un’unica mano la leva della fiscalità a partire dal 1861 e fu condotto per mezzo di un esercito di amministratori corrotti e soldati. Così, servendosi della borghesia compradora selezionata e arruolata dalla massoneria, il grande capitale instaurava le sue strutture economiche nella Penisola. Il risultato fu un’ondata di miseria quale non se ne ricordava da secoli: fu a quel punto che milioni di compatrioti iniziarono a emigrare in America con le famose valige di cartone. (Oggi il fenomeno si ripete: sono giovani diplomati e laureati che partono in cerca di opportunità di lavoro che in Italia mancano, piccoli imprenditori che chiudono le loro fabbrichette in Italia per delocalizzare le produzioni, pensionati che fuggono in Portogallo, in Romania o in Tunisia per poter vivere dignitosamente gli ultimi anni della loro vita con quel poco di pensione che si ritrovano). Tutto questo accade perché esiste una casta che nulla produce, ma depreda, dilapida e si vende le ricchezze che dovrebbe amministrare in nome del popolo sovrano. Dal 1861 i vari governi che governavano il Paese imposero al Sud la pesante tassazione che già gravava sul Nord, aggiunsero nuovi balzelli, come l’odiosa tassa sul macinato, confiscò i palazzi e le tenute fondiarie della Chiesa, che i soliti faccendieri si accaparrarono a prezzi stracciati. Tutto ciò serviva ad alimentare la corruzione, la speculazione e il clientelismo mentre prestiti sempre crescenti venivano richiesti sui mercati alimentando la spirale del debito pubblico. Fu così l’Italia si configurò, fin dall’inizio, la “cleptocrazia” cioè il governo basato sul malaffare.

Ma la vera grande protagonista dell’unità d’Italia fu la massoneria: il Grande Oriente d’Italia sorse ufficialmente come estensione della Loggia Ausonia, fondata nel 1859 a Torino con la benedizione di Cavour. Vi entrarono in massa personaggi che occupavano posizioni sociali di rilievo ed erano incredibilmente ardenti patrioti. Fu quindi la massoneria a selezionare la borghesia compradora in Italia, che sostituì gli amministratori e gli sbirri austriaci e assorbì al proprio interno quelli borbonici. In una continuità, assicurata dalla massoneria, nella trasmissione del potere da una generazione all’altra, attraverso i meccanismi ben noti del nepotismo, della raccomandazione e della corruzione. È l’Ordine che garantisce l’impunità della casta al potere, controllando contemporaneamente il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, mettendo in relazione il magistrato col il malavitoso, il politico corrotto col faccendiere corruttore, l’élite italiane e con quelle straniere. Tutto ciò si palesa chiaramente nella storia di Adriano Lemmi, il “banchiere del Risorgimento”, Gran Maestro della Massoneria negli anni tra il 1885 e il 1896. Egli fu il punto di congiunzione tra il mondo dell’alta finanza e la borghesia compradora italiana. Lemmi fu l’eminenza grigia dietro il primo ministro Francesco Crispi, un “33” del Rito Scozzese. Fu Lemmi a creare una Loggia supersegreta, la Loggia di Propaganda, per nascondere l’affiliazione massonica dei personaggi più autorevoli e influenti del tempo: banchieri e uomini politici. (Quando il Venerabile Licio Gelli assurse a eminenza grigia della Prima Repubblica, non fece altro che ricopiare i metodi di Lemmi creando la Loggia Propaganda 2). Come ogni borghesia compradora, anche quella italiana è corrotta, inefficiente e arrogante. Il primo scandalo dell’Italia unita fu quello delle Ferrovie meridionali, nel quale Lemmi figura come l’organizzatore di un giro di mazzette che coinvolse faccendieri, uomini politici e avvocati. Nel 1893 il governo Giolitti cadde a causa dello scandalo della Banca romana, una truffa colossale di cui Lemmi era il regista. Pure negli odierni scandali bancari si può leggere, dietro alle collusioni tra politica e finanza, la lunga mano della massoneria. Poco più di un secolo dopo, la storia si è ripetuta con lo scandalo della metropolitana di Milano, per il quale il Presidente del Consiglio Bettino Craxi e altri furono condannati per corruzione. Possiamo aggiungere che Craxi e Martelli, nel 1981, avevano letteralmente comprato il Partito Socialista con i soldi messi a disposizione dalla P2 secondo le dichiarazioni dell’on. Cicchitto. La super-loggia di Gelli fu coinvolta anche nello scandalo del crack del banco Ambrosiano, al quale va collegata l’uccisione del banchiere massone Roberto Calvi. Questi fenomeni crimininali si ripetono periodicamente nella storia italiana proprio a causa del peccato originale della genesi dell’Italia unita: un’operazione colonialista condotta in nome del grande capitale, nel quale la massoneria ha giocato un ruolo decisivo.

«Noi massoni? Nessuna segretezza: abbiamo fatto l’unità d’Italia», scrive Simona Musco il 18 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Parla Santi Fedele (Gran Maestro e storico): “I grillini non hanno la cultura politica per capire quale sia stato il nostro ruolo”. Non si può più parlare di segretezza, né ignorare che la storia della massoneria «è legata strettamente» all’unità d’Italia. A dirlo è Santi Fedele, Gran Maestro aggiunto del Grande Oriente d’Italia nonché professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Messina, che interviene sulla caccia al massone avviata dal Movimento 5 stelle. Una caccia «a ciò che non si comprende», cavalcando le paure di chi non conosce la massoneria «a fini elettorali», racconta al Dubbio.

Professore, cosa lega la massoneria all’unità d’Italia?

«Inizialmente la massoneria viene messa fuorilegge da tutti i governi degli Stati preunitari ma è presente attraverso la carboneria, nella quale molti massoni continuano a operare per l’unità. Ma quello che vorrei sottolineare è il contributo dato al farsi dello Stato italiano. Ricordiamo la celebre frase di D’Azeglio: fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani. Noi la interpretiamo in termini lamentativi moralistici, invece era un’esortazione: bisognava creare una coscienza nazionale tra popolazioni prima divise».

Qual è stato il suo contributo?

«Ad esempio l’intitolazione delle strade a Roma risorta, a Garibaldi e così via. Potrà sembrare banale ma è uno strumento formidabile per veicolare, in una popolazione quasi totalmente analfabeta, un’identità nazionale. E nei 50 anni dopo l’unità, i massoni ricoprono il ruolo di ministro della Pubblica istruzione, con l’obiettivo di sviluppare l’istruzione popolare. Coppino, che istituisce la scuola elementare obbligatoria e gratuita, era massone e questa legge è finalizzata all’acculturazione ma anche alla conquista dei diritti civili. La legge elettorale, agli inizi, è infatti censitaria: votano soltanto coloro che pagano almeno 40 lire di imposte dirette. Successivamente si aggiunge il criterio della capacità: può votare colui che sa leggere e scrivere. Chi frequenta le prime due classi elementari, grazie alla legge Coppino, viene quindi iscritto nelle liste elettorali. Ciò comporta la formazione di una coscienza civile».

Qual è stato il periodo più duro?

«Tra il 1919 e il 1945. Tutti i regimi totalitari in Europa hanno in comune l’avversione dichiarata nei confronti della massoneria. Il fascismo lo ha fatto per due motivi: la soppressione della massoneria è il prezzo richiesto a Mussolini dalla Chiesa – che non ne tollera l’impronta razionalista – affinché si pervenga ai patti lateranensi, in secondo luogo uno Stato totalitario esercita un controllo globale e quindi è inconcepibile l’esistenza di una società che ha un’attitudine alla riservatezza».

Come si spiega l’avversione da parte del M5s?

«Non attribuisco al suo gruppo dirigente una cultura politica tale da poter capire che la storia della massoneria è legata all’avvio del costituzionalismo moderno. Si pensa di poter avere dei consensi elettorali sfruttando le paure inconsce, rievocando la P2, che noi abbiamo combattuto dandoci regole rigide. È un dato inquietante, ma guardiamo avanti. E non si può più parlare di segretezza, ma solo di riservatezza, riferita al dato meramente rituale. Ma anche quello, ormai, è cosa nota».

«Sì, la massoneria ha un valore storico. Ma è un potere che minaccia lo Stato», scrive Simona Musco il 18 Febbraio 2018, su "Il Dubbio". Risponde lo storico Franco Cardini: «La massoneria dice di non essere più segreta, ma mantiene delle caratteristiche che vanno contro le istituzioni». Franco Cardini, professore ordinario di Storia medievale presso l’Università di Firenze, non ha dubbi: la segretezza della massoneria non è mai venuta meno. E sebbene la caccia al massone sia una fenomeno strumentale, che verrà superato dopo il 4 marzo, il problema rimane: «il confine stabilito dalla legge non va superato».

Professore, cos’è la massoneria?

«È un’associazione di mutuo soccorso che una volta diventata associazione della classe dirigente è diventata molto più potente. Di per se stessa è segreta: ci si entra con una serie di atti liturgici. Con la rivoluzione francese si è avvicinata alla politica, e durante il Risorgimento molti patrioti sono entrati nella massoneria, perché avversati dalla Chiesa. E lì si è creato uno scontro rimasto insanato».

Qual è stato il suo contributo al Risorgimento?

«La diffusione di una sorta di religione civile, fondata sulla virtù, sulla lealtà allo Stato, l’onestà dei cittadini. È una religione civile, non ha un fine trascendente».

Perché la diffidenza nei suoi confronti è durata a lungo?

«Perché è una organizzazione di potere: quando i membri della massoneria entrano nei governi agiscono perché siano i confratelli ad occupare posti di potere. È un lavoro di coordinamento di un potere occulto, basato su un patto segreto di aiuto reciproco tra i collegati. Quindi minaccia anche la stabilità dello Stato».

Perché il M5s cavalca questa paura?

«Il M5s riprende una vecchia ipotesi comune anche ad altri partiti: la segretezza. Oggi i massoni fanno anche i convegni, però c’è una tradizione secondo cui alcune logge si mantengono coperte, cioè hanno membri che sono segreti, con elenchi non visibili e cerimonie a porte chiuse. Tutto questo può andare contro le leggi dello Stato, perché alcuni elementi sfuggono al controllo dello Stato. Il caso più noto fu quello della P2».

Però fu una degenerazione.

«Sì, ma chiunque viene colto in fallo può dire che è stato un malinteso. È una linea di difesa che può anche essere presa per buona. Ma è una posizione apologetica che apre la strada anche a precedenti importanti».

Cosa rinnova la paura nei confronti delle logge?

«Ogni tanto viene fuori qualche scandalo legato a questo o quel gruppo massonico e allora tornano le vecchie questioni, ma è un po’ come le attuali critiche di ritorno al fascismo. Non bisogna pensare che queste polemiche abbiano un’origine profonda all’interno dell’opinione pubblica, sono manovrate, sono strategie. È solo una guerra simbolica tra bande in vista del 4 marzo, dopo il quale saranno dimenticate».

Ma chiedere l’esclusione di un massone da un gruppo politico non è antidemocratico?

«Non sono democratiche organizzazioni che in parte o in tutto sono segrete. Lo scopo di questa segretezza è favorire personaggi che stanno all’interno del gruppo stesso. La massoneria ritiene di non essere più un’associazione segreta, ma conserva quella che chiamano discrezione. C’è una linea sottilissima che la separa dalla segretezza, che nel nostro codice civile e penale non va oltrepassata. Ma avviene di fatto, il problema è tutto lì».

Da Garibaldi a John Wayne, gli iscritti illustri alla massoneria. Nata per scopi di assistenza, la massoneria nel tempo ha assunto un ruolo politico e, forte della segretezza, ha avuto anche pagine oscure. Tra i nomi famosi Garibaldi, Foscolo, Beccaria e Mameli, scrive Cesare Zapperi il 16 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Le espulsioni decretate dal Movimento 5 Stelle nei confronti di candidati alle elezioni che si è scoperto essere iscritti alla massoneria ha portato alla ribalta il tema dell’associazione segreta che, nata per fini corporativi o mutualistici, è spesso finita al centro di vicende poco chiare. In Italia viene alla mente subito la loggia P2 di Licio Gelli e il contorno di scandali e di coinvolgimenti di personaggi illustri dei mondi della politica, dell’economia e della società. Ma andando indietro nel tempo, tra gli iscritti alla massoneria (che è un’associazione coperta da segreto ma non tale da impedire, ex post, di conoscere chi ne ha fatto parte), ci si imbatte in figure di rilievo, sia in Italia che nel mondo. L’elenco è lungo: va da Garibaldi a Foscolo, da Cesare Beccaria a John Wayne. Secondo l’Enciclopedia Treccani, la massoneria «si costituì, a partire dal 17° sec., principalmente in Inghilterra e in Scozia, allo scopo di svolgere opera di assistenza e di beneficenza tra gli associati secondo gli ideali cristiani. Nei secoli ha subito profonde trasformazioni, assumendo un ruolo culturale e talvolta politico. Il nome deriva dalle antiche associazioni medievali di mestiere dei muratori e degli architetti (dal fr. franc-maçon «libero muratore»), i cui membri si tramandavano segretamente le regole del loro lavoro perchè nessun altro esterno all’associazione ne venisse a conoscenza». In Italia «fu sciolta dal regime fascista (1925) perché giudicata un’associazione di oppositori e i suoi beni furono confiscati. Risorta dopo il 1944, la massoneria italiana ha vissuto fasi alterne e si è esposta a trame economiche e politiche».

Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due Mondi è forse il massone più conosciuto della storia. Garibaldi a Montevideo nel 1844 indossò il primo “grembiulino” ed “ebbe la luce” massonica iniziatica. Aveva trentasette anni, e la loggia era L’Asil de la Vertud, una loggia irregolare, emanazione della massoneria brasiliana, non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran Loggia d’Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. A Firenze dal 21 al 24 maggio 1864, l’assemblea del Grande Oriente d’Italia elesse gran maestro Giuseppe Garibaldi; la sua carica durò pochissimo a seguito di disaccordi con gli altri membri. Diede le dimissioni dalla carica, e rimase gran maestro onorario a vita.

Ugo Foscolo. Anche il poeta «Dei sepolcri» (1778-1827) è stato associato alla massoneria. Fu iniziato nella Loggia Reale Amalia Augusta di Brescia e la sua rapida carriera tra le fila dell’esercito napoleonico si spiega, secondo gli storici, anche con la totale adesione ai progetti dell’imperatore ed ai suoi ideali profondamente intrisi nel messaggio massonico. Sulle orme di Foscolo, altri illustri poeti aderirono alla massoneria. Trai più noti: Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio (anche se in questo caso le fonti sono controverse).

Goffredo Mameli. L’autore dell’inno nazionale (1827-1849), pur giovanissimo, fu protagonista di innumerevoli iniziative patriottiche (come ad esempio l’esposizione del tricolore per festeggiare la cacciata da Genova degli Austriaci del 1746) e venne arruolato nell’esercito di Giuseppe Garibaldi. Fu membro della Gran Loggia d’Italia.

John Wayne. Anche il celebre attore americano (1907-1979) si iscrisse all’associazione segreta. La sua scheda di iscrizione, firmata il 24 giugno 1970 e accettata nella loggia numero 56 di Phoenix (Arizona) e lo stendardo rosso, su cui è raffigurato un pellerossa a cavallo, della loggia massonica del Minnesota, una delle prime in America, è conservata nel Museo italiano di simbologia massonica di Firenze. Ma nel mondo dello spettacolo massoni furono anche Totò, Stanlio e Ollio, Walt Disney.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

TINA ANSELMI ED AGOSTINO CORDOVA: I PASIONARI CONTRO LA MASSONERIA DEVIATA.

Addio Tina Anselmi, la donna che fece tremare i piccoli uomini del potere. Persona di eccezionale coraggio e di straordinaria normalità, si è scontrata contro i poteri occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni. Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo, scrive Marco Damilano l'1 novembre 2016 su "L'Espresso". Non l'avevano mai dimenticata. I vertici del Paese, colpevolmente, sì. Loro, Licio Gelli e i suoi amici, no. Non la dimenticavano e la odiavano come la loro peggiore nemica. Lo si capì nel 2004 quando il ministero delle Pari Opportunità commissionò a Pialuisa Bianco un dizionario biografico delle donne italiane. Alla voce Anselmi Tina si leggevano parole come queste: «Moralismo giacobino, istinto punitivo... I 120 volumi degli atti della Commissione, che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli dell'Anselmi's list, infatti, cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi». E ancora: «improbabile guerriera. Furbizia contadina». Così un governo aveva ben pensato di ricordare la prima donna ad aver occupato l'incarico di ministro in Italia. Ad aver commissionato il testo era stata la responsabile delle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo. Il presidente del Consiglio era quel Silvio Berlusconi che faceva parte degli «amici di Gelli», tessera numero 1816 della loggia massonica P2, gruppo 17, settore editoria. Non avevano mai dimenticato lei e i quasi tre anni, dall'ottobre 1981 al maggio 1984, in cui Tina Anselmi aveva presieduto la Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2. Una sfilata ininterrotta di ministri, generali, ambasciatori, segretari di partito, direttori di giornale, banchieri, magistrati. Si giustificavano: «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». «Bisignani (Luigi) pagato da Gelli, è ancora in rapporto con Gelli...». Apparivano untuosi, viscidi come il loro capo, di fronte a quella donna che li interrogava. Non fu solo la prima donna a diventare ministro, ma soprattutto una grande artefice del welfare italiano. Cercò di fare luce sula P2 e anche per questo poi fu emarginata. Aveva tutte le doti per diventare presidente, ma quando ci fu la possibilità il centrosinistra non ebbe il coraggio di mandarla al Quirinale e le preferì Napolitano. Una donna contro i poteri occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni come cellule tumorali che avvelenano un corpo sano. Di eccezionale coraggio. E di straordinaria normalità. «Tina, nome di battaglia Gabriella, anni diciassette, giovane, come tante, nella Resistenza. Non ho mai pensato che noi ragazze e ragazzi che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali, ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità....». Comincia così la sua autobiografia, "Storia di una passione politica" (Sperling & Kupfer), curata da Anna Vinci e pubblicata dieci anni fa. Una ragazzona del profondo Veneto, campionessa di giavellotto e pallacanestro a livello regionale, «in un tempo in cui lo sport era un'attività prevalentemente maschile», a 17 anni era entrata nella Resistenza dopo un colloquio con un'amica che aveva il fidanzato partigiano, «una ragazzina passata direttamente dalla vita in famiglia alla lotta armata». Aveva scelto il nome Gabriella come l'arcangelo Gabriele, il messaggero dell'annunciazione: staffetta partigiana, cento chilometri al giorno in bicicletta, la fame e la paura. Non aveva mai dismesso l'abito della resistente. Neppure quando, dopo la guerra, aveva cominciato a praticare un altro sport tutto maschile, la politica. Militante dell'Azione cattolica, amica e discepola di Aldo Moro, l'unica ammessa dalla famiglia in casa durante i 55 giorni del sequestro del leader dc, eletta deputata nel 1968, prima donna a essere nominata ministro, nel 1976, a 49 anni, nel terzo governo Andreotti, ministro del Lavoro e poi ministro della Sanità. Una donna in politica che portava uno spirito inedito nelle stanze del governo: spiritosa, anti-retorica, il contrario esatto di certi successivi modelli narcisisti e tutti auto-riferiti, una che di sé scriveva, con semplicità: «La ventata di leggerezza che nella mia infanzia ha spazzato tante volte via la malinconia mi accompagnerà fino alla fine, e avrà sempre per me l'odore del cocomero di nonna Maria e del panetto con l'uva di nonno Ferruccio». Ingenua, eppure consapevole di tutte le sottigliezze della politica. Esponente di quella generazione che aveva ricostruito l'Italia e che alla politica attribuiva primato e nobiltà, non in nome di una parte ma di tutti. Quando nel 1981 il Parlamento votò l'istituzione di una commissione di inchiesta sulla loggia di Gelli sembrava destinata a una luminosa seconda parte della carriera politica nelle istituzioni: presidente della Camera o del Senato. Invece il suo sì alla richiesta di guidare la commissione, arrivata da Nilde Iotti presidente della Camera, le cambiò la vita. L'incontro e lo scontro con il volto oscuro del potere. Quella coltre di mistero, fango, sporcizia, ricatto che inquinava, e inquina ancora, la vita pubblica italiana. Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo perché più sottile, con le parti in gioco non dichiarate. La Anselmi ha raccontato giorno per giorno quegli anni nelle pagine di diario pubblicate da Chiarelettere nel 2011. La pedinarono («esco da Palazzo San Macuto e mi accorgo di essere pedinata fino a casa da un uomo di statura piuttosto bassa, robusta, dell'età di quaranta, quarantacinque anni», annota all'una e un quarto di notte l'8 febbraio 1983), indagarono su di lei («Il giorno 7 gennaio 1985 sono venuti da me Lo Presti di Treviso e un suo collaboratore. Si sono dichiarati di professione agenti investigativi privati. Mi hanno raccontato di essere stati incaricati di indagare su di me, sui miei beni, sui miei parenti, per avere elementi contro di me. Hanno rifiutato di collaborare»), fu lasciata sola dagli uomini del suo partito, la Democrazia cristiana. «Lei ritiene di non poter fare nulla per impedire che materiale giudiziario venga sfruttato contro di me. Lei aveva tutti gli strumenti per bloccare un'operazione infame. Non li vuole usare», le scriveva Flaminio Piccoli, presidente della Dc. Dai socialisti: «Formica (Psi) mi ha detto ieri che la commissione P2 va chiusa e basta». E dall'opposizione comunista: «Non mi pare che il Pci voglia andare fino in fondo. Il gruppo pare abbandonato a se stesso. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo?». «Nulla si può escludere, neppure che Tina Anselmi sia una calunniatrice», scrisse infine Gelli al presidente della Repubblica eletto nel 1985, Francesco Cossiga. In tanti pensavano a lei per il Quirinale, in realtà. E poi nel 1992, quando il suo nome risuonò più volte nell'aula di Montecitorio durante le votazioni per il presidente della Repubblica e il settimanale di Michele Serra "Cuore" l'aveva candidata ufficialmente, e non c'era nessun intento satirico. E invece dopo la commissione la sua carriera politica di fatto terminò. Come aveva previsto un suo grande amico, partigiano come lei, Sandro Pertini. «Con Pertini parlano spesso del mio coraggio. Sanno che sono sola in questo compito», appuntava il 20 settembre 1983. E il 10 maggio 1984, alla chiusura dei lavori: «Visita a Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per il paese e per l'Italia. Mi conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia relazione». «Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta», aveva concluso il suo compito il 9 gennaio 1986, presentando nell'aula della Camera il lavoro della commissione. Sono passati trent'anni, non è andato via questo odore di stantio che si avverte in molti, troppi passaggi politici e economici. Ma neppure passerà il ricordo di Tina Anselmi. La ragazza della Repubblica che non hai smesso di sorridere nei momenti più difficili. La donna che fece tremare i piccoli uomini del potere. È lei, non i traditori dello Stato che lo hanno usurpato, a meritare a pieno diritto il titolo di patriota.

«La P2? Presto P3 e P4». La profezia della Anselmi. I diari segreti: possibile che Andreotti e Berlinguer non sapessero? I socialisti Tra i primi appunti dell'81 dopo che scoppiò il caso: «I socialisti sono terrorizzati dall'inchiesta» I comunisti Tra i 773 foglietti: «Strano atteggiamento del Pci... non mi pare che voglia andare fino in fondo», scrive Marzio Breda il 25 marzo 2011 su "Il Corriere della Sera". Il 17 marzo 1981 il colonnello Vincenzo Bianchi si presenta a Villa Wanda, a Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo, residenza dell'allora quasi sconosciuto Licio Gelli. Ha in tasca un mandato di perquisizione dei giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che indagano sull'assassinio Ambrosoli e sul finto sequestro di Sindona, mandante del delitto. Dopo qualche ora di lavoro, l'ufficiale riceve una telefonata del comandante generale della Finanza, Orazio Giannini. Si sente dire: «So che hai trovato gli elenchi e so che ci sono anch'io. Personalmente non me ne frega niente, ma fai attenzione perché lì dentro ci sono tutti i massimi vertici». Poche parole, dalle quali Bianchi è colpito per la doppia intimidazione che riassumono. Cioè per quel «non me ne frega niente», che esprime un assoluto senso d'impunità. E per quel «tutti i massimi vertici», che capisce va riferito ai vertici «dello Stato e non del corpo» di cui lui stesso indossa la divisa. Ed è proprio vero: c'è una parte importante dell'Italia che conta, in quella lista di affiliati alla loggia massonica Propaganda Due, che il colonnello sequestra assieme a molti altri documenti e trasporta sotto scorta armata a Milano. Ci sono 12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di Finanza, 22 dell'Esercito, 4 dell'Areonautica militare, 8 ammiragli, direttori e funzionari dei vari servizi segreti, 44 parlamentari, 2 ministri in carica, un segretario di partito, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, giornalisti, magistrati. Insomma: nella P2 ci sono 962 nomi di persone che formano «il nocciolo del potere fuori dalla scena del potere, o almeno fuori dalle sue sedi conosciute». Una sorta di «interpartito» formatosi su quello che appare subito come un oscuro groviglio d'interessi dietro il quale affiorano business e tangenti, legami con mafia e stragismo, il golpe Borghese, omicidi eccellenti (Moro, Calvi, Ambrosoli, Pecorella) e soprattutto un progetto politico anti-sistema. Quando, dopo due mesi di traccheggiamenti, gli elenchi sono resi pubblici, lo scandalo è enorme. Il governo ne è travolto e il 9 dicembre 1981, anche per la spinta di un'opinione pubblica sotto choc e che chiede la verità, s'insedia una commissione parlamentare d'inchiesta che la presidente della Camera, Nilde Jotti, affida alla guida di Tina Anselmi. Da allora l'ex partigiana di Castelfranco Veneto, deputata della Dc e prima donna a ricoprire l'incarico di ministro, comincia a tenere un memorandum a uso personale oggi raccolto in volume: «La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi», a cura di Anna Vinci (Chiarelettere, pag. 576, euro 16). Tra i primi appunti, uno è rivelatore del clima che investe la politica («i socialisti sono terrorizzati dall'inchiesta») e l'altro del metodo che la Anselmi intende seguire: «Fare presto, delimitare la materia, stare nei tempi della legge». Un proposito giusto. Lo sfogo del colonnello Bianchi le ha fatto percepire l'enormità dell'indagine e i livelli che è destinata a toccare. Diventa decisivo, per lei, sottrarsi all'accusa di «dar la caccia ai fantasmi» e di certificare quindi l'attendibilità delle liste (su questo si gioca la critica principale), come pure evitare che l'investigazione si chiuda con il giudizio minimalista accreditato da alcuni, secondo i quali la P2 sarebbe solo un «comitato d'affari». È un'impresa dura e difficile, per la Anselmi. Carica di inquietudini. Lo dimostrano i 773 foglietti in cui annota ciò che più la colpisce durante le 147 sedute della commissione. Riflette, ad esempio, il 14 aprile 1983: «Strano atteggiamento del Pci... non mi pare che voglia andare a fondo. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti, che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo? Più probabile la prima ipotesi. Mi pare che Br e P2 si siano mosse in parallelo e abbiano fatto coincidere i loro obiettivi sul rapimento e sulla morte di Moro». Altro appunto, del 26 gennaio '84, con l'audizione di Marco Pannella: «Com'è possibile che Piccoli, Berlinguer e Andreotti non sapessero della P2 prima del 1981?». Ragionando poi sul fatto che gli elenchi non sono forse completi e che Gelli potrebbe essere solo «un segretario», si chiede se la pista non vada esplorata fino a Montecarlo, sede di una evocata super loggia. E ancora, il 16 dicembre '81 mette a verbale che il parlamentare Giuseppe D'Alema (padre di Massimo) «consiglia di parlare» con un poco conosciuto giudice di Palermo che cominciava a conquistarsi le prime pagine sui giornali: Giovanni Falcone. S'incrocia di tutto in quelle carte. La fantapolitica diventa realtà. Ci sono momenti nei quali la commissione è una «buca delle lettere»: arrivano messaggi cifrati, notizie pilotate o false, ricatti. Parecchi riguardano la partita aperta intorno al Corriere della Sera, che era stato infiltrato (nella proprietà e in parte anche nella redazione) da uomini del «venerabile» e alla cui direzione c'è ora Alberto Cavallari, indicato da Pertini per restituire l'onore al giornale. In questo caso sono insieme all'opera finanzieri e politici, ossessionati dalla smania di controllare via Solferino. Si agitano anche pezzi del Vaticano, il cardinale Marcinkus, senza che la cattolica Anselmi se ne turbi e lo dimostra ciò che dice al segretario, Giovanni Di Ciommo: «Non ho fatto la staffetta partigiana per farmi intimidire da un monsignore». Ma a intimidirla ci provano comunque. La pedinano per strada. Qualche collega, passando davanti al suo scranno a Montecitorio, le sibila: «Chi te lo fa fare? Qua dobbiamo metterci i fiori». Fanno trovare tre chili di tritolo vicino a casa sua. Lei tira dritto. Quando, il 9 gennaio '86, presenta alla Camera la monumentale conclusione del suo lavoro, 120 volumi, definisce la P2 «il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale» (il piano di Rinascita Democratica di Gelli). Nel diario aveva profeticamente scritto: «Le P2 non nascono a caso, ma occupano spazi lasciati vuoti, per insensibilità, e li occupano per creare la P3, la P4...». Sono passati trent'anni e la testimonianza di Tina Anselmi, dimenticata e da tempo malata, è da riprendere. Magari riflettendo su un dato: nella lista compariva anche il nome di Silvio Berlusconi. All'epoca era soltanto un giovane imprenditore rampante e i parlamentari non ritennero di sentirlo perché era parso un «personaggio secondario».

LA P2 E IL DIARIO DI TINA, scrive il 29/03/2011 Luciano Scalettari su "Famiglia Cristiana". Trent'anni dopo esce un libro con gli appunti segreti di Tina Anselmi, presidente della Commissione parlamentare che indagò la loggia occulta di Gelli. Appunti quanto mai attuali. Oltre 700 foglietti, quasi dei post-it. Brevi, nervosi appunti presi nel corso delle audizioni o durante la lettura di atti e documenti. Un materiale enorme, difficile, delicato. «Tina me l’aveva dato da molto tempo, ma non avevo mai preso il coraggio di affrontare questo lavoro. Sapevo che era importante pubblicarlo. Ora l’ho fatto». Le parole sono di Anna Vinci, curatrice del libro La P2 nel diario segreto di Tina Anselmi, in uscita in questi giorni per Chiarelettere. Anna Vinci, romana, è scrittrice, autrice e conduttrice. Ma soprattutto è legata da una forte e antica amicizia con l’onorevole Anselmi. «La prima ragione per cui questo libro andava pubblicato», spiega, «è che volevo rendere omaggio a una grande donna, che a 17 anni ha voluto diventare staffetta partigiana (col nome in codice di Gabriella), che è stata il primo ministro donna della Repubblica, e che, infine, si è trovata a presiedere una delle più complesse e pericolose commissioni d’inchiesta volute dal Parlamento: quella sulla Loggia massonica P2 di Licio Gelli». «La seconda ragione», continua, «è l’estrema attualità di quanto Tina aveva capito e scritto nel corso dei tre anni di lavoro alla Presidenza della Commissione: la realtà italiana odierna rimanda sempre più al progetto di Gelli e quei settecento foglietti ci aiutano in modo sorprendente a svelare le radici dell’attuale situazione del nostro Paese. Del resto Tina in tutti questi anni ha continuato a ripetermelo: “Attenzione, quello ritorna”. Non so se si riferiva a Gelli o al suo progetto».

Dottoressa Vinci, perché Tina Anselmi appuntò furiosamente tante riflessioni, circostanze, fatti nel corso di quei tre anni?

«Aveva a che fare non solo con le audizioni, ma anche con le carte che venivano dalle Procure. Voleva documentare il suo lavoro perché temeva – e il timore era fondato – che il lavoro suo e dei commissari non venisse preso in considerazione. Scriveva per lasciare tutto “a futura memoria”. Quello che le è passato sotto gli occhi in quei tre anni era colossale. Come lei stessa l’ha definito, nel suo discorso del 9 gennaio 1986 alla Camera dei Deputati, la P2 è stata il “tentativo sofisticato e occulto di manipolare la democrazia”, di svuotarla dal suo interno rendendo l’Italia un Paese solo apparentemente democratico. Insomma, un vero e proprio piano eversivo».

L’onorevole Anselmi ha dichiarato, proprio al nostro settimanale in un’intervista del 25 maggio 1984: “Questi tre anni sono stati per me l’esperienza più sconvolgente della mia vita. Solo frugando nei segreti della P2 ho scoperto come il potere, quello che ci viene delegato dal popolo, possa essere ridotto a un’apparenza. La P2 si è impadronita delle istituzioni, ha fatto un colpo di Stato strisciante. Per più di dieci anni i servizi segreti sono stati gestiti da un potere occulto”. È per essere andata fino in fondo che poi ne ha pagato il prezzo politico?

«Sì. Quando le hanno proposto di diventare Presidente della Commissione, ha accettato perché è una donna coraggiosa. E la sua conduzione, nei tre anni seguenti, è stata un esempio di dirittura morale e onestà profonda. Anche se capiva che il “non fare sconti a nessuno” avrebbe comportato un duro prezzo. E l’ha pagato. Da allora è stata “fatta fuori” politicamente. È stata emarginata».

Quello che Tina Anselmi ha scoperto non era solo il tentativo di svuotamento della democrazia…

«No, infatti. C’erano anche le implicazioni con la strage di Bologna, con l’attentato dell’Italicus, con il caso-Moro, con il caso-Sindona, le relazioni con la mafia e la banda della Magliana. E con tanti altri episodi oscuri e inquietanti della storia italiana. Emergeva un cono d’ombra comune, che aveva la sua matrice nella P2 di Licio Gelli».

Lei, dottoressa, nel ripercorrere quei foglietti e le vicende ad essi collegati, cosa ne ha tratto?

«Mi ha colpito la mancanza di senso dello Stato, l’irresponsabilità. “Mi sono iscritto, ma non credevo… non sapevo…” Questo lo dicevano in tanti. È lo spaccato di un’intera classe dirigente che non si capisce quanto fosse incompetente o truffaldina. Dal libro emerge non tanto un giudizio politico ma la pochezza degli uomini. Gelli riceveva all’Excelsior. Non era lui che andava a trovare i politici. E tanti nomi degli iscritti alla lista P2 sono ancora in piena attività».

Nel libro si fa riferimento anche al fatto che a un certo punto fu proposto di sentire in audizione anche Silvio Berlusconi, anch’egli presente nelle liste…

«Sì, ma come scrive Tina, la Commissione decise di no, perché in quel momento storico fu considerato un personaggio secondario. Allora, era soltanto un giovane imprenditore milanese».

È vero che l’Anselmi sottolinea questo senso d’impunità che manifestavano gli iscritti alla P2?

«C’è spesso questa ostentazione di “intoccabilità”. Un esempio? Quando viene scoperta la lista a Castiglion Fibocchi, uno degli investigatori, il colonnello Vincenzo Bianchi della Guardia di Finanza viene avvertito di chiamare il Comandante generale del Corpo. Il quale, in sintesi, gli dice: “So che hai trovato gli elenchi. Ci sono anch’io. Non me frega niente. Ma sappi che là ci sono tutti i massimi vertici”. Messaggio chiaro, no?».

Ci furono mai contatti fra Licio Gelli e Tina Anselmi?

«Gelli tentò di avere un’occasione d’incontro, l’anno scorso, tramite un intermediario. Tina rifiutò».

Tina Anselmi, una donna, si trovò a indagare in uno dei mondi più esclusivamente maschili, qual è quello della massoneria. È stato un valore aggiunto o un limite?

«Un valore aggiunto. Non se l’aspettavano la tenacia e il rigore di Tina. Quel mondo si è trovato spiazzato. Nella vicenda P2 non ci sono donne, in queste pagine non emergono donne. È una vicenda tutta al maschile. Questo mi porta a dire che, allora come oggi, al nostro Paese manca l’apporto del talento delle donne».

C’è una figura, fra le tante, che l’ha particolarmente inquietata?

«Francesco Cossiga. Appena divenne Presidente della Repubblica scrisse alla Anselmi. Era ossessionato dai vecchi rapporti con Gelli. Come scrive il magistrato Giovanni Turone, all’epoca titolare dell’inchiesta (con Gherardo Colombo) che portò alla scoperta della P2, Cossiga è una delle persone più inquietanti del nostro dopoguerra».

Perché, secondo lei, è importante leggere oggi di una vicenda di 30 anni fa?

«Tina diceva che una delle tragedie dell’Italia è che non abbiamo la memoria condivisa. Lei aveva cercato di ricomporre un puzzle che ci ha lasciato, perché non si dimentichi e perché non si ripeta. Il libro è in fondo un atto d’accusa della situazione in cui siamo caduti. Il declino andava fermato allora. Tina aveva compreso una cosa molto importante. Scrisse in uno dei suoi appunti: “Basta una sola persona che ci governa ricattata o ricattabile, perché la democrazia sia a rischio"».

Una questione molto attuale. Lei è pessimista?

«No. Vinceremo noi, alla fine, non i piduisti».

Agostino Cordova. Biografia di Agostino Cordova.

Reggio Calabria 1936. Magistrato. «Se qualche merito ho avuto, me l’hanno trasformato in colpa. Ho fatto sparire da Napoli il contrabbando dei tabacchi e hanno detto che toglievo il lavoro alla povera gente».

Cominciò la sua carriera a Reggio Calabria nel 1963, diventando pretore, giudice a latere della sezione penale e poi giudice istruttore. Nel 1978 firmò 60 rinvii a giudizio contro boss dei clan De Stefano, Mammoliti e Piromalli: sarebbe stato il primo maxiprocesso contro la ’ndrangheta calabrese. Nell’87 diventò capo della Procura di Palmi. Condusse inchieste contro la cosca dei Pesce, contro le Usl di Taurianova e Gioia Tauro, denunciò la scarsità dei mezzi, fu a sua volta denunciato al Csm per “incompatibilità ambientale” (caso poi archiviato). Indagò anche su massoneria e P2. Nel luglio del 1993 diventò procuratore di Napoli. La sua opera di coordinamento fu contestata da un gruppo di 60 sostituti, il Csm si spaccò, la destra lo sostenne, le divisioni in Procura diventarono anche politiche.

«Dalla massoneria internazionale al malaffare delle istituzioni, passando per le corruzioni (solo presunte) di altissimi funzionari del Viminale. La sua carriera professionale è costellata da battaglie giudiziarie altisonanti. Chiuse talvolta con sconfitte» (Il Messaggero).

«Furbissimo e scaltro – anche se ama rappresentare se stesso come un indomito cavaliere che affronta solitario il mondo della corruzione – preferisce che la politica gli tenga la mano sulla spalla. Ieri, fu la sinistra (politica e togata) che lo appoggiò contro Giovanni Falcone nella candidatura alla Procura nazionale antimafia e nel contentino della Procura di Napoli. Giunto alla falde del corrotto Vesuvio, la mano cambiò. Divenne quella della destra. Tormentava, senza costrutto (purtroppo per lui), l’amministrazione di Bassolino “il rosso”, e tanto bastava al centro-destra per non vedere le sconfitte incassate dal procuratore» (Giuseppe D’Avanzo).

«Ho un brutto carattere e non sono un diplomatico. Ma la diplomazia è come una bellissima dama che suole avere intimi rapporti con il compromesso e generare brutti figli che si chiamano condizionamenti, “apparamenti” (aggiustamenti — ndr) come si dice in dialetto napoletano, o ricatti».

La moglie Marisa si sfogò nel libro di Giorgio Bocca Napoli siamo noi (Feltrinelli 2006): «La vera “camorra” forse sono i colleghi di mio marito, sono i giudici che si fingevano suoi amici quando lui passava in procura. Lui lavorava senza guardare che cosa poteva essere utile a questo o a quello».

Gran sigaro, sopracciglioni.

GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 2 aprile 2014

Clan e massoneria, si (ri)parte dall’inchiesta Cordova. La proposta dello storico Ciconte alla Commissione parlamentare antimafia: «Mettiamo le mani su quei faldoni per ricostruire carriere e fatti che all’epoca ci sono sfuggiti», scrive Giovedì, 09 Marzo 2017, Pablo Petrasso su "Il Corriere della Calabria". Il nuovo spunto investigativo per la Commissione parlamentare antimafia arriva dall’audizione dello storico Enzo Ciconte. Quella dello scorso 1 marzo è più una lezione che un’audizione. Deputati e senatori sono condotti per mano nella storia delle mafie, prima dallo studioso Isaia Sales e poi dal docente calabrese. Che, a proposito della storia recente della ‘ndrangheta, evoca un nome che è una costante nei contesti in cui si discute dei rapporti tra cosche e massoneria: quello di Agostino Cordova. Le sue inchieste hanno avuto «pochissima fortuna sul piano giudiziario» ma il procuratore un merito lo ha avuto: «Ha raccolto una quantità enorme di carte». Ciconte guida deputati e senatori sul filo del suo ragionamento: «So che sono almeno 800 faldoni, presidente. Se si riuscisse a mettere mano su quei faldoni, a leggerli e a mettere in piedi un gruppo di lavoro che studiasse quelle carte di 25 anni fa, probabilmente riusciremmo a capire carriere, cointeressenze e fatti che sono accaduti nel corso degli anni successivi e che probabilmente ci sono sfuggiti, perché non li abbiamo capiti o non abbiamo attribuito loro una valenza completamente diversa». Non c’è una via agevole per arrivare al cuore delle sovrapposizioni tra clan e logge deviate. Non è priva di ostacoli quella seguita finora dalla Commissione (il prelievo degli elenchi dei massoni di Sicilia e Calabria eseguito dalla Guardia di finanza). Non lo è neppure quella indicata da Ciconte: decine di migliaia di pagine, carriere da ricostruire, migliaia di nomi da incrociare. Eppure è una strada, quest’ultima, che la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi pensa di esplorare: «Valuteremo la proposta del professor Ciconte di acquisire gli atti dell’inchiesta Cordova e di istituire un gruppo di studio degli stessi atti, magari chiedendogli di darci una mano». Servirà ben più di una mano e non soltanto per la vastità dei documenti. Ci sono fili scoperti e attraversati da altissima tensione. Per Ciconte lo prova, tra le altre, la storia del notaio Pietro Marrapodi: «Era un 33 (si riferisce al grado raggiunto nella scala massonica, ndr), quindi di livello elevato. A un certo punto, decide di collaborare con la giustizia. Marrapodi si mette a parlare dicendo che c’erano stati rapporti tra la ‘ndrangheta e la massoneria. Era molto amico di moltissimi magistrati reggini. Si mette a parlare e poi qualcuno gli chiude la bocca. O se l’è chiusa lui o qualcuno l’ha fatto per lui». Suicida o suicidato, la morte del notaio è uno dei misteri da illuminare per restituire un’anima alla città di Reggio Calabria. E si perde in un labirinto che mescola ‘ndrangheta e massoneria. Entità che, secondo Ciconte, rimangono distinte: «Non c’è un travaso, c’è semplicemente una cointeressenza – dice lo storico -. Io credo che funzioni un altro sistema. Lo chiamo “arcipelago” per come nell’arcipelago è possibile la presenza di più isolotti e isolette che stanno in collegamento tra di loro». Una lettura diversa da quella sposata dalla stampa e basata sull’intercettazione cult di uno dei capi del clan Mancuso («la ‘ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria, diciamo è sotto la massoneria. Ha, però, le stesse regole»).

Eppure in alcuni contesti i due livelli si fondono fino a toccarsi. Tra le isole dell’arcipelago si alza una nebbia che tutto confonde. In questa nebbia si muovono uomini come Paolo Romeo, perno dell’inchiesta “Gotha” e di tante oscure trame reggine. Alcuni intrecci conducono a insospettabili, ben felici di intrattenere rapporti con un uomo dal passato (e dal presente) oscuro: «Che Romeo abbia rapporti con uomini politici per me è un fatto abbastanza normale, nel senso che è stato deputato, è stato consigliere comunale e vive a Reggio Calabria. Il problema è perché quelli che lo conoscono abbiano rapporti con lui. Il problema non è lui. Il problema è chi con lui ha avuto in questi anni rapporti e, ancora peggio, ha avuto interessi in comune e ha fatto affari in comune. Un conto è prendersi un gelato in una gelateria di Reggio Calabria, un conto è fare affari con uno che è pregiudicato». Sarà dura orientarsi negli arcipelaghi della massomafia. Ma diradare le nebbie che avvolgono lo Stretto lo sarà ancor di più.

Conoscere i fatti. Nel 2000 l’archiviazione dell’inchiesta sulla Massoneria del procuratore Cordova. Roma 3 luglio 2000. Porta questa data il decreto di archiviazione della maxi-inchiesta sulla Massoneria avviata nel 1992 da Agostino Cordova, all’epoca procuratore della Repubblica di Palmi, indagine che ultimamente è tornata alla ribalta. Noi non aggiungiamo altro al lancio dell’Agi che riportò la notizia dell’archiviazione sette mesi dopo e che qui riportiamo. Quella notizia fu ripresa da alcuni giornali ma non dalle maggiori testate nazionali. Certo è che, per dovere di cronaca, ci si sarebbe aspettata una pubblicità maggiore, visto il vastissimo clamore che accompagnò la vicenda sin dall’inizio e che creò grandissimi pregiudizi e ripercussioni anche in ambito lavorativo a tanti iscritti del Grande Oriente d’Italia. Ma tant’è, in Italia, quando si parla di Massoneria. Il lancio dell’Agi sintetizza le ventitré pagine del documento, firmato da Augusta Iannini, che qui mettiamo a disposizione dei lettori ricordando anche la testimonianza di un esponente del Grande Oriente d’Italia che visse quei fatti. Si chiama Mario Valentini e ai tempi dell’indagine era sindaco di Perugia.

(AGI) – Roma, 24 feb. 2001 – «Non può essere taciuto che in questo procedimento penale ‘l’indagine conoscitiva ha vissuto momenti di inusuale ampiezza». Dopo quasi otto anni la maxi inchiesta sulle logge massoniche in Italia, avviata dall’allora procuratore di Palmi Agostino Cordova (attuale capo della procura di Napoli), approdata poi a Roma, è stata archiviata dal gip Augusta Iannini, che ha dichiarato il non «doversi promuovere l’azione penale» nei confronti dei 64 massoni indagati. Il giudice, in sintonia con i pm di Roma che hanno ereditato il voluminoso fascicolo, punta, però, l’indice contro il collega Agostino Cordova che avrebbe avviato una maxi indagine conoscitiva che, fatta eccezione di uno stralcio relativo alle attività imprenditoriali su Licio Gelli (rinviato a giudizio anni fa su iniziativa dei pm della capitale per il crack finanziario del gruppo Di Nepi, il cui processo è ancora in corso), non avrebbe rilevato alcuna illecita attività compiuta dalla massoneria. Agostino Cordova ordinando decine e decine di perquisizioni ed anche alcuni arresti, ipotizzava nella sua indagini lo scambio di voti. Le sedi e gli uffici della massoneria italiana, su ordine del magistrato, vennero perquisite e la notizia ebbe particolare risonanza su tutti i quotidiani nazionali. Per il gip di Roma e su parere conforme dei pm della capitale, invece, non vi sarebbe stato alcuno scambio di voti. «Da uno sguardo d’insieme del ponderoso materiale acquisito e raccolto in circa 800 faldoni – scrive Augusta Iannini – e in un numero imprecisato di scatoloni contenente materiale sequestrato, si può trarre la certezza che è stata compiuta, in tutto il territorio nazionale, una massiccia e generalizzata attività di perquisizione e sequestro che le iniziali dichiarazioni del notaio Pietro Marrapodi (da cui è nata l’indagine, ndr), certamente non consentivano, quanto meno a livello nazionale». «Da questi racconti – prosegue il gip di Roma – a contenuto generalissimo, ma conformi all’immaginario collettivo sul tema ‘gruppi di potere, il pm di Palmi ha tratto lo spunto per acquisire una massa enorme di dati (prevalentemente elenchi di massoni) che poi è stata informatizzata e che costituisce una vera e propria banca dati sulla cui utilizzazione è fondato avanzare dubbi di legittimità, tanto più che l’indagine si sta concludendo con una generalizzata richiesta di archiviazione». Per il gip Augusta Iannini «in questo procedimento, infatti, l’articolo 330 cpp è stato interpretato come potere del pm e della polizia giudiziaria di acquisire notizie e non, come si dovrebbe, notizie di reato». Secondo il giudice romano «era infatti chiaro che l’acquisizione di elenchi di associazioni, anche e non solo massoniche, costituiva una mera notizia e non certamente una notizia di reato. Lo studio del materiale, una volta messo a disposizione di questo ufficio, è stato reso particolarmente difficoltoso dall’assenza di indici ragionati e dalla collocazione del materiale cartaceo, custodito in uno scantinato dei locali di piazza Adriana, privo di luce, di una scrivania e di qualsiasi attrezzatura che consentisse una consultazione dignitosa degli atti». Gli stessi pm di Roma che hanno ereditato l’inchiesta, su decisione della stessa procura di Palmi che di sua iniziativa aveva ritenuto la competenza della magistratura della Capitale, nel condurre gli accertamenti sulla maxi inchiesta avevano rilevato l’elevantissimo «numero di sequestri» ordinati dai pm calabresi, le «sistematiche richieste di informative indirizzate a tutti gli uffici di pg d’Italia sulle persone risultate iscritte negli elenchi massonici acquisiti tramite i sequestri», l’acquisizione di documentazione bancaria, di elenchi di nominativi di pubblici dipendenti, di attività d’indagini più mirate, come «sommarie informazioni testimoniali, intercettazioni telefoniche, ecc.», l’informatizzazione del materiale documentale ed informatico raccolto per permetterne la consultazione; ed infine la «raccolta di dati generali ritenuti utili ai fini delle indagini da ministeri e pubbliche amministrazioni su diversi argomenti». Per il gip Augusta Iannini che ha accolto la richiesta di archiviazione sollecitata dai pm di Roma Lina Cusano e Nello Rossi (oggi consigliere del Csm) «all’eccezionale ampiezza del raggio delle indagini ed alla conseguente accumulazione di un’amplissima documentazione sul fenomeno massoneria non ha corrisposto un altrettanto ampia localizzazione delle investigazioni in direzione delle specifiche attività di interferenza in ambiti istituzionali ricollegabili alle realtà organizzative individuate». «La riprova più eloquente dello stato delle indagini sin qui descritto – scrive il gip di Roma – proviene dalla stessa procura di Palmi», che «dopo investigazioni iniziate il 16 marzo 1993» decide autonomamente di trasferire l’inchiesta alla procura di Roma che poi, dopo aver inquisito, chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio di Licio Gelli per il crack del gruppo di Nepi, ha concluso l’indagine con una richiesta di archiviazione. Gli stessi pm nel sollecitare la chiusura della vicenda hanno sottolineato come «la trasmissione degli atti del presente procedimento da Palmi a Roma è avvenuta su esclusiva iniziativa dell’ufficio del pubblico ministero di Palmi e con i tempi da questo ufficio voluti senza che vi sia stata alcuna rivendicazione di competenza o richiesta di trasmissione da parte dell’ufficio del pubblico ministero di Roma». (AGI)

L’ex sindaco di Perugia Mario Valentini, libero muratore, ricorda la persecuzione inflitta ai massoni venti anni fa. ’Ndrangheta e massoneria, quel teorema di Cordova era perfetto, scrive l'1/02/2017 “La Gazzetta del Sud. «La prima volta che incontrai il procuratore di Palmi Agostino Cordova gli chiesi perché volesse tutti gli elenchi dei massoni del Goi (Grande Oriente d’Italia). Mi rispose: dalle nostre verifiche è emerso che i massoni della Calabria hanno connessioni con i massoni del Nord Italia e formulò l’ipotesi che la ’ndrangheta stesse occupando le regioni del Nord servendosi anche della massoneria. Quella che allora era un’intuizione di Cordova a distanza di 20 anni è una realtà». Lo ha detto, in audizione davanti alla Commissione parlamentare Antimafia, Giuliano Di Bernardo già Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. «Il procuratore Cordova mi ha fornito prove inconfutabili sul coinvolgimento di alcune persone aderenti al Goi ma anche su un fenomeno strano: mi mostrò un pacco di fogli che contenevano accuse di massoni contro altri massoni. Alcuni, insomma, si servivano della magistratura per fare fuori altri massoni. C’era una guerra fratricida. Quando ho avuto dal procuratore Cordova queste prove ho convocato la giunta del Grande Oriente d’Italia e ho presentato la situazione. Al termine di quella riunione ho deciso di dimettermi dal Goi perchè avevo constatato una realtà che mai avrei immaginato e che da quel momento mi sarei rifiutato di governare», ha proseguito Di Bernardo. Nessuno di quella giunta imitò Di Bernardo sulla decisione di dimettersi. «Dopo – ha raccontato l’ex Gran Maestro all’Antimafia – sono stato crocifisso, i miei ritratti bruciati nel tempio, ho ricevuto minacce inimmaginabili. L’allora ministro dell’Interno Mancino ha allertato più volte il prefetto per farmi proteggere, perché tra le persone da colpire c’ero io. Non ho potuto fare capire ai miei confratelli le mie ragioni. Ho lasciato al Gran segretario una lettera che, però, non è stata divulgata. Ancora oggi, dopo 23 anni, sono considerato il traditore, verso di me c’è un odio che non potete immaginare». Tra i motivi di contrasto, anche il fatto che Di Bernardo è riuscito a far riconoscere la Gran Loggia regolare d’Italia, che ha costituito subito dopo le sue dimissioni, dalla massoneria inglese, che, al contempo, ha tolto il proprio riconoscimento al Grande Oriente d’Italia.

L’INTERVISTA ALL’EX PROCURATORE DI NAPOLI. Cordova: «A 80 anni mi sento ancora come un mastino». «A Napoli non ho amici. De Magistris? Non lo giudico, fu uno di quelli contrari a me», scrivono Roberto Russo e Monica Scozzafava il 26 febbraio 2016 su "Il Corriere del Mezzogiorno". Vent’anni dopo, il procuratore più temuto e meno amato nella storia giudiziaria di Napoli è seduto su una panchina in pietra di piazza Bovio. Osserva lo scorrere del traffico con aria pacata, quasi rassegnata, come se assistesse a un film già visto mille volte. L’immancabile borsalino di colore blu che appoggia sui capelli radi, grandi occhiali con i vetri gialli e una sciarpa di colore grigio. Agostino Cordova, 80 anni tra qualche mese, in città non ha amici. «Nessuno, quei pochi che si dicevano tali sono spariti…». Così la panchina davanti alla Camera di Commercio è diventata l’alleato più fedele nei pomeriggi troppo lunghi della terza età, nel suo caso scandita da acciacchi. «I medici mi hanno proibito il sigaro, mi concedo raramente una pizzicata di tabacco, ma mia moglie si arrabbia perché si sporcano i vestiti». Sorride e mostra una scatolina in plastica bianca che contiene tabacco aromatizzato. «Lo trovo a Palmi, qui non so se si venda…». Abbozza un altro sorriso stanco e recupera il bastone che nel frattempo è scivolato dalla panchina. L’età lo rende sicuramente più morbido, nell’approccio e anche nella comunicazione. Un uomo dall’aspetto sempre burbero, ma che non riesce più a nascondere le emozioni. Quasi felice di raccontarsi oggi che non ha più cucita addosso l’etichetta di potente. «Vivo con mia moglie e i miei due figli che non sono sposati». Abitano sempre nella casa di corso Umberto, nella stessa città che gli ha riservato più di un’amarezza. Cordova è consapevole di aver subito tante accuse, a volte ingiuste. Di essere stato un magistrato potente e scomodo, criticato da destra e da sinistra. Bersagliato anche dai suoi stessi colleghi. «Mezza procura a Napoli firmò un documento chiedendo il mio trasferimento, gli altri si astennero». È il passato che torna nella mente di un uomo che oggi trascorre molti pomeriggi seduto su una panchina di pietra lavica. I pensieri viaggiano e i racconti dell’ex magistrato sono precisi, così come le sue riflessioni sulle vicende di stretta attualità.

Presidente Cordova, ci dica la verità. Le manca ancora la Procura?

«È soltanto una questione di funzioni. Non le esercito più, certo, ma dentro mi sento l’uomo inflessibile e rigoroso di un tempo. È una questione di regole che vanno rispettate. So di essere stato intransigente, ma mai per partito preso».

Eppure appena si insediò a Castelcapuano, nel luglio ’93, disse: “Napoli è la capitale dell’illegalità”. Scoppiò un putiferio. Oggi ripeterebbe quella frase?

«Essendo stato dichiarato incompatibile con Napoli, preferisco non esprimermi al riguardo».

Eppure oggi il sindaco de Magistris dice di aver ripristinato servizi e arginato il malaffare. È un ex magistrato, peraltro di sua conoscenza.

«Come sindaco non lo giudico, né mi esprimo sul suo operato. Se non ricordo male, fu uno di quelli contrari a me».

Meglio il ritorno di Bassolino, allora? Che pure all’epoca conobbe...

«Guardi, è una vicenda che non m’interessa. Se ha scelto di ricandidarsi è libero di farlo e avrà i suoi motivi».

Cosa fa, non si esprime? L’età l’ha resa più diplomatico?

«Io diplomatico? Senza generalizzare, la diplomazia è talvolta una bellissima dama che suole avere rapporti intimi col compromesso, generando dei figli che si chiamano ricatti…Macché, mi sento ancora un mastino, come ero stato soprannominato a Palmi. Non ho più il fisico, né l’età e soprattutto il ruolo per poter dire o fare determinate cose, ma sono rimasto quello di sempre. Mi diverto talora, a scrivere qualche articolo».

La massoneria è stata una costante nella sua vita.

«Sì, ma io non sono né sono stato nemico della massoneria regolare. Mi sono occupato a Palmi delle logge coperte sulla base delle dichiarazioni di numerosi pentiti circa i legami tra mafia ed alcuni settori deviati della massoneria. Si trattava, secondo quanto dichiarato, di organizzazioni segrete aventi complicità ramificate. Quando andai via da Palmi il procedimento venne trasmesso a Roma, dove fu archiviato. Tranne qualche rara eccezione in passato, sulla massoneria coperta è caduto il più assoluto e generale silenzio. Ecco, avendo avuto concrete notizie di reato, io avevo doverosamente, cioè obbligatoriamente, agito in base ad esse».

Le sue inchieste l’hanno messa spesso nei guai.

«Sì, sono state spesso malviste. Sono andato numerose volte in giro per i Tribunali a difendermi da accuse offensive contro cui avevo sporto querela. Su di me hanno detto e scritto tante cose, c’è un sito in cui mi si accusa addirittura di aver parlato malissimo di Giovanni Falcone, il che non risponde alla realtà: quando ero a Palmi collaborammo insieme, venne a trovarmi in Procura e pranzammo al ristorante, altro che avversario».

A ottant’anni la vita ha altre priorità. I ritmi sono più lenti ma forse anche più piacevoli.

«Mi manca invece l’attività. Trascorro le giornate a leggere, talvolta lo faccio fino alle tre del mattino. Ho ancora i ritmi di quando lavoravo in Procura. Navigo anche su Internet, anche se prima ne ero alieno».

Legge libri o quotidiani?

«Tutti e due. I quotidiani che più mi interessano sono quelli che non appartengono né alla destra né alla sinistra, che mi aiutano nella comparazione delle notizie ampiamente propagandate».

Che ne pensa delle unioni civili?

«Non le condivido, in quanto equivalgono ad un matrimonio civile e sono contro natura in quanto il termine matrimonio deriva dal latino mater, cioè unione finalizzata alla maternità. Ovviamente non è colpa degli omosessuali la loro caratteristica, ma è discutibile la loro unione legale, cioè matrimoniale. A tal punto, beninteso scherzosamente, perché non legalizzare anche la poligamia, in modo da consentire che il marito abbia più mogli, e, per la parità dei diritti, la moglie più mariti, riducendo così i casi di adulterio?».

Lei viene quasi ogni pomeriggio a sedersi in questa piazza. Non si sente un po’ solo?

«È il mio osservatorio sulla città, mi piace guardare la vitalità e rilassarmi con i miei ricordi. Uscire di casa, alla mia età, fa bene».

Non vede qualche amico, magari ex collega?

«No qui a Napoli non ne ho: quasi tutti quelli che avevo sono spariti. Ho amici a Palmi, a Reggio Calabria, a Roma e in altre città».

Il sorriso di Agostino Cordova si spegne, il vento della piazza inizia a diventare sferzante. Un colpo di tosse e lui abbottona il lungo paltò di colore blu. Napoli è la città che ha segnato, nel bene e nel male, la sua vita. Una metropoli tentacolare che non lo ha mai veramente avvinto.

La “cupola” Reggio-Cosenza: le inchieste di Cordova e i giudici massoni. Da Iacchite del 30 luglio 2017.

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI.

Da qualche mese ormai stiamo ricostruendo la genesi dell’asse politico-massonico-mafioso tra Reggio Calabria e Cosenza. Le inchieste di Federico Cafiero De Raho sono inevitabilmente figlie di quelle di Agostino Cordova, dello stesso Nicola Gratteri, di Salvatore Boemi e di Luigi De Magistris. Nessuno di loro, dal 1992 ad oggi, è riuscito a dimostrare l’esistenza effettiva di questa “cupola” nonostante ci abbiano lavorato con grande impegno ed ardore. E in mezzo a tanti doppiogiochisti ed esperti in depistaggi, in una parola sola pezzi deviati dello stato. Siamo partiti dal bandolo di questa storia, Paolo Romeo, detto dai pentiti il “Salvo Lima reggino”, che muove le fila della politica a Reggio Calabria, grazie ai contatti organici con le cosche e la massoneria. Finita la prima guerra di mafia, secondo le dichiarazioni di diversi pentiti, Giorgio De Stefano, insieme al cugino Paolo e ad altri appartenenti alla nuova ’ndrangheta, entrò nella loggia massonica segreta fondata, tra gli altri, da Franco Freda e Paolo Romeo, esponenti della destra eversiva che il 14 luglio 1970 avevano organizzato la rivolta dei “Boia chi molla” a Reggio Calabria (per protesta contro l’elezione di Catanzaro a capoluogo di regione). Il pentito Giacomo Lauro affermerà: “Mi risulta personalmente che anche alcuni magistrati avevano aderito alla massoneria e, per garantirli, la loro adesione era all’orecchio e i loro nominativi venivano tramandati da maestro a maestro”. Un sistema perfetto. Il vero “Modello Reggio” poi continuato da Scopelliti. Il gancio con Cosenza è Pino Tursi Prato, socialista prima vicino ai Gentile e poi ribellatosi al loro dominio per sposare la causa di Paolo Romeo nel PSDI di Antonio Cariglia “niente lascia e tutto piglia” come scriveva nei telegiornali di Telecosenza Giacomo Mancini, alla cui corte sarebbe poi approdato. Romeo e Tursi Prato, con l’aiuto di due capibastone della malavita cosentina come Franco Pino e Pietro Magliari, mettono a segno un’estorsione ai danni di un imprenditore reggino che aveva vinto un appalto nell’USL comandata dallo stesso Tursi Prato. E siglano la tregua con Tonino Gentile in uno studio legale cosentino, garante sempre Franco Pino. Il dado è tratto. Tursi Prato e Romeo vengono eletti a sorpresa alle Regionali del 1990 ma bussa alle porte il 1992, l’anno di Tangentopoli e delle grandi inchieste. E se Tursi Prato ha un rapporto privilegiato con la cosca reggina dei De Stefano, altri socialisti hanno intessuto trame con la ‘ndrangheta, a Rosarno, il regno dei Pesce. Ancora una volta la prova di un altro importante asse Reggio-Cosenza.

QUARTA PUNTATA. Alla vigilia delle elezioni politiche nazionali del 1992 scattò quello passato alle cronache come il “blitz delle preferenze” ordinato dall’allora procuratore di Palmi, Agostino Cordova, e dall’allora pm della Procura di Locri, Nicola Gratteri. Durante l’operazione, gli investigatori trovarono in diverse abitazioni di ‘ndranghetisti della Piana di Gioia Tauro e delle Locride, numerosi santini elettorali e fac-simili elettorali di alcuni candidati alla Camera dei deputati ed al Senato, fra i quali anche quelli di Sandro Principe. All’epoca Principe era appena quarantenne, alla seconda esperienza da deputato e viveva ancora un po’ nell’ombra del padre Cecchino prima da giovane sindaco di Rende (il loro feudo indiscusso trasformato in città modello con tanto di università) e poi da altrettanto giovane deputato investito della carica di sottosegretario al Lavoro ai tempi delle prime grandi vertenze regionali. Il procuratore Agostino Cordova chiese due volte alla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere contro l’allora onorevole Sandro Principe, autorizzazione però sempre negata. Nella richiesta del procuratore Cordova era dato leggere di una “campagna elettorale fatta per Sandro Principe da mafiosi e pregiudicati della Piana di Gioia Tauro (boss Versace di Polistena, Avignone di Taurianova, Pesce e Pisano di Rosarno ed altri)”. I carabinieri riuscirono pure a fotografare alcuni incontri di Sandro Principe con Marcello Pesce, esponente dell’omonimo clan, in un bar di Rosarno. Agli atti spediti nella richiesta di autorizzazione a procedere, anche le presunte lettere di “raccomandazione” inviate da Sandro Principe all’allora sottosegretario alla Difesa socialista al fine di far ottenere l’esonero dal servizio militare di un pregiudicato di Rosarno fratellastro di Marcello Pesce. Secondo i magistrati Agostino Cordova e Francesco Neri, tale ultimo favore sarebbe stato chiesto a Sandro Principe dall’allora consigliere comunale socialista di Rosarno, La Ruffa, ben noto alle forze dell’ordine e cognato degli stessi Pesce. Un atto assolutamente illegittimo, secondo i magistrati inquirenti, visto che il fratellastro di Marcello Pesce era stato dichiarato idoneo al servizio militare. L’intera vicenda si concluse per Sandro Principe nel migliore dei modi. Nel 1995 la Procura di Palmi (Cordova nel frattempo era già divenuto dal 1994 procuratore di Napoli) chiese ed ottenne dal gip l’archiviazione per le accuse rivolte a Sandro Principe. Fonte: Zoom24 – Giuseppe Baglivo. Agostino Cordova, figura controversa e testarda, da procuratore di Palmi firma, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata. Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. “La massoneria deviata – sosteneva Cordova – è il tessuto connettivo della gestione del potere […]. È un partito trasversale, in cui si collocano personaggi appartenenti in varia misura a quasi tutti i partiti…”. Cordova pone sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia, contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni.

LA MASSONERIA COSENTINA: ETTORE LOIZZO. Ed ecco apparire all’orizzonte un altro cosentino dopo Pino Tursi Prato, Antonio Gentile, Franco Pino, Franz Caruso e Pietro Magliari, che abbiamo incontrato nelle puntate precedenti. “Ettore Loizzo di Cosenza, mio vice nel Goi, persona che per me era il più alto rappresentante del Goi, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia”. A dirlo è stato l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo – in carica nei primi anni ’90 e fondatore poi della Gran Loggia Regolare d’Italia – sentito il 6 marzo 2014 dal pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nell’ambito dell’inchiesta Mammasantissima sulla cupola segreta degli “invisibili” della ‘ndrangheta. Ma chi è Ettore Loizzo di Cosenza? Prima Gran Maestro Aggiunto e poi reggente del Grande Oriente d’Italia, è il calabrese col “grembiulino” che ha raggiunto i più alti livelli della Massoneria di Palazzo Giustiniani, la più importante tra le “obbedienze” riconosciute nel nostro paese. E’ scomparso nel 2011. Per capire bene chi era bisogna andare parecchio indietro nel tempo. Ma possiamo partire da un dato: Loizzo è stato per anni un brillante esponente del Partito Comunista Italiano prima di essere costretto a lasciarlo proprio perché massone dopo il caso eclatante della loggia P2 di Licio Gelli degli anni Ottanta e la successiva legge Anselmi che vietava le società segrete. E quindi consigliava ai partiti di imporre una scelta ai massoni più o meno esposti.

LE INDAGINI SU ETTORE LOIZZO. Ettore Loizzo finisce nel calderone. Ecco l’agenzia AGI del 5 novembre 1992. (AGI) Cosenza 5 Nov – Proseguono, anche a Cosenza, le indagini disposte dalla Magistratura di Palmi alla ricerca delle prove circa l’esistenza di logge massoniche” coperte”. Sono stati perquisiti lo Studio e l’abitazione dell’esponente massonico Ettore Loizzo (anche se l’interessato ha negato il fatto) e quella di Mario Lucchetta, Gran Maestro della Loggia” fratelli Bandiera”. In quest’ ultima abitazione, secondo indiscrezioni, sarebbero stati sequestrati documenti e carteggi ritenuti importantissimi.  (AGI)

Così scriveva invece La Repubblica. Vengono fuori molte sorprese. A Cosenza, dove sono stati perquisiti lo studio e l’abitazione dell’ingegner Ettore Loizzo, uno dei massimi esponenti del Grande Oriente d’ Italia, i carabinieri hanno trovato carte e documenti relativi al processo su mafia, droga e politica da cui è scaturita questa maxi-inchiesta sulla massoneria deviata. In che maniera, con quale interesse e per farne quale uso Loizzo è entrato in possesso di quelle carte? Sono interrogativi che i magistrati cercheranno di chiarire. Ma nell’ inchiesta sulle cosche di Rosarno è coinvolto anche Licio Gelli. E in Calabria c’era qualche massone che si era adoperato per far riammettere l’ex capo della P2 nella massoneria. Una “trattativa” che si sarebbe conclusa nel 1991 con un accordo mai trovato dai magistrati di Palmi. Così come non furono mai chiarite le questioni che ruotavano intorno a Loizzo. Di sicuro, però, Di Bernardo si affretta ad uscire da questo grandissimo casino e lascia le responsabilità del suo incarico determinando la scissione. E così il cosentino Ettore Loizzo diventa Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993. Praticamente il nuovo capo della massoneria al posto di Di Bernardo. Già, Di Bernardo. Oggi che Loizzo non c’è più, è il solo che può riferire di quelle circostanze e nello specifico, dopo la clamorosa rivelazione del massone cosentino circa le 28 logge infestate dalla ‘ndrangheta, afferma testualmente. “Gli dissi: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui – ha detto Di Bernardo al pm – mi rispose: nulla. Chiesi perché. Mi rispose che altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse a prendere contatti con il Duca di Kent, che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie avute dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”. Ma Ettore Loizzo, già all’epoca, contestava con forza questa interpretazione dei fatti e definiva pesantemente Di Bernardo. “L’indagine di Cordova? Con questa rottura diplomatica tra noi e gli inglesi non c’entra – risponde Loizzo – anche se le menzogne di Di Bernardo hanno fatto da copertura a questo gioco. Non siamo stati neanche ascoltati dai fratelli inglesi – reclama più diplomatico Ghinoi – ma un imputato ha diritto ad un processo. Per quanto riguarda Cordova ci ha ricevuto ed ha specificato di non aver nessuno motivo di contestazione nei nostri riguardi, ma è interessato alla scoperta di eventuali logge deviate. Dal canto nostro abbiamo sospeso 75 fratelli sospetti, ma sono un esiguo numero di fronte agli altri 18mila iscritti oltre alle 1400 domande attualmente in attesa. Succede solo in in Italia – ha concluso Ghinoi – che l’iscrizione ad alcuni partiti politici sia vietata a membri della Massoneria. Ma la storia insegna che quando la Massoneria è attaccata, successivamente dopo viene attaccata la democrazia”. Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Comunicò che almeno 40 degli inquisiti della tangentopoli milanese erano massoni, così come lo erano 11 dei parlamentari per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere. Provvidenziale arrivò l’ordine di trasferire per competenza a Roma le indagini. E ancor più salvifico fu il ruolo del pm che venne delegato. Era Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, che sarebbe diventata di lì a poco personalità di spicco a via Arenula nei governi targati Berlusconi. Quell’inchiesta naufraga nel 2001 in una colossale archiviazione. «E da allora – raccontò Cordova alla Voce in un’intervista di qualche anno fa, alla vigilia del suo trasferimento forzato dalla Procura di Napoli – quei faldoni sono rimasti a marcire dentro i sotterranei di Piazzale Clodio».

CHI COMANDA IL MONDO E LE INCHIESTE CHE NON SI DEVONO FARE.

Quelli che decidono tutto: nomi, cognomi, club, confraternite e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'8 novembre 2017. Spesso sulla stampa, nei media, nei talk show, in numerosi libri, si parla di poteri forti. Ma a cosa ci si riferisce con tale espressione? Tale espressione sta ad indicare un ristretto numero di persone che, in piena autonomia, gestisce i capitali e la finanza del mondo. In questi casi il pensiero va alle grandi dinastie dei banchieri come i Rothschild, J.P. Morgan, i Rockfeller o ancora la famiglia Hahn-Elkann e la famiglia Worms, la famiglia Thyssen, la famiglia Kahn, la famiglia Goldschmidt, le famiglie Fitzgerald e Kennedy, le famiglie Agnelli – Caracciolo e molte altre. Si tratta di poteri per lo più sconosciuti all’uomo comune ma che agiscono in silenzio ed hanno una notevole influenza sulle decisioni dei governi ufficiali. Scrive Marco Pizzuti nel suo libro “Rivoluzione non autorizzata” con riguardo a siffatti poteri: “Il loro braccio esecutivo” clandestino per eccellenza è la massoneria, un’organizzazione praticamente sconosciuta alla popolazione, che da secoli occupa tutti i palazzi del potere. Non è quindi una mera coincidenza se ritroviamo i suoi membri tra i principali leader di ogni grande capovolgimento storico”. Negli ultimi decenni la massoneria è stata affiancata da altri organismi, creati dalla èlite finanziaria, tra i quali vanno menzionati il club Bilderberg, la Commissione Trilaterale, il CFR, la Round Table e il club di Roma. Scrive ancora Marco Pizzuti nel succitato libro: “Tutti questi nuovi organismi cooperano con la massoneria, per accelerare il processo di globalizzazione nel rispettivo campo di competenza e ambito territoriale” Al fine di realizzare tale obiettivo i suddetti organi invitano nei loro club gli esponenti di maggiore spicco delle varie categorie sociali: industriali, banchieri, politici, scrittori, giornalisti, militari. Nel settore bancario internazionale particolarmente rilevante è, ad esempio, il ruolo svolto in passato e fino ad oggi dalla famiglia Rothschild, proprietaria di un impero bancario che, secondo le stime degli esperti controllerebbe più di 350 miliardi di dollari. Tra i componenti della famiglia, un ruolo primario ricopre Jacob Rothschild il quale, oltre a gestire i beni di famiglia, gestisce anche i beni di oltre 10 mila azionisti. Lo stesso ha intrattenuto rapporti con i più importanti uomini di governo e della politica internazionale quali i presidenti degli Stati Uniti Ronald Reagan e Bill Clinton e l’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher. Nel 2002 organizzò l’European Economic Round Table al quale intervennero ospiti di prestigio quali Nicky Oppenheimer, Warren Buffet, importante imprenditore ed economista statunitense, considerato il più grande valueinvestor di sempre (nel 2003 definì i derivati come armi finanziarie di distruzione di massa), Arnold Schwarzenegger, attore, politico, imprenditore e produttore cinematografico, James Wolfensohn, economista e banchiere australiano naturalizzato statunitense. Non inferiore a quella degli Rothschild è certamente la potenza finanziaria della famiglia Rokfeller il cui più prestigioso esponente è stato David Rockfeller uno dei fondatori del gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale. Nel 2012 Rockfeller e Rothschild, due delle più grandi famiglie di banchieri, si riunirono. La “RIT Capital Partners” di Jacob Rothschild acquistò una quota del “Financial Services di Rockfeller. Si trattò di un accordo storico a seguito del quale la RIT Capital Partners divenne socio del gruppo Rockfellere con il 37% di capitale. Il potere finanziario dei Rothschild è presente anche in Italia dove il gruppo Rothschild ha condotto l’acquisizione di Armani Exchange da parte di Armani Group, e ha avuto il ruolo di advisor per Cassa Depositi e Prestiti e Fintecna sulla privatizzazione di Fincantieri attraverso un’IPO di 390 milioni, e per l’acquisizione del 40% di Ansaldo Energia da parte di Shanghai Electric per ben 400 milioni di euro, e dalla creazione di due joint venture e dalla fusione da 24 miliardi di euro tra Atlantia e Gemina. Dovendo parlare di poteri forti non si può non parlare del gruppo Bilderberg del quale, come si è detto, uno dei fondatori fu David Rockfeller su iniziativa del quale nel maggio del 1954 fu organizzato il primo incontro. Il gruppo nacque con lo scopo di favorire, in un forum annuale, il dialogo tra l’Europa e il Nord America. Alle riunioni sono invitati a partecipare circa 120-150 leader politici, esponenti qualificati dell’industria, della finanza, del mondo accademico e dei media. L’incontro è un forum di discussioni informali sui trend e le principali problematiche che affliggono il mondo. Gli incontri sono caratterizzati da segretezza dato che non possono essere rivelate all’esterno le informazioni ricevute né l’identità o la appartenenza di chi ha fornito le informazioni. Non vi è alcun programma dettagliato, non vengono proposte delle risoluzioni, non viene espresso alcun voto e non viene esternata alcuna dichiarazione politica. E’ stata proprio la natura segreta dell’evento e del contenuto delle discussioni svolte all’interno del forum che intorno al gruppo Bilderberg ha fatto sorgere teorie complottiste, a mio avviso, non del tutto infondate. Sul presupposto che è impensabile ritenere che nel contesto di un mondo globalizzato qualsiasi questione, sia in Europa che nel Nord America possa essere affrontata in modo unilaterale, nel corso degli anni, gli incontri annuali hanno avuto ad oggetto una vasta gamma di argomenti spaziando dal commercio, ai posti di lavoro, alla politica monetaria per gli investimenti alla sicurezza e alle dinamiche politiche internazionali. Nel club Bilderberg vi sono stati e vi sono anche italiani. Si possono ricordare Franco Bernabè, banchiere e dirigente pubblico, già amministratore delegato dell’ENI e successivamente di Telecom Italia, fondatore di FB Group, holding di partecipazioni e management company di un gruppo attivo nel settore della consulenza strategica dell’ITC e delle energie rinnovabili e investito di numerosi altri incarichi di prestigio tra cui quello, dal 2011 al 2013 di Presidente della GSMA, organizzazione internazionale che riunisce gli operatori di telefonia mobile eancora membro dell’European Roundtable of industrialist e dell’International Council di JP Morgan. Si possono poi ricordare come facenti parte del club Bilderberg gli italiani Claudio Costamagna e John Elkann, il primo banchiere e dal luglio 2015 presidente della Cassa Depositi e Prestiti oltre che Presidente di FSI SGR Spa, società costituita dalla riorganizzazione del Fondo strategico italiano Spa-FSI di cui è statoa sua volta presidente e il secondo presidente della Fiat Chrysler Automobiles  oltre che presidente ed amministratore delegato della Exor N.V. una società di investimento controllata dalla famiglia Agnelli. Sembra facciano parte del club anche la nota giornalista della rete televisiva “La 7” Lilli Gruber nonché Carlo Ratti, architetto ed ingegnere, docente presso il Massachuttes Institute Technology di Boston. In passato, ci sono stati anche tanti altri membri italiani nella Bilderberg. Tra i quali spicca il nome dell’ex premier Mario Monti, un vero e proprio habitué della Bilderberg. Poi spiccano i nomi di Giovanni Agnelli, Umberto Agnelli, Renato Ruggiero, Barbara Spinelli, Marco Tronchetti Provera, Mario Draghi, Alessandro Profumo, Monica Maggioni, presidente della RAI e molti altri ancora. Per avere un’idea del potere che gestisce il gruppo Bilderberg basta pensare che tutti coloro che ne fanno parte possiedono più della metà del patrimonio mondiale, il che induce ad avanzare qualche dubbio sul fatto che la finalità di questo club e dei relativi incontri sia quella di “aumentare i dialoghi tra Nord-America ed Europa e che i partecipanti si incontrino per tre giorni all’anno soltanto per trascorrere un piacevole weekend o per perseguire finalità benefiche. Così come si è indotti a ritenere che ogni qualvolta questo enorme potere finanziario e non solo, venga messo in pericolo, il club reagisca con azioni non sempre ortodosse per usare un eufemismo. E non è un caso se ogni familiare di David Rockfeller è o direttore della CIA o ambasciatore all’ONU o segretario di Stato o ricopre incarichi di vertice nel settore della sanità. Lo stesso David Rockfeller è stato d’altra parte, dal 2000, presidente ed amministratore delegato di JP Morgan, la banca che certamente costituisce uno dei poteri forti di cui parliamo. Il gruppo Bilderberg raccoglie i potenti della terra, leader politici ed economici precursori della globalizzazione, di diversi paesi come, può constatarsi ad esempio avuto riguardo alla riunione che nel 2002, in un clima di segretezza e tra rigide misure di sicurezza, ebbe luogo a Chantilly in Virginia. Ebbene, a tali lavori parteciparono, tra gli altri, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, e l’ex direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi presidente della BCE. Più di recente, nel 2012 ha avuto luogo a Roma, una riunione del gruppo Bilderberg alla quale era presente Mario Monti, allora Presidente del Consiglio, che illustrò agli intervenuti gli sforzi dell’Italia per rimettere i conti in ordine. Presenti tra gli altri gli allora ministri Francesco Profumo, Paola Severino ed Elsa Fornero. Presenti erano anche importanti esponenti del mondo finanziario quali Ignazio Visco (Bankitalia), Alberto Nagel (Mediobanca), Rodolfo de Benedetti (CIR), Mauro Moretti (FS), Enrico Cucchiani (Intesa), Fulvio Conti (Enel), Etienne Davignon (già commissario europeo per il mercato interno). Presenti anche esponenti del mondo del giornalismo come Lilli Gruber. A presiedere il gruppo vi era Henry De Castries, pdg di Axa, società di assicurazioni. Numerose furono le contestazioni e le critiche allora formulate in occasione del suddetto incontro sia da parte della sinistra che della destra. In particolare affermò Francesco Storace che “partecipare al Bilderberg è peggio che essere della P2, è commettere tradimento”. Per quanto riguarda la partecipazione del Presidente del Consiglio Mario Monti, Palazzo Chigi fece sapere che Monti aveva accettato l’invito per poter parlare delle misure adottate dall’Italia per combattere la crisi e che “le polemiche sono fuor di luogo”. Monti ha ricoperto anche cariche nella Commissione Trilaterale, nella Università Bocconi, di cui era presidente, e in Goldman Sachs, incarichi abbandonati all’atto della sua nomina a presidente del Consiglio. Peraltro è stato sostenuto, non senza fondamento, che il forum del gruppo Bilderberg altro non è che un consesso dei poteri forti che decide le sorti del mondo, fuori dai meccanismi democratici. Di Contro Etienne Davignon nel negare questa caratteristica del gruppo Bilderberg ha affermato: “Se fossimo la cupola segreta che comanda il mondo dovremmo vergognarci come cani” Certo Davignon convince meno quando afferma che le 130 personalità che si incontrano ogni anno sono importanti quanto la cena sociale di un Cral di ferrovieri. Del club fanno parte e vi vengono invitate soltanto personalità di rilievo del mondo economico, finanziario, politico, dei media. Significativo è quanto verificatosi in occasione della riunione tenutasi nel 2011 a Saint Moritz e alla quale erano presenti tra gli altri Henry Kissinger, David Rockfeller, Paolo Scaroni, banchieri internazionali, imprenditori greci e spagnoli. In tale occasione, l’allora eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, si presentò al bureau per chiedere di partecipare ai lavori ma venne malamente allontanato.  Dichiarò allora all’ANSA: “Ci hanno letteralmente preso a spintoni. Mi hanno anche dato un colpo al naso che ora è sanguinante. Un comportamento che smaschera la reale natura di questa consorteria: è una società segreta e non un gruppo che si riunisce in modo riservato”. Sembra che questi incontri, ai quali più volte Gianni Agnelli aveva partecipato gli piacessero meno di quelli dell’altro grande circolo di potenti, la Trilaterale fondata nel 1972 dal suo grande amico David Rockfeller. La natura del gruppo Bilderberg e le sue finalità sono molto discusse e le critiche nei confronti di tale gruppo provengono sia dalla sinistra che dalla destra. Comune ad entrambe è la convinzione che ci si trovi in presenza di una organizzazione globale che vuole dominare il mondo. Per la sinistra si tratterebbe di un organismo composto da capitalisti e finanzieri che ordiscono trame politiche ed economiche mentre per la destra si tratterebbe di una elite che intenderebbe imporre i propri disegni, tipo euro, in un mondo antidemocratico. Al di là di enfatizzazioni, non vi è dubbio che il Bilderberg è un gruppo di capitalisti che difendono il capitalismo. Nel corso degli incontri i partecipanti affrontano non solo temi politici, di economia o di finanza ma probabilmente discutono di affari e magari ne fanno e talvolta favoriscono qualche nomina rilevante. Forse non è una coincidenza il fatto che, dopo la partecipazione di Herman Van Rompuy ad una cena organizzata dal gruppo a Bruxelles, questi, poco tempo dopo divenne presidente del Consiglio europeo. Van Rompuy, appena eletto presidente del Consiglio UE, si dimostrò favorevole ad un prelievo sulle transazioni finanziarie, una specie di Tobintax. Lo stesso, prima della sua nomina aveva spiegato questo suo orientamento ai potenti politici, banchieri e uomini d’affari del riservato gruppo Bilderberg in un incontro avvenuto nel castello di Valduchesse, nelle vicinanze di Bruxelles, in occasione della cena di cui sopra. Ma negli incontri si parla anche di vicende internazionali. Così, in occasione della riunione tenutasi a Saint Moritz, si parlò molto di Grecia, di dollaro, di Libia e del conflitto interno all’Opec tra sauditi e iraniani sul prezzo del barile di greggio. Se forse è eccessivo affermare che il gruppo Bilderberg costituisce una organizzazione globale che vuole dominare il mondo tuttavia tale ipotesi non è del tutto priva di un qualche fondamento. Ma vi è chi va oltre e ritiene la implicazione del club Bilderberg anche in vicende tragiche che hanno attraversato il nostro Paese. Così l’ex magistrato Ferdinando Imposimato, nel suo libro “La Repubblica delle stragi impunite” e in una intervista rilasciata in occasione della presentazione del libro sostiene che: “La stagione delle stragi non serviva a destabilizzare lo Stato, serviva ad impedire la dinamica politica nel senso di portare gli equilibri politici da destra verso la sinistra.” E continua: “Hanno fatto tutto questo non per fare un colpo di Stato ma per rafforzare il potere, destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico”. E spingendosi oltre afferma, facendo riferimento ad un documento rinvenuto tra gli atti della indagine condotta dal giudice Alessandrini sulla strage di Bologna e riportato nel libro, che il gruppo Bilderberg sarebbe responsabile della strategia della tensione e quindi anche delle stragi. “Il Bilderberg-afferma- governa il mondo e le democrazie in modo invisibile, in modo da condizionare lo sviluppo democratico di queste democrazie”. Si è sostenuto poi da Carlo Freccero, ma anche nei media e in varie pubblicazioni, tra cui Micro Mega, che Casaleggio & C sarebbero legati al gruppo Bilderberg e con una tesi alquanto azzardata, ma forse non priva del tutto di fondamento, anche se sfornita di prove certe, sostiene che i poteri forti “si sarebbero costruiti una gestibile opposizione interna attraverso Casaleggio, Grillo e quindi il movimento Cinque Stelle”. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto che del gruppo Bilderberg, sempre secondo Freccero, farebbe parte il giornalista Enrico Sasson, socio di Casaleggio, manager legato all’Aspen Institute e quindi al gruppo Bilderberg.  L’Aspen Institute , che sorge a Roma in Piazza Navona, è una filiale locale europea dell’Aspen e una ramificazione italiana  dell’internazionale Club Bildenberg e la cui finalità è l’internazionalizzazione  della leadership imprenditoriale. Enrico Sasson, in una lettera indirizzata al Corriere della Sera, pur ammettendo di essere socio di minoranza nella Casaleggio associati, precisava di non rappresentare alcun potere forte, di non conoscere Beppe Grillo, mai incontrato, di non avere mai partecipato alla gestione del suo blog in seno alla Casaleggio Associati, di non avere mai avuto niente a che fare con il movimento Cinque Stelle. Affermava essere calunniose e diffamatorie le teorie del complotto apparse in blog e in siti di diversa connotazione e che era una informazione distorta e malata quella che, anche in articoli e servizi televisivi, sosteneva il teorema dei poteri forti dediti ad infiltrare il Movimento. Se la tesi di Carlo Freccero fosse fondata, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso lui stesso di gestire l’opposizione. In altri termini, se dietro il Bilderberg vi fosse la Casaleggio, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso di infiltrare l’opposizione. Molto legata al gruppo Bilderberg è la Commissione Trilaterale all’interno della quale sono presenti più di 200 personalità eminenti (uomini politici, diplomatici, industriali, finanzieri, universitari, giornalisti) provenienti da Europa, America, e Giappone. Anche la Trilaterale fu fondata, qualche anno dopo la Bilderberg, da David Rockfeller, presidente della Chase Manhattan Bank di New York e altri dirigenti tra cui Henry Kissinger e pare anche da Gianni Agnelli anche se, per quanto riguarda quest’ultimo, non vi sono documenti che lo provino. Mario Monti ne fu presidente dal 2010 al 2011. Nel 2016, dopo oltre 33 anni, la Commissione Trilaterale si è riunita a Roma; in tale occasione gli Italiani che vi hanno partecipato sono stati oltre 20 tra cui Mario Monti, John Elkan, Mario Tronchetti Provera e la presidente della RAI Monica Maggioni. Riunioni della Commissione sono state tenute a Tokio, Washington, Parigi, Kioto e come si è detto in Italia. In occasione di una riunione avvenuta a Parigi nel dicembre del 1975 ed avente ad oggetto la gestione delle risorse mondiali, alla domanda su chi finanziasse l’attività della commissione, il direttore della stessa Zbigniew Brzezinky rispondeva: “Cittadini privati e qualche governo con contributi di minore importanza”. In occasione dell’incontro di Parigi si parlò sulla stampa di “un nuovo ordine mondiale”, affermazione non del tutto campata in aria se si considera che a tale riunione intervennero e fecero un discorso l’allora primo ministro Jacques Chirac e l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Gianni Agnelli, intervenendo, nel 1984 alla riunione della Commissione Trilaterale a Washington, sottolineò il ruolo dei vertici economici dei “sette grandi”, cioè i sette paesi più industrializzati.

Chi comanda, come e perché, dalle Logge all’Opus Dei, finanza e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'11 novembre 2017. Alla riunione della Trilaterale che ebbe luogo a Roma nell’aprile del 2016 parteciparono uomini di governo, ministri imprenditori, i massimi esponenti della classe dirigente mondiale del Nord America, Europa ed Asia. Tra i partecipanti vi furono l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, Jean Claude Trichet, ex presidente della BCE, Monica Maggioni, presidente della RAI. Presenti anche Andrea Guerra, ex AD di Luxottica, molto amico di Renzi, Maria Elena Boschi, allora ministro delle riforme che una settimana prima della Trilaterale, in una intervista aveva dichiarato: “Ci attaccano proprio perché non siamo schiavi dei poteri forti, non siamo il terminale di niente e di nessuno. Questo non piace a molti” Affermazione quanto meno strana se si considera che svolse un intervento in un meeting in cui erano presenti i poteri più forti del pianeta. Per dare una idea del vero e proprio grumo di potere presente alla riunione della Trilaterale di Roma basta considerare che tra gli invitati vi erano persone come Michael Bloomberg, miliardario, ex sindaco di New York, Jurghen Fitchen, della DeutschBank, Gerald Corrigan, vice presidente della Federal Reserve oggi a Goldman Sachs, Eric Schmidt, presidente di Google, Marta Dassau Finmeccanica, Herman Van Rompuy ex presidente del Consiglio europeo, oltre che David Rockfeller, fondatore della Trilaterale. Gianfelice Rocca, presidente dell’Assolombarda, intervistato da un giornalista della “Gabbia”, al termine della riunione dichiarava: “Io credo che questo governo abbia il sostegno di gran parte dell’establishement”. Secondo indiscrezioni trapelate dalla riunione, nell’incontro si sarebbe parlato anche del destino affatto roseo dell’Italia: la Trilaterale non immaginava un bel futuro per il nostro paese. Alla riunione si è parlato anche di privatizzazioni e di tagli alla spesa, il che significa la svendita del patrimonio pubblico dell’Italia, cioè la svendita delle aziende pubbliche. Ma al meeting si è parlato anche di immigrazione e, fatto strano, a presiedere l’incontro era Peter Satermann, direttore non esecutivo di Goldman Sachs, rappresentante generale dell’Onu per le migrazioni e componente del Bilderberg. Come mai e perché uno degli uomini più importanti della finanza internazionale si occupava di immigrazione? La risposta è semplice: lo scopo della Trilaterale è quello di favorire l’immigrazione di massa dal sud del mondo verso l’Europa in maniera da consentire alle multinazionali di avvalersi di una ingente massa di lavoratori sottopagati. Ciò è avvalorato dal fatto che, sempre secondo indiscrezioni, tutti i membri della Trilaterale concordarono sul fatto che i giornali parlassero dei vantaggi dell’immigrazione. Tutto ciò evidenzia la preminenza del potere economico –finanziario sulla politica che finisce con l’eseguire il diktat di questa elite di potere e come il fine del Bilderberg, della Trilaterale e di altri organismi simili, sia quello di togliere sovranità agli Stati e di creare un nuovo ordine mondiale. Desta impressione oggi leggere la relazione che, nel 1984, a conclusione della riunione della Trilaterale di Washington, fu predisposta dall’ex consigliere americano per la sicurezza Zbgniew Brzezinsky, dal segretario del partito socialdemocratico David Owen e dall’ex ministro degli esteri giapponese Saburo Okita, per conto della Commissione Trilaterale, relazione nella quale vengono indicati quelli che sarebbero stati i quattro pericoli per il mondo. Sembra quasi che i redattori del rapporto avessero previsto, con estrema precisione, e con 33 anni di anticipo, quello a cui oggi, nel 2017 assistiamo. Secondo quanto si legge nella suddetta relazione 4 erano i pericoli che, negli anni successivi avrebbero minacciato il mondo e l’umanità: Un significativo peggioramento della collaborazione economica e politica tra gli Stati , una crescente disoccupazione; un abbassamento del tenore di vita e una minore democrazia. Una escalation dei conflitti regionali, sempre meno contenibili sul piano internazionale e latori di rischi crescenti di confronto tra est ed ovest. Grossi sconvolgimenti sociali in ampie zone d’Africa e forse dell’America latina; fenomeni di carestie di grandi dimensioni che potrebbero sfociare, in massicce emigrazioni, in caos e violenza, riducendo in questo modo le prospettive di democrazia ed offrendo maggiori opportunità agli estremisti di destra e di sinistra di impadronirsi del potere. L’ultimo dei grossi pericoli che oggi incombono sull’umanità intera e sul pianeta è costituito dal rischio di una guerra nucleare. Afferma il rapporto della Trilaterale: “La guerra nucleare, con le sue capacità di provocare morti e distruzioni illimitate, costituisce una catastrofe dalla quale il globo potrebbe non essere in grado di riprendersi”. Il pensiero, leggendo queste parole, non può non andare al conflitto tra il premier nordcoreano e il presidente Trump che oggi rischia l’esplosione di un conflitto nucleare. Più che di previsioni viene da pensare ad un programma che nel 1984 qualcuno si proponeva di attuare negli anni successivi. Ma forse si tratta di una idea eccessiva. Ma come soleva dire Andreotti a pensare male si fa peccato ma spesso si indovina. Per quanto riguarda le reali finalità del gruppo Bilderberg, gli studiosi di questa materia scrivono a proposito dei promotori Bernardo de Lippe, ufficiale olandese, ex ufficiale delle SS  e Joseph Retinger, politico polacco e massone : “La loro ambizione era quella di costruire una Europa Unita per arrivare ad una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali…” Al di là delle teorie complottiste, non vi è dubbio che costituisce un dato  difficilmente smentibile il fatto che ci si trovi in presenza di un intreccio tra politica, finanza e in particolare banche  in cui un gruppo ristretto di persone, a partire dal 1954 e una sola volta all’anno, si riunisce per decidere, nella massima segretezza il futuro politico ed economico dell’umanità. “Le Monde” intravede nelle biografie di Mario Draghi, Mario Monti e Luca Papademos la prova dei disegni nascosti maturati “nei piani alti della banca d’affari Goldman Sachs”. Ed è legittimo nutrire dei sospetti sul conflitto di interessi di cui hanno dato prova i banchieri che, come Corrado Passera sono diventati ministri nel governo Monti. E non bisogna dimenticare che la caduta di Silvio Berlusconi fu determinata e voluta dai poteri forti che teleguidarono lo spread. L’influenza poi del gruppo Bilderberg sulla politica internazionale, secondo quanto scrive sulla “Repubblica “Giuliano Balestreri, sarebbe comprovata dalla lettera che Richard Perle, membro del comitato direttivo del gruppo Bilderberg e teorico del neoconservatorismo americano, scrisse a Bill Clinton per chiedere la rimozione di Saddam Hussein. Di tale gruppo direttivo, oltre che Henry Kissinger e Edmond de Rotschild, hanno fatto parte anche 12 italiani tra cui il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè. Si è anche sostenuto che le riunioni del Bilderberg fossero anche finalizzate ad ascoltare quelli che sarebbero stati futuri presidenti e premier, anche degli USA. Così, sarebbero stati ascoltati, Tony Blair, Hillary Clinton, e lo stesso Barak Obama. Quest’ultimo si dice fosse presente con Hillary nel 2008, quando Bilderberg avrebbe negoziato un accordo per passare la mano attendendo le elezioni del 2016. Al meeting, avrebbero partecipato un paio di volte Mario Monti (nel 2011 e 2013), Enrico Letta (nel 2012). Non sarebbe estranea a Bilderberg la formazione del governo Monti. Non si ha notizia di una partecipazione di Renzi. Sembrerebbe quindi che per governare in Italia e nel mondo bisogna essere graditi ai poteri forti. Non può poi non suscitare dubbi, sul ruolo del Bilderberg nelle vicende internazionali, quanto scritto dal giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol, secondo cui nel meeting del Bilderberg, nel 2002, si era parlato di invasione dell’Irak da parte degli USA, ben prima che ciò accadesse. Per comprendere l’importanza del Gruppo Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili e il peso che in ambito internazionale queste elite rivestono, basta avere riguardo all’oggetto delle discussioni che hanno luogo all’interno di questi gruppi in occasione delle periodiche riunioni anche se il contenuto delle relazioni e degli interventi è mantenuto rigorosamente segreto. I temi trattati infatti, riguardano spesso i rapporti tra Europa e Stati Uniti, l’economia e in particolare la gestione della crisi economica mondiale, l’euro, l’inflazione, il protezionismo, la globalizzazione, il petrolio, il mercato delle armi, l’immigrazione. Essendo però segreto il contenuto delle relazioni, non è dato conoscere le decisioni adottate dal gruppo riguardo tali problematiche; i partecipanti agli incontri sarebbero però tenuti a mettere in pratica quanto deciso. L’interrogativo che spesso si pone è quali siano i rapporti tra la massoneria e gli altri poteri forti anche se deve riconoscersi che le inchieste che hanno riguardato la massoneria e il potere politico finanziario nazionale e internazionale, quasi sempre non hanno portato a nulla. E’ appena il caso di ricordare come l’inchiesta sulla P2 si concluse, dopo tanto clamore, in un nulla di fatto. Va tuttavia detto che quando si parla di massoneria bisogna tenere presente che ci si trova in presenza di due diversi livelli: un livello ufficiale ispirato a temi quali la libertà, l’eguaglianza la tolleranza religiosa e un secondo livello segreto caratterizzato dalla presenza di comitati di affari e di rapporti con la criminalità organizzata, mafia, camorra ‘Ndrangheta, servizi segreti deviati e terrorismo stragista. In altri termini ci si trova in presenza di due mondi paralleli. Ma, come sostenuto da taluno, esiste un rapporto tra la massoneria e i poteri forti di cui abbiamo parlato e se esiste a quale dei due livelli fa riferimento? Una risposta interessante ci viene da Giuliano De Bernardo, ex Gran Maestro della principale “obbedienza” italiana, il Grande Oriente d’Italia, dal 1990 al 1993, quindi ai vertici della massoneria, che abbandonò riferendo quello che pensava realmente. Ha dichiarato De Bernardo: “Dietro Gelli, (che rappresentava il livello oscuro della massoneria ndr), c’erano gli ambienti americani. Gelli è un prodotto degli americani”. De Bernardo parla anche del sequestro di Aldo Moro che aveva perso la fiducia degli americani che lo consideravano “un cavallo di Troia, “un ponte che avrebbe consentito ai comunisti di arrivare al potere. Quindi gli americani si trovarono senza rappresentanti autorevoli e affidabili in un Paese chiave dello scacchiere internazionale. E in piena guerra fredda”. Ed aggiunge: “Sono anni convulsi, nei quali il confronto tra il mondo atlantico e il blocco comunista è durissimo: anni di riarmo nucleare, di servizi segreti attivissimi, di spie, di omicidi politici. Tutto appare lecito in quel momento. La prospettiva di un sorpasso elettorale da parte dei comunisti, così come l’ipotesi di un compromesso storico tra Dc e PCI, terrorizza gli ambienti atlantici”. Il dipartimento di Stato americano e la CIA si convinsero allora di avere a che fare con una situazione di emergenza in Italia. Gli americani ritennero, e qualcuno glielo suggerì che, in Italia, Gelli, l’esponente della più potente loggia massonica mai esistita, era l’uomo adatto ad arginare il pericolo comunista. Non vi è dubbio quindi che vi fosse un ben preciso interesse degli americani ad impedire a Moro di realizzare il suo progetto di un compromesso storico tra DC e PCI. Continua De Bernardo sostenendo che allorquando divenne Gran Maestro, Lino Salvini, Sindona, Calvi e Gelli accrebbero il loro potere “fatto di alta finanza, controllo dei media (come il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera), corruzione politica ed uso dei servizi segreti” e istaurarono collusioni pericolose. Ma De Bernardo parla anche dei rapporti con la criminalità organizzata e della mafia infiltrata nella famosa Loggia Garibaldi in cui confluivano esponenti dell’area grigia tra massoneria e malavita. Dice De Bernardo; “Ricordo che una volta, quando andai in visita a quella loggia pensai di avere intorno a me tutti i capi di Cosa Nostra in America”. La potente massoneria americana d’altra parte era legata fin dai tempi della Seconda guerra mondiale ai servizi segreti e in rapporti organici con ambienti siciliani. E’ d’altronde un fatto noto che lo sbarco degli alleati in Sicilia fu preparato dalla massoneria siciliana insieme a elementi della mafia americana. Io credo che si può dare per acclarata l’esistenza di rapporti non sempre leciti tra massoneria e potere politico- finanziario nazionale e internazionale nonché di una contiguità tra il livello oscuro della massoneria e le realtà criminali presenti nel nostro Paese. Così, per quanto riguarda La P2, numerose sentenze hanno accertato come Gelli godesse di un potere enorme ed avesse creato una rete di potere caratterizzata da favoritismi, finanziamenti concessi ai privati dalle banche vicine alla P2, da rapporti anche con poteri criminali, e come avesse un ruolo rilevante nel favorire le nomine anche di personaggi delle istituzioni; ma se aveva il potere di fare nominare una determinata persona, aveva anche il potere di asservirla a sé. E’ appena il caso di ricordare come Gelli raggiunse l’apice del proprio potere con l’appoggio di banchieri iscritti alla P2 quali Michele Sindona e Roberto Calvi. Va poi ricordato, a proposito degli intrecci tra massoneria e servizi segreti, come Gelli dal 1941 al 1945 sembra sia stato al servizio del Counter Intelligence Corp, cioè il controspionaggio militare americano. E che il potere di Gelli permanesse immutato anche dopo le indagini aperte sulla P2, a seguito della scoperta della lista degli iscritti, è testimoniato da una lettera inviata da Gelli al gran Maestro del Grande Oriente, nella quale lo stesso si dichiara certo dell’esito favorevole dell’indagine. (Non è un mistero per alcuno-scrive Gelli- che queste conclusioni saranno interamente assolutorie). E in effetti le indagini, non concluse dal Procuratore di Palmi Agostino Cordova, vennero trasferite per competenza alla Procura di Roma dove il procedimento, dopo essere rimasto fermo per circa sei anni, nel dicembre del 2002 venne archiviato dal giudice Augusta Iannini.  Sempre De Bernardo evidenzia come il trasferimento della inchiesta Cordova alla Procura di Roma coincise con la pax mafiosa seguita all’assassinio di Falcone e Borsellino del 1992, anno in cui ebbe inizio l’inchiesta di Cordova. Analogie inquietanti. Lo stesso Cossiga, in una intervista, affermò che la P2 era stata una creazione degli americani, una “operazione “Filoamericana e atlantica…la P2 era perciò un baluardo anticomunista, un caposaldo di un certo tipo di politica estera e di pensiero”. Se le sentenze hanno escluso che la P2 cospirasse contro lo Stato, tuttavia “le ragioni atlantiche” che secondo la P2 dovevano cambiare l’Italia, erano certamente illegali. Si può parlare di poteri forti o poteri occulti anche a proposito dell’Opus Dei? Indubbiamente l’Opus Dei e la massoneria presentano una caratteristica comune che è quella della riservatezza interna. Dichiarò, in proposito, l’ex Gran Maestro Di Bernardo, in una intervista del 23 marzo 1991: “Se si parla di potere occulto, volendo fare riferimento alla massoneria, bisognerebbe considerare anche l’Opus Dei, che svolge una attività particolarmente occulta”. Ed ancora, in una intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del “Corriere della Sera” Di Bernardo non lesina critiche all’Opus Dei. Afferma infatti: “Forse che quello non è un potere occulto? La massoneria (quella ufficiale, n.d.r.) cerca sempre di far conoscere le proprie finalità, si muove sempre sulla strada della trasparenza. Non mi risulta che l’Opus Dei abbia fatto qualcosa di simile. Eppure esiste e si muove ai limiti della riservatezza. Dobbiamo pensare che in Italia esistano due pesi e due misure?” Quanto fin qui scritto porta a ritenere che un gruppo ristretto di persone detiene ed orienta la politica finanziaria e internazionale e che con i suoi meccanismi di globalizzazione impone, in maniera sempre più incisiva, il proprio potere alle masse. Possiamo dire che una ristretta elite, l’uno per cento dell’umanità comanda sul restante 99% definendone il destino e in alcuni casi persino la sopravvivenza. Ma ciò che è più grave è che tale uno per cento detiene il proprio potere in “regime di democrazia rappresentativa”, favorito dalla legislazione e addirittura con il consenso popolare! E ciò è stato possibile, come scrive Rosario Castello nel libro “L’invisibile identità del potere nascosto”, grazie alla finanza mondiale con l’arma della globalizzazione e della moneta privata. E’ pertanto fondato ritenere che durante gli incontri che periodicamente hanno luogo tra i partecipanti del Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili, vengano prese dalla classe dirigente globale, al riparo della privacy armata e della segretezza, le decisioni più rilevanti per il futuro dell’umanità su politica, economia e questioni militari, decisioni che sono e rimangono top secret.” Noi ci illudiamo di essere liberi ma l’illusione viene meno nel momento in cui i nostri diritti entrano in conflitto con quelli che sono gli interessi dei poteri forti e ci rendiamo conto di chi comanda realmente in questa società. Si assiste oggi ad un appiattimento dei partiti politici, delle istituzioni e degli organi di informazione che noi crediamo liberi e indipendenti ma che mai si porranno, salve rare eccezioni, in contrasto con tali poteri. In realtà sono le elite finanziarie di cui ho parlato che in ambito politico, finanziario, economico e dell’informazione, stabiliscono al nostro posto quali sono i limiti di conoscenza e di libertà oltre i quali non è consentito andare. Woodrow Wilson, nel 1913 eletto Presidente degli Stati Uniti, dopo la approvazione del “Federal Reserveact (la legge costitutiva della Federal ReserveBank) e la sua promulgazione da parte dello stesso Wilson, anni dopo dichiarò: “Sono uno degli uomini più infelici. Io ho inconsapevolmente rovinato il mio paese, una grande nazione industriale è ora controllata dal suo sistema creditizio. Non siamo più un governo della libera opinione, non più il governo degli ideali e del voto della maggioranza, ma il governo dell’opinione e della coercizione di un piccolo gruppo di personaggi dominanti”. Considerazione che anche oggi non può non essere condivisa.

Mattei, Kennedy, Moro: quando la mafia decideva i destini del mondo, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 24 ottobre 2017. Il Presidente degli Stai Uniti Donald Trump ha annunciato su Twitter la sua intenzione di divulgare i documenti, a lungo coperti dal segreto di Stato, sull’assassinio di J.F. Kennedy avvenuto a Dallas, nel Texas, il 22 novembre 1963. Sia la Commissione Warren che indagò sull’omicidio del Presidente degli Stati Uniti sia la stessa famiglia Kennedy, avevano optato per l’apposizione del segreto di Stato sui documenti riguardanti l’assassinio. Si trattò di una scelta infelice dato che tale decisione non fece altro che rafforzare le tesi degli scettici e dei complottisti. In realtà, nel corso degli anni, sono stati desecretati più del 90% dei documenti soprattutto a seguito del film JFK di Oliver Stone. I rimanenti documenti avrebbero dovuto essere desecretati nel 2017, come previsto nel “President Jhon F. Kennedy Assassination Records Collectio Act, intenzione che sembra avere, in questi giorni, manifestato il Presidente Trump. Avverso tale intenzione di Trump è stata tuttavia avanzata, da ambienti della Casa Bianca e in particolare dalla CIA la preoccupazione che la pubblicazione dei file più recenti potrebbe mettere in pericolo le operazioni di intelligence. In una dichiarazione giurata, Jefferson Morley, giornalista del Washington post ed esperto di servizi segreti, ha dichiarato che la CIA dispone di circa 1100 documenti riguardanti l’assassinio di Kennedy che dovrebbero esser mantenuti segreti fino al 2017, documenti che non sono mai stati visti dal Congresso degli Stati Uniti. E’ fondato ritenere che vi siano pressioni da parte delle Agenzie federali, CIA ed FBI, per convincere il Presidente Trump a mantenere ancora il segreto sui rimanenti documenti e ciò al fine di evitare di mettere in pericolo i segreti nazionali, relativi ad inchieste collegate che potrebbero divenire di pubblico dominio. Se Il Presidente Trump dovesse cedere alle pressioni dei suddetti organismi, rimarranno negli archivi dei documenti che potrebbero portare alla luce oscure e dubbie attività della CIA come quelle, ad esempio, relative ai programmi di assassinio di leader stranieri. Tra i documenti ancora secretati vi sono ad esempio quelli relativi ad Edward Hunt l’agente della Cia che partecipò allo sbarco fallito nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961 e che divenne famoso nello scandalo del Watergate che costrinse alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon nel 1974. Quello di Kennedy non è stato il primo omicidio di un presidente degli Stati Uniti. Prima di lui vennero assassinati Abram Lincoln, ucciso il 14 aprile 1865, James Garfield, ucciso il 2 luglio del 1881, William McKinley ucciso il 6 settembre 1901. E ciò senza contare i numerosi attentati falliti. L’assassinio di Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre del 1963, fu un evento determinante nella storia degli Stati Uniti per l’impatto che ebbe sulla nazione e sulla politica del Paese. Per l’omicidio venne arrestato Lee Oswald a sua volta ucciso da Jack Ruby che morì a sua volta in carcere di cancro. Numerose sono state le ipotesi sull’uccisione di Kennedy: un complotto di cubani, della mafia, della stessa CIA. La Commissione parlamentare Warren, istituita per indagare sull’assassinio del presidente degli Stati Uniti, chiuse frettolosamente l’inchiesta archiviando il caso come omicidio ad opera di un fanatico e cioè: Lee Oswald. Sulla morte di Kennedy quindi esiste una verità ufficiale, quella della commissione Warren, istituita il 29 novembre 1963 dal Presidente Lyndon B. Johnson che concluse che Lee Oswald fu il solo esecutore materiale dell’omicidio. Le conclusioni della Commissione furono molto contestate e furono formulate molte ipotesi cospirazioniste. Soprattutto dei dubbi, peraltro non privi di un certo fondamento, sorsero sul fatto che soltanto Oswald possa essere stato l’esecutore materiale. Oswald infatti avrebbe sparato tre o quattro colpi a tempo di record – 6,75 secondi – un tempo ritenuto da coloro che contestarono le risultanze della commissione Warren, troppo breve. Un documentario, andato in onda sul canale televisivo CBS, dimostrò che in realtà si trattava di un tempo più che ragionevole per un tiratore scelto (qualità che non risulta avesse Lee Oswald) dato che, undici tiratori, messi alla prova, avevano esploso tre colpi in un tempo medio di 5,6 secondi. Tuttavia, alcuni testimoni affermarono concordemente di avere udito un quarto colpo che sarebbe stato sparato da una collinetta adiacente e quindi non soltanto dal deposito di libri da cui avrebbe sparato Oswald. Il che indurrebbe a ritenere la partecipazione all’assassinio di più persone. Cinque autorevoli storici americani, docenti universitari, hanno pubblicato dei libri nei quali hanno ricostruito l’omicidio di Kennedy. Di essi, quattro hanno sostenuto che Kennedy fu vittima di un complotto e che Oswald non agì da solo e uno ritiene che l’omicidio potrebbe essere avvenuto con il coinvolgimento di alcuni ufficiali dell’intelligence americana. David Kaiser, del Naval War College e Michael kurt, poi, quest’ultimo della Luisiana University, sono concordi nel ritenere che a tirare i fili di tutta la vicenda sia stata la CIA. Fletcher Prouty, capo delle operazioni speciali del Pentagono dal 1960 al 1964 ed ufficiale di collegamento con la CIA, in una intervista rilasciata il 19 marzo del 1992 all’ “Unità”, sostenne che Kennedy venne ucciso in seguito ad una vera e propria cospirazione politica affermando che si trattò di un colpo di Stato in piena regola e che Lee Oswald non era colpevole. L’assassinio, eseguito militarmente con grande professionalità e coperture da “una anonima assassini”, sarebbe stato programmato e realizzato per la tutela degli affari e degli interessi di un strettissima elite di personaggi che da secoli si tramandano il governo del pianeta, interessi che venivano minacciati da Kennedy divenuto incontrollabile e pericoloso. Non soltanto l’uccisione di Kennedy ma tanti altri delitti sarebbero quindi stati eseguiti nell’ottica del dominio del mondo e delle risorse e a tal proposito Fletcher ricorda la guerra del petrolio e il cartello del petrolio nel mondo ed aggiunge: “Il Presidente degli Stati Uniti fu ucciso nello stesso piano strategico in cui fu eliminato. L’anno precedente, Enrico Mattei. Lei ha presente che cosa rappresenta il potere di controllo sulle fonti energetiche? Si tratta del governo mondiale: Mattei come Kennedy e poi come Aldo Moro, sono stati uccisi da mani diverse ma per lo stesso motivo: non si adattavano a discipline superiori. E tanti altri sono stati uccisi come loro”. In altri termini una ristretta elite avrebbe il dominio della gran parte del continente. Ci si troverebbe in presenza di un governo segreto costituito da pochi gruppi di potere che regolano la fame, l’energia, le guerre e che non esitano a ricorrere al crimine ogni qualvolta vedono minacciati i loro affari e i loro interessi. Realizzati i delitti si sono occultate e si continuano a d occultare le prove. Ciò ad esempio è avvenuto più volte in America (ma anche in Italia) nel caso Nixon, nel caso dei bombardamenti segreti in Laos e Cambogia, in Iran, in Nicaragua, con i Contras, con gli ostaggi in Iran e dopo Kennedy con l’uccisione di Martin Luther King e Bob Kennedy. Ma tra coloro che improntarono la loro attività a un forte impegno democratico si possono ancora ricordare Allende, Palme, e Moro. Nell’assassinio di Kennedy non possono trascurarsi alcune strane coincidenze che sembrerebbero avvalorare, nell’omicidio del Presidente americano, un connubio tra politica e strutture criminali quali mafia e massoneria. Ma probabilmente si tratta soltanto di coincidenze che tuttavia qualche dubbio lo suscitano. Il giorno dell’assassinio infatti a Dallas, sulla autovettura in cui si trovavano John Kennedy e la First Lady, vi era il governatore del Texas John Connally, un nome che, curiosamente compare nei verbali delle varie inchieste italiane sulla Loggia massonica P2. Connally, fervente anticomunista e in seguito ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Nixon, era infatti amico e sodale del venerabile Licio Gelli come scrive l’ex giudice Imposimato nel libro “La Repubblica delle stragi impunite”. E non può non evidenziarsi e lasciare perplessi come negli omicidi di Kennedy e di Aldo Moro si trovino gli stessi personaggi legati alla mafia e alla massoneria come appunto il governatore del Texas Jhon Connally e il suo braccio destro Philip Guarino. E a proposito di quest’ultimo, Luigi Cipriani, nel suo intervento in aula del 2 agosto 1990, in occasione dell’anniversario della strage di Bologna, evidenziò come Guarino, che negli Stati Uniti aveva diretto il comitato elettorale di Regan e di Bush, fosse stato grande amico di Sindona e dirigente della Franklin Bank che Sindona aveva acquistato negli Stati Uniti. Matteo Lecs poi, un massone inquisito per la strage di Bologna, ha parlato dei rapporti di Philip Guarino con Gelli e delle riunioni che venivano tenute a Livorno alle quali partecipava un ufficiale della base americana di Camp Derby e nel corso delle quali si discuteva delle operazioni che Gelli e la P2 conducevano in quel periodo. Il Lecs dichiarò anche che gli elenchi veri della P2 sono depositati in codice presso il Pentagono. In un messaggio inviato agli americani, John Kennedy sembra quasi tracciare il profilo di quel coacervo di interessi che poco tempo dopo decreterà la sua morte. Disse infatti Kennedy in quella occasione: “La parola segretezza è ripugnante in una società libera e noi abbiamo avuto storicamente come persone un senso innato di avversione alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Per questo si oppone a noi, in tutto il mondo, una cospirazione monolitica e spietata fondata principalmente sull’uso di mezzi sotterranei per espandere la propria sfera di influenza. Sull’infiltrazione anziché l’intrusione. Sulla sovversione anziché sulle elezioni. Sull’intimidazione anziché sulla libera scelta. E’ un sistema che ha coscritto vaste risorse umane e materiali per la costruzione di una fitta rete, una macchina altamente efficiente che combina operazioni militari, diplomatiche, di intelligence, economiche, scientifiche e politiche. La preparazione di queste operazioni viene nascosta, non resa pubblica. I loro errori sepolti, non sottolineati. Gli oppositori sono messi a tacere, non elogiati. Il costo di queste operazioni non viene messo in discussione; nessun segreto viene rivelato. E’ per questo che il legislatore ateniese Solone decretò che il rifiuto di una vertenza, di un dibattito pubblico, costituiva un reato per ogni cittadino. Sto chiedendo il vostro aiuto nell’arduo compito di informare ed allertare il popolo americano, fiducioso che con il vostro aiuto l’uomo potrà essere quello per cui è nato: libero e indipendente”. In fondo lo stesso concetto avevano espresso lo statista inglese Benjamin Dislaeli e il Presidente Franklin Delano Roosevelt. Disse infatti il primo: “Il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che immaginano coloro che non si trovano dietro le scene”. E in maniera più incisiva disse il secondo: “La verità su questo tema è che elementi della finanza sono proprietari del governo nei suoi cardini principali dai giorni di Andrew Jackson”. Si riuscirà mai a sapere la verità su Dallas? Io credo di no poiché, per quello che ne sappiamo oggi, non vi sarebbe nulla di scritto e documentato che proverebbe, nell’assassinio di Kennedy, un complotto di quelli che oggi si suole definire “poteri forti”. Uno spiraglio tuttavia sembra potersi aprire se, come annunciato dal presidente Trump, saranno definitivamente e completamente aperti gli archivi che contengono i documenti sull’assassinio di Kennedy, fino ad oggi coperti dal segreto di Stato. Soltanto in tal modo, io credo, si potrà riprendere in mano il controllo della democrazia eliminando la parola “segretezza” che, come affermò Kennedy, è una parola ripugnante in una società libera.

Nino Galloni: Come ci hanno deindustrializzato, scrive il 29 luglio 2013 "Inchiesta On Line". Per il Dossier L’Europa verso la catastrofe? pubblichiamo una intervista di Claudio Messora de Il fatto quotidiano a Nino Galloni, economista, ex direttore del Ministero del Lavoro. Nino Galloni è figlio di Giovanni Galloni amico e stretto collaboratore di Aldo Moro.

MESSORA: Nino, buongiorno.

GALLONI: Buongiorno!

MESSORA: Benvenuto su byoblu.com, a queste interviste volute dalla rete. Io ero rimasto molto colpito dalla tua affermazione in un convegno che ripresi e misi su Youtube, intitolando il video “Il funzionario oscuro che fece paura a Kohl”. Nel tuo racconto del processo con il quale siamo entrati nell’euro, tratteggiavi questa decisione assunta dalla politica italiana di un vero e proprio progetto di deindustrializzazione del nostro paese. E mi sono sempre chiesto: ma perché mai, alla fine, la politica avrebbe dovuto decidere questo strangolamento, questo inaridimento, la morte del nostro tessuto produttivo? Ho cercato, via via, delle risposte nel tempo, ma oggi che sei qua forse queste risposte ce le puoi dare tu. È un processo, quello di deindustrializzazione, che parte da molto lontano. Riesci a farci una carrellata di eventi e poi arriviamo al focus?

GALLONI: Credo che la data dalla quale dobbiamo necessariamente partire sia il 1947, quando al Trattato di Parigi De Gasperi cede una parte della nostra sovranità, ma in cambio ottiene il riassetto di certi equilibri. La componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà una grande influenza nel campo creditizio e questo, vedremo, sarà un fattore decisivo una trentina di anni dopo.

MESSORA: gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo in questa decisione.

GALLONI: Gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo perché chiaramente gli aiuti del Piano Marshall erano condizionati all’uscita dei comunisti dal governo. In realtà Togliatti, giustamente, si lamentava del fatto che ci fosse questo ricatto, ma era perfettamente consapevole di doverlo fare di uscire dal governo, anche perché tutto sommato alla Russia stalinista non faceva comodo un Partito Comunista al governo, come poi trent’anni dopo non farà scomodo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che tutto sommato era stato additato come interessato a fare avvicinare i comunisti all’area di governo, cosa che poi potrebbe essere sfatata.

Ma torniamo all’industria. Quindi nel 1947 la produzione industriale, per non parlare della produzione agricola italiana, è a livelli del 1938. Il paese è semidistrutto. Tuttavia inizia una ricostruzione. Ad un certo punto di questa ricostruzione, in cui hanno un ruolo le industrie energetiche, quindi Mattei, ma si comincia a sviluppare in modo sorprendente anche il nucleare, ci si trova già negli anni ’60 nel miracolo. Cioè piccole industrie, grandi industrie, industrie a partecipazione statale, soprattutto, e anche cooperative, trainano l’Italia in una situazione completamente diversa. Negli anni ’70 scopriamo che abbiamo superato l’Inghilterra, scopriamo che ci stiamo avvicinando alla Francia, scopriamo che possiamo, dal punto di vista manifatturiero, andare a dar fastidio alla Germania. Nel ’71 si sgancia la moneta dall’oro e questo rende teoricamente tutto più facile: gli aumenti salariali anche in termini reali, la spartizione dei guadagni di produttività che va in parte ai lavoratori e quindi aumentano i consumi, aumentano le vendite, aumenta il valore delle imprese. Questo è un concetto fondamentale che oggi è stato completamente dimenticato. Oggi la consapevolezza e l’orizzonte delle imprese – e di questo ha grave responsabilità la Confindustria – è ridotto all’immediato, al profitto annuale. Le imprese dovrebbero traguardare obiettivi di crescita del valore delle imprese stesse, in modo di contrattare poi con le banche tassi di interesse buoni e invece manca completamente questa consapevolezza.

MESSORA: Negli anni ’70 eravamo all’apice.

GALLONI: All’apice. Diciamo che forse l’anno di maggior crescita è proprio il ’78, che è l’anno, non a caso, del rapimento di Moro.

MESSORA: Cioè noi stavamo raggiungendo e superando le altre economie avanzate.

GALLONI: C’erano stati altri segnali gravissimi di attacco al sistema italiano, come appunto l’omicidio di Mattei, ordinato perché aveva pestato i piedi alle “Sette Sorelle” in Medio Oriente, trovando una formula che ci aveva dato una posizione nel Mediterraneo veramente ragguardevole dal punto di vista della politica estera. E non ci dimentichiamo che Moro era amico degli arabi moderati, quindi aveva contro Israele e aveva contro gli arabi estremisti. Poi abbiamo visto che aveva contro la Russia, che non voleva un avvicinamento del Partito Comunista Italiano al governo e anzi mal sopportava l’importanza in Europa di questo grande partito, e gli americani che temevano – questa è la versione non dico ufficiale, ma su cui concordano molti osservatori, che dobbiamo (va citato in questo caso) alla ricostruzione di mio padre, che era principale collaboratore di Moro a quei tempi – che  l’avvicinamento del Partito Comunista all’area di governo,  secondo i loro centri studi, i loro servizi, avrebbe potuto vanificare il principale piano strategico di difesa dell’Occidente nei confronti della Russia sovietica, che aveva una supremazia evidente di terra. Quindi un’avanzata dei carri armati sovietici attraverso la Germania orientale, poteva essere fermata prima che i carri arrivassero nella Germania occidentale solo con degli ordigni atomici tattici che erano necessariamente e solo piazzabili e piazzati nel Nord-Est dell’Italia. Quindi se non si poteva fermare con armi atomiche nucleari tattiche l’avanzata dell’esercito sovietico verso occidente, l’Europa era persa e quindi gli americani se ne sarebbero dovuti andare dall’Europa, conseguentemente dal Mediterraneo che – teniamolo sempre presente – è l’ombelico del mondo. Ma questo è un quadro teorico.

MESSORA: Spieghiamolo bene. Cosa c’entra Moro in questo quadro? Cosa c’entra Moro con le bombe nucleari?

GALLONI: c’entra! Perché se Moro faceva riavvicinare i comunisti al governo, si pensava che i comunisti avrebbero posto un veto all’uso di ordigni nucleari, anche nel caso di un’avanzata dei carri armati sovietici verso occidente. Ma erano scenari che gli americani fanno continuamente, non è detto che le politiche si debbano ispirare a quello. Però c’è un fatto di cui ci sono testimonianze certe, anche della famiglia di Moro: Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima, Moro lo aveva riferito alla famiglia e la famiglia aveva detto “ritirati dalla politica”, cosa che poi lui non aveva fatto, ma non si sa poi che cosa avesse in mente di fare dopo quel fatidico marzo 1978.

MESSORA: Quindi le Brigate Rosse in realtà avevano avuto un ruolo…

GALLONI: Dobbiamo distinguere le prime Brigate Rosse, per capirci quelle di Curcio, che erano un fenomeno promanante dall’incontro tra l’estremismo, un certo tipo di estremismo marxista-leninista, che bene o male aveva un legame col Partito Comunista, anche se lontano, e forze che tutto sommato, partigiani ed ex partigiani che avevano conservato le armi, anche perché si sapeva che dall’altra parte c’era la minaccia; tutti gli anni ’70, e forse anche prima, sono stati vissuti con l’idea che potesse esserci un golpe di destra, quindi partigiani ed ex partigiani avevano conservato armi, soprattutto nel nord. Quindi una certa continuità col terrorismo si può anche vedere. Le seconde Brigate Rosse, quelle che – per capirci – rapirono Moro, eccetera, invece sono fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani, israeliani; ci sono evidenze ormai incontrovertibili su questa lettura. Torniamo all’industria. Il problema qual è? Il problema è che in pratica il gioco è: quanto e come ci avviciniamo all’Europa, quanto e come sviluppiamo l’economia italiana, che già appunto era arrivata a livelli, come abbiamo detto, di eccellenza. Allora ci sono due strategie, fondamentalmente. C’è la strategia più moderata che vuole l’Europa e che faceva capo anche a Moro, ma che faceva capo anche a Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, e ad altri personaggi del mondo economico e finanziario italiano, e poi invece emerge una posizione più estremista, pro Europa, che praticamente fa propria l’idea che si debba combattere la classe politica corrotta e clientelare e tutte le sue espressioni facenti capo fondamentalmente alla Democrazia Cristiana e ai suoi partiti alleati, compreso il Partito Socialista, e che per questo si debbano anche cedere porzioni di sovranità, e si comincia con la sovranità monetaria.

MESSORA: Ma chi si faceva propugnatore di questa tesi?

GALLONI: Intanto era cambiata la dirigenza della Banca d’Italia ed era passata la linea, diciamo, più estremista sull’Europa, facente capo a Carlo Azeglio Ciampi. Poi la sinistra democristiana era divisa tra la sinistra sociale, che faceva capo a Donat-Cattin, che era su posizioni euromoderate, e la sinistra politica, che faceva capo a De Mita e soprattutto a Beniamino Andreatta, che invece era su posizioni euroestremiste e giustificavano questa rinuncia alla sovranità monetaria, cioè alla possibilità dello Stato di fare investimenti pubblici produttivi, per impedire alla classe politica stessa, corrotta e clientelare, di avere potere. Quindi per sottrarre potere alla classe politica, si cominciò a rinunciare alla sovranità monetaria, quindi agli investimenti pubblici. Quindi la classe politica poi si trovò ad occuparsi solo di nomine, di poltrone, eccetera, perché non c’era più da discutere gli investimenti pubblici che ormai dovevano minimizzarsi. Degli investimenti pubblici la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia, i trasporti e via dicendo, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale.

MESSORA: Mario Monti era molto vicino a De Mita, quindi potremmo dire che già da allora era un euroestremista.

GALLONI: Di Monti mi ricordo la posizione sulla scala mobile, che era stata considerata interessante da Donat-Cattin, però poi, per il resto, era sicuramente un rappresentante della scuola monetarista, non era un keynesiano. I keynesiani si stavano abbandonando. Anche Andreatta, pur essendo stato un keynesiano, era entrato in quella che noi chiamiamo “la corrente neo-keynesiana”, li chiamiamo anche “keynesiani bastardi”, di cui il maggior rappresentante era il premio Nobel Modigliani, i quali proponevano appunto questo passaggio rispetto alla moneta che impedisse alla classe politica di decidere investimenti in infrastrutture per lo sviluppo industriale, per lo sviluppo del paese. Ecco, questo è stato un errore cruciale che ha determinato poi l’esplosione dei tassi di interesse e quindi del debito pubblico, ma soprattutto l’accorciamento di orizzonte delle imprese industriali che assumevano sempre di meno perché dovevano valutare il profitto immediato e non potevano stare a fare grandi progetti industriali. Quindi quello che accadde per gli investimenti pubblici, accadde anche per gli investimenti privati, a causa degli alti tassi di interesse. Io negli anni ’80 feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione. Il passaggio successivo però è molto più grave e riguarda appunto il periodo che va dalla fine degli anni ’80 all’inizio delle privatizzazioni.

MESSORA: Ci arriviamo. Ci spieghi però, a noi che non siamo economisti, come si lega questa nuova politica monetarista con l’esplosione dei tassi di interesse? Questo passaggio tecnico ce lo spieghi un po’?

GALLONI: Fino al 1981 la Banca d’Italia, se un’emissione di obbligazioni pubbliche che servivano per ottenere moneta da parte dello Stato non veniva completamente coperta, comprava lei il restante, quindi era la compratrice di ultima istanza, come diceva il mio maestro Federico Caffè. Questo faceva sì che se l’emissione avveniva a un tasso di interesse basso, mettiamo del 3%, e una parte non veniva comprata proprio perché il rendimento era basso, la Banca d’Italia comprava quello che avanzava e quindi emetteva moneta. Con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, era data alla Banca d’Italia la facoltà di non essere obbligata… Sembra un po’ un gioco di parole però, in fondo, lo stesso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, di cui stiamo parlando, non è che obbligava la Banca d’Italia a non comprare titoli, le dava la facoltà di non farlo e la pratica, voluta da Carlo Azeglio Ciampi, fu di applicare questo divorzio in modo letterale. Per la cronaca, ricordo che l’Inghilterra aveva le stesse regole, perché noi copiammo quelle, ma non le praticava. Cioè la Banca d’Inghilterra, quando serviva, stampava sterline a gogò, mentre la Banca d’Italia si irrigidì su quella facoltà che le era stata riconosciuta attraverso una semplice lettera del Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, e quindi la parte di emissione obbligazionaria che non veniva coperta, causava un aumento del tasso di interesse finché non si piazzava questo residuo, ma poi questo tasso di interesse andava ad essere applicato su tutta l’emissione della mattinata. Quindi in questo modo c’è stata una rincorsa dei tassi di interesse verso l’alto. In effetti io feci un appunto e ci fu una discussione col Ministro del Tesoro, in cui dimostrai oltre ogni ragionevole dubbio, applicando semplicissimi tassi di capitalizzazione – come sanno tutti gli economisti – che il debito pubblico sarebbe raddoppiato e avrebbe superato il Pil. Addirittura mi dissero che il debito pubblico non poteva superare il Pil, se no il sistema saltava, al che io gli feci presente che non era così, perché il debito è uno stock e il Pil è un flusso. Ma avevano deciso una cosa e non volevano più cambiarla, non accettavano né le critiche di Federico Caffè né quelle di Paolo Leon, figuriamoci le mie! Per cui poi litigammo e io andai via da quella amministrazione. E siamo a metà degli anni ’80. Il peggio deve ancora arrivare.

MESSORA: Lo scopo era soltanto quello nobile di sottrarre alla politica la gestione dei soldi e quindi andare verso un’Europa che avrebbe potuto salvarli in qualche maniera, o c’era anche sotto una strategia che poi avrebbe portato al nostro processo non solo di deindustrializzazione ma anche di privatizzazione? Qual è stata la road map successiva?

GALLONI: Nel mio ultimo libro “Chi ha tradito l’economia italiana”, infatti, affronto questo problema e identifico due tipi di personaggi, cioè quelli che in buona fede volevano fare i salvatori della patria, come hai ricordato tu, ma anche quelli che traguardavano nella possibilità di una svendita delle partecipazioni statali, nelle privatizzazioni – allora si chiamavano dismissioni – la possibilità di fare immensi profitti, come fu. Quindi c’è stata anche una parte di questa componente, diciamo così, anti-statalista, anti-italiana, anti-sviluppista, che ha fatto affari strepitosi e su cui qualcuno, infatti, ha proposto una commissione di indagine parlamentare.

MESSORA: arriviamo quindi, con questo ragionamento, all’inizio degli anni ’90.

GALLONI: Sì. Diciamo che c’è il passaggio successivo. È prima dell’inizio degli anni ’90, perché all’inizio degli anni ’90 avviene il crollo del sistema monetario europeo, perché non era sostenibile per la semplice ragione che produceva tassi di interesse più alti per i paesi deboli, che quindi si indebolivano di più, e tassi di interesse più bassi per i paesi forti, che quindi si rafforzavano di più. Ad un certo punto il sistema è saltato, ma era prevedibile. Ma noi ci dobbiamo rapportare, raccontando gli eventi, al tempo in cui accadevano, perché col senno del poi siamo tutti bravi.  Nell’89 è emerso, qualcuno aveva detto – lì entra in gioco l’oscuro funzionario, probabilmente-, l’apice della classe politica italiana, che tutto sommato faceva capo in quel momento a Giulio Andreotti, capisce che bisogna trovare una strada un po’ diversa, perché se no si compromettono gli interessi nazionali. Tra le altre cose, quindi, mi manda un biglietto, mi scrive Giulio Andreotti e mi dice “caro dottore, vuole collaborare con noi per cambiare l’economia di questo paese?”. Al che io entusiasticamente aderisco. Per farla breve io mi trovo al vertice del Ministero del Bilancio, che era il ministero cruciale, alla fine dell’estate del 1989. Quindi in quel momento Andreotti era più vicino alle posizioni americane e più lontano dalle posizioni europeistiche estreme. Passano poche settimane, perché dalla fine di agosto dell’89, quando io ho ripreso servizio al mio ex ministero, fino a quando praticamente vengo di nuovo estromesso, che è novembre, passano due mesi praticamente. In questi due mesi io metto mano, e si sa in giro che io sto mettendo mano, ci fu anche un mio incontro molto in tensione con Mario Monti alla Bocconi. Io stavo appunto col mio Ministro e ci fu questo scontro piuttosto forte sul problema della moneta e del debito pubblico; avevamo posizioni completamente diverse.

MESSORA: La tua qual era?

GALLONI: La mia era che praticamente si dovesse operare per abbassare i tassi di interesse in qualunque modo e dimostrai appunto che la Banca d’Inghilterra aveva lo stesso regime nostro, cioè il divorzio, ma non lo praticava, quindi quando serviva al paese stampava sterline. Questo era il problema.

MESSORA: E la sua?

GALLONI: La sua, che si dovesse andare avanti su una politica di forte europeizzazione e quindi si dovesse continuare con questo forte debito pubblico. Dopo questo incontro alla Bocconi in effetti si scatena l’inferno, perché arrivano pressioni dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dalla Confindustria e vengo a sapere che persino un certo Helmut Kohl aveva telefonato al Ministro del Tesoro Guido Carli per dire “c’è qualcuno che rema contro il nostro progetto”, adesso le parole le ho ricostruite in base a delle testimonianze dirette, però vengono fatte pressioni sul mio Ministro affinché io venga messo da parte, cosa che avviene nel giro di un pomeriggio, nel senso che io ottengo dal Ministro la verità, mi rivela la verità, la scriviamo su un pezzo di carta perché lui temeva ci fossero dei microfoni, gli faccio vedere questo pezzetto di carta, dico “ci sono state pressioni anche dalla Germania sul Ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?” e lui mi fece di sì con la testa. Per cui ho mantenuto rispetto per questa persona, però me ne sono andato. Che cosa era successo? Che fino all’estate del 1989 Andreotti era contrario alla riunificazione tedesca e questo fatto impediva qualunque progresso, ovviamente, perché la Germania voleva fare la riunificazione.

MESSORA: e ci fu quella famosa battuta.

GALLONI: sì, sì. Infatti in quei tempi ad Andreotti chiesero “ma lei ce l’ha tanto con la Germania?”, dice “no, io amo la Germania. Anzi, la amo talmente tanto che mi piace che ce ne siano addirittura due!”. Questa era la frase. Passano appunto pochi mesi e invece la Germania, pur di ottenere la riunificazione, si mette d’accordo con la Francia per rinunciare al marco, che era quello che faceva paura alla Francia. Però perché questo accordo tra Kohl e Mitterand regga, occorre deindustrializzare l’Italia e indebolire l’Italia. Perché se no che fanno? Si passa a una moneta unica e l’Italia poi…

MESSORA: che stava fiorendo.

GALLONI: stava già perdendo colpi l’industria italiana, da vari punti di vista, però era una situazione ancora di dominio del panorama manifatturiero internazionale. Eravamo la quarta potenza che esportava. Voglio dire, eravamo qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero. Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici e cose del genere. Dopodiché, ovviamente, si entra nella stagione delle privatizzazioni spinte, negli anni ’90, in cui praticamente quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale.

MESSORA: Quindi decidono la deindustrializzazione. Dopodiché c’è qualcuno che si attiva.

GALLONI: Sì. La deindustrializzazione significa che non si fanno più politiche industriali. Non ci dimentichiamo che poi c’è stato un periodo in cui Bersani era Ministro dell’Industria, in cui, diciamolo, teorizzò che non servivano le strategie industriali. Adesso sta dicendo il contrario, ma poteva pensarci pure prima. Per dirne una. Non si fanno politiche per le infrastrutture. Questo è importante, perché è un paese che è molto lungo, quindi è costoso trasportare le merci da sud a nord, mentre il nord è già in Europa dal punto di vista geografico e infrastrutturale, il centro e il sud sono lontani, quindi potenziare le infrastrutture sarebbe stato strategico.

Poi, alla fine degli anni ’90, si introduce la banca universale, quindi la possibilità per la banca di occuparsi di meno del credito all’economia e di occuparsi di più di andare a fare attività finanziarie e speculative che poi avrebbero prodotto solo dei disastri, come sappiamo.

MESSORA: La fine del Glass-Steagall Act.

GALLONI: Sì, esatto. Poi la mancanza di strategie efficaci della stessa FIAT, dell’industria privata. Ripeto, in quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti – che poi avrebbero prodotto la precarizzazione – aumentare i profitti, quindi una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale, quindi perdita di valore delle imprese, perché le imprese guadagnano di valore se hanno prospettive di profitto che dipendono dalle prospettive di vendita. Questo è l’ABC. Se invece difendono il profitto oggi perché devono realizzare e devono portare ai proprietari una certa redditività ma poi, voglio dire, compromettono il futuro di un’azienda, questa perde di valore.

MESSORA: Si narra di questo incontro sul Britannia. Qual è stato il ruolo anche dell’Inghilterra, secondo te?

GALLONI: L’Inghilterra non è che avesse un interesse diretto all’indebolimento dell’Italia nel Mediterraneo, ma ha una strategia complessiva in Africa e in Medio Oriente, che ha sempre teso ad aumentare i conflitti, il disordine, e c’è la componente che fa capo alla corona, di cui sono espressione anche alcuni movimenti ambientalisti, che poi si debba puntare a una riduzione drastica della popolazione del pianeta; quindi è contraria ad ogni politica che invece favorisca lo sviluppo così come lo intendiamo comunemente.

MESSORA: Quindi è vero che sul Britannia si presero delle decisioni?

GALLONI: Qui dobbiamo capirci. Allora, Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli Illuminati di Baviera, sono tutte cose vere. Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decidono delle cose. Ma non è che le decidono perché veramente le possono decidere, è perché non trovano resistenza da parte degli Stati. L’obiettivo è quello di togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale in questo senso. Dopodiché è ovvio che se gli Stati sono stati indeboliti o addirittura nei governi ci sono rappresentanti di questi gruppi, che siano il Britannia, il Bilderberg, gli Illuminati di Baviera, eccetera, negli Stati Uniti d’America c’era la Confraternita dei Teschi, di cui facevano parte padre e figlio Bush, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti. E’ chiaro che dopo questa gente risponde a questi gruppi che li hanno, bene o male, agevolati nelle loro ascese.

MESSORA: Quindi alla fine decidono.

GALLONI: Ma perché dall’altra parte è mancata, da parte dei cittadini e degli Stati, una seria resistenza. Quindi praticamente questi dominano la scena.

MESSORA: Quindi non è colpa di questi ma è colpa di chi non si oppone abbastanza.

GALLONI: Questi si riuniscono, decidono delle cose, però rimangono lì. Ci sono sempre stati i circoli dei notabili che hanno deciso delle cose. Mica è detto che siano riusciti sempre a farle!

MESSORA: Però in questo caso ci sono riusciti.

GALLONI: In questo caso ci sono riusciti perché non hanno trovato resistenza.

MESSORA: Quindi è colpa nostra.

GALLONI: Beh, sì, un po’ sì, secondo me.

MESSORA: L’ignavia del cittadino che non rivendica il potere.

GALLONI: Sì. Ad esempio l’idea montiana che l’aumento della base monetaria produca inflazione è stato ciò che ha consentito di attrarre anche i sindacati in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981, quando invece si è dimostrato, anche in tempi recenti, che l’emissione e l’autorizzazione di mezzi monetari per migliaia, decine di migliaia di dollari e di euro non ha prodotto l’iper inflazione. Quindi evidentemente è qualcos’altro che genera l’inflazione, non è la quantità di moneta. La quantità di moneta può influire sui tassi di interesse attraverso le tensioni della domanda di essa, ma non è che influiscano direttamente sull’inflazione. Certo, paradossalmente potrebbe essere il contrario: se la moneta è poca e i tassi di interesse aumentano, quelli hanno effetti sui livelli dell’inflazione.

MESSORA: Quindi l’ignoranza degli attori sociali è stata o anche un certo tornaconto?

GALLONI: Una cosa non esclude l’altra. Diciamo che quelli che volevano avere un certo tornaconto facevano leva sull’ignoranza dei fatti monetari, dei partiti, dei sindacati, della classe dirigente e anche una certa scomparsa della scuola keynesiana dovuta a vari fattori anche oscuri.

MESSORA: Quindi privatizzazioni. Anni ’90. Cosa succede poi?

GALLONI: Dopo gli anni ’90 la situazione praticamente comincia a precipitare quando inizia questa crisi, che è il 2001. Quando gli operatori di borsa si accorgono che anche i titoli che avevano tirato fino a quel punto, e-commerce, e-economy, prodotti avanzati, eccetera, non danno più rendimenti crescenti, allora cominciano a svendere e comincia la speculazione al ribasso. In quelle condizioni le banche, che avevano preso grandi impegni coi sottoscrittori dei loro titoli, perché erano diventate, come ho ricordato prima, universali, per garantire questi rendimenti fanno operazioni di derivazione. Le operazioni di derivazione sono tipo catene di Sant’Antonio: tu acquisisci denaro per dare i rendimenti e quindi posticipi la possibilità di dare i rendimenti agli ultimi che ti hanno affidato delle somme. Questa cosa, si è fatta nel giro di due o tre mesi, perché dopo c’era la ripresa, era sempre stata fatta dalle banche, è un’operazione tecnica, diciamo così. Quindi di tre mesi in tre mesi si diceva che arrivava la ripresa. Centri studi, economisti, osservatori, studiosi, ricercatori, tutti sui loro libri paga, prevedevano di lì a tre mesi, di lì a sei mesi, la ripresa. Non si sa perché. Perché le politiche economiche volute per esempio da Bush, tipo la riduzione delle tasse, erano chiaramente politiche che non avrebbero risolto il problema della crescita. Poi tutte queste guerre americane, speculazioni, vanificavano la potenza di un dollaro che se fosse stato destinato a investimenti produttivi, alla ricerca, alle infrastrutture, eccetera, probabilmente avrebbe creato una situazione accettabile. Invece non si faceva niente di tutto questo, non si avviavano gli investimenti produttivi pubblici, perché i privati non investono se non c’è prospettiva di profitto; come avviene in borsa così avviene nell’economia reale. Quindi siamo andati avanti anni e anni con queste operazioni di derivazione, emissione di altri titoli tossici. Finché si è scoperto, intorno al 2007, che il sistema bancario era saltato, nel senso che nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose che faceva lei stessa, cioè speculazioni in perdita. La massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava, per la prima volta, la massa di quello che le famiglie, le imprese e la stessa economia criminale mettevano dentro il sistema bancario. Di qui la crisi di liquidità che deriva da questo, cioè che le perdite superavano i depositi e i conti correnti. A questo punto è intervenuta la FED e ha cominciato a finanziare le banche, anche europee, nelle loro esigenze di liquidità. La FED ha emesso, dal 2008 al 2011, 17 mila miliardi di dollari, cioè più del Pil americano, più di tutto il debito pubblico americano, ha autorizzato o immesso mezzi monetari in qualche modo e poi ha chiesto all’Europa di fare altrettanto. L’Europa alla fine del 2011 ha offerto qualche resistenza e poi, anche con la gestione di Mario Draghi, ha fatto il “quantitative easing”, cioè dare moneta illimitatamente per consentire alle banche di non soffrire di questa crisi di liquidità derivante dalle perdite che superano nettamente le entrate. Ovviamente l’economia è sempre più in crisi, quindi i depositi che seguono gli investimenti produttivi sono sempre di meno e le perdite, invece, sono sempre di più. Allora il problema qual è? Perché continua questo sistema? Questo sistema continua per due ragioni. La prima è che chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite. Perché non guadagna su quello che sono le performance, come sarebbe logico, ma guadagna sul numero delle operazioni finanziarie che si compiono, attraverso algoritmi matematici, sono tantissime nell’unità di tempo. Quindi questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo. Non vanno a ramengo perché poi le banche centrali, che sono controllate dalle stesse banche che dovrebbero andare a ramengo, le riforniscono di liquidità.

MESSORA: Non solo le banche centrali, anche i governi.

GALLONI: Sì, ma sono le banche centrali che autorizzano i mezzi monetari.

MESSORA: Ma i Monti bond? Chi ce li ha messi i soldi?

GALLONI: Sì, però i debiti pubblici sono bruscolini. Nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di decine di trilioni di dollari e di euro.

MESSORA: Sì, questo non lo discuto. Però quello che abbiamo dato di Monti bond, alla fine si sarebbe risparmiata forse l’IMU agli italiani. Per cui sulle singole famiglie questo discorso ha valore.

GALLONI: sì, sicuramente sulle singole famiglie. Certo, avremmo potuto risparmiarci l’IMU invece che darli al Monte dei Paschi. Però è una piccola cosa rispetto ai 3-4 quadrilioni di titoli tossici che oggi sono in giro per il mondo.  Sono tremila, quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi. Quindi stiamo parlando di grandezze stratosferiche. Siccome le perdite si aggirano sul 10%, mediamente, che è quello che ovviamente questi titoli non rendono, avremmo bisogno a regime non di qualche decina di trilioni, come hanno dato oggi le banche centrali alle banche, ma praticamente dai 300 ai 400 trilioni di dollari. Cioè in pratica stiamo parlando di 6 volte il Pil mondiale. Sono cose spaventose.

MESSORA: Quindi come se ne esce adesso?

GALLONI: Se ne esce con un accordo tra gli Stati, Cina, India, Stati Uniti d’America, possibilmente Europa e qualcun altro, che congelano tutta questa massa, la garantiscono, la trasformano invece in mezzi monetari che servano per lo sviluppo. Quindi a quel punto poi il problema diventerebbe la capacità di progettare infrastrutture, voli su Marte, acchiappare gli asteroidi per farne delle miniere, voglio dire, se ci vogliamo allargare. Se ci sono queste capacità progettuali, industriali, produttive, forze disoccupate, eccetera, noi ne usciamo. Diversamente la teoria ci porta a pensare che potrà esserci una grande botta iperinflattiva che cancellerà tutti i debiti.

MESSORA: Traduci per i non capenti.

GALLONI: Allora, dai debiti si esce in vari modi. Primo, perché si hanno dei redditi che consentono di ripagare in qualche modo i debiti, e questa è la via maestra, quindi non ci si dovrebbe mai indebitare per somme che si sa che non si possono ripagare attraverso i nostri redditi; e questa sarebbe la regola numero uno. Quindi il debito non è un male, il debito è un bene se tu hai il reddito (nel caso degli Stati il Pil) sufficiente per poi fronteggiare la situazione. C’è la remissione del debito, che è una possibilità anche parziale che io ho sollevato in una mia ricerca sulle banche italiane anni fa, quando ci fu la crisi del 2007-2008, che tutto sommato agevolerebbe anche le banche e ci metterebbe tutti in condizione di avere fondamentalmente, per 8 anni, un 5% in più di reddito, riducendo del 40% i crediti delle banche; questa è un’altra possibilità. E poi c’è l’inflazione che praticamente, se non ci sono indicizzazioni, si mangia il debito, perché decresce il valore della moneta e conseguentemente decresce l’importanza del debito. Queste sono le strade che si possono aprire a livello operativo nei confronti della gestione del debito.

MESSORA: A livello nazionale? Per esempio andrebbe bene per l’Italia o parli a livello europeo?

GALLONI: A livello nazionale c’è appunto chi parla di varie misure riguardanti il debito pubblico. In realtà la cosa migliore sarebbe riprendere il percorso della crescita e quindi minimizzare l’importanza del debito rispetto alla ricchezza nazionale. Non ci dimentichiamo che le ricchezze pubbliche e private in Italia sono 10 volte il Pil, quindi ovviamente ce n’è, non è che non riusciremmo a ripagare il debito. Però il debito non è che si deve ripagare, come credono alcuni, il debito sta lì. L’importante è ridurre i tassi di interesse e che i tassi di interesse siano più bassi dei tassi di crescita, allora non è un problema. Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico. Diversamente può succedere, come è successo in Grecia, che per 300 miseri miliardi di euro poi se ne perdano a livello europeo 3.000 nelle borse. Allora ci si interroga: ma questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Ma chi comanda effettivamente in questa Europa si rende conto? Oppure vogliono obiettivi di questo tipo per poi raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati per obiettivi poi fondamentalmente, come è stato in Italia con le privatizzazioni, di depredazione, di conquista di guadagni senza lavoro?

MESSORA: Adesso c’è un altro ciclo di privatizzazioni. Sembra che ci stiamo avvicinando a quello.

GALLONI: Il problema delle privatizzazioni è anche quello dei prezzi di vendita. Perché se ovviamente, come è successo negli anni ’90, ci si aggirava intorno ai valori di magazzino, voi capite di che truffa stiamo parlando. È chiaro che se poi i prezzi di vendita fossero troppo alti, nessuno comprerebbe. Bisogna trovare una via di mezzo. Ma in realtà bisognerebbe cercare di ragionare sulle capacità strategiche e sul mantenimento di poli pubblici di eccellenza che servissero per rilanciare la ricerca, il campo dell’acquisizione delle migliori tecnologie per il trattamento dei rifiuti, che per esempio in Italia avrebbe delle prospettive enormi. Non ci dimentichiamo che in Italia siamo depositari di due brevetti fondamentali, uno è dell’Italgas e l’altro dell’Ansaldo, per produrre degli apparati relativamente piccoli che consentono al chiuso, quindi senza emissioni, di trasformare i rifiuti in energia elettrica e in altri sottoprodotti utili per l’agricoltura e per l’edilizia.

MESSORA: E dove stiamo andando in Europa, in questo momento?

GALLONI: Io avevo identificato una spaccatura di impostazione, anche al momento in cui Monti era diventato Presidente del Consiglio dei Ministri, tra le posizioni americane e le posizioni europee. In Europa si diceva “lacrime e sangue. Prima il risanamento dei conti pubblici e poi lo sviluppo”. Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa. In condizioni di ripresa è facile ridurre la spesa pubblica, ma in condizioni recessive ridurre la spesa pubblica significa far aumentare la recessione con conseguenze sulle entrate e sulle uscite.

MESSORA: ma è possibile, secondo te, che questi non lo sanno?

GALLONI: Ma bisogna vedere quali sono i loro obiettivi.

MESSORA: Quali sono?

GALLONI: E che ne so quali sono i loro obiettivi?

MESSORA: Si possono immaginare?

GALLONI: Sono obiettivi anche di asservimento dei popoli, chiaramente. Mentre la posizione americana era una posizione di sviluppo, cercando di non peggiorare i conti pubblici, che già è una versione possibilista. Ma non è la concezione né di Monti né della Merkel né del polo europeo, chiaramente. Quindi al momento le uniche speranze sono quelle di una politica nuova che reintroduca la Glass-Steagall, che riproponga la sovranità monetaria a livello europeo o se no si torni alle valute nazionali o al limite alla doppia circolazione, che sarebbe assolutamente sostenibile.

MESSORA: Valuta nazionale più euro?

GALLONI: Sì. Terza cosa da fare è un gestione diversa dei debiti pubblici, tranquillizzante, perché ci sono tanti altri modi per gestire i debiti pubblici. In parte qualcosa, addirittura, è stato anticipato da Draghi che è intervenuto sul mercato secondario raffreddando gli spread. Quindi praticamente forse Draghi ha fatto una retromarcia rispetto alle decisioni dell’inizio degli anni ’80 dei cosiddetti divorzi tra governi e banche centrali. Poi in Italia dobbiamo assolutamente riposizionare la pubblica amministrazione. Oggi è piazzata in modo di creare un’alleanza tra irregolari e criminali. Questo ci porta a una sconfitta. La pubblica amministrazione si deve piazzare in un altro modo, si deve piazzare tra gli irregolari e i criminali. I criminali li deve trattare come meritano, con gli irregolari, invece, deve avere tutto un altro atteggiamento, cioè deve essere la stessa pubblica amministrazione che deve realizzare gli adempimenti previsti dalle normative e quando c’è scontro, perché spesso c’è scontro tra norma e diritto, tra norma e buonsenso, tra norma ed equità, il funzionario pubblico deve essere messo in condizioni di scegliere il diritto, l’equità e il buonsenso e vedere di tutelarsi rispetto alla arida applicazione della norma. Se non si fa questo non si va da nessuna parte. E poi, quello che è forse più importante e che riassume un po’ tutto, dobbiamo acquisire quelle strepitose tecnologie oggi a disposizione dell’umanità, che rimetteranno in gioco tutti gli equilibri geopolitici a livello internazionale e a livello locale, ma che sono la nostra più grande speranza per l’ambiente e per lo sviluppo, per esempio tutte le tecnologie di trasformazione e di trattamento dei rifiuti solidi urbani. Ci sono, ripeto, delle tecnologie, alcune sono già applicate, ad esempio a Berlino si stanno applicando. Tu vai a conferire i tuoi rifiuti e ti danno dei soldi, poi ricevi energia gratis, non inquini, non ci sono i cassonetti per strada, non ci sono i mezzi comunali o municipali che intralciano il traffico per trasportare l’immondizia, non ci sono cattivi odori, non ci sono emissioni nocive. Questo è fondamentale. L’azzeramento delle emissioni genotossiche e la limitazione di quelle tossiche nell’ambito dei parametri internazionali.

MESSORA: Facciamo un ragionamento sullo scenario geopolitico globale. Spiegaci come si bilanciano gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa con quelli della Cina, se questi Stati Uniti d’Europa convengono oppure no agli Stati Uniti, se c’è una pressione, secondo te, da parte loro e in che modo la Cina può influire in questo processo, se è un influsso positivo o negativo. Lanciamoci in queste speculazioni.

GALLONI: Diciamo che dopo Kennedy gli Stati Uniti sono sempre più risultati preda dei britannici. È lì che c’è un nodo fondamentale da sciogliere. Peraltro gli Stati Uniti hanno drammaticamente cercato, in determinate situazioni regionali, come può essere la più importante il Mediterraneo, dei partner adeguati. L’Italia questa partita non se l’è saputa giocare dopo la caduta del muro di Berlino, per le ragioni che dicevamo all’inizio. La Cina si sta avvicinando agli Stati Uniti d’America sotto certi profili, ma è ancora lontanissima sotto altri profili. Non dobbiamo neanche sopravvalutare certi comparti manifatturieri, che se anche fossero totalmente ceduti alla Cina e all’India – ma c’è anche il Brasile, c’è anche il Sud Africa, ci sono tante altre realtà emergenti nel pianeta – non sarebbe un dramma. Il problema è che noi abbiamo un futuro, ad esempio nei nostri rapporti con la Cina, se capiamo che non dobbiamo andare lì in Cina per fare un business qualunque, ma se capiamo che cedendo anche parti delle nostre produzioni industriali e manifatturiere, otteniamo però una maggiore penetrazione rispetto ai nostri prodotti di qualità, di eccellenza, perché non ci dimentichiamo che stiamo confrontando un mercato di 60 milioni di persone con un mercato che è 20 volte più grande. Quindi è chiaro che se noi rinunciamo a qualche cosa, ma riusciamo anche ad esportare un po’, quel po’ moltiplicato per la domanda che in questo momento sta crescendo, ci dà tutto un altro risultato. Però della Cina parlerei da un altro punto di vista. All’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese è stato deciso un grande cambiamento di rotta, cioè di puntare di più sulla crescita della domanda interna e di meno sulle esportazioni. Questo potrebbe essere l’inizio della fine della cosiddetta globalizzazione. Non ci dimentichiamo che la globalizzazione è il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente, quello che non rispetta la salute. Questa è la causa principale delle crisi che stiamo vivendo: che invece di premiare il produttore migliore, abbiamo premiato il produttore peggiore. Questo ha danneggiato le industrie europee e soprattutto l’industria italiana, chiaramente. E non solo l’industria, anche l’agricoltura.

MESSORA: Perché si demanda la questione della tutela dei diritti oltre il confine, dove non c’è un controllo.

GALLONI: Si deve rimettere in piedi l’economia, nel senso che deve avere tutta la sua importanza l’economia reale. L’economia reale deve avere una finanza che la aiuta. Poi se c’è un’altra finanza che va a fare disastri da qualche altra parte, che non influiscano sull’economia reale, sulla vita dei cittadini. Questo deve essere il primo punto che corrisponde alla reintroduzione della legge Glass-Steagall in pratica. Per questo possono essere utili le doppie e le triple circolazioni monetarie, le monete complementari e addirittura la reintroduzione di monete nazionali, pure in presenza di una moneta internazionale.

MESSORA: Ma per scontrarsi o per far fronte alla Cina è necessario avere gli Stati Uniti d’Europa o basta anche il piccolo guscio di noce italiano, come alcuni dicono?

GALLONI: Io non penso che ci si debba scontrare o frenare la Cina. Bisogna avere delle strategie industriali, e non solo industriali, in grado di difendere i nostri interessi, i nostri valori, i nostri principi, le nostre vocazioni. Dopodiché ci si confronta con i cinesi e si vede quali sono le sinergie che possono essere messe in campo. Si deve fare un discorso di carattere strategico, secondo me.

MESSORA: Ma la politica di Nino Galloni quale sarebbe? Uscire dall’euro e recuperare sovranità monetaria o puntare sul “più Europa”?

GALLONI: A me interessa che ci siano spese in disavanzo, perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione è un crimine puntare al pareggio di bilancio. Ovviamente se gli Stati hanno pareggio di bilancio, è possibile che l’Europa faccia gli investimenti in disavanzo, e allora mi sta benissimo l’euro.

MESSORA: Cosa che non c’è.

GALLONI: Cosa che non c’è, ma è il terzo passaggio che potrebbe essere favorito dalla gestione Draghi. Io non lo escludo. Perché chi immaginava che avrebbero dato mezzi monetari illimitatamente alle banche? Chi immaginava che sarebbero intervenuti per raffreddare gli spread acquistando i titoli pubblici sui mercati? Adesso il terzo e ultimo passaggio è quello di accettare di autorizzare mezzi monetari per la ripresa, per lo sviluppo, per gli investimenti produttivi. L’importante però è che questo non avvenga in una logica di quantitative easing. Cioè la politica monetaria sbagliata può impedire lo sviluppo, ma la politica monetaria giusta non produce lo sviluppo. Cioè la moneta è una condizione necessaria, ma non sufficiente dello sviluppo. Quindi non basta approntare mezzi monetari a gogò e allora si acchiappa lo sviluppo. Questa è una visione di tipo liberista riguardante le emissioni monetarie. In realtà bisogna fare dei progetti di infrastrutture, di ricerca, di ripresa industriale, di salvaguardia della salute e degli interessi dei cittadini e soprattutto dell’ambiente, e sulla base di queste grandi strategie approntare i mezzi monetari che certamente non sarebbero scarsi. Quindi se io dovessi ripetere i miei punti fondamentali, immediati: una legge che ripristini la netta separazione tra i soggetti che fanno speculazioni finanziarie sui mercati internazionali dai soggetti che devono fare credito all’economia. Perché la prima cosa è il credito, la più grande componente della moneta, il 94% della moneta è credito. Poi il discorso della sovranità monetaria, come ho detto prima. O gli Stati o l’Unione Europea devono fare spese in disavanzo per acchiappare la ripresa. Una diversa gestione dei debiti pubblici, che è possibile, un diverso posizionamento della pubblica amministrazione, perché il cittadino deve vedere un amico nello Stato, nella pubblica amministrazione, quindi fermare anche questo progetto di polizia europea senza controlli che potrebbe compiere qualunque azione senza dover rispondere a nessuna autorità.

MESSORA: Eurogendorf con base in Italia a Vicenza.

GALLONI: Quinto: acquisizione di tutte quelle grandi tecnologie che oggi sono a disposizione dell’umanità per migliorare veramente le condizioni di vita di tutti.

MESSORA: L’ultima domanda. Tedeschi cattivi? Amici o buoni?

GALLONI: I tedeschi sono posizionati nella storia e nella geografia in modo di doversi in qualche modo espandere. Se devono assumere una posizione di leader, devono anche accettare di rivedere le proprie politiche estere. Quindi un paese che voglia essere leader, come sono stati gli Stati Uniti d’America, importano più di quello che esportano. Se i tedeschi non accettano di importare più di quello che esportano, non possono neanche pretendere di essere leader.

La mappa dei poteri, ‘ndrangheta, massoneria e mafia dalla “premonizione” Cordova alla commissione antimafia, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 25 dicembre 2017. Nel depositare la relazione della Commissione parlamentare antimafia sui rapporti tra mafia, ‘Ndrangheta, massoneria, la presidente della Commissione ha dichiarato: “Dentro la massoneria 193 soggetti con procedimenti penali per fatti di mafia. L’agire massonico si è pericolosamente atteggiato ad ordinamento separato dello Stato”. E si legge nella relazione: “Cosa Nostra siciliana e la ‘Ndrangheta calabrese da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria”. In effetti I rapporti tra ‘ndrangheta, politica e massoneria non sono un fatto nuovo. Questa triangolazione esistente in Calabria era stata già accertata da Agostino Cordova, allora Procuratore delle Repubblica di Palmi, che sulla base di documenti ed intercettazioni telefoniche ed ambientali aveva tracciato con nomi e dati, la mappa dei tre poteri. Lo stesso, nell’ambito della indagine sulla massoneria italiana deviata aveva ipotizzato l’esistenza di una “super loggia segreta” che portava a Licio Gelli e ad una serie di personaggi legati a logge massoniche coperte. Promosso Cordova a Procuratore di Napoli, l’inchiesta venne archiviata. Alcuni anni dopo il pool antimafia di Reggio Calabria accertò le connessioni tra esponenti della famiglia dei “casati” e la massoneria coperta, connessioni esistenti soprattutto nel reggino. Nel1995 i magistrati di Reggio scrivevano: “(….) Sulle risultanze probatorie emergenti dal capitolo dedicato alla cosiddetta “Cosa Nuova”, l’apparato che attualmente è chiamato a guidare la ‘ndrangheta calabrese, ci si accorge anche che i gruppi mafiosi rappresentati in tale organismo verticistico possono contare, tra le loro fila, su esponenti indicati come facenti parte di logge massoniche dai collaboratori di giustizia”. Della convergenza di interessi tra mafia e massoneria aveva parlato Giacomo Lauro uno dei primi pentiti di ‘ndrangheta. Dichiarò in proposito Lauro nell’ambito dell’inchiesta denominata “Saggezza”: “Sino alla prima guerra di mafia la massoneria e la ’ndrangheta erano vicine, ma la ‘ndrangheta era subalterna alla massoneria che fungeva da tramite con le istituzioni… E’ evidente che in questo modo eravamo costretti a delegare la gestione dei nostri interessi con minori guadagni e con un necessario affidamento con personaggi molto spesso inaffidabili. A questo punto capimmo benissimo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire direttamente ed essere rappresentati nelle istituzioni”. Ed ancora “Il nostro ingresso nella massoneria deviata cambiò i rapporti di forza e noi cominciammo a dialogare direttamente con le istituzioni senza più bisogno di mediatori. Fu così che Paolo De Stefano, Santo Araniti, Antonio, Giuseppe e Francesco Nirta, Antonio Mammoliti entrarono a far parte della massoneria”. La ‘ndrangheta quindi fa un salto di qualità che le consentirà, di instaurare, per le sue attività lecite rapporti, su un piano di parità, con esponenti della classe dirigente della città di Reggio, anche essi aderenti alla logge massoniche. In forza di questi collegamenti la ‘ndrangheta entrava nei più importanti circuiti dell’economia locale, dimostrando al tempo stesso una notevole capacità di adattamento ai processi di modernizzazione. Secondo la DIA, infatti le ‘ndrine usano molto internet per riciclare i proventi delle loro lucrose attività. Ed afferma il generale Carlo Alfiero, ex direttore della Direzione Nazionale Antimafia: “La mafia calabrese ha notevolmente ampliato la sua presenza nel territorio nazionale, creando una rete operativa estremamente efficiente per compartimentazione e segretezza, riproducendo in Italia e all’estero le strutture ordinative presenti da decenni in Calabria”. Questa espansione e capacità di adeguamento della ‘ndrangheta ha determinato una maggiore considerazione della stessa da parte delle altre organizzazioni criminali, ivi compresi i gruppi terroristici che, ritenendola una organizzazione affidabile, hanno stretto solidi rapporti finalizzati alla realizzazione di attività illecite anche al di fuori del territorio nazionale. Un esempio di attività illecite della ‘ndrangheta, nel settore finanziario e bancario è dato da quanto riferito da Nicola Gratteri (attuale Procuratore della Repubblica di Catanzaro e da anni impegnato nel contrasto alla ‘ndrangheta) e Antonio Nicasio nel libro “Fratelli di sangue”. Scrivono infatti gli autori: “Nel marzo del 2000, una complessa indagine condotta con l’ausilio di satelliti ed intercettazioni ambientali ha individuato un business di decine di milioni di euro relativo a falsificazioni di garanzie bancarie, clonazione di titoli e altre truffe a istituti di credito, tra i quali Deutsche Bank di Milano”. Ed ancora un esempio di intreccio tra ‘ndrangheta e corruzione politica è dato dalla vicenda della centrale a carbone di Gioia Tauro. Nel 1967 la zona destinata alla costruzione della centrale a carbone era stata dichiarata “territorio di notevole interesse pubblico per la presenza di tradizionali coltivazioni, di entità tale da creare numerosi quadri naturali di suggestiva bellezza panoramica”. Malgrado ciò, il CIPE nel dicembre del 1981, individuò nella piana di Gioia Tauro la zona in cui realizzare una centrale a carbone, stanziando per la realizzazione dell’opera ben 5625 miliardi. L’Enel peraltro, pur in mancanza delle prescritte autorizzazioni di legge, iniziò ugualmente i lavori. Intervenne la Procura di Palmi che avviò una indagine a carico dell’Enel avendo accertato, attraverso una perizia sismologica, che l’area in cui sarebbe dovuta sorgere la centrale era ad alto rischio sismico, il che sconsigliava la realizzazione dell’opera in quel sito. La Procura avviò anche una indagine nella assegnazione dei subappalti. La questione arrivò in Cassazione che accolse il ricorso dell’Enel bocciando l’indagine. Con decreto dell’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti venne autorizzata la realizzazione della centrale. Nella richiesta di rinvio a giudizio dei responsabili dell’Enel, i magistrati della Procura di Palmi così’ avevano scritto: “La presente indagine ha messo a nudo nuovamente ed emblematicamente il punto di intreccio tra mafia e corruzione politica e, più specificamente, il sistema di governo che da sempre ha gestito l’intervento pubblico al sud e il patto di ferro tra Stato e mafia”. Indagini giudiziarie accertarono che i rapporti tra ‘ndrangheta ed estrema destra e tra ‘ndrangheta e massoneria deviata, ebbero inizio in occasione dei moti di Reggio, come risulta dalle dichiarazioni del Lauro che rivelò ai magistrati di patti stretti tra esponenti di vertice della ‘ndrangheta ed alcuni settori della politica nonché della infiltrazione dei primi nella massoneria. In particolare ha riferito di avere ricevuto l’ordine di mettersi a disposizione di esponenti della eversione nera affermando che l’adesione della ‘ndrangheta reggina ai moti era determinata soltanto dallo scopo di soddisfare propri personali e criminali disegni ed interessi economici. Precisò peraltro che contrario a questa partecipazione della ‘ndrangheta alla rivolta era Domenico Tripodi, temuto boss di Sanbattello così come contrario era Antonio Macrì per la considerazione che, avendo la rivolta attirato sulla Calabria l’attenzione di tutta l’Italia, erano aumentati i controlli di polizia e vi era una minore disponibilità dei politici. Lauro ha parlato anche della disponibilità della ‘ndrangheta ad intervenire nel colpo di Stato che nel 1970 avrebbe dovuto essere attuato in Italia. Ha infatti dichiarato, nel corso del processo svoltosi davanti alla Corte di assise di Palmi: “Si preparava in Italia un colpo di Stato che nel dicembre di quell’anno (1970 ndr) avrebbe dovuto sovvertire l’ordine democratico. Il piano prevedeva l’intervento della ‘ndrangheta e mafia siciliana. I padrini delle consorterie criminali avrebbero dovuto fornire manovalanza per neutralizzare eventuali sacche di resistenza”. Dichiarazioni coincidenti, per quanto riguarda la realizzazione del colpo di Stato, con quelle di Buscetta, di Luciano Leggio e di altri pentiti di mafia. La ‘ndrangheta quindi ha instaurato collegamenti con gruppi eversivi, con servizi segreti, con la massoneria e con la politica; il che le ha consentito di gestire impunemente le proprie attività illecite nel settore economico, finanziario e bancario, garantendosi in tal modo, come scrive Nicola Gratteri, una copertura “realizzata in vario modo (depistaggi, vuoti di indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti dei processi) cui fece seguito una sostanziale impunità della ‘ndrangheta ma anche una sua capacità di rendersi invisibile agli occhi delle istituzioni. Persino l’attività del confidente, un tempo simbolo dell’infamia, venne consentita soprattutto quando serviva a stabilire relazioni o scambi utili con rappresentanti dello Stato o per depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori”. (Nicola Gratteri, La Malapianta: la mia lotta contro la ‘ndrangheta). Non vi è dubbio quindi che in Calabria esiste una forte connessione tra politica, ‘ndrangheta, imprenditoria e massoneria deviata. Lo stesso ex procuratore della Direzione nazionale antimafia, Pier Luigi Vigna, in una intervista rilasciata il 16 febbraio 2006 a “News Settimanale” ebbe a dichiarare: “La ‘ndrangheta ha collegamenti con logge massoniche coperte che non appartengono alla massoneria ufficiale: centri di interessi, di incontri, di agevolazioni”.

Massoneria, mafia e ‘ndrangheta così unite e diverse. L’intuizione del procuratore Cordova, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 26 dicembre 2017. Un contributo notevole alla conoscenza dell’intreccio tra ‘ndrangheta, massoneria e poteri dello Stato è venuto dalla collaborazione di due personaggi di rilievo, il notaio Pietro Marrapodi, democristiano e il sindaco di Reggio Calabria Agatino Licandro, entrambi massoni. Il Marrapodi, dopo avere nel 1992 abbandonato la massoneria, denunciò ai magistrati della Procura di Reggio Calabria le attività illecite della ‘ndrangheta in città accusando anche alcuni magistrati di contiguità con elementi della ‘ndrangheta. Il 28 maggio 1996 venne trovato impiccato nella sua abitazione. Qualche dubbio fu avanzato se si fosse trattato di suicidio considerato anche il fatto che a seguito della sua collaborazione aveva subito minacce tanto che aveva richiesto una scorta. Le indagini non fornirono però elementi in contrasto con l’ipotesi del suicidio. Il Marrapodi era considerato dai magistrati della Procura reggina un collaboratore altamente attendibile tantè che dopo la sua morte, nel dibattimento di primo grado davanti la Corte di Assise, il Sostituto procuratore, Salvatore Boemi ebbe a dichiarare: “Pietro Marrapodi e Giacomo Lauro sono due personaggi che con più chiarezza hanno tracciato la perfida alleanza tra il mondo massonico deviato in questa città e le organizzazioni mafiose. E’ un livello dove mafia, politica economia e istituzioni deviate dello Stato si incontrano per stabilire affari, spartizioni, ridisegnare geografie di potere”. Agatino Licandro venne raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare per abuso di potere con vantaggio patrimoniale e, successivamente, da altra ordinanza in carcere, per concussione inseguito alle dichiarazioni di un imprenditore. Condannato per i reati per cui era stato tratto a giudizio decise di collaborare con la giustizia rivelando il meccanismo di potere che gestiva la città di Reggio. Parlò di un vero e proprio comitato di affari di cui facevano parte rappresentanti delle istituzioni, magistrati della Corte dei Conti, cinque sindaci della città, di cui tre democristiani e due socialisti. Tutti respinsero le accuse. A seguito delle propalazioni del Licandro vennero emessi tre mandati di cattura nei confronti di tre politici di primo piano di Reggio, Franco Quattrone, Pietro Battaglia e Giovanni Palamara e un quarto mandato di cattura nei confronti di Giuseppe Nicolò. A tutti venne contestato di avere fatto parte del vertice politico che aveva deciso l’eliminazione di Ludovico Ligato ex presidente delle Ferrovie. Insieme a loro vennero accusati per l’omicidio, quali esecutori materiali alcuni boss della ‘ndrangheta. L’accusa nei confronti dei politici non resse tuttavia in Cassazione. Va infine osservato come, a differenza di quanto è avvenuto nella mafia siciliana, in cui dopo Buscetta e fino ad oggi si è assistito ad un vero e proprio fiorire di collaboratori di giustizia, nella ‘ndrangheta si è avuto un numero esiguo di pentiti. La ragione del numero ridotto di collaboratori si spiega con il fatto che mentre Cosa Nostra uccide i parenti dei pentiti e talvolta gli stessi pentiti, la ‘ndrangheta adotta una strategia più sottile consistente nel ricontattare i pentiti, uno per uno, cercando di riconquistarli. Rocco Lombardo, Procuratore della Repubblica di Lodi, infatti, nella relazione antimafia del2008 ha formulato il convincimento che la ‘ndrangheta dispone di mezzi economici di gran lunga superiori a quelli dello Stato per pagare i pentiti e può in questo modo agire per far ritrattare quanto dichiarato o per impedire le confessioni”. E’ nel contesto sopra delineato che si inserisce la vicenda giudiziaria di Antonio Caridi al quale viene contestato dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria di essere un dirigente ed organizzatore della componente riservata della ‘ndrangheta, nella cui veste, in tutte le consultazioni elettorali dal 1997 sino alle elezioni regionali del 2010, avrebbe goduto dell’appoggio elettorale del clan De Stefano e dei clan Crucitti ed Audino di Reggio Calabria nonché del medico Giuseppe Pansera, genero del boss Giuseppe Morabito di Africo, uno fra i capi assoluti di tutta la ‘ndrangheta. Nell’ordinanza del GIP Caridi viene poi accusato di avere interferito sull’esercizio delle funzioni di organi di rango costituzionale di cui è, oppure è stato, componente e le cui funzioni avrebbe contribuito a piegare verso interessi di parte in grado di provocare vantaggi ed utilità personali, professionali e patrimoniali. A tal proposito il Gip fa riferimento all’assunzione di Savio Leandro Vittorio, dirigente di settore dell’afor – Forestazione di Reggio Calabria nonché di Giuseppe Richichi, direttore operativo di Multiservizi Spa ritenuto ” affiliato di rilievo alla cosca Tegano di Archi di Reggio Calabria”, di Bruno De Caria, direttore operativo di” Leonia spa”, affiliato di rilievo della cosca Fontana di Archi di Reggio Calabria, di Logotea Demetrio, presidente del Consiglio di amministrazione della società Fata Morgana Spa, espressione politica di Giuseppe Scopelliti, di Aiello Salvatore, direttore operativo di Fata Morgana Spa, poi divenuto collaboratore di giustizia. Tutti i suddetti personaggi, secondo l’accusa sarebbero stati favoriti dal Caridi nei periodi in cui aveva ricoperto l’incarico di assessore all’Ambiente del comune di Reggio Calabria (dal 2002 al 2007 e dal 2007 al 2010). Lungo è l’elenco delle assunzioni “favorite” da Caridi elencate nell’ordinanza del GIP e tutte interessanti le società partecipate e soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta o a questa organizzazione criminale vicini. Il Caridi poi, sempre secondo quanto riportato nell’ordinanza del GIP, avrebbe imposto all’Azienda ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli l’assunzione della signora Concetta Santoro, moglie di Nicolazzo Bruno appartenente alla cosca Tegano. Viene ancora contestato a Caridi di avere imposto ai dirigenti delle FF.SS, l’aumento del volume di lavoro della ditta Ferroser per consentire alla cosca Tegano di accrescere l’importo della somma di denaro imposta mensilmente a titolo di tangente. Nel periodo poi in cui ricopriva la carica di Assessore regionale alle attività produttive, Caridi avrebbe canalizzato sul clan Pelle di San Luca i contributi per il settore agricolo di sua competenza previa, scrive il GIP, “predisposizione di procedure pilotate e caratterizzate da false attestazioni”. La vicenda giudiziaria del senatore Caridi costituirebbe una conferma di quanto giudiziariamente accertato in passato cioè di come oggi la ‘ndrangheta abbia raggiunto un notevole livello organizzativo con esponenti delle cosche che hanno acquisito la possibilità di muoversi liberamente tra apparati dello Stato, politica, servizi segreti, massoneria e gruppi eversivi ed altresì una conferma di come fosse fondata l’intuizione del Procuratore Cordova che aveva ipotizzato l’esistenza di una super loggia segreta e ciò ove si consideri che Caridi è accusato di essere un dirigente e un organizzatore di una componente riservata della ‘ndrangheta.

La verità su Capaci e via D’Amelio, l’ombra del Gruppo Bilderberg, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 15 ottobre 2017. Sono state depositate dai giudici della Corte di assise di Caltanissetta le motivazioni della sentenza del processo Capaci bis a conclusione del quale sono stati condannati all’ergastolo quattro boss mafiosi e cioè Salvino Madonia, Lorenzo Tinnirello, Giorgio Pizzo e Cosimo lo Nigro. Nella parte che concerne i moventi che diedero luogo alla strage, i giudici di Caltanissetta non escludono che ambienti esterni a Cosa Nostra abbiano potuto condividere il progetto della strage. Scrivono infatti i magistrati: “In questo processo, è emerso un quadro sia pure non ancora compiutamente delineato, che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui ambienti esterni a Cosa nostra si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti ed incoraggiandone le azioni, come ha sostenuto la procura». Questa convinzione sembra trarre spunto dalle propalazioni di due importanti collaboratori di giustizia Antonio Giuffrè e Gaspare Spatuzza, entrambi ritenuti attendibili da tutte le Corti che si sono occupate di processi di mafia conclusisi con pesanti condanne di esponenti mafiosi. Giuffrè ha infatti riferito che prima della realizzazione della strage, Bernardo Provenzano aveva interpellato ambienti esterni a Cosa Nostra, ambienti della imprenditoria, della politica e della massoneria. E a proposito dell’annullamento del progetto di uccidere Falcone a Roma per ucciderlo poi nell’attentato di Capaci, scrivono ancora i giudici: “Sembra difficile sostenere – scrivono nella sentenza – che il mutamento di programma rispondesse semplicemente a ragioni logistiche. Una simile ipotesi si pone in irrimediabile contrasto con la particolare complessità che contrassegnava l’organizzazione dell’attentato di Capaci. Appare, invece, molto più plausibile che la decisione di Salvatore Riina costituisse una coerente attuazione di quella finalità che Antonino Giuffrè ha sintetizzato con la frase del Capo di Cosa Nostra. “Facciamo la guerra che poi viene la pace” Una strategia, questa, che fallì per effetto della forte reazione dello Stato, ma che, con ogni probabilità, fu alla base della scelta di Salvatore Riina di procedere prima all’eliminazione dell’onorevole Lima e poi alla realizzazione di un attentato che costituiva un vero e proprio atto di guerra contro lo Stato, come la strage di Capaci». Se si vogliono comprendere le ragioni della uccisione di Giovanni Falcone, avvenuta con la strage di Capaci, occorre partire da un dato di fatto già evidenziato nella sentenza. Falcone, che al momento della sua uccisione ricopriva l’incarico di direttore degli Affari penali, presso il Ministero della giustizia, poteva benissimo e facilmente essere eliminato a Roma dove, tra l’altro, era solito spesso muoversi senza scorta. Era stato controllato per mesi da un gruppo di fuoco guidato da Matteo Messina Denaro e quindi costituiva un facile obiettivo. Ma era improvvisamente pervenuto un ordine che aveva sospeso “la missione” romana per cui Falcone non doveva più essere ucciso a Roma ma a Palermo e in modo eclatante. Il pentito Fabio Tranchina infatti, ha riferito che il “gruppo di fuoco” che doveva eliminare Falcone, era partito dalla Sicilia con un corteo di auto guidato dal boss Matteo Messina Denaro, allora non ancora latitante. “Ma all’improvviso, - ha raccontato Tranchina -. Giunse l’ordine di tornare indietro. Bisognava uccidere Falcone a Palermo in modo eclatante. Questa decisione non può essere certo stata determinata, come sostenuto, dalla difficoltà di realizzare l’attentato a Roma dato che la realizzazione dell’attentato a Capaci si presentava (come d’altra parte sostenuto in sentenza) molto più difficoltoso e complesso. L’utilizzo dell’esplosivo per realizzare un attentato di tipo stragistico creando terrore fu dettato non soltanto dalla finalità di fare maggiore pressione perché andasse in porto la “trattativa” che secondo quanto ipotizzato dai magistrati di Palermo e Caltanissetta, era già stata avviata, ma anche dalla finalità di destabilizzare il Paese per individuare nuovi referenti per l’organizzazione mafiosa  dopo che erano venuti i meno i collegamenti con il mondo politico a seguito della disastrosa conclusione, per Cosa Nostra, del maxiprocesso. La domanda che bisogna porsi è tuttavia la seguente: è possibile che Cosa Nostra autonomamente abbia concepito questi attentati di tipo stragista, soprattutto considerato che gli attentati di tipo stragista e terroristico non rientrano normalmente negli obiettivi di questa organizzazione criminale? Io credo che in questo attentato, così come nell’attentato fallito all’Addaura in cui dovevano essere uccisi Falcone e i due magistrati svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, che si erano incontrati con lui nell’ambito di indagini su un riciclaggio di denaro sporco legato all’inchiesta  “pizza connection” , attentati entrambi realizzati con l’impiego  di esplosivo di tipo militare, certamente non reperibile in commercio, siano da intravedere quegli elementi che, come sostenuto nella citata sentenza, sembrano condurre ad elementi esterni a Cosa Nostra in una situazione di convergenza di interessi con tale organizzazione, di cui avrebbero condiviso i progetti ed incoraggiato le azioni. Senza volere formulare tesi complottiste o di fantapolitica, io credo che nelle stragi, sulla base di alcune considerazioni e di alcuni elementi di fatto, possa intravedersi quello che viene indicato come governo mondiale invisibile. L’ex magistrato Ferdinando Imposimato (che si è occupato come giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo tra cui il rapimento di Aldo Moro) sostiene, nel suo libro “Repubblica. Stragi impunite”, che nelle stragi vi sarebbero state complicità dello Stato o di frammenti dello Stato, con la mafia, con la massoneria e con il terrorismo nero, organizzazioni poi fuse nella organizzazione Gladio, cioè in quella organizzazione internazionale che era manovrata dalla CIA. Tale organizzazione, che secondo Imposimato esisterebbe ancora, serviva ad impedire la dinamica politica nel senso di spostare gli equilibri da destra verso il centro sinistra per rafforzare il potere, destabilizzare l’ordine pubblico e quindi stabilizzare il potere politico. Sostiene poi che dietro le stragi vi sarebbe il gruppo Bilderberg che “comanda il mondo e le democrazie invisibili in modo da condizionare lo sviluppo democratico dei Paesi. Lo stesso sarebbe “uno dei responsabili della strategia delle tensione e quindi anche delle stragi” che “vuole gestire la dinamica democratica dei Paesi occidentali tra cui l’Italia ed anche la dinamica economica”. Ciò, in effetti risulta da un documento, allegato alla requisitoria di Emilio Alessandrini, pubblico ministero della strage di Piazza Fontana, ucciso da prima Linea nel 1979. Si tratta di un documento riservato, il rapporto RSD/Zeta n.230 del 5 giugno 1967 che descrive l’esistenza di un governo mondiale invisibile e da cui emergono le connessioni tra terrorismo e gruppo Bilderberg. In questo documento si dice che i tre pilastri del governo mondiale sono il gruppo Bilderberg, la CIA e l’ADA (Association for democraticaction) che all’epoca era diretta da Arthur Schlesinger, braccio destro e consigliere di John Fitzgerald Kennedy. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, si legge in tale documento, che bisogna influire sulla dinamica del governo italiano sia intervenendo nella formazione del governo sia nella scelta dei segretari dei partiti di governo, strategia da attuare anche mediante atti di terrorismo. Questi documenti, che provengono dal sequestro disposto dai magistrati che indagavano sulla strage di Piazza Fontana, erano conservati in una cassetta di sicurezza nella disponibilità di Giovanni Ventura. Da una indagine condotto dalla Commissione parlamentare risulta che Gladio, uno dei pilastri del governo mondiale, altri non è che la CIA che esercita il controllo sui nostri servizi segreti. Pertanto, dice Imposimato nel suo libro e in alcune interviste che “quando parliamo di servizi segreti presenti nella strage di via D’Amelio dobbiamo pensare che ci sono i servizi segreti italiani ma sono a loro volta governati dalla CIA. Ma cosa è il gruppo Bilderberg? Si tratta di un gruppo ristretto che dal 1954 si riunisce una sola volta all’anno per decidere in segreto le sorti dell’umanità. Le riunioni, alle quali nessun giornalista può avere accesso, fino a poco tempo fa avevano luogo presso l’Hotel Bilderberg, in una piccola cittadina olandese. Dalla privacy armata che la protegge, la classe dirigente globale detta legge sulla politica, economia e questioni militari. Questo gruppo afferma che lo scopo di questi incontri è quello di favorire il confronto libero tra personalità influenti del mondo occidentale atlantico. La scrittrice e politica statunitense Phillys Stewart Schlafly, nel suo libro “A Choisenot an Echo”, trattando del gruppo Bidelberg, sostiene che “dal 1936 fino al 1960, i candidati presidenziali repubblicani sono stati selezionati da un piccolo gruppo di Kingmaker che sono i più potenti creatori di opinioni”. La Schlafly, nel suo libro afferma anche, per averlo appreso da un anonimo osservatore, che nella riunione tenutasi nel 1957 nella St. Simon’s Island, non erano presenti i capi di Stato ma coloro che “danno ordini” ai capi di Stato. Un articolo pubblicato sul giornale della JBS ipotizzava poi un legame tra i Bildberghers e l’assassinio di Kennedy. L’American opinion inoltre, segnalava la strana coincidenza che pochi giorni dopo l’incontro avvenuto tra Kruscev e John Mc Cloy, direttore della Chase Manhattan,” profondamente coinvolto” nel Bilderberg, Lee Harvey Oswald, sospettato dell’assassinio di Jhon kennedy, abbia contattato l’ambasciata americana a Mosca per poter tornare negli Stati Uniti. E sempre a proposito del potere del gruppo Bilderberg, Gary Allen, autore del libro “None dare to call itconspiracy”, pubblicato nel 1991, dopo avere detto che il Bilderberg è “un gruppo di sinistra” dal quale nascerebbero importanti scelte di politica estera per gli Stati Uniti, scrive : “Poco dopo l’incontro ( del Bilderberg), di Woodstok( aprile 1971) due eventi sinistri e di cambiamento di ruoli sono avvenuti : Henry Kissinger è andato a Pechino ad accordarsi per l’accettazione della Cina Rossa come membro della famiglia delle nazioni in commercio tra loro, e una crisi monetaria internazionale si è sviluppata, dopo la quale il dollaro è stato svalutato” Non mancano poi coloro che ritengono che il Bilderberg abbia avuto un ruolo nella creazione dell’euro e che, come risulterebbe da numerose prove, le riunioni avrebbero avuto come finalità quella di imporre “il superstato” dell’Unione Europea” ai cittadini europei nonostante la loro contrarietà. A ulteriore riprova della influenza del gruppo Bilderberg sulla economia mondiale il giornalista americano Westbrook Pegler parla di una riunione segreta tenuta a JekillIslands da un gruppo di banchieri statunitensi dalla quale era nata la proposta di costituzione della Federal Reserve, la banca centrale americana. Ma chi sono i componenti del gruppo Bilderberg? Si tratta in molti casi di capi di governo occidentali o banchieri centrali, che prima di assumere tali incarichi, hanno fatto parte del Comitato direttivo o hanno partecipato a un incontro del Gruppo Bilderberg o della Commissione trilaterale (Quest’ultima è un’associazione privata, fondata nel 1973 da un gruppo di cittadini Nord Americani, Europei e Giapponesi con la finalità di offrire ai soci un forum permanente di dibattito per approfondire i grandi temi comuni alle tre aree interessate). Domenico Moro, autore di diversi volumi di carattere economico, politico e militare, nel suo libro “Il Gruppo Bilderberg : “L’elite del potere mondiale”, cita tra costoro” Clinton, Blair, Merkel, Cameron, Mario Monti ed Enrico Letta, ed aggiunge : “Tali strane coincidenze, insieme alla presenza di personalità del gotha economico-politico come Kissinger e Rockfeller e alla segretezza con cui il Bilderberg circonda i suoi incontri, hanno offerto terreno fertile a un’ampia letteratura complottista. (…) Bilderberg e Trilaterale sono oggi organizzazioni dell’elite transnazionale, che comprende e riunisce i vertici delle multinazionali, delle grandi banche e del mondo politico e accademico all’interno dei quali c’è una consistente pattuglia di italiani. Ed osserva sempre Moro: “E’ evidente che l’esistenza di queste organizzazioni pone una questione di non poco conto, ovvero il controllo democratico sui processi decisionali e l’influenza di ristrettissimi gruppi privati sulle decisioni pubbliche”. Fatte queste premesse ritorniamo al quesito iniziale: perché Falcone e Borsellino vennero uccisi? Io credo che uno dei motivi, che non ne esclude altri, quello che può definirsi il motivo scatenante, va ricercato nelle indagini che Falcone aveva avviato e intendeva portare avanti su Gladio, come si è visto uno dei tre pilastri del governo mondiale e che altro non era se non la CIA, indagini che aveva avviato fin dall’agosto del 1990, allorquando rivestiva le funzioni di Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo e che venivano osteggiate dall’allora Procuratore capo. Ciò risulta in maniera evidente dal diario di Falcone, da lui consegnato alla giornalista Liana Milella e pubblicato sul Sole 24 ore”. Scrive infatti Falcone in proposito: “Dopo che, ieri pomeriggio, si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato (al capo della Procura n.d.r.) che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibile col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo”. Il giorno dopo, il 19 dicembre: “Non ha più telefonato a Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma ndr) e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio”. Falcone, che aveva intuito la possibilità che Gladio fosse coinvolta negli omicidi eccellenti verificatisi a Palermo, Reina, Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, era consapevole del rischio che tale indagine comportava tanto da avere detto al pubblico ministero di Trapani che indagava sull’omicidio di Mauro Rostagno, che entrambi stavano indagando su fatti che erano pericolosi per la loro vita. Nell’ambito del processo Rostagno era emerso infatti, che da Trapani, Gladio portava le armi in Libia. Arconte, un ex agente di Gladio riferì che molte volte era stato a Trapani e tutte le operazioni in Africa erano coordinate dalla locale sezione “Skorpio”. L’Arconte testimoniò che arrivava al porto e veniva accompagnato in una base di appoggio che si trovava in una collinetta. Aveva saputo poi che la persona che andava a prenderlo e che gestiva la base di Trapani era Vincenzo Li Muli, un militare italiano, sottufficiale dei servizi segreti italiani, ucciso in Somalia il 12 novembre 1993 durante la missione Ibis, il giorno prima di testimoniare davanti ai giudici su Gladio, l’operazione Stay Behind e il traffico di armi e scorie nucleari in Somalia. L’anno successivo alla morte emerse che Li Muli sarebbe stato un informatore di Ilaria Alpi, sui traffici di armi e scorie. Evidenti pertanto erano i rischi che una indagine su Gladio avrebbe comportato e di ciò era ben consapevole Falcone. Delle indagini su Gladio Falcone certamente parlò con Paolo Borsellino e questi fece l’imprudenza di dichiarare pubblicamente il 25 giugno del 1992 che il diario, pubblicato due giorni prima da Liana Milella sul Sole 24 ore era un diario autentico al cento per cento così avvalorando e rendendo noto il fatto che Falcone indagava su Gladio che riteneva implicata negli omicidi di cui si è detto. E’ anche probabile che Borsellino, nella famosa agenda rossa, misteriosamente scomparsa dal luogo della strage, avesse annotato quanto appreso da Falcone su Gladio e sul coinvolgimento di questa organizzazione nei delitti Reina, Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa ed altri delitti eccellenti. Borsellino inoltre aveva dichiarato pubblicamente che era sua intenzione recarsi dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta per riferire quanto a sua conoscenza sui moventi della strage di Capaci. Questa notizia unitamente a quella delle indagini che Falcone intendeva condurre su Gladio, ben può avere determinato questa organizzazione alla realizzazione della strage di via D’Amelio. Borsellino non sarà mai convocato dalla Procura di Caltanissetta. A riprova della delicatezza delle indagini che Falcone aveva avviato su Gladio non può non ricordarsi che a tutt’oggi non sono stati identificati coloro che dopo la strage di Capaci ispezionarono i file del computer di Falcone riguardanti Gladio e i delitti politico mafiosi e il cui scopo era quello di ricercare documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. Va detto per completezza che secondo quanto dichiarato dal figlio di Vito Ciancimino, Massimo, il padre sarebbe stato un appartenente a Gladio e avrebbe fatto da tramite tra chi dava l’ordine e Totò Riina. Va tuttavia anche detto che circa l’appartenenza di Vito Ciancimino a Gladio si dimostrò scettico, pur non escludendo tale possibilità, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga il quale all’AdnKronos ebbe a dichiarare: “Mai sentito dire prima e guardi che io, modestamente, la storia di Gladio un po’ la conosco. Comunque che io non sapessi, non vuol dire nulla. Ne’ mi pare che il suo nome sia negli elenchi pubblici…ma anche questo dice poco. Nessuno me ne ha mai parlato, neanche in seguito, però era una struttura altamente compartimentata e quindi è possibile che certi segreti fossero davvero segreti. Di sicuro il nome di Ciancimino non è citato neanche nei libri che recentemente hanno raccontato di Gladio. Boh. “Non capisco – aggiunge Cossiga – che cosa avrebbe dovuto fare un gladiatore in Sicilia. Prima che le armate sovietiche fossero arrivate fino a Palermo, sarebbero intervenuti americani e inglesi. Qualcuno dimentica che razza di presidi fossero le loro basi nel Mediterraneo, un tempo”.

Capaci e Via D’Amelio, la mafia eseguì ordini esterni. Ecco le prove, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 17 ottobre 2017. Sembrerebbe aprire scenari che per la strage di Capaci ricondurrebbero non soltanto alla mafia ma anche ad entità esterne quanto dichiarato da Francesco di Carlo, legato ai Servizi, pentito dal 1996 e che per trent’anni ha fatto da ponte tra Stato e mafia. Questi ha riferito ai magistrati che mentre si trovava detenuto in Inghilterra erano venuti a trovarlo più volte, dopo l’attentato all’Addaura, agenti dei servizi segreti che parlavano in inglese insieme ad altri agenti che parlavano italiano e tra questi Arnaldo La Barbera già dirigente della Squadra mobile di Palermo, colui che gestì le indagini per le stragi di Capaci e via D’Amelio e che convinse a collaborare il falso pentito Vincenzo Scarantino, condannato per la strage di via D’amelio e le cui dichiarazioni autoaccusatorie sono state clamorosamente smentite 17 anni dopo dal collaboratore Gaspare Spatuzza, nel processo Borsellino quater. Ebbene il Di Carlo ha riferito che i suddetti personaggi lo avevano contattato per avere indicazioni su un esperto in esplosivi, che lui aveva indicato nella persona di Antonino Gioè (suicidatosi in carcere) che a sua volta gli aveva indicato Pietro Rampulla. Particolare non privo di importanza: Pietro Rampulla, condannato per la strage di Capaci nella quale ebbe il ruolo di artificiere, in passato è stato militante di Ordine Nuovo, legato alla destra eversiva, e a Rosario Cattafi, l’avvocato di Barcellona, anche lui esponente in passato di Ordine Nuovo ed oggi testimone nel processo trattativa Stato- Mafia. Ha in particolare dichiarato Di Carlo: “Quando ero agli arresti in Inghilterra, prima dell’attentato all’Addaura, in carcere mi vennero a trovare tre persone. Uno di questi si presentò come Giovanni e mi disse che mi portava i saluti di Mario (un altro soggetto appartenente ai servizi segreti). Mi hanno chiesto un contatto con i corleonesi di Totò Riina. Mi dissero ‘Ci devi fare avere un contatto a Palermo con i corleonesi. A noi ci interessa il ramo politico di certe situazioni’. Volevano mandare via Falcone da Palermo perché stava facendo la Dia e la Procura nazionale. Mi raccontavano che i politici erano preoccupati, che ne dicevano di tutti i colori perché Falcone voleva indagare su tutto e mettere tutti sotto processo. Loro volevano soltanto mandarlo fuori e per fare qualcosa in Sicilia volevano avere le spalle coperte”. Il collaboratore proseguiva dicendo che aveva messo i suoi interlocutori in contatto con Ignazio Salvo, l’esattore di Salemi condannato per associazione mafiosa ed ucciso a Palermo nel 1992, ricevendo conferma dell’avvenuto incontro. In una intervista rilasciata il 2 ottobre 2015 al “Fatto Quotidiano” parlando di La Babera, Di Carlo afferma: “…Ho accusato Arnaldo la Barbera che non era il solito agente segreto, ma un superpoliziotto in carriera messo dal capo della polizia Vincenzo Parisi alla guida del pool che indagava sulle stragi. Cosa che non ho mai capito. La Barbera stava li per spiarlo, (il pool, n.d.r.), lo considero il più grande depistatore di tutti i tempi. Era nel Sisde fino all “88” ma nell’ “89” è venuto a trovarmi in Inghilterra insieme a Giovannino del Sismi, si era portato a Palermo la squadretta che aveva a Venezia, ha arrestato Scarantino che non sapeva neppure il proprio nome. Ma a Caltanissetta dicono: “Si il depistaggio è tutta colpa di La Barbera, lui è morto chiudiamola qui. Incredibile”. Queste rivelazioni mi inducono a porre i seguenti interrogativi: Ma per ordine o imput di chi agiva La Barbera? E il depistaggio quali responsabilità nella strage mirava a coprire?” Alla domanda poi dell’intervistatore sul perché fossero stati uccisi Falcone e Borsellino così rispondeva Francesco di Carlo: “La mafia da sola non avrebbe avuto il coraggio di uccidere Falcone e Borsellino. Ma i due giudici non colpivano soltanto la mafia. Per scoprire i flussi di denaro sporco hanno introdotto il segreto bancario perfino in Svizzera: bisognava fermarli e lo hanno fatto. Anche dentro Cosa Nostra ci sono uomini di potere in grado di dialogare con il mondo esterno.” Sempre in tale intervista Di Carlo parla di una riunione che molti anni dopo il 1980 sarebbe avvenuta. in una villa del Circeo e dove erano presenti mafiosi ed uomini di Stato per decidere i destini d’Italia. Afferma in proposito: “La riunione si tenne nella villa di Umberto Ortolani a San felice Circeo, lui era già fuggito in Brasile, la P2 non era stata ancora scoperta, ma c’era aria di tempesta. Era inverno, febbraio forse: Piersanti Mattarella era stato ucciso da poco, dio sa se mi sono battuto per salvarlo. Ricordo che accompagnai da Roma un paio di persone, salimmo lungo un sentiero di montagna, ma dal promontorio si vedeva il mare”. Alla domanda poi del giornalista che gli chiedeva se a questa riunione fosse presente Andreotti rispondeva: “Non c’era, però c’erano Nino Salvo, l’avvocato Vito Guarrasi, il capo del Sismi Giuseppe Santovito e un politico, forse un ministro, di cui non ricordo il nome. Di sicuro non si parlò di stragi, semmai di colpo di Stato (parola mai usata però). C’erano gli scandali giudiziari, la sinistra comandava troppo, bisognava intervenire e c’era bisogno di Cosa Nostra che stava li a difendere i suoi interessi. Tutto doveva ancora succedere, la P2 non era stata ancora scoperta e i generali erano tutti al loro posto”. Da quanto dichiarato da Francesco Di Carlo, collaboratore ritenuto dai magistrati altamente attendibile, emerge con tutta evidenza quella convergenza di interessi tra mafia, politica, finanza, servizi segreti che potrebbe avere determinato le stragi fino a quelle di Capaci e via D’Amelio, convergenza finalizzata alla realizzazione e al mantenimento degli interessi propri di ciascuna delle suddette componenti non esitandosi a ricorrere ad azioni delittuose oggi qualvolta tali interessi venissero posti in pericolo. Alla luce di quanto fin qui detto può sostenersi che la mafia soltanto in parte debba ritenersi responsabile delle stragi di Capaci e via D’Amelio, convinzione che troverebbe riscontro in quanto affermato da Tommaso Buscetta nel corso di un colloquio casuale intervenuto tra lo stesso e il giudice Ferdinando Imposimato. Riferisce infatti quest’ultimo in una intervista rilasciata ad una emittente televisiva: “Io stavo andando nell’America latina per incarico delle Nazioni Unite per degli addestrarmenti di giudici boliviani colombiani ed ecuadoregni. Sull’aereo mi sono trovato per caso accanto a Tommaso Buscetta. Siamo stati 12 ore insieme e Buscetta mi ha fatto una serie di rivelazioni ma con molta capacità logica. Mi diceva: scusi parliamo dell’omicidio di Dalla Chiesa, mi ricordo benissimo. Noi mafiosi che interesse avevamo a colpire un generale che non ci aveva fatto proprio niente? Ma scusi lei che cosa vuole dire? Che è stata la mafia ma non per volontà della mafia ma per ordini che venivano dall’esterno? Cioè lui mi ha fatto tutta una serie di casi di delitti di mafia che la mafia aveva interesse a non eseguire comprese le stragi di Capaci e via D’Amelio perché avrebbero portato dei danni alla propria esistenza perché poi da lì è cominciata la fuga da Cosa Nostra. Non c’entra la legge sui pentiti. Il fenomeno del pentitismo si è verificato prima della legge sui pentiti. Loro stavano facendo una cosa che non serviva a Cosa nostra ma serviva ad altre entità.” Anche per ciò che riguarda gli attentati del “93” Buscetta sosteneva che anche questi erano delitti che Cosa Nostra non voleva commettere. Cosa Nostra non sapeva nemmeno che esistevano la galleria degli Uffizi e gli altri monumenti storici. Anche da queste affermazioni di Buscetta, riportate da Imposimato, si intuisce l’esistenza di entità esterne dalle quali sarebbe partito l’imput alla realizzazione delle stragi. Falcone aveva capito tutto ciò come può dedursi dal fatto che dopo il fallito attentato dell’Addaura parlò di “menti raffinatissime” che non potevano certo essere quelle di esponenti di Cosa Nostra e che, dopo l’attentato, tentarono di far apparire quello dell’Addaura un falso attentato organizzato dallo stesso Falcone. D’altra parte, l’allora vicedirettore della Direzione investigativa antimafia, in un appunto riservato del 27 luglio 1992, otto giorni dopo l’eccidio di via D’Amelio, scriveva che dalla strage emergeva “un contesto delinquenziale in cui da un lato trova conferma l’attualità di una strategia destabilizzante nei confronti delle istituzioni e, dall’altro, si intravedono elementi tali da far sospettare che il progetto eversivo non sia di esclusiva gestione dei vertici di Cosa Nostra, ma che allo stesso possano aver contribuito e partecipato altri esponenti del potere criminale, sia a livello nazionale che internazionale” Come dire : le stragi non furono solo un fatto di mafia ma videro coinvolte altre entità a livello nazionale ed internazionale. E sempre De Gennaro esprimeva tale convinzione allorquando, parlando dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia dell’omicidio di Paolo Borsellino affermava che tale omicidio presentava “una chiara anomalia del tradizionale comportamento mafioso, aduso a calibrare le proprie azioni delittuose si da raggiungere il massimo risultato con il minimo danno”. Ciò significa, considerati i notevoli danni che derivarono per Cosa Nostra dalla strage di via D’Amelio (l’immediata applicazione del decreto legge, emanato dopo la strage di Capaci, che prevedeva il carcere duro per i mafiosi) che non Cosa Nostra ma altri rimasti nell’ombra, decisero la realizzazione del nuovo eclatante delitto a così poca distanza di tempo da Capaci. E d’altra parte le indagini hanno accertato che le stragi non possono essere addebitate al solo Riina se è vero che, prima della loro attuazione, questi consultò ed incontrò persone esterne a Cosa Nostra tra cui massoni, neofascisti, esponenti dei servizi segreti. Bisogna evitare tuttavia un equivoco che si verifica quando si parla di mandanti esterni a Cosa Nostra. E’noto che l’organizzazione mafiosa non è adusa a prendere ordini da altri ma agisce quando si verifica una convergenza di interessi alla realizzazione di un delitto, tra la stessa organizzazione e entità esterne ad essa quali possono essere soggetti politici, massoneria, servizi deviati, ambienti imprenditoriali. Questo concetto è stato affermato anche dal collaboratore Antonino Giuffrè il quale appunto ha parlato di “interessi convergenti” alla eliminazione di Falcone provenienti dai suddetti ambienti esterni. Si pensi alla presenza sul luogo delle stragi di soggetti appartenenti ai Servizi deviati. E che la strategia stragista del 1992-93 sia stata caratterizzata da una convergenza di interessi tra mafia ed altre forze criminali trova conferma in una informativa del 1993 della Direzione investigativa antimafia nella quale si legge che dietro le stragi si muoveva una “«aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali». In termini più semplici la informativa del 1993 della DIA vuol dire che accanto ai boss di Cosa Nostra, cioè personaggi come Totò Riina, Messina Denaro, i Graviano che perseguivano gli interessi propri dell’organizzazione mafiosa, vi erano altri elementi che si servirono della mafia per destabilizzare, con le stragi di Capaci, via D’amelio e quelle del “93” l’assetto politico. Alcuni collaboratori di giustizia hanno parlato di un summit di mafia che verso la fine del 1991 ebbe luogo in un casolare delle campagne di Enna e al quale parteciparono tutti i capi mafia della Sicilia convocati da Totò Riina. Nel corso di questa riunione fu fatto credere agli intervenuti che occorreva effettuare le stragi al fine di costringere lo Stato a venire a patti per ottenere l’impunità e benefici penitenziari. Totò Riina disse che bisognava prima fare la guerra per poi fare la pace. In realtà in quella riunione si celava un progetto politico che stava dietro alle stragi e che era a conoscenza soltanto di Totò Riina e di alcuni vertici di Cosa nostra ma che rimase nascosto ad altri capi ed esponenti mafiosi di minore rilievo; il che è significativo di contatti ed incontri che Riina aveva intrattenuto con entità esterne a Cosa nostra, interessate alla realizzazione di quel progetto e che solo lui e pochi altri come i fratelli Graviano, Santapaola , Madonia ed altri capi detenuti conoscevano. Il capomafia Giovanni Ilardo, legato ai servizi segreti e alla destra eversiva che aveva iniziato a collaborare e che era intenzionato a rivelare ai magistrati il coinvolgimento di apparati deviati dello Stato in stragi ed omicidi eseguiti dalla mafia, venne assassinato prima che potesse mettere a verbale le sue propalazioni. E alla presenza di elementi esterni a Cosa nostra riportano le dichiarazioni del collaboratore Gaspare Spatuzza, che ha confessato la sua partecipazione alla strage di via D’Amelio, e che ha riferito di un personaggio, non appartenente a Cosa Nostra, che assistette al collocamento dell’esplosivo all’interno dell’autovettura utilizzata per la strage di via D’Amelio, personaggio che non è stato possibile identificare. Come è stato osservato in proposito dal Procuratore Generale di Palermo “Chi conosce le regole della mafia sa bene che tenere segreta a uomini d’onore l’identità degli altri compartecipi alla fase esecutiva di una strage è un’anomalia evidentissima: la prova dell’esistenza di un livello superiore che deve restare noto solo a pochi capi”. E la presenza di elementi esterni a Cosa Nostra emerge anche da una intercettazione telefonica del 14 dicembre 1993 relativa ad una conversazione intervenuta tra il collaboratore Santino Di Matteo e la moglie Francesca Castellese, dopo il rapimento del figlio e nella quale quest’ultima scongiura il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati” intervenuti nella strage di Via D’Amelio. Infiltrati che purtroppo non è stato possibile identificare. Ancora oggi sussistono numerose ombre su quelle che possono essere state le responsabilità nelle stragi di Capaci e via D’amelio e sul ruolo che hanno avuto in questi gravi delitti apparati investigativi e organismi nazionali ed internazionali nonché pezzi dello Stato che potrebbero avere fornito copertura alla organizzazione mafiosa anche istaurando con questa, in cambio di una sospensione della strategia stragista, un dialogo; ipotesi questa la cui fondatezza attualmente è al vaglio dei giudici di Palermo e che costituisce oggetto del processo noto come trattativa Stato-Mafia. Soltanto un collaboratore del peso di Totò Riina o un pentito all’interno delle istituzioni potrebbe fare luce sulle motivazioni reali che determinarono la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma anche sui cosiddetti “omicidi politici” quali quelli di Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si tratta di omicidi che sono stati commessi non solo per fare fronte ad interessi di Cosa Nostra ma per attuare una strategia che era perseguita da altre entità politiche, finanziarie, imprenditoriali non soltanto nazionali ma anche internazionali. E d’altra parte, come sostenuto da Buscettama anche da altri pentiti, si tratta di delitti che la mafia era sotto un certo aspetto restia ad eseguire ma che ha eseguito anche per esigenze estranee a Cosa Nostra, nell’interesse cioè di entità esterne con le quali i contatti venivano tenuti soltanto dai vertici di Cosa Nostra e di cui venivano tenuti all’oscuro gli appartenenti di rango inferiore.

“Falcone seguiva la pista di Gladio”: le indagini top secret di Borsellino. Le audizioni al Csm dei magistrati di Palermo all’indomani di Capaci e via D’Amelio: “Allarmi inascoltati”, scrive Antonella Mascali il 22 maggio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Ci sono testimonianze inedite dei magistrati di Palermo che hanno lavorato fianco a fianco con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sulle settimane precedenti alle stragi di Capaci e via D’Amelio a Palermo, avvenute il 23 maggio e il 19 luglio 1992. Sono racconti drammatici sulla strada sbarrata a Falcone che voleva la verità sugli omicidi politico-mafiosi e i possibili legami con Gladio; sulla diffidenza di Borsellino nei confronti di alcuni colleghi, a cominciare dall’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Borsellino stava conducendo indagini in gran segreto sulla morte di Falcone, ma anche su vicende indicate dallo stesso magistrato nei suoi diari pubblicati dopo Capaci. Sugli allarmi ignorati che, forse, avrebbero potuto salvare le vittime delle due stragi. Alfredo Morvillo, Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Ignazio De Francisci, Antonio Ingroia sono alcuni dei pm di allora alla Procura di Palermo che sono stati ascoltati dal comitato antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura tra il 28 e il 30 luglio 1992, una decina di giorni dopo la strage di via D’Amelio. Sono i pubblici ministeri che avevano firmato assieme a Teresa Principato, Antonio Napoli e Giovanni Ilarda (tra i contrari Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli) un documento in cui presentavano polemicamente le dimissioni per l’assoluta mancanza di sicurezza e per la gestione della Procura da parte di Giammanco. Il procuratore, com’è noto, su sua richiesta sarà trasferito nell’agosto successivo, i pm ritireranno le loro dimissioni e alla guida della Procura arriverà Gian Carlo Caselli. Le deposizioni dei magistrati non sono mai state rese pubbliche. Stranamente, il Csm non le ha incluse negli atti desecretati su Falcone e Borsellino in occasione del venticinquesimo anniversario della strage, l’anno scorso. Al Fatto risulta che queste testimonianze, di recente, siano state acquisite dalla Procura di Caltanissetta che è tornata a scandagliare i buchi neri delle indagini su chi ha voluto la morte di Falcone e Borsellino.

Roberto Scarpinato (Ex pm e ora procuratore generale di Palermo – audizione del 29 luglio 1992). Dinanzi alla bara di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino disse: ‘Ciascuno di noi deve avere la consapevolezza che se resta, il suo futuro è quello’ e indicò la bara di Falcone. Paolo Borsellino sapeva che doveva morire. I carabinieri avevano segnalato che si stava organizzando un attentato, sapevamo che era arrivato il tritolo, sapevamo che il prossimo della lista era Paolo Borsellino. Ecco perché è una strage in diretta. Borsellino è morto per il tritolo e per l’incapacità di questo Stato di proteggere i servitori dello Stato. Mi è venuto in mente che era stato abolito il servizio di elicotteri per sorvegliare le autostrade di Punta Raisi perché ogni volo costava 4 milioni, e che Giovanni era addolorato di questo fatto. (…). C’è una riunione alla quale partecipa il Procuratore Giammanco, Falcone dice in tono acceso a Giammanco: ‘Io non condivido il tuo modo di gestire l’ufficio’ (con riferimento al processo per gli omicidi politici di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre, ndr) . I problemi con Giammanco si ponevano quando si passava in materia di mafia a livelli superiori. Per esempio il caso Gladio. Accade in particolare che un estremista di destra, di Palermo, dichiara alla televisione che lui faceva parte di un’organizzazione clandestina che era simile a quella di Gladio, che aveva avuto il compito di seguire alcuni personaggi politici siciliani (tra cui Mattarella, ndr). ( …) La posizione di Falcone e mia era quella di acquisire tutti gli atti di Gladio (…). Le resistenze erano talmente avvertite da Falcone che disse: ‘A questo punto io vi rimetto la delega, occupatevene voi’. Alla fine si decide che Falcone sarebbe andato nella sede dei servizi segreti a guardare gli atti e a verificare se per caso c’era qualcosa che ci poteva interessare. Si decise di affiancarlo con il collega Pignatone (l’attuale procuratore di Roma, ndr) fatto che lui visse come una specie di mancanza di fiducia e ricordo che io rimasi insoddisfatto perché dissi: ‘Come si fa nell’arco di pochi giorni a visionare tutti questi atti, a memorizzarli e a prendere in considerazione tutti i fatti che ci possono essere utili in questo processo. Può darsi ché un nome che in quel momento non dice assolutamente niente, tra 15 giorni può essere rilevante (…). C’è un fatto che mi ha molto inquietato e cioè che Paolo Borsellino conducesse delle indagini su fatti di grande rilevanza all’insaputa del Procuratore (Giammanco, ndr). Mi chiedo, ma cosa sta succedendo in questa Procura? Mi inquieto perché Paolo Borsellino è una persona che gode della mia assoluta stima e fiducia. Perché se fosse stato qualsiasi altro magistrato avrei potuto pensare a qualche cosa di deteriore. Paolo Borsellino si comporta così. Mi vincolò al segreto. E su queste indagini, naturalmente, non posso dir niente per motivi di ufficio. Diciamo che questa situazione, credo di non sbagliare, almeno, io l’avevo conosciuta un mese prima (della strage di via D’Amelio, ndr). Ecco, il fatto che lui l’abbia confidato a me è stato un gesto di grande fiducia. Però di grande responsabilità (…). Questa circostanza è nota soltanto a me, al sostituto Ingroia, e forse a uno o due altri sostituti, le persone che godevano dell’assoluta fiducia di Paolo Borsellino. Paolo riferiva tutto e sempre (a Giammanco, ndr) ecco perché io vengo colpito (…) proprio perché la normalità era quella, se così non fosse stato non sarei rimasto colpito. Ma quei fatti, fatti che non vi posso riferire, ma che sono di grandissima rilevanza e che riguardano determinati livelli, su quei fatti Paolo Borsellino raccomandò la segretezza.

Antonio Ingroia (Avvocato. Ex pm di Palermo, ex coordinatore dell’inchiesta sulla trattativa – audizione del 31 luglio 1992). Borsellino una volta, eravamo a casa sua a Marsala una sera, quindi prima ancora che arrivasse a Palermo, lo ricordo con esattezza anche se non mi diede spiegazioni precise in merito, mi disse testualmente: ‘Giammanco è un uomo di Lima’ (Salvo Lima, ex ‘proconsole’ di Giulio Andreotti in Sicilia, ndr), affermazione per la quale io evidentemente rimasi turbato. Dopo la morte di Giovanni Falcone, oltre a occuparsi delle sue indagini, oltre ad avere interesse per l’indagine Mutolo (il pentito Gaspare Mutolo, ex pupillo di Riina, ndr) oltre ad avere interesse per l’indagine Falcone, faceva numerose indagini per conto suo. Chiamiamole approfondimenti sulle questioni indicate nei diari di Falcone. Chiese un colloquio con Scarpinato per quanto riguarda la questione Gladio, la questione del rapporto dei carabinieri sugli appalti. Il discorso è che non si fidava del dott. Giammanco. (Non approfondii, ndr) Paolo era per me quasi Vangelo.

Vittorio Teresi (Pm di Palermo, coordinatore dell’inchiesta sulla trattativa – audizione del 28 luglio 1992). In un’indagine che conduco io e che conducevo assieme a Paolo Borsellino a un certo punto Paolo mi comunicò una notizia molto riservata che aveva appreso da un organo di polizia e riguardava un politico, riguardava un grosso mafioso eccetera, era una notizia ovviamente tutta da controllare, da verificare ma comunque era una delle tante ipotesi di lavoro. Paolo disse espressamente di non parlarne in giro perché temeva che finisse all’orecchio di Giammanco. Qual è l’indagine non lo posso dire, questa non era affatto notizia confermata, era semplicemente una pur fondata confidenza di un organismo di polizia, però era molto scottante, era molto delicata.

Alfredo Morvillo (Ex pm di Palermo, oggi procuratore di Trapani. Fratello di Francesca Morvillo Falcone – audizione del 28 luglio 1992). Quello che è successo a Borsellino, quello che è successo a Falcone, credetemi, non è una qualche cosa di imprevedibile e di inevitabile, perché io vorrei sapere per quale motivo si dica che Falcone era l’uomo più scortato del mondo, il che non è affatto vero e vi dico perché: a Falcone, negli ultimi tempi, avevano diminuito le misure di protezione. Lo sapevano tutti a Palermo che Falcone ormai non aveva più l’auto di staffetta e l’elicottero. Ma non gliene frega niente a nessuno! I ragazzi della scorta, che sono venuti a trovarmi, mi hanno detto che avevano chiesto anche la possibilità di avere a disposizione, a Punta Raisi che è sul mare, di una pilotina per eventualmente utilizzarla per ritornare via mare, una pilotina, una barca della polizia per tornare via mare. La verità è questa, che persino nei confronti di Giovanni Falcone si adopera la mentalità del rilassamento burocratico! Falcone, signori miei, diciamolo, siamo chiari, in certe situazioni, contava molto poco. Falcone, al di là delle parole che tutti noi possiamo essere bravissimi a dire (…) Falcone non coordinava niente! (…). Dopo la strage del 23 maggio arriva un anonimo con chiare minacce per alcuni colleghi, con le fotografie di Borsellino, De Francisci, Teresa Principato… nonostante sia successo quello che è successo il 23 maggio, in questa riunione mi dicono i colleghi (io non c’ero per i noti fatti) ancora una volta sottovalutazione. Giammanco: “È una stupidaggine, che fa, la stracciamo?”. La stracciamo? Arriva l’anonimo, dopo quello che è successo a Palermo, per i colleghi del tuo ufficio che sono come, a volte, lui stesso ha detto, “tuoi figli” e tu che fai? “Lo stracciamo!”. E allora lo mandiamo, per competenza, a Caltanissetta. Al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, mi dicono i colleghi, che, fra l’altro, non hanno avuto nessuna protezione dopo questo fatto (fino alla strage di via D’Amelio, ndr).

Ignazio De Francisci (Ex pm di Palermo, procuratore generale di Bologna – audizione del 29 luglio 1992). Questa lettera era un collage fotografico: c’era la foto di Paolo, c’era quella mia e quella della collega Principato. Tra l’altro era una strana fotografia perché io non ricordavo di averla vista mai, non è che io spunti molto su i giornali, quindi la cosa mi colpì… Sono andata da Giammanco e io gli ho detto: ‘Senti Procuratore, io non me la terrei né la cestinerei’. Ricordo che il Procuratore mi disse: “Mah!”, Cioè era dubbioso sull’opportunità o meno di inviarla (agli organi preposti, ndr). Dopo ne parlai con Borsellino e ricordo che lui era già un po’ incupito anche se dal punto di vista personale mi disse una frase del genere: ‘Noi non ci dobbiamo far spaventare per una lettera’. (…) Ora mi hanno dato una specie di scorta composta dalla macchina blu con le insegne dei carabinieri. L’Arma ha fatto levare in volo l’elicottero che ha seguito la mia autovettura da casa sino all’aeroporto di Punta Raisi. La polizia prima l’aveva dato a Giovanni Falcone per anni e poi gli era stato tolto. Quando sentivo questo elicottero non potevo non ricordare l’amarezza di Giovanni Falcone quando glielo tolsero. Voi lo conoscevate, non è che parlasse molto di queste cose; non ne parlava in maniera enfatica, però, mi ricordo che una volta che io partii con lui notai l’assenza dell’elicottero, glielo dissi e lui mi rispose: “Che ci vuoi fare?”, insomma con una frase un po’ fatalista. (…). Io ho avuto la netta sensazione che il Procuratore, nella gestione dell’ufficio, avesse una corsia differenziale sulla quale passavano o potevano passare soltanto alcuni colleghi. Quello che io sinceramente non ho mai capito è perché lui si fidasse soltanto di due, tre persone e passasse con loro le grosse decisioni dell’ufficio: Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone, in prima istanza Giustino Sciacchitano. Ecco, il fatto che specialmente Lo Forte e Pignatone siano tecnicamente bravissimi e abbiano una innata dote di prudenza, anche abilità nel gestire tutte le seccature che un grosso ufficio comporta, questo secondo me, in assoluta serenità di spirito, non consentiva (a Giammanco, ndr) di accentrare attorno a queste persone tutte le decisioni, se vogliamo anche strategiche o comunque le pre-decisioni dell’ufficio, per poi venire alle riunioni con una sensazione che almeno io avevo di minestra già fatta (…) . L’arrivo di Borsellino aveva ridato impulso alle indagini (…) Ebbi la sensazione che nei confronti di Paolo si riproponessero le stesse difficoltà di cui mi aveva parlato Giovanni.

ALTRO CHE STATO-MAFIA. MAFIA-APPALTI. QUELL'INCHIESTA NON S'HA DA FARE.

Mafia & appalti, una verità scomoda. Cosa c'è dietro e cosa c'è stato dopo l'inchiesta condotta dai Ros, scrive Luciano Tirinnanzi il 12 luglio 2013 su "Panorama". Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS. Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico - stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere - si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico. In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: “la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti”. Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come “Mani Pulite” nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.

- Falcone e l’importanza di depositare “Mafia e Appalti”. Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: “la mafia è entrata in borsa” disse due mesi prima di saltare in aria. Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: “Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché - su esplicita richiesta - rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino. - Borsellino e le confidenze a Ingroia. Borsellino, il 25 giugno del ‘92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie. Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano “preoccupati delle indagini sugli appalti”.

- L’archiviazione di “Mafia e Appalti”. Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto. Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.

- Vito Ciancimino e la trattativa. Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche”, Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari. Ma non il famigerato “papello”, bensì il libro “Le Mafie” redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente - ma senza esito - di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante. Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro “Le Mafie” che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti. Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Piero Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.

- Conclusioni. I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafia-politica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni. Davvero, nel 2013, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?

La Trattativa secondo Di Pietro. Un lapsus dell'ex magistrato e il dossier “mafia-appalti” archiviato subito dopo la morte di Borsellino, scrive Massimo Bordin l'1 Maggio 2018 su “Il Foglio”. Dopo Violante, Antonio Di Pietro dice la sua sul processo trattativa, con pieno diritto visto che, con i suoi interventi in Commissione antimafia, a suo tempo ne fu uno degli artefici. Naturalmente Di Pietro proclama in prima battuta la sua solidale consonanza coi pm palermitani, poi parla di un suo colloquio con Paolo Borsellino poco prima della strage di via D’Amelio in cui Borsellino ipotizza un raccordo fra le indagini palermitane e quelle milanesi. Emerge una verità possibile, diversa dalla tesi accusatoria. Borsellino, poco prima di essere ucciso, non si occupava della famosa trattativa ma del più corposo dossier “mafia-appalti” preparato dal Ros di Mori. Singolare un apparente lapsus di Di Pietro, quando, a proposito delle stragi e di quelle indagini sugli appalti ha detto: “Hanno fermato le indagini e armato pistole”. Che c’entrano le pistole con Borsellino? Ben altro fu usato in via D’Amelio, ma l’ex pm sa bene di che parla. Parla di Raul Gardini, che un anno dopo via D’Amelio fu ucciso da un colpo di pistola che molti dubitano sia partito dalla sua mano. Parla dell’indagine mafia-appalti che svelò intrecci fra la Ferruzzi e la “calcestruzzi Palermo spa”. “Hanno fermato le indagini” dice l’ex pm e aggiunge che “chi lo ha fatto va individuato”. E’ facile, non ci vuole Sherlock Holmes. Due giorni dopo la morte di Borsellino, la procura di Palermo chiese di archiviare l’indagine. Nasce da lì la polemica fra procura e Ros, sfociata nei processi a Mori e poi in quello sulla trattativa, nel quale la difesa di Mori aveva chiesto che Di Pietro venisse citato come teste. La corte ha rifiutato di sentirlo.

La svolta di Gratteri: «Basta giornalisti innamorati dei pm Abbiamo bisogno di fatti e verità». Il magistrato calabrese scopre la stampa indipendente, scrive Davide Varì il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I giornalisti non devono fare i piacioni, né tantomeno innamorarsi dei magistrati: abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino con coraggio la verità, i fatti. In quanto a noi magistrati, vogliamo essere valutati e giudicati per quel che facciamo». Parole e musica di Nicola Gratteri. Quel Nicola Gratteri: il magistrato simbolo dell’antimafia; lo stesso Gratteri che avrebbe dovuto prendere la poltrona di guardasigilli e che, di fronte al gran rifiuto dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, si scagliò contro i poteri forti del Palazzo, evidentemente impauriti dalla forza “eversiva” e “antisistema” del magistrato calabrese: «Io sono troppo indipendente e il potere vero vuole che ci sia sempre qualcuno sopra di te, che garantisca per te». Lo stesso Gratteri che non disdegna chiacchierate televisive, un tantino celebrative, con Fabio Fazio e Riccardo Iacona; né premi in giro per il belpaese. Premi meritatissimi, s’intende. Insomma, quel Gratteri lì oggi ci fa sapere che il giornalismo che copia e incolla le ordinanze dei magistrati e cha passa ore nelle di loro sale d’attesa non va (più) bene. E del resto che i giornalisti dovessero fare da “cane da guardia del potere”, di tutti i poteri, magistratura inclusa, era un dubbio che in questi anni aveva attraversato qualche temerario. Ma c’è di più, Il procuratore Gratteri ha criticato anche un altro cavallo di battaglia dell’antimafia militante: il sistema dello scioglimento dei comuni. «I Comuni – ha infatti dichiarato Gratteri – vengono sciolti per mafia nel 99% dei casi quando la procura, a conclusione delle indagini, invia gli atti alla prefettura e quindi, dopo l’istruttoria, si procede e viene nominato un ufficiale prefettizio. Il problema, in alcuni casi, è che il commissario si reca in Comune poche volte a settimana. Quindi sostanzialmente l’amministrazione viene congelata per due anni. La popolazione mediamente pensa che era meglio quando c’era il sindaco, che riuscita almeno a dare risposte» E dunque: «Occorre modificare la norma, il Commissario prefettizio deve stare al Comune sciolto per mafia sette giorni su sette», ha aggiunto Gratteri.

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Qualcuno dovrà rispondere, scrive Piero Sansonetti il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". A scartabellare le carte, e le vecchie sentenze, appare sempre più surreale lo scenario disegnato dal processo di Palermo. Certo, bisognerà aspettare le motivazioni. Però qualcosa, intanto, la si può dire. E la prima cosa che si può dire è che l’ipotesi dell’accusa – e di alcuni giornali – secondo la quale Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva opporsi alla trattativa stato- mafia, appare sempre più fantasiosa. Mentre, purtroppo, non appare per niente fantasiosa l’ipotesi che Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva portare avanti le indagini avviate dai Ros di Mori, De Donno e Subranni su mafia e appalti. E se questa ipotesi viene confermata, cambia tutto nella ricostruzione di quello che successe in quegli anni e del ruolo avuto dai vari apparati dello Stato. Perché il processo di Palermo si fonda sull’ipotesi che si fronteggiarono una magistratura “limpida” ed “efficiente” e pezzi dei carabinieri e forse dei servizi segreti che invece erano coinvolti in oscure trattative con la mafia. L’ipotesi invece che emergerebbe dai fatti come li ricostruisce nell’articolo che pubblichiamo in prima pagina (e a pagina 3) Damiano Aliprandi, è opposta. Dice che i Ros erano arrivati a un passo dallo sgominare un gigantesco giro di potere che coinvolgeva mafia, imprenditoria, e politica, e che furono fermati per la negligenza della magistratura. I Ros, lavorando con Falcone, avevano raccolto indizi e prove molto pesanti, e se l’inchiesta fosse andata avanti avrebbe fatto saltare un bel pezzo del sistema di potere mafioso. Paolo Borsellino era ben deciso ad impegnarsi lui in questa inchiesta e stava solo aspettando la delega che doveva venirgli dalla Procura. La Procura di Palermo, e in particolare i sostituti Lo Forte e Scarpinato, invece, sottovalutarono clamorosamente la forza di questa inchiesta dei Ros, proseguita e sostenuta da Flacone, e la affossarono. Oggi Roberto Scarpinato è procuratore generale di Palermo. E’ un magistrato colto, molto preparato, dalle idee forti. Sicuramente è una persona onesta. Ma è giusto chiedere a lui e al suo collega: perché quella inchiesta fu affossata proprio pochissimi giorni prima dell’uccisione di Borsellino, visto che, oltretutto, si sapeva che lo stesso Borsellino era interessato a quella inchiesta e avrebbe voluto occuparsene personalmente? Naturalmente nessuno sa il perché. Si può solo supporlo: per scarsa esperienza. (Così come probabilmente per scarsa esperienza Di Matteo e gli altri Pm che si occuparono dell’inchiesta sull’uccisione di Borsellino presero per buone le dichiarazioni false del pentito Scarantino, che mandò su un binario morto tutte le indagini). La Procura di Palermo in quella tragica estate del ‘ 92 sottovalutò il lavoro dei Ros. E probabilmente, soprattutto dopo la morte di Borsellino, entrò in conflitto coi Ros, e forse anche con pezzi dei servizi segreti (penso all’affare- Contrada) proprio per via del “complesso di colpa”, diciamo così, dovuto all’errore commesso sul dossier mafia- appalti. Ora però bisogna fare un po’ di luce su tutto questo. Anche perché al processo di Palermo non si è tenuto conto in nessun modo di questo scenario. E così il processo ha finito per condannare da una parte proprio i carabinieri che si erano impegnati di più nella battaglia contro Cosa Nostra, dall’altro i “berlusconiani” (mi riferisco a Dell’Utri) forse solo perchè, si sa, se dai addosso ai “berluscones” ti conquisti qualche merito e qualche popolarità, a prescindere. E trovi l’appoggio della stampa. Le questioni da affrontare sono tre. La prima è: sono stati condannati, ingiustamente, proprio quelli che avevano dato di più nella lotta alla mafia? La seconda è: il dossier mafia appalti è stato la vera ragione dell’uccisione di Borsellino? La terza è: insabbiando quel dossier si è impedito di dare alla mafia (dopo il maxiprocesso) il colpo mortale? Sono domande impegnative. Qualcuno dovrebbe rispondere.

Mafia anni 90. I “buoni” erano “cattivi” e viceversa? Scrive Piero Sansonetti il 5 Maggio 2018 su "Il Dubbio". La ricostruzione fornita dal Dubbio rovescia i teoremi: i Ros avevano attaccato frontalmente la mafia, la magistratura, persi Falcone e Borsellino, mollò la presa. Da qualche giorno stiamo pubblicando sul “Dubbio” una ricostruzione dei fatti tragici che all’inizio degli anni 90 insanguinarono la Sicilia. Continueremo la settimana prossima. Damiano Aliprandi sta realizzando questa ricostruzione, lavorando su documenti, sentenze, requisitorie, testimonianze, carte, atti giudiziari. Senza violare nessun segreto, senza fidarsi di nessun “uccellino”, senza fonti riservate e coperte, senza basarsi su supposizioni prive di prove. Generalmente l’informazione giudiziaria funziona in un altro modo: non perde tempo a seguire i processi e a verificare le carte, ma “suppone”; e di solito più che supporre prende per buone le supposizioni delle Procure. Qual è la novità che emerge dalla nostra ricostruzione? E’ abbastanza sconvolgente. Ci fa capire che probabilmente la verità è più o meno l’opposto di quello che sin qui si è fatto credere. Vediamo. Recentemente il processo di Palermo (quello sulla presunta trattativa stato- mafia) ha stabilito che un gruppo di carabinieri dei Ros tradì lo Stato e lavorò, insieme alla mafia, per minacciarlo e ricattarlo. Con l’aiuto di Dell’Utri. Se le cose davvero stessero così, sarebbe una cosa gravissima. Un vero e proprio tradimento da parte di un settore molto prestigioso dei carabinieri. Finora, però, non è stata mostrata una sola prova che avvalori questa ipotesi, tranne la testimonianza di un mafioso pentito (Brusca) che in cambio della sua testimonianza ha ottenuto le attenuanti, e quindi la prescrizione, e quindi l’assoluzione. C’è da fidarsi di Brusca, senza un riscontro, senza una carta, un fatto, un documento? Aspettiamo le motivazioni della sentenza e vediamo se esce fuori qualcosa. Per ora, zero. La nostra ricostruzione però giunge a una conclusione del tutto opposta: i carabinieri “traditori” non erano affatto traditori, ma erano investigatori molto competenti che avevano scoperchiato (tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90) un gigantesco giro di reati, compiuti per assegnare in modo illegittimo a mafiosi e imprenditori una quantità mostruosa di appalti. La descrizione di questi delitti, e le prove, erano contenute in un dossier chiamato “mafia appalti”, che fu consegnato dai Ros alla magistratura. E precisamente al sostituto procuratore Falcone che iniziò le indagini e giudicò clamorose le scoperte dei carabinieri. Poi Falcone fu chiamato a Roma e il dossier passò ad altri sostituti procuratori. Lo stesso Falcone chiese a Borsellino di occuparsi lui personalmente di quel dossier, perché solo di lui si fidava e perché il dossier conteneva verità scioccanti. Ma prima che il Procuratore Giammanco si decidesse a consegnare il dossier a Borsellino, successero tre cose: fu ucciso Falcone, fu ucciso Borsellino e, nel frattempo, i sostituti procuratori che avevano in mano il dossier chiesero ( e rapidissimamente ottennero) che fosse archiviato. In una parola sola: insabbiarono. Questi sostituti procuratori erano Roberto Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo e Guido Lo Forte. E visto che nel frattempo Borsellino e Falcone erano morti, nessuno più mise le mani su quei documenti (che noi abbiamo potuto leggere) i quali contenevano nomi, circostanze, collegamenti, con una tale precisione (e di una tale gravità) che probabilmente avrebbero creato un vero e proprio cataclisma. Sulla mafia, ma anche sulla politica. Non solo su quella siciliana, perché le imprese coinvolte operavano su tutto il territorio nazionale e anche gli appalti non erano solo siciliani ma erano sparsi in ogni regione italiana. Ora le questioni aperte sono tre.

La prima riguarda l’uccisione di Borsellino. In questi anni spesso si è detto che la sua morte è avvenuta perché si opponeva alla trattativa stato mafia. Poi si è detto che stava indagando su Berlusconi. Ora si capisce con una certa sicurezza che non era così. Borsellino non stava indagando su nessuna trattativa né su Berlusconi, ma voleva occuparsi di questo dossier, e negli scandali contenuti in questo dossier non c’era trattativa né c’era ombra di Berlusconi o di Dell’Utri. Dunque tutta la ricostruzione, soprattutto giornalistica (ma presente massicciamente anche nelle requisitorie dei Pm al processo di Palermo) è infondata.

La seconda questione riguarda i Ros. È chiaro che i Ros del generale Mori non solo non trattarono con la mafia, ma avevano una strategia del tutto opposta: quella di andare a scontrarsi frontalmente sia con la mafia sia con quei settori della politica e dell’imprenditoria che con la mafia facevano affari.

La terza questione è la più inquietante. Cosa successe in alcuni settori della magistratura di Palermo? Perché insabbiarono una inchiesta che era una vera bomba atomica e che conteneva i presupposti per annientare Cosa Nostra? C’è un collegamento tra questa decisione di insabbiare e di disinnescare quella inchiesta e il clamoroso depistaggio, seguito dalla magistratura, innescato dal falso pentito Scarantino (primo processo Borsellino)? E ancora: il processo Stato mafia è in qualche modo figlio di questi clamorosi abbagli? Come vedete, la terza questione è formata da domande. Chi può rispondere a queste domande? La magistratura è in grado di fornirci almeno qualche lume?

Perché Scarpinato affossò l’inchiesta mafia- appalti? Era clamorosa e forse Borsellino fu ucciso perché quel fascicolo era finito sulla scrivania, scrive Damiano Aliprandi il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Non esiste nessuna sentenza che collega la morte dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con la presunta trattativa Stato- mafia, mentre in alcune sentenze emerge un movente ben chiaro e che fu anche l’inizio della guerra dei cent’anni tra alcuni magistrati e i carabinieri dei Ros guidata da Mario Mori: l’indagine su mafia appalti condotta da quest’ultimi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, in cui si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio, «la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti». A questa si aggiunge un’altra sentenza, quella della Corte d’Assise di Caltanissetta relativa al processo Borsellino- ter, in cui viene riportata la testimonianza di Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, il quale disse che la mafia era preoccupata circa l’interesse di Falcone e Borsellino per l’indagine mafia- appalti. Un particolare non da poco è stato il suo riferimento a Falcone quando disse che la «mafia era stata quotata in borsa». Sì, perché il magistrato lo disse all’indomani della quotazione di una delle società appaltatrici che erano sotto la lente di ingrandimento dei Ros. La sentenza in questione aveva tratto anche una riflessione. « Appare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto all’epoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Cosa nostra, tuttavia si legge nel dispositivo della sentenza – l’interesse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini unitamente all’incarico che egli ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta ed ancor più la prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone ». Come se non bastasse, si aggiunge la testimonianza di Antonio Di Pietro, all’epoca dei fatti componente del pool Mani Pulite. L’ex magistrato ha dichiarato più volte, sia durante il processo Borsellino- ter e sia recentemente, che Borsellino – lo incontrò poco prima della strage di via D’Amelio – era interessato a mafia- appalti e che avrebbe voluto collegare l’indagine palermitana a quella milanese. Il punto è importante, perché gli elementi di collegamento spuntarono fuori durante l’inchiesta Mani Pulite. Parliamo di attività imprenditoriali sospette relative a imprese del nord come la Calcestruzzi di Gardini, impresa capofila del gruppo Ferruzzi Spa che compariva nell’indagine mafia- appalti dei Ros. L’inchiesta mafia- appalti, quindi, era potenzialmente una bomba potentissima visto che scoperchiava legami tra mafia, personalità politiche di rilievo e società appaltatrici in mano a persone vicine ad alcuni magi- strati. Ma non solo. Parliamo di una bomba che non sarebbe deflagrata solamente in Sicilia, ma anche in tutta la penisola (la testimonianza di Di Pietro docet) e le schegge avrebbero sconfinato oltre le Alpi visto che l’inchiesta avrebbe potuto toccare il sistema di riciclaggio internazionale. In merito a quest’ultimo punto, in realtà, Falcone aveva già fiutato qualcosa qualche anno prima che ricevesse il fascicolo dell’indagine mafia- appalti. Nel giugno 1989, infatti, si era incontrato con la sua collega svizzera Carla Del Ponte nella villa che aveva preso in affitto all’Addaura, vicino Palermo, per discutere di riciclaggio del denaro sporco tramite aziende all’estero e, coincidenza vuole, fu in quel momento che la mafia collocò una bomba sullo scivolo di accesso al mare della villa, dentro un borsone da sub. Per fortuna venne notata da uno degli agenti della scorta di Falcone e disinnescata dagli artificieri. Nel 1991 Falcone prese in mano l’informativa dei Ros e un anno dopo fu ucciso. Sembra ragionevole pensare che Falcone e Borsellino siano stati uccisi per il loro interesse all’inchiesta dei Ros sui grandi appalti pubblici che la Procura di Palermo, però, archiviò appena qualche giorno dopo la morte di Borsellino. La richiesta di archiviazione – esattamente il 13, quando Borsellino era ancora in vita e interessato a prenderla in mano – fu avanzata dagli allora sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, vistata dal procuratore Giammanco tre giorni dopo l’uccisione di Borsellino e archiviata definitivamente il 14 agosto dal gip di Palermo Sergio La Commare. Parliamo dell’archiviazione più breve della storia, avvenuta il giorno prima di ferragosto, quando solitamente gli uffici dei tribunali sono semideserti. Il gip La Commare è lo stesso che, qualche mese dopo – esattamente il 23 dicembre, altra data particolare, antivigilia di Natale – convaliderà l’arresto di Bruno Contrada (ex capo della Mobile di Palermo, ex vicedirettore del Sisde, ex capo della criminalpol di Palermo) richiesto sempre da Lo Forte e Scarpinato. Nello stesso anno, gli stessi magistrati archiviano l’indagine sui mafiosi e arrestano chi per anni è stato in prima linea contro la mafia. A quel punto, mafia- appalti, che doveva essere una bomba che avrebbe fatto tremare l’Italia intera, era stata quindi disinnescata. In realtà, precedentemente, aveva già subito un depotenziamento. Come? Ricordiamo che l’informativa mafia- appalti dei Ros era di 890 pagine ed era stata ricostruita la mappa del malaffare siciliano dove erano elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di quasi tutti i partiti e aziende. Il dossier passò nelle mani di ben otto sostituti procuratori di Palermo. Furono indagate soltanto cinque persone. Ma accadde qualcosa di grave. Tutti i coinvolti nell’informativa dei Ros – gli imprenditori, i politici e i mafiosi -, ricevettero l’elenco degli appalti e dei nomi citati nel dossier. Da chi? Dalle risultanze processuali, risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafiaappalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi. I Ros accusarono i magistrati della procura di Palermo e viceversa. Alla fine tutto fu archiviato. Si legge nell’ordinanza di archiviazione: « Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati ». Qualunque sia la verità, con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino dei Ros e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di mafia- appalti e, ricordiamolo nuovamente, ritenuto dai Ros “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio morì Paolo Borsellino.

Mafia e Appalti: Falcone lavorò su quel dossier sparito. Lo aveva ricevuto nel febbraio del 1991 e lo considerava importantissimo, scrive Damiano Aliprandi il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Nel corso dei processi per le stragi siciliane del 1992, dalle persone informate sui fatti (come l’ex generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno dei Ros, e poi pentiti come Angelo Siino e Giovanni Brusca), era emerso che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia era stato il movente principale dell’attacco mafioso. Cioè era la ragione che aveva indotto “Cosa nostra” a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane che portarono all’uccisione di Falcone, Borsellino e molte altre persone. Emerse, in sostanza, l’interesse che alcuni ambienti politico– imprenditoriali e mafiosi avevano ad evitare l’approfondimento dell’informativa dei Ros mafia- appalti, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici. Le indagini, le quali avevano aperto già nel 1991 scenari inquietanti, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese di “Tangentopoli”. L’interesse della mafia a neutralizzare le indagini eliminando fisicamente i magistrati ai quali venivano notoriamente riconosciute la capacità professionale e la volontà per svolgerle, si era rafforzato quando Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, si era fortemente determinato a sviluppare le indagini in questione, riprendendole e indirizzandole nel solco originariamente tracciato da Giovani Falcone. Tutto ha avuto inizio la mattina del 20 febbraio del 1991 quando il capitano Giuseppe De Donno consegnò, all’allora sostituto procuratore Giovanni Falcone, le conclusioni dell’indagine sulla mafia- appalti sottoscritta dal generale Mori. De Donno, che Falcone chiamava affettuosamente Peppino e che era uno dei pochi investigatori che si permetteva di dare al giudice del ‘ tu’, valendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera (nell’indagine dei Ros ci sono le sue intercettazioni), che lavorava in Sicilia per una grossa azienda del Nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare siciliano, ed aveva elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di rilievo e aziende di primaria importanza. In questo elenco c’erano anche nomi legati a magistrati siciliani. Falcone si interessò molto dell’indagine dei Ros. Infatti, a distanza di un mese dalla consegna dell’informativa, in un importante convegno organizzato a marzo del ’ 91 dall’Alto Commissario Antimafia, dopo avere riconosciuto che il condizionamento mafioso esisteva sia al momento della scelta delle imprese, sia nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti ( senza escludere, quindi, le imprese del Nord), e dopo aver fatto cenno ad alcune intercettazioni telefoniche da cui risultavano varie modalità operative, aveva testualmente affermato: « Ormai emerge l’imprescindibile necessità di impostare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto finora », alludendo non solo a un salto di qualità investigativa, ma all’utilizzazione nelle indagini su mafia- appalti dell’apparato dell’Alto Commissario e, cioè, teorizzando la messa a disposizione delle informazioni raccolte nel circuito dei servizi al pubblico ministero e, comunque, la sinergia tra l’intelligence e le investigazioni sul territorio. In pratica aveva non solo intuito l’importanza di mafia- appalti, ma aveva fatto capire la sua intenzione di creare un nuovo ed efficace metodo di investigazione. Fu un campanello d’allarme per quanti, mafiosi e contigui, noti e non ancora noti, avrebbero potuto essere attratti nel cono di luce di questo programma. C’è una testimonianza che conferma il timore di Cosa nostra. Riportiamo un brano tratto dalla sentenza della Corte di assise di appello di Caltanissetta del 2000: «A dire del Siino (considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) , le indagini promosse dal giudice Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”, avevano portato alla sua eliminazione. Difatti, in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che il dr. Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare”». A distanza di qualche mese dal suo intervento, Giovanni Falcone, dopo essere stato isolato dai suoi colleghi e scansato dal Csm, accetterà dal ministro Martelli la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il ministero della Giustizia. Il dossier dei Ros rimase nelle mani dei sostituti procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, in seguito il Procuratore Giammanco affiancherà altri sostituti, tra i quali Roberto Scarpinato, cioè l’attuale Procuratore generale di Palermo. Nonostante ciò, Falcone non recise i suoi collegamenti con le articolazioni operative delle indagini a Palermo. Si fidava però di uno solo collega, ovvero Paolo Borsellino. In quel frangente si verificò una circostanza molto significativa e che turbò molto Falcone. L’intero rapporto mafia appalti fu consegnato dal procuratore Giammanco al ministro Martelli, che tuttavia lo restituì alla Procura di Palermo, senza aprire il plico, avendo riscontrato in Giovanni Falcone una sorta di lamentela sulla condotta del magistrato, il quale nel consegnare il rapporto aveva inteso delegare alla politica l’intera questione anziché promuovere le dovute indagini di riscontro. E addirittura, la lettera di restituzione fu inviata al Csm per conoscenza, per rimarcare l’anomalo comportamento del procuratore Giammanco. Falcone era interessato a mafiaappalti collegandolo perfino con le indagini milanesi. Di questo si trova riscontro nella testimonianza di Antonio Di Pietro nell’ambito del processo Borsellino ter. Si parla sempre di imprese e casualmente – come raccontò l’ex giudice di Mani Pulite – cominciavano ad emergere nomi che rientravano anche nell’informativa dei Ros. Di Pietro durante il processo nominò ad esempio la Ferruzzi Spa (quella di Gardini) o la De Eccher, tutte imprese del nord coinvolte in mafia- appalti. Di Pietro disse di averne parlato con Falcone. «Quella era l’essenza della mia inchiesta – raccontò Di Pietro durante il processo – cioè la scoperta che le imprese nazionali dovunque andavano si associavano con imprese locali, si realizzavano questi appalti e producevano delle dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali. Ne parlai dapprima con Falcone e poi anche con Borsellino. Ma attenzione – sottolineò Di Pietro-, anche quando Falcone era ancora vivo». Falcone, ribadiamolo, non perdeva di vista quell’indagine, anche se formalmente non era di sua competenza. La conosceva così bene che, durante un convegno pubblico, aveva lanciato un appello esclamando che «la mafia è entrata in borsa», per dire che società quotate in borsa erano state attratte nell’alveo delle relazioni con “Cosa nostra”. Il grumo di interessi che riguarda gli appalti, fa maturare la decisione della mafia di punire i vecchi referenti politici come Salvo Lima, accusati di non essere più in grado di svolgere utili mediazioni. Mancavano solo 11 giorni all’attentato, il tritolo per Capaci era già partito quando in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva che stava arrivando la sua ora. Quel pizzino di morte fu l’ultimo avvertimento prima di quel boato che il 23 maggio 1992 sventrò l’autostrada uccidendo con Giovanni Falcone anche sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Solo Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, voleva risalire a quella inchiesta e a quel dossier dei Ros per scoprire gli assassini di Falcone. Alla prossima puntata parleremo di questo.

Mafia- appalti, quel giorno che Paolo Borsellino fu convocato in Procura…Era la mattina del 19 luglio 1992, il pomeriggio ci fu la strage, scrive Damiano Aliprandi l'8 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  Esattamente quattro giorni prima che venisse brutalmente ucciso, Paolo Borsellino era a casa con la moglie, sconvolto e molto preoccupato. Perché? La spiegazione è in una deposizione della signora Agnese Borsellino rilasciata il 18 agosto 2009 di fronte ai Procuratori di Caltanissetta: «Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992; ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrarono…» «Il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19.00, e, conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu” (affiliato a Cosa nostra, ndr) ». L’italiano non si interpreta, è la nostra lingua madre, eppure i teorici della presunta Trattativa hanno inteso che Borsellino, dicendo di aver visto la “mafia in diretta”, si riferisse all’ex generale dei Ros Subranni. Sappiamo che Borsellino si fidava ciecamente dei carabinieri del Reparto Operativo Speciale e non a caso, come vedremo in seguito, fece un incontro segreto con loro per discutere dell’inchiesta mafia- appalti presso la caserma e non negli uffici della Procura, visto che più di una volta aveva espresso di non fidarsi dei suoi colleghi. Quindi, ritornando alla testimonianza della moglie Agnese, Borsellino era rimasto turbato perché qualcuno gli aveva detto che Subranni era un mafioso. Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino infatti si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Con chi si era visto? Non è dato saperlo. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; a seguire avveniva l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Con chi si era visto in Procura? La “mafia in diretta” era riferito a un suo collega? Non lo sapremo forse mai. Quello che sappiamo, però, è che Borsellino stava seguendo la pista dell’inchiesta mafia- appalti anche per risalire agli assassini di Falcone. Diverse sono le testimonianze di primaria importanza. Una è dei Ros. Paolo Borsellino, subito dopo l’omicidio di Falcone – secondo la testimonianza del generale Mori –, chiese un incontro riservato a Mori stesso e De Donno per parlare di mafia- appalti, dove ribadì la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – racconta sempre Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». L’altra testimonianza è di Antonio Ingroia. Lui stesso, durante l’udienza del 12 novembre 1997 – parliamo del processo Borsellino bis della Procura di Caltanissetta -, ha raccontato che Borsellino era convinto che partendo dagli appunti contenuti nell’agenda elettronica di Falcone su mafia- appalti si potevano individuare i moventi della strage di Capaci. Probabilmente Ingroia ha poi rimosso questo ricordo ed ha imbastito l’inchiesta giudiziaria sulla presunta Trattativa. L’altra testimonianza è quella della dottoressa Liliana Ferraro resa al Tribunale di Palermo nell’udienza del 28 settembre 2010. Disse che si incontrò con Borsellino, che le espresse la necessità di fare di tutto per scoprire gli autori della strage di Capaci. Oltre a riferirle i difficili rapporti che aveva con la Procura di Palermo, Borsellino le chiese informazioni su mafia- appalti, visto che lui non aveva nessuna delega dalla Procura di Palermo. Poi c’è la testimonianza di Antonio Di Pietro. Oltre a Falcone, l’ex pm di Mani pulite disse che Borsellino voleva approfondire lui stesso l’inchiesta mafia- appalti e collegarla all’indagine milanese. Di Pietro racconta che Borsellino lo incontrò al funerale di Falcone e gli disse: «Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo». Ma se fin qui parliamo di intenzioni da parte di Borsellino, c’è un evento che cristallizza i suoi primi passi concreti su mafia- appalti, nonostante non avesse ancora la delega. Poco prima della sua uccisione – esattamente il 29 giugno del 1992Borsellino aveva svolto a casa sua un incontro riservato con il suo collega Fabio Salomone. Non è uno qualunque: parliamo del fratello di Filippo Salomone, l’imprenditore coinvolto nell’informativa mafia- appalti dei Ros. Cosa si dissero? Lo riferisce lo stesso magistrato Salomone in un verbale: «Lo andai a trovare a casa sua. Era un primo pomeriggio. C’erano altre persone, oltre alla moglie, Agnese. C’era Antonio Ingroia. Io e Paolo ci siamo chiusi nello studio con una porta a soffietto. Il colloquio sarà durato un’oretta circa. Ricordo che parlammo ancora una volta del fatto che Martelli e Scotti, avendolo indicato come probabile Procuratore Nazionale Antimafia, avevano sovraesposto la sua posizione. Lui si sentiva più protetto a Palermo. Parlammo ancora della mia situazione, che lui riteneva a rischio e mi invitò a venire a Palermo. Io obiettai che l’attività imprenditoriale di mio fratello rendeva inopportuno questo trasferimento, con Tangentopoli che era scoppiata. Borsellino mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello ed in ogni caso riteneva sufficiente che io non mi occupassi delle tematiche, in cui poteva essere coinvolto lo stesso mio fratello, data la dimensione della Procura di Palermo. Borsellino comunque insistette perché io andassi via da Agrigento. All’epoca della visita a Borsellino, io stesso stavo maturando la decisione di allontanarmi da Agrigento». Il colloquio fin qui riportato dimostra chiaramente che per Borsellino l’inchiesta mafia- appalti era di primaria importanza. Le ragioni sono molteplici: perché si svolge qualche settimana prima dell’esecuzione della strage e dopo soli 4 giorni dall’incontro che Borsellino aveva tenuto con i Ros alla caserma di Piazza Verdi; perché non vi era stata, in precedenza, un’assidua consuetudine di frequentazioni fra i due magistrati e, non per ultimo, perché il fratello del magistrato era tra gli imprenditori implicati nel filone mafia- appalti. Tutto questo fa pensare che Borsellino, se solo avesse preso in mano la delega per Palermo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta su mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Non doveva far altro che farsi dare la delega dal procuratore Giammanco. Giungiamo quindi ai suoi ultimi istanti di vita. Verso le 7 e 30 della mattina di quel maledetto 19 luglio 1992, Borsellino ricevette una telefonata dal procuratore Giammanco. Lo aveva testimoniato la moglie Agnese. A quell’ora i tre figli di Borsellino dormivano e il giudice s’affrettò ad afferrare il telefono al primo squillo. La moglie, turbata dalla chiamata mattutina, sentì cosa rispondeva, freddo, all’interlocutore: «La partita è aperta». Il tono allarmò la signora. E fu il marito, rimettendo giù la cornetta, a spiegarle che era stato Giammanco a chiamarlo per assegnargli la delega sull’inchiesta palermitana. Borsellino però non poteva sapere che qualche giorno prima – esattamente il 13 luglio – c’era stata la richiesta di archiviazione da parte di Lo Forte e Scarpinato. E forse nemmeno Giammanco, visto che l’avrebbe vistata tre giorni dopo il tragico evento. Il pomeriggio stesso una Fiat rubata, piena di tritolo, esplose sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Morì lui e i suoi agenti di scorta.

«Tenete quei dossier lontani da Falcone e Borsellino». L’informativa “Caronte” dei Ros sulle collusioni Mafia-imprese, scrive Damiano Aliprandi il 9 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo tratteggiato l’interesse di Falcone e Borsellino per l’informativa dei Ros dedicata a mafia- appalti. L’interesse era quello di approfondire l’inchiesta, ma sappiamo che non avevano la delega e così l’inchiesta fu dapprima depotenziata, indagando solo cinque persone, poi fu diffuso – non si sa da chi – il contenuto del rapporto che arrivò a tutti i soggetti coinvolti; infine fu tutto archiviato, quando il corpo senza vita di Borsellino era ancora caldo. La richiesta di archiviazione – firmata dai sostituti Lo Forte e Scarpinato – fu avanzata pochissimi giorni prima dell’attentato. In seguito ci sono state diverse inchieste giudiziarie “spezzettate” ma che non portarono a nulla visto che c’è stata una sorta di scompenso tra le intuizioni investigative elaborate da Giovanni Falcone (in qualche modo anticipate al Convegno di Castel Utveggio) puntualmente tracciate dai Ros e le utilizzazioni processuali conseguenti, da parte della procura di Palermo dell’epoca. Il che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di Via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, Cosa nostra avesse raggiunto i suoi obiettivi attraverso le stragi del 1992. Ma perché la mafia aveva paura che quell’indagine venisse approfondita? Perché – secondo la testimonianza di Angelo Siino, considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra -, la mafia riferendosi a Falcone avrebbe detto «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»? L’indagine dei Ros che dettero vita all’informativa mafia- appalti è nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che i Ros lo informavano delle indagini ben prima che redigessero il dossier. Infatti due sono le informative dei Ros consegnate a Falcone (e anche a Lo Forte che era sostituto procuratore a Palermo): una datata il 2 luglio 1990 e l’altra il 5 agosto del 1990. Falcone aveva capito che non bastava arrestare gli esponenti dei clan, ma bisognava colpire la ricchezza di Cosa Nostra, frutto di vere e proprie attività imprenditoriali. Del resto già Leonardo Sciascia aveva tratteggiato la figura dell’imprenditore mafioso, Colasberna, ne Il giorno della Civetta. Tuttavia, fino al momento in cui i Ros non misero il becco nel reimpiego dei capitali mafiosi nella gestione degli appalti, la linea investigativa era concentrata essenzialmente sulle indagini bancarie ai fini dell’individuazione delle somme di denaro e dei molteplici prestanomi che ne favorivano l’occultamento. Il meccanismo della gestione degli appalti in mano alla mafia è ben sintetizzato in un passaggio dell’informativa dei Ros dove si dice che i mafiosi “disponevano di una capacità operativa sorprendente, abbinata, tra l’altro, ad una pressoché illimitata forza condizionante la pubblica amministrazione che permetteva loro di aggirare e superare qualsiasi vincolo legislativo e non”, e che non aveva solo la capacità di indirizzare la volontà degli Enti Pubblici, “ma di coartarla in tutti i suoi aspetti, riuscendo in alcuni casi, a programmare essi stessi l’attività economica d’intervento pubblico”. Come accade spesso nelle indagini investigative, le collusioni vengono scoperchiate quasi per caso. Tutto cominciò quando, a settembre del 1989, avvenne l’omicidio di un imprenditore di Baucina, piccolo comune vicino Palermo. Nel corso delle relative indagini era emerso che l’impresa gestita dalla vittima legata alla mafia si era associata, in relazione ad un pubblico appalto di modesta entità, con la società Tor Di Valle Spa, di ben più imponenti dimensioni ed avente sede in Roma: all’epoca gestiva enormi appalti come la costruzione della nuova Casa circondariale di Civitavecchia, il prolungamento della linea ‘ B’ della metropolitana di Roma e altro ancora. È da quel momento che l’indagine si era concentrata su diverse società importanti della Sicilia che sarebbero entrate nel circuito mafioso. Sono società di modeste dimensioni che però erano collegate con le grandi imprese operanti al livello nazionale. Oltre alla Tor Di Valle, tra le tante, compare anche la società del nord Calcestruzzi s. p. a. del Gruppo Ferruzzi- Gardini che si era accordata con l’imprenditore mafioso Buscemi. Sul progressivo cambiamento del ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti dopo la metà degli anni 80, è necessario prendere in considerazione le conclusioni argomentate dai giudici della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta tratte dalla testimonianza di Siino. I giudici nisseni hanno spiegato che la mafia, da un ruolo prettamente parassitario incentrato sulle “messe a posto”, sui subappalti, sulle gestioni dei lavori per conto terzi, era passata a uno imprenditoriale, nel senso che la mafia aveva cominciato “a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti ad imprese a lei vicine”. Cosa nostra, si era inserita “a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti”, applicando “il pizzo sul pizzo”, cioè decurtando una parte delle tangenti dirette ai politici. Dall’informativa dei Ros mafia e appalti, infatti, si evince che l’obiettivo della mafia era quello di utilizzare il denaro del finanziamento al Mezzogiorno per i lavori da aggiudicare alle imprese dell’organizzazione. E a gestire i soldi del Mezzogiorno era la Sirap. Tale ente verrà poi esaminato dai Ros in un momento successivo tramite l’informativa “Caronte”, solo perché aveva una sua complessità rispetto alle vicende comprese nella informativa del febbraio del 1991 e perché, anche su sollecitazione dello stesso Falcone, si era preferito depositare, prima, una informativa di carattere generale. L’informativa “Caronte” venne tramessa alla Procura di Catania che, al termine delle indagini, formulò una richiesta di misure cautelari verso numerosi esponenti politici. L’allora procuratore Gabriele Alicata, non ritendendo competente il suo ufficio, trasmise le carte alla Procura di Palermo. Tutti gli esponenti politici e amministrativi per i quali la procura di Catania aveva richiesto misure cautelare, non vennero in quella sede perseguiti. La Sirap era incaricata dalla Regione Sicilia – il cui Presidente dell’epoca era l’onorevole Rino Nicolosi – di gestire finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno e dell’allora Comunità europea (la ex Cee) per circa mille miliardi, per la realizzazione di venti aree attrezzate da destinare alle piccole e medie imprese artigianali ed industriali. Si trattava, quindi, della gestione di venti gare di appalto dell’importo di circa cinquanta miliardi ciascuna. Erano tanti soldi, miliardi e miliardi delle vecchie lire, che potevano dare potere alla mafia, quello di condizionare la politica e l’economia legale. La Procura di Palermo aveva, come già detto, la delega per le indagini. Ma poteva farlo serenamente? Alcuni magistrati titolari dell’inchiesta avevano parenti di primo grado e anche padri e fratelli legati a quelle imprese ed enti sotto la lente d’ingrandimento dei Ros: uno dei sostituti procuratori aveva il padre presidente dell’Espi, ente economico che aveva il controllo della Sirap, società coinvolta nelle indagini. Sappiamo che Paolo Borsellino, ad esempio, aveva già chiesto al magistrato Salomone – fratello di uno degli imprenditori coinvolti nell’informativa dei Ros – di operare alla procura di Palermo, ma di non occuparsi di mafia- appalti per questioni di opportunità. Era solo un’informativa e quindi sono tutti innocenti fino a prova contraria, ma per questioni di evidenti “conflitti di interesse” forse sarebbe stato opportuno dare la delega ad altri magistrati, magari proprio a Falcone e Borsellino. Entrambi – come diverse testimonianze e documento lo certificano – informalmente seguivano mafia- appalti, ma furono dilaniati dal tritolo. Il movente che ha concausato la loro morte è stato sepolto con loro, in compenso sono stati condannati, in primo grado, coloro che dettero vita a quello scottante dossier.

Borsellino lavorava sul dossier Mori… Poi fu ammazzato. La corte smonta il luogo comune di uno stato inerme e piegato agli interessi di Cosa nostra nel periodo delle stragi, scrive Damiano Aliprandi il 3 luglio 2018 su "Il Dubbio". Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, depositata sabato a chiusura del processo Borsellino quater e rassegnate nelle 1865 pagine, non vengono dimenticate le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore». Le considerazioni della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonio Balsamo, conducono il collegio a disporre nella sentenza anche la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state, quindi, al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio. Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte»: furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto di tumore il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

L’irritualità della vicenda processuale. Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è quello delle «anomalie» e delle «irritualità» che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Questa è in sintesi la conclusione della motivazione. È la vicenda processuale dell’acquisizione probatoria degli interrogatori di Scarantino, una di quelle più aspramente contestate dalla Corte. Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui che la Corte non tarda a richiamare l’’ attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti. Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero». Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura» ; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo, ma per nulla meno importante, balza all’occhio un richiamo, quello alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio disporrà la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello.

Mafia Appalti, concausa della strage di via D’Amelio? Nelle motivazioni emerge anche un altro elemento non trascurabile. Ovvero il fattore scatenante per il quale la mafia avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché il dottore Borsellino, sì sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanata dal generale Mario Mori e voluta da Giovanni Falcone. Giuffrè, nel confermare le precedenti dichiarazioni secondo cui «il Dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti», ha chiarito che gli esponenti di ‘ Cosa Nostra’ «avevano avuto notizia di un «rapporto che era stato presentato alla Procura di Palermo da parte dei Ros all’allora Procuratore Giammanco». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due Magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso questo Tribunale, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco». Borsellino non si fidava dei suoi colleghi e riferendosi alla Procura di Palermo, parlò di «Covo di vipere». D’altronde, come riportò Il Dubbio, lo stesso Borsellino, dopo la morte di Falcone, si interessò di mafia appalti e ne parlò con i Ros tramite un incontro riservato in caserma, non in Procura. Altro aspetto fondamentale è che la Corte indirettamente sconfessa il teorema giudiziario sulla presunta trattativa Stato Mafia. «Va, altresì, rilevato – viene evidenziato nelle motivazioni – che l’attentato contro Paolo Borsellino costituiva un attacco terroristico diretto a piegare lo Stato. L’obiettivo perseguito con questo e con analoghi delitti era quello di destabilizzare le Istituzioni e favorire nuovi equilibri con il potere politico, strumentali alla tutela degli interessi di Cosa Nostra, ma nulla escludeva che, nella fase successiva, lo Stato avrebbe potuto reagire, come effettivamente avvenne, mediante misure dirette ad assicurare una più forte repressione del fenomeno mafioso». Viene confermato che lo Stato agì duramente per reprimere la mafia. Quindi nessun patto con Cosa Nostra.

La prima versione sulla strage. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone- Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse l’allora Pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni». A questo si aggiunse la requisitoria della Pm Anna Maria Palma: «dietro questa ritrattazione c’è la mafia». Il resto della storia, la conosciamo.

Quando il “Corvo” cominciò a volare su chi combatteva Cosa nostra. La prima lettera anonima del “Corvo” contro le istituzioni spuntò nel 1989 e fu ingiustamente accusato il pm Alberto Di Pisa, scrive Damiano Aliprandi il 16 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo raccontato come l’indagine dei Ros su mafia- appalti è stata seguita fin dall’inizio da Falcone e poi portata avanti da Borsellino. Per completare il quadro, però non si può tener conto delle lettere anonime definite giornalisticamente del “Corvo”. Come un uccello del malaugurio hanno svolazzato sempre quando ci sono stati gli attentati. La prima lettera arrivò a ridosso dell’attentato fallito a Falcone, l’altra invece a cavallo tra la strage di Capaci del 23 maggio 1992 e quella in via D’Amelio del 19 luglio 1992. La prima missiva anonima spunta in un anno spartiacque: il 1989. Il mondo cambia letteralmente volto. La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre, produce conseguenze politiche, economiche e sociali in tutto il pianeta. Mentre le manifestazioni studentesche in Cina vengono represse nel sangue, in Ungheria si apre la frontiera con l’Austria, creando il primo varco della Cortina di ferro e permettendo la fuga dalla Ddr (Repubblica Democratica Tedesca, comunemente chiamata Germania Est) di molti suoi abitanti. A novembre, una escalation di pochi giorni, cominciata con la concessione ai rifugiati nelle ambasciate della Germania Ovest di Praga e Varsavia di trasferirsi nella Repubblica Federale, porta alla caduta del Muro di Berlino, festeggiata l’anno seguente con un grande concerto dei Pink Floyd. Il 1989 è un anno rilevante anche nello scacchiere italiano, sotto il profilo politico, criminale e giudiziario. ll 20 febbraio, a Catanzaro, si conclude il terzo processo per la strage di Piazza Fontana: assolti gli imputati ( Stefano Delle Chiaie e Massimiliano Fachini) per non aver commesso il fatto. La storia si ripete un mese più tardi con l’assoluzione di tutti gli imputati per un’altra strage, quella di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974. I fatti più eclatanti si verificano tra le dimissioni del governo De Mita (19 maggio) e il giuramento del sesto governo Andreotti (23 luglio), pentapartito composto da Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Ma l’anno 1989 è anche quello dove per la prima volta in Parlamento arriva un relazione sulla sicurezza dove viene denunciato che mafia, camorra e ‘ ndrangheta hanno superato il terrorismo nella graduatoria delle minacce nella sicurezza nazionale. Il 12 giugno, Angela Casella, madre di Cesare Casella, ragazzo pavese rapito da diciassette mesi dall’Anonima sequestri calabrese, si incatena nella piazza di Locri per denunciare l’incapacità dello Stato nel combattere la criminalità organizzata. La ‘ ndrangheta, infatti, in quel periodo getta le basi della sua trasformazione e notevole espansione, approfittando soprattutto del cono d’ombra generato dal maxi processo palermitano contro Cosa nostra. Mentre gli esponenti di spicco della mafia siciliana sono ad un passo dall’essere condannati definitivamente dallo Stato italiano, le ‘ndrine calabresi controllano i territori, gestiscono in modo monopolistico il traffico di cocaina e riciclano il denaro acquistando beni immobili e attività commerciali, cominciando progressivamente a scalare le gerarchie criminali nazionali e internazionali. Ma l’anno 1989 è anche quello del fallito attentato a Giovanni Falcone e l’inizio di alcune missive inquietanti sempre ai danni del giudice palermitano. Già da un anno i Ros si stanno interessando di mafia- appalti, in seguito a una “soffiata” ricevuta dai carabinieri che indagano sull’omicidio di un allevatore in un comune delle Madonie. Le successive indagini svelano – come già descritto dettagliatamente nelle puntate precedenti de Il Dubbio ( edizioni del 3, 4, 8 e 9 maggio) – che Cosa nostra non ha più un atteggiamento parassitario ( imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali) ma, come spiega Giovanni Falcone, durante un convegno organizzato dall’Alto commissario antimafia, nella primavera del 1990, «indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici». Ma ritorniamo al 1989. È il 21 giugno quando cinquantotto candelotti di dinamite vengono rinvenuti sulla scogliera ai piedi della villa all’Addaura: assieme a Falcone avrebbero potuto eliminare anche Carla Del Ponte, allora procuratrice a Lugano, e il collega giudice istruttore Claudio Lehmann, che indagavano sul sistema di riciclaggio internazionale di Cosa nostra. Poche settimane prima giunsero continue lettere diffamatorie nei confronti soprattutto di Falcone e inviate a vari rappresentanti delle istituzioni. Verso la fine di maggio del 1989, Salvatore Contorno, noto collaboratore di giustizia, trasferitosi da tempo negli Usa dopo la celebrazione del primo maxiprocesso, veniva arrestato in Sicilia in una operazione finalizzata alla cattura del latitante Gaetano Grado in una villetta di S. Nicola l’Arena. Pochi giorni dopo venivano indirizzate a varie autorità una serie di missive anonime scritte a macchina, note come le lettere del “Corvo”, che contenevano gravissime accuse nei confronti di vari magistrati e appartenenti alla polizia, tra cui innanzitutto Falcone e Giovanni De Gennaro, poi diventato vicedirettore della Dia, accusati di avere ordito un diabolico piano per contrastare la fazione corleonese di Cosa nostra attraverso il ritorno in Sicilia di Salvatore Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano e per guidare la vendetta delle cosche perdenti con una serie di omicidi. Si mette in diretta correlazione il rientro di Contorno con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati nel territorio di Bagheria, tra il marzo ed il maggio del 1989, ai danni di persone legate alle cosche mafiose vincenti dei corleonesi. Le accuse, ovviamente, si sono rivelate assolutamente calunniose anche nel contesto delle indagini svolte per individuare l’autore delle lettere e che le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia successivamente acquisite hanno concordemente attribuito la responsabilità degli omicidi indicati negli anonimi al gruppo corleonese escludendo la responsabilità di Salvatore Contorno. Verrà accusato ingiustamente il magistrato Alberto Di Pisa, all’epoca sostituto procuratore a Palermo, che ha subito un travagliato processo a seguito delle indagini avviate dall’Ufficio dell’Alto Commissario che lo avevano indicato come autore delle lettere e che, comunque, dopo essere stato condannato dal Tribunale di Caltanissetta, è stato poi definitivamente assolto dalla Corte di Appello di Caltanissetta. Dalla sentenza però emerge chiaramente come le calunniose accuse rivolte a Falcone provengano da un ambito istituzionale e come si pongano in strettissima correlazione logica e cronologica con l’attentato fallito dell’Addaura. Al riguardo, lo stesso generale Mario Mori ha riferito nel suo esame dibattimentale ( udienza del 7 febbraio 2000) che aveva concordato con Falcone nel ritenere che le lettere del “Corvo”, rappresentassero un “atto di delegittimazione di personaggi delle Istituzioni particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata” e che nella prassi mafiosa le manovre di isolamento e delegittimazione fossero spesso il primo passo per giungere, “all’annientamento” di chi si contrapponeva ai programmi della organizzazione mafiosa. Tutti questi elementi fanno pensare, a detta di chi scrive, che le lettere del “Corvo” siano state scritte nel consapevole intento di preparare il terreno per l’imminente tentativo di eliminazione fisica di Falcone. Piano poi purtroppo riuscito quel maledetto 23 maggio del 1992. Un altro anno particolare, altro spartiacque della storia del nostro Paese dove spuntò fuori l’ennesima lettera anonima. 

E la lettera del “Corvo 2” spuntò tra le stragi di Capaci e via D’Amelio. Una lettera di otto pagine dattiloscritte fu indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino, scrive Damiano Aliprandi il 17 Maggio 2018, su "Il Dubbio". L’anno 1992, come il 1989, è stato l’ennesimo spartiacque nel mondo intero. Negli Stati Uniti inizia l’era – poi finita tra pepate polemiche – del democratico Bill Clinton. È uno spartiacque in Europa, dove entra tragicamente nel vivo il conflitto che dilanierà la Penisola Balcanica e che si concluderà nel 1995. Perfino il cinema non sarà più lo stesso. Nel 1992 verrà presentato prima al Sundance poi a Cannes, l’opera d’esordio di uno stralunato cinefilo di Knoxville – ex impiegato di una videoteca – chiamato Quentin Tarantino. Reservoir Dogs, nell’ottobre dello stesso anno, viene rilasciato anche da noi col titolo Cani da rapina: non lo vedrà praticamente nessuno. Quando poi la distribuzione opta per il titolo che oggi tutti conosciamo – Le iene – anche il nostro pubblico si desta e comprende che da lì in poi il cinema non sarà più lo stesso. Ma il 1992 è stato l’annus horribilis della Repubblica italiana. Un vero e proprio terremoto si abbatte nel nostro Paese, dove sotto le bombe della mafia esplode Tangentopoli. Crolla l’impero delle luci e del benessere dalle mille contraddizioni della Prima Repubblica, si dimette il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e si apre la strada per la discesa in campo di un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, che due anni dopo sarà eletto. Ma è l’anno, appunto, della mafia corleonese che teme di essere annientata, e cioè teme che sia intaccata la sua potenza economica, che si fonda non solo sul traffico di droga, ma sulla gestione degli appalti con la connivenza di alcuni imprenditori e politici anche di rilievo nazionale. Un mafia che compie le stragi con il tritolo, uccidendo prima Falcone e dopo Borsellino. Ma ci fu anche l’omicidio di Salvo Lima (capo degli andreottiani in Sicilia), e non fu un caso isolato: il giorno prima a Castellammare di Stabia viene ucciso Sebastiano Corrado, un consigliere comunale del Pds e qualche giorno dopo cinque pallottole calibro 45 uccidono Salvatore Gaglio, 50 anni, segretario della Federazione del Psi di Bruxelles. La seconda lettera anonima, giornalisticamente chiamata “Corvo 2” apparve al cavallo tra la strage di Capaci e via D’Amelio. I Ros, in quel convulso periodo, cercavano chi gli consentisse di lavorare efficacemente, mentre l’organismo di punta della magistratura nella lotta contro l’organizzazione mafiosa, la procura della Repubblica di Palermo, era quasi all’impotenza operativa, preda al suo interno di forti contrasti: un “covo di vipere” secondo il parere espresso da Borsellino, nel giugno 1992, ai colleghi Camassa e Russo. Affermazione che non costituiva solo lo sfogo isolato di una persona delusa, visto che in quell’estate, tra i magistrati della Procura di Palermo, si manifestarono aspre polemiche culminate in un documento, reso pubblico e sottoscritto da un numero significativo di sostituti, che evidenziava una forte contestazione nei confronti dell’allora procuratore capo Giammanco in relazione alla gestione dell’Ufficio. Una lettera anonima che spunta in questo periodo particolare, quando Borsellino riteneva che potesse esserci un legame diretto tra l’attentato di Capaci e la più recente attività di Falcone; e pensava che la continuazione dell’indagine mafia- appalti, che i Ros avevano iniziato con Falcone, avrebbe comunque rappresentato un salto di qualità nel contrasto a Cosa nostra. Parliamo di una lettera di otto pagine dattiloscritte indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino. Otto pagine che ricostruiscono uno scenario siciliano, che indicano piste investigative, che invitano a seguire con più attenzione certi indizi, che gettano ombre su alcuni uomini importanti. Una lettera che fa tremare Palermo e i palazzi romani. Questa volta si firma con un “noi”. L’hanno messa in circuito fra il 22 e il 23 di giugno, per una decina di giorni solo sussurri e bisbigli. Poi, improvvisamente, un giornale, La Sicilia di Catania, decide di pubblicare ampi stralci di quell’anonimo. Le otto pagine sono diventate un ‘ caso’, tanto da far scaturire un’interrogazione parlamentare da parte del senatore Lucio Libertini di Rifondazione Comunista. Gli anonimi del “Corvo 2” riportano il tentativo della Dc di rinnovare il partito liberandosi di Andreotti. In particolare facevano riferimento esplicito all’attività degli onorevoli Sergio Mattarella e Calogero Mannino volta a scalzare il potentato politico detenuto in Sicilia da Giulio Andreotti, attraverso l’onorevole Salvo Lima, in vista delle elezioni politiche del 5 e 6 di aprile di quell’anno. Entrando nei particolari l’anonimo descriveva, tra gli altri, anche di un incontro, facilitato dal professionista palermitano Pietro Di Miceli, che sarebbe avvenuto in una chiesa di San Giuseppe Iato, tra Mannino e Salvatore Riina nel corso del quale gli accordi raggiunti avrebbero anche previsto l’eliminazione fisica dell’onorevole Lima. I conseguenti sviluppi dell’intesa avrebbero poi determinato, in successione di tempo, anche l’assassinio di Falcone. Una lettera, insomma, che – come fu per quella precedente che infangò Falcone e persone dello Stato a lui vicine -, fa accuse pesantissime, a tratti deliranti. Tanto da sostenere che Totò Riina si sarebbe messo d’accordo per farsi arrestare in cambio di alcuni punti da rispettare. Ricorda qualcosa? Sì, sembra il prototipo del teorema giudiziario sulla presunta trattativa stato- mafia che si basa, appunto, su un papello (inattendibile quanto la lettera anonima) con diversi punti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare. Ma come accade in tutte quelle lettere dove dietro c’è la mano di qualcuno che vuole depistare, c’è un mix di qualche notizia vera, di pubblico dominio, insieme ad altre verosimili e ad altre visibilmente surreali. Ad esempio – noti- zia vera – viene citato mafia- appalti, comprese alcune aziende coinvolte, facendo riferimento ai magistrati di Palermo che, di fronte a un informativa di 900 pagine, si sono limitati ad arrestare persone di basso profilo. Ma – c’è da dire – questa era roba nota visto che montò una polemica pubblica su quell’episodio. Chi è stato l’autore della lettera? La serie di considerazioni e notizie di dettaglio riportate nel testo attribuito al “Corvo 2”, vennero esaminate dagli organismi delegati alle indagini che, in data 2 febbraio 1993, trasmisero, a firma del questore Achille Serra e del generale Antonio Subranni, l’informativa n. 123G/ 628271/ 100B protocollo del Servizio centrale operativo e n. 10102/ 14 protocollo Ros. Il documento prendeva in esame dettagliatamente gli sviluppi della vicenda, nel cui ambito anche il generale Mario Mori fece una personale attività d’indagine, ricostruendone gli antefatti e individuando l’estensore dell’anonimo, ma solo come dato probabilistico, in tale Angelo Sciortino, le cui affermazioni avevano trovato “elementi di notevole somiglianza” nel contenuto dell’anonimo stesso, con quello riferito da una fonte informativa del Sisde, denominata “Spada“, e da altre risultanze testimoniali acquisite. Il Sisde però non comunicò mai il nome della sua fonte. Quello che sappiamo è che le inchieste delle procure di Caltanissetta e Palermo non portarono all’accertamento e all’attribuzione di specifiche responsabilità. Le rivelazioni anonime, però, hanno avuto il potere di distogliere per un po’ di tempo le energie giudiziarie e di polizia dalla caccia agli autori della strage di Capaci. Il dato certo, come documentato da questa inchiesta de Il Dubbio, è che negli ultimi giorni di vita, Borsellino era impegnato con tutte le sue forze a individuare mandanti ed esecutori della strage di Capaci e la sua attenzione particolare era rivolta all’inchiesta mafiaappalti, a suo tempo avviata da Giovanni Falcone, che lui riteneva l’indagine da sviluppare prioritariamente. A differenza di quanto sostenuto dai titolari dell’inchiesta sulla trattativa Stato– mafia, l’attività professionale di Borsellino era concentrata su quello, e nessun cenno, anche indiretto, egli aveva fatto a ipotesi di trattative o contatti tra istituzioni dello Stato e “Cosa nostra”.

Un pentito accusa la Procura di Palermo: «Così favorì la mafia». Il pentito Giuseppe Li Pera racconta perché la procura di Palermo non volle ascoltare la sua versione sull’inchiesta mafia-appalti, scrive Damiano Aliprandi il 23 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I magistrati della Procura di Palermo non mi hanno voluto ascoltare sui fatti». A denunciarlo è Giuseppe Li Pera, allora capo area per la regione Sicilia della società Rizzani de Eccher, anch’essa coinvolta nell’inchiesta mafia- appalti, condotta dai Ros capitanati dal generale Mario Mori e seguita fin dall’inizio dal magistrato Giovanni Falcone, che la coordinò sino al giorno della sua morte. A distanza di 26 anni, ancora rimane un mistero la ragione per cui Giovanni Falcone fu ucciso. Così come il mistero rimane per le sorti di Paolo Borsellino che, prima di essere dilaniato dal tritolo, attendeva di avere in mano la delega per Palermo: in tale modo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Diverse sono le testimonianze che attestano il suo interessamento, a partire da quando, nell’incontro riservato con Mori e De Donno per parlare dell’inchiesta, ribadiva la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – testimoniò Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». Ma ritorniamo a mafia- appalti. L’indagine dei Ros era nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che veniva informato delle indagini ancora prima che fosse redatto il dossier. Esattamente due furono le informative dei Ros che vennero consegnate a Falcone, ma anche a Lo Forte che era allora Sostituto Procuratore a Palermo: l’una datata 2 luglio 1990 e l’altra 5 agosto del 1990. Informative, soprattutto quella del 2 luglio, nelle quali erano contenuti espliciti riferimenti ad asserite cointeressenze, di natura illecita, di interi gruppi politici oltre che riferimenti a singoli esponenti di rilievo nazionale. Quindi non solo Falcone, ma anche Borsellino e i successivi altri suoi colleghi che si sarebbero occupati delle sorti dell’inchiesta mafia- appalti, erano a conoscenza del contenuto della prima informativa di carattere generale, che fu depositata proprio dietro volere di Falcone, in attesa di altri approfondimenti soprattutto in merito alla posizione dell’ente regionale Sirap che gestiva i soldi per gli appalti. Fu infatti in un momento successivo che i Ros, solo nell’informativa “Caronte”, approfondirono la posizione della Sirap nell’ambito dei fatti dell’inchiesta. In seguito alla prima informativa, vennero emessi solamente cinque mandati di cattura rispetto ai 44 personaggi coinvolti. Ed è in questo momento che si inserisce il geometra Li Pera, uno dei coinvolti nei fatti dell’indagine, che decise di collaborare con la giustizia. Ma, a detta sua, non venne ascoltato dai magistrati di Palermo. In effetti, noi de Il Dubbio abbiamo potuto verificare la circostanza nel provvedimento di archiviazione del Gip Gilda Loforti del Tribunale di Caltanissetta, dove viene confermata la denuncia che Li Pera espose al Sostituto Procuratore Felice Lima. Tra le denunce, anche il fatto che i magistrati di Palermo avrebbero fatto pervenire il rapporto dei carabinieri del Ros su mafia- appalti nelle mani degli avvocati, ancora prima che scattasse il blitz. Accusa che anche lo stesso carabiniere dei Ros De Donno fece nei confronti dei magistrati. Scaturirono querele vicendevoli e nell’ordinanza del Gip Loforti, dove entrambe furono riunite e finirono per essere archiviate, si legge: «Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati». Un’ordinanza che getta ombre, addirittura sull’ipotesi che gli inquirenti possano essere stati coinvolti per denaro o ragioni d’amicizia. Ora Giuseppe Li Pera vuole rinnovare le sue obiezioni e ha scelto di rispondere alle nostre domande: occorre rammentare a questo proposito che egli già altre volte, davanti agli inquirenti, aveva lamentato che la Procura di Palermo avesse usato con lui una mano più pesante rispetto a quella adottata nei confronti del suo titolare e dei suoi dirigenti, seppur a fronte del fatto che la maggior parte dell’impianto accusatorio fosse composto da intercettazioni telefoniche. No, ma solo dopo alcuni mesi, quando ebbi la certezza che la Procura non voleva sentirmi. Dopo il mio arresto avevo studiato le carte in mio possesso ed avevo deciso di mettere alla prova la buona fede dei Pm. Io partivo dall’assunto che era assurdo che i Pm avessero potuto separare la mia posizione da quello del mio titolare e dei miei dirigenti, e al primo interrogatorio di garanzia avevo predisposto una trappola. In quell’interrogatorio avevo citato la parola chiave “PASS”, che è il meccanismo della illecita spartizione degli appalti, e dissi a me stesso, se mi chiedono che cosa vuol dire il sistema dei PASS, chi e perché si usa, vuol dire che non hanno capito di cosa parla il Dossier dei Ros e quindi mi sarei messo a disposizione per chiarire tutto, se invece non mi chiedono cosa vuol dire PASS, significa che hanno fatto una scelta politica di proteggere i potenti sia essi imprenditori che politici e far volare solo gli stracci. Quando poi per due volte si rifiutarono di sentirmi ebbi la certezza che la loro decisione era irrevocabile.

Nel 1992 venne sentito dal Pm Felice Lima di Catania? Perché? Aveva fatto già qualche denuncia in quell’occasione?

«No. Feci mandare un esposto anonimo. Ricordo che di primo acchito il Pm Lima non era convinto della bontà delle mie affermazioni, cosicché io gli dissi “dottor Lima non si preoccupi, se lei non trova le prove di quanto io dico, ed io le dico quali prove cercare e dove cercarle, amici come prima”. Il dottor. Lima, ovviamente trovò tutte le prove necessarie, non solo, chiese anche l’arresto di 22/ 23 persone tra cui, se la memoria non mi inganna, anche di due Pm di Palermo, solo che l’allora Procuratore Capo di Catania gli levò la delega e lo mandò, da brillante Pm antimafia ad occuparsi di divorzi».

Lei fece una denuncia per corruzione in atti giudiziari nei confronti di quattro magistrati, uno tra i quali fu il Procuratore Giammanco. Ne scaturì un’indagine? È a conoscenza di quanto emerse in seguito?

«Certo, io ho sempre sostenuto e ne sono sempre più convinto che i Pm di Palermo decisero a tavolino chi processare e chi salvare. Per me neanche un chirurgo avrebbe potuto separare la mia posizione da quella del mio titolare e dei miei dirigenti. Ovviamente quando si ufficializzò la mia collaborazione con la Procura di Catania, i Pm di Palermo si scatenarono contro. Le potrei fare decine di esempi, ma gliene cito uno solo. I Pm di Palermo avevano chiesto in dodici diversi interrogatori a Leonardo Messina, dell’operazione “LEOPARDO”, se mi conosceva, e lui per ben dodici interrogatori affermò di non avermi mai visto, finchè qualche giorno dopo l’ufficializzazione della mia collaborazione con il dottor Lima, improvvisamente il Messina è folgorato sulla via di Damasco e dice testualmente: “Lo conosco e sono andato con lui a portare una tangente di 100 milioni di lire al capo mafia di Pietraperzia, ( ovviamente morto), per il lotto dell’autostrada per Pietraperzia, vinto dalla Rizzani de Eccher”. Va innanzitutto detto che non esiste un’autostrada per Pietraperzia, ma uno scorrimento veloce Caltanissetta – Gela ed era previsto uno svincolo per Pietraperzia. Ricordo che all’epoca dei fatti io ero il capocommessa più anziano in Sicilia della Rizzani de Eccher. Bene il signor Messina alla domanda del mio legale, il compianto avvocato Pietro Milio, che gli chiese in che anno avvenne questa dazione di denaro rispose a dicembre 1991. “Ma a dicembre 1991 il geometra Li Pera era già arrestato”, ribatté Milio. Rispose che allora è stato nel 1990. Ma quella gara non venne esperita che a giugno/ luglio 1991, quindi a che titolo si andava a pagare una tangente per un lavoro non ancora aggiudicato? Ma la cosa più umoristica è che la Rizzani de Eccher a giugno/ luglio si aggiudicò un lotto della Caltanissetta – Gela a 60 Km dallo svicolo di Pietraperzia. Chiaro che il tutto era stato imboccato al Messina con molta superficialità. Per rispondere, infine, alla sua domanda, sì in effetti ci furono due indagini, la prima fu archiviata e poi fu riaperta a seguito della denuncia dell’allora Capitano De Donno. La Gip dottoressa Gilda Loforti archiviò l’indagine dopo alcuni anni, ma la frase più gentile che usò nei riguardi dei suoi colleghi di Palermo fu “hanno indagato su se stessi e si sono autoassolti”».

In questi giorni ricorre l’anniversario della strage di Capaci. Una ventina di anni fa lei fu ascoltato dagli inquirenti e in un’occasione manifestò delle perplessità sulla dinamica, relativamente alla preparazione della strage, così come era stata riferita da Giovanni Brusca. A che titolo venne sentito dagli inquirenti?

«Volevano sapere se durante il periodo della mia detenzione avevo sentito notizie relative all’attentato, la mia risposta fu negativa».

Cosa non la convinceva nella dinamica della strage di Capaci, al punto da manifestare le sue perplessità pur a fronte alle ricostruzioni di Giovanni Brusca?

«Premetto che sono un discreto esperto di dinamite, avendo lavorato per tanti anni in Italia ed all’estero in cantieri in cui si utilizzava la dinamite per lo scavo di gallerie, di trincee, per l’apertura di cave etc., per cui posso tecnicamente affermare che quanto dichiarato da Brusca Giovanni, circa la preparazione dell’attentato, a mio modesto avviso, non è convincente».

Alla luce del suo coinvolgimento nella vicenda e sulla base delle sue conoscenze dei fatti e dello sviluppo dell’inchiesta mafia- appalti, conosce un qualche legame tra l’uccisione di Giovanni Falcone e la circostanza che stesse conducendo l’inchiesta e che volesse portarla in fondo?

«Io sono convinto che l’indagine su mafia- appalti non sia il vero motivo della strage “Falcone”, ci deve essere qualcosa di più grave e di più devastante per la vita della Repubblica Italiana. Le rivelo un particolare che pochi sanno. Il compianto avvocato. Pietro Milio stava scrivendo un libro, che purtroppo fu pubblicato dopo la sua morte con il titolo “Giustizia Assistita”. Bene, io ebbi l’occasione di visionare le prime bozze ed io collaborai anche alla stesura di un capitolo, quello relativo alla strage di Capaci, dove contestai pezzo per pezzo le affermazioni di Giovanni Brusca, grande fu la mia sorpresa nel vedere che nel libro pubblicato questo capitolo era sparito. Come era sparito il capitolo dove Milio si chiedeva cosa era venuta a fare l’Fbi, le sue testuali parole erano “l’Fbi è venuta a cercare le prove o è venuta a cancellarle?”»

Che lei sappia, con riguardo alla strage di Capaci, qualche potere, politico o giudiziario, poteva sapere o aver agito in favore della Mafia, anche inconsapevolmente, considerati gli interessi economici e politici in gioco?

«Io sono sempre stato convinto, e lo era anche il compianto avvocato Pietro Milio, che il ruolo della mafia in questa strage sia stata solo quella di esecutore, ma i mandanti sono altri. Lui parlava spesso di un collegamento tra la strage di Capaci, l’attentato al giudice Palermo, che trent’anni fa costò la vita ad una mamma ed ai suoi due gemellini, ed al fallito attentato dell’Addaura».

Scarpinato: «Non ci diranno mai cosa c’è dietro le stragi». Le parole del procuratore generale di Palermo, scrive Damiano Aliprandi il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  «È inquietante che ci sono tante, troppe cose, e quello che ancora più inquietante è che ci sono tante persone che sanno e che continuano a tacere. Perché?», ha detto il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato durante un incontro organizzato in occasione delle commemorazioni per ricordare i magistrati uccisi dalla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi fa i nomi. «I Graviano, ad esempio, hanno ancora 50 anni e potrebbero rifarsi una vita, eppure stanno in silenzio. C’è una storia inquietante anche da questo punto di vista». Eppure, non è del tutto vero. Anzi, adesso il silenzio è stato imposto dai pm antimafia. Il caso vuole che lo scorso 12 dicembre, Fiammetta Borsellino – figlia minore del giudice assassinato nell’eccidio di via D’Amelio, il 19 luglio ’ 92 – è andata a fare un colloquio con i fratelli Graviano al 41 bis, nei due penitenziari di massima sicurezza. Qualcosa le hanno detto. Giuseppe Graviano ha fatto un piccolo accenno a Berlusconi è di quando faceva la bella vita a Milano. «Lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi – ha lanciato lì a sorpresa – più che io era mio cugino che lo frequentava». Ma finisce lì, nessun riferimento alle stragi come forse altri ben speravano. Infatti la stessa Fiammetta non era minimamente interessata e ha cambiato discorso, perché quello che le premeva è la verità sull’omicidio di suo padre. A quel punto – grazie a un articolo del Corriere della Sera a firma di Giovanni Bianconi – veniamo a sapere cosa le rispose: «Lei ha fiducia della magistratura attuale? Come mai non hanno scoperto ancora chi ha ucciso la buonanima di suo papà?». Fino a diventare quasi aggressivo: «A nessuno interessa far emergere la verità della morte di suo padre, sono due cose distinte con la morte di Giovanni Falcone… A lei non interessa sapere chi ha ucciso suo papà… se qualcuno non era amico di suo papà… meglio morire e non far emergere la verità». Ma non solo, il fratello più grande, Filippo, dopo averle detto di essere estraneo alle stragi, dopo varie insistenze a dire la verità, le ha detto: «Io una volta ho detto ai magistrati “se dovessi dire la verità sulla mia vita passata… voi mi rimandereste in cella come per dire ci sta facendo perdere tempo”». I Graviano, quindi, hanno cominciato a parlare, dicendo qualcosa di diverso rispetto alla narrazione vigente. Cosa è accaduto? Le Procure antimafia di Palermo, Caltanissetta e Firenze, hanno detto «no» alla possibilità di un nuovo incontro tra Fiammetta Borsellino e Filippo Graviano, perché potrebbero essere possibili depistaggi. Ritornando alle affermazioni di Scarpinato, quindi no, i Graviano si stavano piano piano confidando con la figlia di Borsellino e i magistrati antimafia stessi hanno deciso che si tratta di depistaggio. Eppure, non si spiega come mai sono state usate per il processo sulla presunta trattativa Stato- mafia le intercettazioni ambientali fatte a Graviano, quando sapeva benissimo – anche in quel caso – di essere ascoltato. Fiammetta Borsellino, che ha appreso in via ufficiosa del no delle procure antimafia, ha lasciato questa dichiarazione: «Hanno ignorato la mia richiesta di un altro incontro e questa è la cosa peggiore che si possa fare». Sempre Scarpinato, durante il suo intervento, ripercorre anche altre tappe dolorose della storia d’Italia citando la strage di Portella della Ginestra del 1947 e di quella di Bologna, parlando, appunto, dei vari depistaggi messi in atto. Da lì, cita dei possibili documenti spariti e della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino e di possibili infiltrati nella Polizia. Da notare che, questa volta, non cita i Ros che pure li ha inquisiti, ma soltanto la polizia. Ma non cita nemmeno le preoccupazioni di Borsellino nei confronti di alcuni suoi colleghi e il suo interessamento su mafia- appalti, tanto da discuterne riservatamente con i Ros in una caserma, anziché in procura. Poi Scarpinato parla di Falcone e il fatto che sia stato ostacolato tanto da andarsene via da Palermo – a causa del suo interessamento dell’omicidio dell’allora presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, fratello del Capo dello Stato, Sergio. Vero, era interessato, anche perché Falcone era Procuratore aggiunto. Però Scarpinato si è dimenticato di dire che quelli erano gli stessi anni in cui Falcone seguiva attentamente l’inchiesta dei Ros su mafia- appalti che avrebbe colpito il cuore di Cosa nostra: ovvero i soldi derivati dalla gestione degli appalti, anche di rilievo nazionale, con l’ausilio anche di politici importanti. Inchiesta giudiziaria che come sappiamo fu poi archiviata definitivamente il 14 agosto del 1992, meno di un mese dalla morte di Borsellino. Quando quest’ultimo era ancora in vita, a chiederne l’archiviazione è stato lo stesso Scarpinato assieme al collega Lo Forte.

Lei però dica perché ha archiviato mafia- appalti (Se non è vero, smentisca). Scarpinato ha firmato la richiesta? Scrive Piero Sansonetti il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Il Procuratore generale Scarpinato, come sempre, pone dei problemi molto seri, che sarebbe sbagliato nascondere. Nella storia d’Italia ci sono dei buchi neri che riguardano le stragi rimaste senza colpevoli, e riguardano anche i rapporti che organizzazioni criminali come la mafia hanno avuto con l’economia. Sappiamo poco di questi argomenti. Naturalmente la storia d’Italia non è solo questo. Come spiega molto bene il dottor Peppino Di Lello nel suo intervento che raccontiamo ampiamente su questo numero del giornale, la storia d’Italia è fatta soprattutto di lotte, di movimenti, di conflitti, di battaglie parlamentari, di impegni dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari. Servono nuove indagini per capire cosa c’è dentro i buchi neri? Può darsi. Purché si facciano seriamente e sulla base di fatti reali e accertati, non di fantasie, di ipotesi letterarie e illogiche. Oppure di tesi politiche confezionate a tavolino per colpire qualche avversario. Cosa è successo davvero nel ’ 92 e nel ’ 93 quando furono uccisi Falcone e Borsellino e quando poi la mafia organizzò varie stragi nella Penisola? E perché furono uccisi Falcone e Borsellino? In questi giorni noi abbiamo pubblicato una ricostruzione di ciò che successe in quei mesi insanguinati. E soprattutto ci siamo occupati del dossier “mafia e appalti”, preparato dal generale Mori, sul quale lavorò Falcone e avrebbe poi voluto lavorare Borsellino. Che non fece in tempo. Perché fu ucciso. Quel dossier, fu archiviato pochi giorni dopo la morte di Borsellino. La sua archiviazione era stata chiesta pochi giorni prima della morte di Borsellino dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato. Perché? Fu un errore molto grave. Archiviando quelle indagini, alle quali Falcone teneva moltissimo, fu buttato a mare un pezzo molto importante dell’impegno antimafia dello Stato italiano. Oggi il dottor Scarpinato può dirci perché chiese quella archiviazione? Può spiegarci se ricevette pressioni? E perché il dossier non arrivò mai a Borsellino? Nessuno dubita della buonafede di Scarpinato, neppure lontanamente, ma se lui stesso sollecita trasparenza sarebbe giusto innanzitutto che fosse lui stesso a offrire trasparenza, no? Se invece non è stato lui a firmare la richiesta di archiviazione, allora temo che mi prenderò una querela. Ma a me risulta che fu lui a firmare.

Il “metodo Falcone”, scrive il 15 maggio 2018 su "La Repubblica" Attilio Bolzoni. Hanno lavorato con lui, fianco a fianco fin da quando ha iniziato ad ideare quel capolavoro d'ingegneria giudiziaria che è stato il maxi processo a Cosa Nostra. Con loro ce n'erano altri che non ci sono più - come Rocco Chinnici e i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà, o come Antonino Caponnetto e Antonio Manganelli - ma quelli che ritroverete qui lo possono raccontare ancora oggi. L'hanno incontrato tutti nel piccolo bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo, hanno visto nascere sulla sua scrivania le prime e più rilevanti indagini antimafia, hanno accompagnato per almeno un decennio la straordinaria avventura di un magistrato italiano. Dopo le celebrazioni fastose del venticinquesimo anniversario del 2017 per commemorare le vittime di Capaci e di via D'Amelio, un anno dopo vogliamo ricordare Giovanni Falcone attraverso voci che portano memoria diretta del giudice, del suo talento investigativo, della sua passione civile, della forza delle sue idee e - per riprendere le parole di Giuseppe D'Avanzo - dell'«eccentricità rivoluzionaria del suo riformismo». In questa pagina annunciamo il contenuto della serie del blog Mafie che ogni mattina è su Repubblica.it e che, da oggi e per quasi due settimane, è riservato a quello che tutti indicano come il "metodo Falcone”. Fuori dalla retorica e fuori da quell'enfasi che ha snervato e a volte anche sfregiato la figura di quello che è stato un "italiano fuori posto in Italia" (come lo sono stati Paolo Borsellino, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri caduti in Sicilia), queste sono testimonianze che ci ripropongono il Giovanni Falcone magistrato e la sua sapienza giuridica. Cosa era quello che poi è stato definito il suo "metodo”? Cosa ha inventato dalla fine degli anni '70 di tanto fondamentale in quella piccola stanzetta del tribunale siciliano? Come è cambiata - grazie a lui - la storia della lotta alla mafia nel nostro Paese nonostante le umiliazioni che ha dovuto subire da vivo e poi anche da morto? Ce lo spiegano una dozzina di personaggi, tutti rappresentanti delle istituzioni che nelle fasi più significative della sua esistenza gli sono stati molto vicini. Giudici, poliziotti, carabinieri, finanzieri, impiegati civili del ministero della Giustizia. Alcuni ci hanno offerto un contributo inedito, altri hanno preferito ripescare nei loro archivi un testo già dedicato al ricordo di Falcone e della sua attività. Ciascuno di loro ha raccontato un "pezzo” di una vicenda siciliana iniziata nei primi mesi del 1980 e in parte chiusa con le stragi del '92. Tante analisi per spiegare la “rivoluzione” avvenuta a Palermo. Nel piccolo bunker hanno avuto anche origine i reparti speciali investigativi italiani come lo Sco della Polizia di Gianni De Gennaro e il Gico della Finanza. E anche il Ros dei carabinieri. Proprio dalla visione ampia degli scenari mafiosi che aveva quel giudice e dalla necessità di oltrepassare con le indagini i confini provinciali, Falcone ha avuto l'idea di creare gruppi super-specializzati che potessero operare con grande libertà di manovra su tutto il territorio nazionale. Suo interlocutore principale nell'Arma, al tempo era il capitano Mario Parente, che poi del Raggruppamento operativo speciale ne è diventato il comandante. Una stanza di Tribunale che è stato un “laboratorio” della lotta alla mafia in Italia e che ha formato funzionari dello Stato che hanno dato grande prova di sé nei decenni successivi. Tra gli autori di queste testimonianze i magistrati del famoso pool (Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli), l'ex presidente del Senato Pietro Grasso che il maxi processo l'ha "visto” come giudice a latere della Corte di Assise, Giuseppe Ayala che ha sostenuto l'accusa. E il capitano della Guardia di Finanza Ignazio Gibilaro, oggi comandante delle Fiamme Gialle in Sicilia, l'ufficiale dei carabinieri Angiolo Pellegrini che insieme a Ninni Cassarà e Beppe Montana firmò il rapporto "Michele Greco+161” che diede origine al maxi processo, il giovane funzionario della Criminalpol Alessandro Pansa che negli anni a seguire sarà nominato prefetto e diventerà il capo della polizia italiana. C'è anche la preziosa testimonianza di Guglielmo Incalza, il dirigente dell'"Investigativa” della squadra mobile di Palermo, il primo poliziotto che ha collaborato con Falcone nell'indagine sugli Spatola e gli Inzerillo. Un articolo è firmato da Vincenzina Massa, giudice palermitana che ha iniziato la sua carriera come uditore proprio nella stanza di Falcone. Un altro ricordo è di Giovanni Paparcuri, il fidato collaboratore informatico del giudice che ha voluto un museo in onore di Falcone e Borsellino nei locali dove i due lavoravano. E' stato Paparcuri, qualche mese fa, a suggerirci di dedicare una puntata del blog al "metodo Falcone”. Una buona idea.

Quella “squadra speciale” nel bunker delle indagini, scrive il 16 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio Gibilaro - Generale della Guardia di Finanza. Nella tarda serata del 9 novembre 1983, il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo fece il suo ingresso in quella che sarebbe stata la sua casa per i successivi quattro anni, la “Caserma Cangialosi” della Guardia di Finanza. La scelta di alloggiare Antonino Caponnetto in un'austera foresteria militare era stata imposta dalla terribile eco dell’autobomba che pochi mesi prima aveva ucciso Rocco Chinnici, suo predecessore al vertice dell’Ufficio giudiziario palermitano. Ebbene, il destino (o forse la Provvidenza) volle che proprio tra le sicure mura dell’ex convento accadesse un episodio determinante per il futuro sviluppo di quello che diverrà “il metodo Falcone”. Infatti, nel dicembre di quell’anno, passeggiando nel chiostro dell’antico complesso domenicano, Caponnetto ed il colonnello Gaetano Nanula concordarono di dare concreta attuazione ad un’idea di Giovanni Falcone: distaccare presso i locali dell’appena costituito “pool antimafia” un piccolo nucleo di investigatori del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria che fossero in grado di procedere all’esame dell’enorme quantità di documenti bancari sequestrati nell’ambito di tutte le principali inchieste su Cosa Nostra. La richiesta di Falcone traeva origine dall’esperienza che il giudice aveva maturato allorchè, sul finire degli anni ’70, Rocco Chinnici gli aveva affidato l’istruttoria contro Rosario Spatola. Lo stesso magistrato ha più volte ricordato che proprio durante tale inchiesta, mentre ricostruiva il traffico di eroina gestito dalle famiglie mafiose tra la Sicilia e gli Usa, si era convinto che nelle banche dovevano pur essere rimaste delle tracce contabili delle ingenti somme scambiate e così, per “seguire il denaro”, diede inizio alle prime indagini bancarie nei confronti dei clan. Ma ben presto Falcone giunse all’ulteriore consapevolezza che gli esiti dell’incrocio dei flussi bancari con le risultanze delle tradizionali indagini di polizia e con le dichiarazioni dei “pentiti”, dovevano essere ulteriormente integrati con delle approfondite investigazioni sui reticoli patrimoniali e societari riconducibili ai criminali ed ai loro insospettabili prestanomi. Da qui la consapevolezza che, per essere efficaci, le attività di acquisizione, analisi e rielaborazione di tali enormi masse di dati dovevano essere condotte in modo sistematico ed organico, avvalendosi di personale altamente qualificato. Fu proprio in tale prospettiva che, nei primi giorni del gennaio 1984, i marescialli Angelo Crispino e Paolo Scimemi si insediarono a pochi metri dall’ufficio di Falcone, nello stanzone in cui era stata accatastata un’impressionante montagna di documenti contabili, verbali di interrogatori e rapporti di polizia. Nel giro di poche settimane i due sottufficiali furono raggiunti da altri finanzieri, finendo con il costituire una vera e propria “squadra speciale” che, da quel momento in poi, lavorò fianco a fianco dei giudici istruttori dello storico pool sino al suo definitivo scioglimento. Questi militari vennero inizialmente selezionati tra gli esperti della “Sezione Economia e Valuta” del Nucleo di Palermo ed operarono sotto la direzione di un vero segugio dell’antiriciclaggio, il capitano Carmine Petrosino. Successivamente la responsabilità della squadra fu attribuita a me, giovane capitano che avevo già collaborato con diversi autorevoli magistrati di Torino, Milano e Palermo in una serie di indagini concernenti un imponente traffico di eroina proveniente dalla Turchia e destinata all’Europa ed agli USA. Ebbene, proprio in concomitanza del cambio di comandante, la squadra del pool divenne parte integrante di quella “Sezione Indagini Economico-Fiscali Criminalità Organizzata” che è stata la prima unità specializzata creata dalla Guardia di Finanza per il contrasto alla criminalità mafiosa, nonché la storica progenitrice degli attuali G.I.C.O. e S.C.I.C.O.. In breve tempo il team investigativo assunse il ruolo di propulsore delle attività di polizia svolte sul campo dagli altri componenti della Sezione, trasformandosi anche in una sorta di cinghia di trasmissione tra i giudici istruttori palermitani e tutti i reparti del Corpo progressivamente lanciati sulle tracce del black money, in Italia ed all’estero. Fu così realizzato un immane lavoro di ricostruzione della multiforme ragnatela di rapporti patrimoniali e societari che avviluppava coloro che venivano progressivamente individuati come “soldati” o “capi militari” dell’organizzazione mafiosa; i magistrati furono pertanto in grado di “cementare” con immodificabili prove documentali le ben più volubili dichiarazioni testimoniali, giungendo anche all’individuazione di nuove filiere di soggetti (talora del tutto insospettabili) legati agli “uomini d’onore” da non più negabili interessi affaristici. Un mero dato numerico può forse esemplificare la straordinaria rilevanza delle indagini economico-finanziarie svolte: ben 4 dei 40 volumi dell’ordinanza di rinvio a giudizio del “I° Maxi processo” sono costituiti dagli esiti delle indagini bancarie e 19 degli ulteriori 22 volumi di allegati sono composti dalla relativa documentazione. Concludendo questo personale ricordo della “squadra silenziosa” di giovani Fiamme Gialle che ho avuto il privilegio di comandare, mi permetto di riportare alcune frasi tratte da una lettera scritta da Giovanni Falcone il 6 novembre 1989: “Nel lasciare il mio incarico di Giudice Istruttore sento di esprimere il mio più vivo apprezzamento per la preziosa collaborazione svolta in questi anni dai militari del Nucleo Regionale P.T. di Palermo distaccati presso questo Ufficio. Senza l’apporto della Guardia di Finanza non sarebbe stato possibile effettuare complesse e numerose indagini bancarie e patrimoniali che hanno contribuito a far ottenere notevoli risultati giudiziari. Tali indagini, svolte nell’ambito di importanti procedimenti contro la criminalità organizzata, hanno posto in evidenza l’elevata professionalità dei militari operanti e, tenuto conto della notevole pericolosità sociale dei soggetti nei confronti dei quali sono state effettuate, il loro alto senso del dovere e spirito di sacrificio”.

Un uomo e un cambiamento epocale, scrive il 17 maggio 2018 su "La Repubblica" Alessandro Pansa - Prefetto della Repubblica. L’arricchimento del mio bagaglio professionale grazie all’esperienza che mi ha visto collaborare con Giovanni Falcone in molte inchieste di particolare rilievo, specie sul piano internazionale, è stato enorme. L’esperienza umana forse lo è stata anche di più, ma questa resta nella sfera personale che conservo come mio ricordo. Le inchieste del giudice Falcone, pur avendo come campo di analisi il mondo del crimine, coinvolgevano direttamente anche quello della criminalità economica. In tale contesto venivano alla luce costantemente intrecci, sovrapposizioni o identificazioni di interessi occulti, che facevano capo a centrali d’intermediazione tra realtà politica o economica con quella criminale. Appariva evidente come la presenza della criminalità organizzata in settori economici ed in ambienti politico-istituzionali determinasse, come conseguenza indotta, un inquinamento progressivo non solo del tessuto economico locale, ma anche del contesto sociale e della vita pubblica. In quegli scenari tre erano gli attori principali che comparivano: personaggi della politica locale e non, esponenti del mondo economico e di quello criminale. Alcune volte i tre insiemi cooperavano tra loro, altre volte solo alcuni di essi agivano congiuntamente. La storia della criminalità di questo Paese, in aggiunta a quella di alcune vicende del mondo dell’imprenditoria nazionale, ha portato alla luce una realtà che consente di individuare il collegamento tra mondi diversi nella presenza di agenti che facilitano o rendono possibile l’incontro tra le parti. Come già dalle prime inchieste degli anni '80 sul mercato della droga, che vedeva Palermo al centro del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti, il ruolo di quegli agenti emergeva nella duplice veste sia di supplenza alla carenza di quella professionalità di cui Cosa Nostra aveva bisogno per muoversi nei mercati internazionali, sia di riduzione dell’asimmetria informativa che grava sulla criminalità organizzata. Complessi e profondi, e per certi versi sorprendenti, emersero gli intrecci che in quegli anni il crimine organizzato era riuscito a tessere nell’ambito del sistema economico e finanziario, rendendo la distinzione tra il legale e l’illegale sempre più difficile e sfumata. Tutto questo Giovanni Falcone lo aveva prima intuito, attraverso l’attenta lettura di fascicoli processuali, e poi lo aveva dedotto dagli eventi ricostruiti nel corso delle indagini. Lo aveva documentato in diverse occasioni con atti processuali ed alla fine il tutto era stato cristallizzato in giudicati, a cui si era giunti partendo proprie dalle sue istruttorie. Oggi si discute con facilità di indagini patrimoniali, del sequestro dei beni, delle misure antiriciclaggio. Bene: credo che tutto questo insieme di strumenti, fondamentali nella lotta alla mafia e basilari per gran parte dei successi più importanti conseguiti sino ad oggi in questo campo, sono frutto dell’esperienza operativa di Giovanni Falcone e di coloro che hanno da lui appreso e con lui sperimentato quelle vie dell’investigazione. Seguiva le piste dell’inchieste passo passo, anche all’estero, studiando prima di partire gli ordinamenti penali e civili di quei paesi per poter nel modo giusto chiedere informazioni, dati e documenti utili alle istruttorie italiane. Nel lavoro d’indagine di Giovanni Falcone, l’esigenza di confrontarsi di continuo con una realtà multiforme e sommersa, insieme all’esigenza di preservare l’attitudine a comprendere le dinamiche criminali ed a seguirle, anche per tempi lunghi, nel loro evolversi, ha portato a sviluppare competenze che sono divenute parte integrante delle metodologie investigative più moderne. L’insegnamento che è venuto dal lavoro svolto da Giovanni Falcone e l’esperienza maturata nell’averlo affiancato in diverse inchieste rappresentano quello che viene definito il “metodo Falcone”. Seguire le tracce, specie quelle dei soldi, collegarle tra loro attraverso documenti, testimonianze, accertamenti bancari o altre acquisizioni probatorie. Ma questo non bastava, bisognava interpretare ognuno dei passaggi individuati: attraverso le regole comportamentali che caratterizzavano l’ambiente in cui si collocavano, attraverso la mentalità ed il codice non scritto dei mafiosi quando essi operavano direttamente oppure attraverso la prassi che caratterizzava le operazioni e gli operatori che la mafia utilizzava consapevolmente e non. Anche quando l’accertamento o quanto accertato diventavano ripetitivi nel tempo non bisognava mai dimenticare che tutto ciò consentiva di affrontare, per analogia o per esclusione, quegli scenari criminali che stavano cambiando e che facevano riferimento a regole comportamentali nuove e mai prima individuate. I confini tradizionali delle indagini sulla criminalità, in tempi rapidi, si dissolsero, aprendosi ad orizzonti nuovi in varie parti del mondo ed a livelli impensati. Da un lato, la criminalità italiana estendeva i propri tradizionali confini di attività utilizzando strategie eterogenee, stringendo alleanze nuove e cimentandosi in ambiti operativi di norma non di loro interesse. Dall’altro le organizzazioni criminali di altri paesi ampliavano il loro raggio d’azione e soprattutto intrecciavano i loro interessi con quelli delle cosche dell’Italia meridionale. I fenomeni emergenti potevano spiazzare l’investigatore tradizionale, ma non Giovanni Falcone e chi seguiva le sue metodologie di lavoro. L’analisi economica del crimine, sulla scorta dell’esperienza di Giovanni Falcone, produceva, infatti, una serie di risultati che permetteva di comprendere la natura e la meccanica delle relazioni pericolose che possono instaurarsi tra crimine organizzato, da un lato, e dinamiche della produzione e degli scambi, reali e finanziari, dall’altro lato. Grazie a questo metodo, che non va confuso con la mera indagine di tipo finanziario, si poteva scoprire che il crimine organizzato non inquina solo il versante bancario e finanziario, ma anche il versante reale del sistema economico, e forse con danni ancora più gravi, misurabili non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi: impoverimento e imbarbarimento del sistema. Con grande agilità e pervasività, i membri delle organizzazioni criminali si muovevano nell’ambito dell’economica legale, reale e finanziaria, proponendosi non solo per la loro capacità di violare l’ordine costituito, ma come fonte autonoma di norme e regole alternative a quelle democratiche. Il mafioso non si accontentava di infrangere la legge, ma provava sempre a proporsi come soggetto regolatore, che produce fiducia in alternativa a quella legale che assicura il sistema attraverso gli strumenti democratici. Forse una riflessione tardiva, quando ormai non mi occupo più di attività investigativa, mi consente meglio che in passato di comprendere quando quel periodo di collaborazione sia stato fecondo. Si è trattato di un periodo di grandi cambiamenti nell’approccio alle inchieste contro le associazioni mafiose che, a seguito della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e grazie a loro è divenuto un vero e proprio cambiamento epocale. Sintesi tratta da Il profumo della libertà Edizione 2011 Ministero della Gioventù

Le geniali intuizioni di un giudice, scrive il 18 maggio 2018 su "La Repubblica" Giuseppe Ayala - Magistrato, negli anni '80 sostituto procuratore della Repubblica di Palermo e pm al maxi processo a Cosa Nostra. Per comprendere meglio il significato e l’importanza del cosiddetto “metodo Falcone” è opportuno riflettere brevemente sui significativi mutamenti intervenuti, a partire della seconda metà degli Anni Settanta, nell’universo del crimine mafioso. I principali sono tre: l’ingresso massiccio dell’organizzazione nel traffico, anche internazionale, di stupefacenti; l’inedito attacco diretto alle Istituzioni, concretizzato dalle uccisioni di suoi esponenti vittime dell’adempimento del dovere in contrasto con gli interessi mafiosi e lo scoppio della cosiddetta “guerra di mafia” nel 1981. Cosa nostra, rompendo una lunga tradizione, usciva dalla clandestinità e accendeva i riflettori rendendosi drammaticamente visibile. A nessuno era più consentito riproporre il vecchio interrogativo: “Ma siamo sicuri che la Mafia esiste?”. A quel tempo, peraltro, neanche nel codice penale italiano era rinvenibile la parola “mafia” Per trovarla bisognerà attendere il 29 settembre 1982, data dell’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre con il suo inedito art. 416-bis (associazione di tipo mafioso). Incredibile, ma vero, si dice in questi casi. Giovanni Falcone prese servizio all’ Ufficio Istruzione di Palermo sul finire degli Anni Settanta. Nel 1980 il capo di quell’ Ufficio, Rocco Chinnici, gli affidò un processo che riguardava un traffico di stupefacenti gestito da esponenti dell’organizzazione mafiosa. Nell’istruirlo Falcone maturò il primo pezzo della sua visione innovativa. Inutile inseguire la droga che spesso non lascia tracce. Quello che, invece, le lascia di sicuro è il denaro collegato a quel traffico. Così nacque il famosissimo “follow the money,” destinato ad assicurare successi giudiziari sino ad allora impensabili. Ne offro una testimonianza. Lavorammo assieme alla cosiddetta “Pizza connection”, un enorme traffico di eroina tra la Sicilia e gli USA che coinvolgeva esponenti mafiosi di entrambe le sponde dell’Atlantico. Sostenni l’accusa e ottenni pesantissime condanne senza che nemmeno un grammo di eroina fosse mai stato sequestrato. La documentazione bancaria certosinamente raccolta da Falcone si risolse in un impianto probatorio inespugnabile per la difesa. Come ho già accennato, l’aumento assai significativo dei delitti di matrice mafiosa comportò un pari incremento dei fascicoli processuali che li riguardavano. La loro “veicolazione” all’ interno dei vari uffici giudiziari continuava, però, a seguire l’ordinaria prassi, per cui, per esempio, era del tutto normale che un giudice istruttore lavorasse ad uno di questi senza sapere nulla di quanto stesse facendo il collega della porta accanto impegnato nella trattazione di un fascicolo riguardante un altro delitto di analoga matrice. Falcone si rese conto che, così stando le cose, non si andava da nessuna parte per la semplice ragione che ciascuno dei delitti mafiosi altro non rappresentava che la manifestazione criminale di una logica associativa. C’era, insomma, qualcosa che, pur nella loro diversità, li accomunava. Una sorta di “fil rouge” che li legava e che, di conseguenza, li rendeva diversi da tutti gli altri, ma tra loro omogenei. Ritenne, insomma, necessario compiere un salto di qualità verso quella che definì la necessità di procedere verso una “visione unitaria del fenomeno mafioso”. L’unico modo possibile per realizzarla fu quello di procedere alla riunione di tutti i fascicoli processuali che riguardavano i delitti di mafia. Un accentramento delle conoscenze orientato verso l’individuazione dell’immanente “fil rouge.” Col senno di poi può sembrare una svolta ovvia e scontata. Col senno di prima, però, nessuno ci aveva mai pensato. Fu una vera e propria rivoluzione destinata ad assicurare successi giudiziari sino ad allora inimmaginabili. La riunione di tutti i fascicoli processuali concernenti i delitti mafiosi comportò la nascita di una sorta di enorme monolite giudiziario che nessun giudice istruttore da solo avrebbe mai potuto portare avanti. Neanche se possedeva la straordinaria capacità di lavoro di Falcone. Solo una squadra capace e ben affiatata poteva farcela. Nacque così il mitico “pool antimafia.” Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello, con la sapiente guida di Antonino Caponnetto, successore di Rocco Chinnici, ne furono i primi protagonisti. L’ ultimo “tocco” voluto da Falcone, per rendere ancora più efficace il suo “metodo,” fu quello di coinvolgere, sin dalla fase istruttoria, almeno un pubblico ministero per metterlo, così, nelle migliori condizioni di sostenere l’accusa davanti ai Giudici del dibattimento. Il fatto che la scelta sia caduta sul sottoscritto poco importa. La circolazione informativa di ogni risultato acquisito divenne la regola. Si scoprì, così, per esempio, che ciò che appariva non rilevante nell’ambito di un determinato fascicolo, lo era invece in relazione ad altra e diversa, ma pur sempre collegata, vicenda processuale. I risultati delle indagini di un’eccellente polizia giudiziaria e gli ulteriori approfondimenti istruttori possiamo paragonarli alle tessere di un mosaico. Il problema era che, sino ad allora, mancando la configurazione dei contorni di ciò che nel loro complesso quelle tessere avrebbero dovuto rappresentare, non si capiva dove e come collocarle. La “visione unitaria” voluta da Falcone, e il successivo inedito contributo dei collaboratori di giustizia, consenti di superare quel limite. Ogni tessera trovò la sua precisa collocazione. Il “quadro” che ne conseguì risultò, finalmente, chiaro e completo. Così nacque una grandiosa opera d’arte giudiziaria: il maxiprocesso. La prima vera vittoria dello Stato e la prima vera sconfitta di Cosa Nostra. Per quella definitiva restiamo, purtroppo, ancora in attesa.

Le prime indagini sui grandi misteri di Palermo, scrive il 19 maggio 2018 su "La Repubblica" Guglielmo Incalza - Dirigente della sezione "Investigativa” della Squadra Mobile di Palermo nel 1980 e nel 1981. Il 7 gennaio 1980, il giorno successivo al brutale assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella – si erano già evidenziati nel corso dell'anno precedente segnali di una forte e violenta recrudescenza mafiosa con gli omicidi del giornalista Mario Francese, del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina, del vice questore di polizia e capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, del Consigliere Istruttore del Tribunale Cesare Terranova e del maresciallo di pubblica sicurezza. Lenin Mancuso –, sono stato designato a capo della Sezione Investigativa ed Antimafia della Squadra Mobile palermitana. Ebbi così modo non solo di conoscere, ma di frequentare con assiduità il compianto Giovanni Falcone al quale, nel maggio dello stesso anno, era stato assegnato dal Conigliere Istruttore del Tribunale Rocco Chinnici, il procedimento penale sulla prima grande inchiesta degli anni '80, più nota come processo su “Mafia e Droga”, originata dal rapporto di denunzia della Squadra Mobile di Palermo contro Spatola Rosario + 54, tutti ritenuti essere responsabili di associazione per delinquere mafiosa e dedita al traffico internazionale di stupefacenti. Su tale rapporto giudiziario molto è stato già scritto ed è ampiamente noto, in particolare sulla ferma e decisa determinazione del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, barbaramente poi ucciso dalla vile mano mafiosa nell'agosto dello stesso anno 1980, a pochissimi mesi dall'essersi assunto, in perfetta solitudine ed in evidente e plateale disaccordo dei suoi sostituti, la responsabilità di firmare “da solo" i relativi provvedimenti di cattura nei confronti di tutti i denunziati, noti esponenti di una delle più influenti “famiglie “ mafiose italo-americane, quella dei Gambino, Spatola ed Inzerillo, la maggior parte dei quali  legati tra loro da stretti vincoli di parentela ed implicata, tra le altre svariate attività delittuose, principalmente in un imponente traffico di eroina che, partendo dalla Sicilia, aveva gli Stati Uniti d'America come destinazione finale. All'incirca alla fine del maggio dell'80 dunque, fui convocato dal questore pro-tempore ed invitato, mi si disse, su specifica richiesta del dottor Chinnici, a mettermi a disposizione, con tutti i componenti della mia sezione investigativa, del dottor Falcone, che da poco tempo ricopriva l'incarico di giudice istruttore della VI Sezione penale e cui intanto era stato assegnato il fascicolo del processo “Spatola” dopo che la Procura della Repubblica ne aveva richiesto la formalizzazione. E' opportuno evidenziare che il rapporto giudiziario all'origine di tale inchiesta, costituiva la risultanza di due filoni investigativi, quello come sopra detto del traffico di droga, individuato attraverso alcune mirate intercettazioni telefoniche sui componenti della consorteria mafiosa dei succitati Spatola/Inzerillo/Gambino con le sue diramazioni americane (ma anche di  appartenenti ad altre “famiglie” palermitane come ad esempio Vittorio Mangano della “famiglia di Porta Nuova”, più noto poi come lo “stalliere” di Arcore ) e quello messo in luce dalle indagini svolte dal Centro Criminalpol di Palermo sul rapimento simulato del finanziere siculo-americano Michele Sindona, gestito e condotto sin dalla sua prima fase in territorio americano, fino alla sua permanenza in clandestinità a Palermo e la sua successiva riapparizione sul suolo americano, ad opera di componenti dello stesso clan mafioso che contava negli USA sugli strettissimi collegamenti con una delle più potenti ed agguerrite tra le 5 “famiglie” americane, quella capeggiata per l'appunto dal Capo dei Capi Charles Gambino. Imponente ed arduo apparve certamente il compito di portare avanti una istruttoria così vasta e frammentata tant'è che lo stesso Falcone, successivamente alla emissione della sua sentenza-ordinanza del 25 gennaio 1982 di rinvio a giudizio di Spatola Rosario +119 per associazione aggravata di tipo mafioso e per traffico internazionale di stupefacenti, ebbe a dichiarare ad alcuni giornalisti della carta stampata: “... La mafia, vista attraverso il processo Spatola, mi apparve un mondo enorme , smisurato , inesplorato...”. Ed anche per questo, ritengo, che il Consigliere Chinnici, nell'assegnare a suo tempo a Falcone il relativo fascicolo processuale, avesse formulato al Questore una cortese ma ferma richiesta di fornire una collaborazione investigativa più corposa del solito, per la complessità dell'istruttoria stessa. Quest'ultima, dunque, portata avanti con la ferma, caparbia ed assai innovativa guida di Giovanni Falcone, non solo confermò le responsabilità dei soggetti denunziati, ma mise in luce numerose altre complicità, sia nel traffico della droga, ma anche nella partecipazione e nella conduzione del finto sequestro di Michele Sindona, oltre che a porre le basi di successive grandi operazioni di polizia sul territorio nazionale, come quella nota col nome di “ San Valentino”, condotta a  Milano sul riciclaggio dei narcodollari ad opera di noti imprenditori locali (immobiliaristi, ma anche finanzieri e liberi professionisti ) e personaggi mafiosi collegati al gruppo Spatola. La frequentazione di  tutti costoro ( tra i quali anche un noto latitante mafioso palermitano come poi verrà accertato) in un  ufficio milanese di via Larga 13, cui facevano capo numerose società ombra riconducibili ai predetti personaggi, era  stata evidenziata dal traffico telefonico delle intercettazioni condotte dal mio ufficio ( in specie alcune conversazioni del Mangano Vittorio con uno tra gli Spatola inquisiti ), e lasciato chiaramente sottintendere alla consumazione di losche attività. A seguito dell'emissione di un decreto di perquisizione di Falcone e dell'esito della relativa operazione di polizia giudiziaria effettuata da personale della mia sezione investigativa, vennero quindi acquisiti importanti indizi di un imponente riciclaggio dei proventi criminali del traffico di narcotici che, confermati da una breve ma intensa rogatoria dello stesso Falcone a Milano,  divennero la base per la prosecuzione delle indagini  meneghine poi  culminate per l'appunto col blitz di San Valentino del 14 febbraio 1983. Relativamente al cosiddetto “metodo Falcone”, cui spesso si fa riferimento, per il modo di condurre le sue attività istruttorie sulle organizzazioni mafiose, ritengo che quel metodo si sostanzi semplicisticamente nel suo essere perseverante e dotato di una grande ed infaticabile capacità lavorativa oltre che di un eccezionale intuito. Tali sue doti lo portavano a considerare che solo assumendo la effettiva direzione delle indagini, cosa inconsueta al tempo della vigenza del vecchio codice di procedura penale, ed a confrontarsi direttamente con i responsabili degli uffici e comandi operativi delle tre principali forze di polizia (delegando di volta in volta le attività di indagine in un rapporto di effettiva e costruttiva sinergia), si potessero raggiungere risultati apprezzabili. Il giudice Falcone era, ancora, convinto, proprio tenuto conto degli scarsi risultati giudiziari sin allora raggiunti nell'individuazione degli autori dei singoli delitti di mafia, soprattutto a causa del senso diffuso di una persistente omertà, che bisognasse capovolgere il metodo d'indagine sin allora seguito, cercando prima di mettere in luce e far emergere il vincolo associativo con le sue varie sinapsi, per poi ricollegarvi i singoli e specifici delitti  che sarebbero altrimenti apparsi scollegati. La percezione, poi, dell'esistenza in Sicilia di laboratori per la raffinazione della morfina base in eroina (peraltro poi avvalorata dall'individuazione di uno di essi nell'agosto dello stesso anno in una villa di Villagrazia di Carini), lo portò ad una grande intuizione e, cioè, che all'enorme flusso della droga verso gli Stati Uniti dovesse necessariamente corrispondere un altrettanto enorme flusso di valuta americana a compensazione. In pratica ...la scoperta dell'uovo di Colombo, solo che nessuno ci aveva pensato prima. La sua precedente esperienza di giudice fallimentare gli venne certamente d'aiuto e pertanto dispose una serie di accertamenti bancari mediante ordinanze di esibizioni di distinte di versamento per cambio di valuta USA, libretti di risparmio, documentazione di conti correnti e di assegni con la individuazione del nominativo dei firmatari e beneficiari degli stessi. Alle iniziali reticenze nella esecuzione dei provvedimenti da parte di alcuni istituti bancari, come nel caso di una Cassa Rurale ed Artigiana dell'hinterland palermitano, fu necessario procedere direttamente, facendovi irruzione, Falcone stesso in testa, allo scopo di costringere alla collaborazione ed alla esibizione immediata della documentazione richiesta. Come dimenticare la sua incessante e meticolosa ricostruzione dei collegamenti che riusciva ad individuare attraverso la visione della gran mole delle distinte di cambio di dollari e degli assegni che, numerosi, inondavano la sua scrivania? Armato di santa pazienza, registrava a penna all'epoca i computer erano oggetti pressocchè sconosciuti) singole schede dei personaggi coinvolti, su cui annotava sia gli estremi dell'operazione effettuata che il nominativo dei soggetti comunque implicati nel rapporto bancario, per poter poi procedere alle verbalizzazioni delle dichiarazioni ed alle contestazioni di quanto riscontrato. Ricordo al riguardo un episodio altamente significativo della pericolosità di tale consorteria criminale. Una mattina, regolarmente convocato in Tribunale, si presentò nell'ufficio di Falcone il noto Michele Greco detto il “Papa” per rendere conto, me presente, della natura dei suoi rapporti con il capo mafia Stefano Bontate, il “principe” del quartiere palermitano d Villagrazia, rapporti rilevati dallo scambio tra di loro di alcuni assegni per rilevanti importi. Alle domande sempre più incalzanti del giudice, il Greco (indicato poi dal noto collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta come il capo della “Cupola” mafiosa siciliana, anche se sottomesso ai diktat del sanguinario boss corleonese Totò Riina) ebbe improvvisamente ad inalberarsi e, con fare oltremodo stizzito ebbe a fare un vero e proprio sermone, quasi pontificando con fare ieratico e lanciando velate minacce. Alla fine dell'interrogatorio, licenziato il teste, con Falcone ci guardammo sgomenti negli occhi, concordando sul fatto che l'atteggiamento e le parole del Greco sottintendevano un vero e proprio classico avvertimento mafioso. Il giudice, tuttavia, alla mia osservazione sul perchè mai non avesse provveduto a richiedere nell'immediatezza l'intervento del Pubblico Ministero per la contestazione di reato, mi fece rilevare l'inutilità di tale iniziativa, giacchè non si sarebbe mai potuto riscontrare in giudizio alcun chiaro elemento di colpevolezza, essendo state le minacce mai palesemente esplicitate. Gli feci comunque presente che di quanto accaduto avrei immediatamente riferito al Questore con relazione scritta per le opportune valutazioni della vicenda e, provveduto in tal senso, fui incaricato di assicurare temporaneamente la sua sicurezza, in attesa della costituzione di un ufficio scorte, all'epoca inesistente, con gli stessi uomini della mia Sezione investigativa, che già si occupavano a tempo pieno dell'attività di supporto alla indagine istruttoria. E come non porre in risalto la sua capacità di dialogare con i suoi colleghi di altre sedi giudiziarie, interessate anch'esse da attività delittuose di tipo mafioso, nel tentativo di convincerli a riconoscere la unicità di tale fenomeno criminale e la centralità di Palermo come sede dei vertici mafiosi, al fine di concentrare nel capoluogo siciliano anche le indagini che avevano riferimento alle sue propaggini al di fuori della Sicilia? Non sempre fu ascoltato ed anzi, fu anche da taluni aspramente criticato. Molti di loro, però, credo che nel tempo si siano ravveduti. La sua passione ed il suo impegno personale, non disgiunto dalla sua ferrea determinazione a portare avanti la sua attività di qualificato contrasto al crimine organizzato, lo portò anche a richiedere ( ed ottenere ) non solo la collaborazione degli organismi centrali operativi delle tre principale forze di Polizia, ma anche quella preziosissima della Drug Enforcement Administration e del Federal Bureau of Investigation, rispettivamente l'agenzia federale antidroga e  la polizia federale investigativa, entrambe americane. L'aver mantenuto con i suoi rappresentanti di vertice un'attiva e duratura collaborazione in costanza di rapporti di vera stima e considerazione, gli valsero, post mortem, un tributo di riconoscenza e di onore al suo valore senza eguali, costituito dal collocamento di una statua col suo busto nel cortile principale del quartier generale della F.B.I. a Washington. Concludo questo ricordo di Giovanni Falcone, della sua figura di grande magistrato e dell'uomo da me conosciuto e frequentato nel corso del mio affiancamento alla sua attività istruttoria nel primo grande processo contro Cosa Nostra, affermando di aver tanto imparato da lui e non solo dal punto di vista professionale. Abbiamo via via, approfondito la nostra conoscenza, particolarmente in occasione delle poche ore lasciate libere dagli impegni delle varie rogatorie effettuate insieme, anche al di fuori della Sicilia, quando talvolta, prima o poco dopo cena, ci si lasciava andare a liberi pensieri ed egli appariva nello splendore del suo gran sorriso, a volte anche canzonatorio e di gradevole sarcasmo con le sue battute al fulmicotone. La continua frequentazione tra di noi, soprattutto in ambito lavorativo, mi valse persino l'epiteto di “Falconetto” con cui all'epoca mi indicava a mo' di sfottò l'amico e collega Ninni Cassarà, che era a capo della sezione Omicidi della squadra mobile e poi succedutomi all'Investigativa a seguito del mio trasferimento da Palermo. Non potrò mai dimenticare di una sera dell'inverno 1980/81. Insieme ad un mio collega della Criminalpol e ad alcuni Ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza - lo avevamo accompagnato a Milano per procedere ad una importante rogatoria con l'assunzione a verbale delle dichiarazioni testimoniali di alcuni noti personaggi, tra i quali il noto banchiere Enrico Cuccia, ognuno di essi legato per alcuni versi alla vicenda del rapimento simulato del faccendiere Sindona. A sera, eravamo in un albergo di Milano e, mentre dopo cena e prima di ritirarci nelle rispettive camere eravamo sprofondati in alcune poltrone della hall, Falcone, sorseggiando un whisky, a conclusione di alcune valutazioni sull'andamento della istruttoria del processo, ebbe a dire chiaramente di essere cosciente del fatto che la mafia lo avrebbe ucciso, ma che bisognava comunque andare avanti continuando a fare il proprio dovere. Che dire di più? Dico solo che sento ancora i brividi al ricordo di queste sue parole che manifestavano chiaramente la sua consapevolezza del grande rischio cui andava incontro. E' inutile dire che il pomeriggio del 23 maggio 1992 la drammatica notizia, appresa a Roma telefonicamente, mi provocò una intensa emozione e non riuscii a frenare le mie lacrime e la mia disperazione.

Io, uditore nella stanza del dottor Falcone, scrive il 20 maggio 2018 su "La Repubblica" Vincenzina Massa - Magistrato di Palermo, nel 1980 uditore nell'ufficio del giudice istruttore Giovanni Falcone. Accompagno mia nipote di dieci anni a visitare il Museo Falcone e incontro Giovanni Paparcuri (che si occupa con grande passione della gestione del Museo e di organizzarne le visite guidate), il quale nel percepire una mia conversazione con la bambina apprende che ero stata uditore del giudice Giovanni Falcone e mi chiede di entrare in contatto con Attilio Bolzoni, che cura un blog, nel quale a breve si dibatterà sul “metodo Falcone”, per offrire un mio contributo conoscitivo. Perplessa, tentenno non avendo mai dismesso in tanti anni quell’atteggiamento di assoluto e quasi religioso riserbo col quale ho ritenuto di dover custodire le mie preziose memorie del periodo nel quale ebbi il privilegio di incontrare il Giudice Giovanni Falcone, ma alla fine, trovandomi in un momento particolare della mia vita professionale, sulla soglia del pensionamento anticipato (compirò a breve 63 anni), mi lascio tentare dal bisogno di rivisitarle proprio nel momento conclusivo della mia carriera. Già prima di giurare (sono stata nominata con Decreto Ministeriale del 13. 5.1980), ero stata presentata fuori dal Palazzo, e gli avevo fatto poi una visita deferente in ufficio, al Procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, che nell’agosto di quello stesso anno sarebbe stato vittima di un vile agguato mafioso. Lo “zio Tano”, com’era affettuosamente chiamato dai parenti di un mio ex fidanzato dell’epoca, che gli erano particolarmente vicini e che me lo avevano fatto incontrare, era un gentiluomo di vecchio stampo, piccoletto, ma dalla personalità forte e dal ferreo credo nelle istituzioni del quale non aveva mancato di rendermi partecipe. Il Procuratore, proprio nei giorni a seguire, avrebbe dato prova di quella fermezza e del suo grande coraggio, così segnando irreparabilmente il proprio destino, coll’assumersi a titolo quasi esclusivo (perché isolato da quasi tutti gli altri suoi sostituti dissenzienti, eccettuato il sostituto procuratore Vincenzo Geraci) la responsabilità di firmare la convalida di oltre 50 ordini di arresto di pericolosissimi mafiosi, fra i quali i noti Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo. Questo il mio primo contatto con la realtà giudiziaria palermitana. Era la calda estate del 1980 ed a Palermo si erano già perpetrati numerosi e gravissimi fatti di sangue (il 4 maggio precedente l’omicidio del Capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile) che preconizzavano quella che sarebbe stata un lunga e sanguinosa vera e propria guerra di mafia. Nell’allora Ufficio Istruzione di Palermo, diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, compagno di scuola del fratello di mia madre, in ragione del privilegiato familiare rapporto di conoscenza col capo dell’Ufficio venni accolta personalmente da lui che ci affidò - me e l’altro mio collega uditore giudiziario – al magistrato affidatario “prescelto”: il Giudice Giovanni Falcone. Appena entrata in magistratura, avevo ottenuto, infatti, dal mio magistrato coordinatore del piano di tirocinio, rinunziando appositamente al godimento delle ferie estive (condicio sine qua non perché non era possibile in alcun altro periodo - adesso non ricordo per quale ragione), di essere affidata al collega Dott. Giovanni Falcone, giudice istruttore, per svolgere sotto la sua direzione il mio periodo di uditorato. Quell’assegnazione (senza precedenti che io sappia) era stata il frutto di mie vivaci pressioni presso il magistrato coordinatore, previo un contatto e l’assenso del giudice Falcone, che avevano vinto ogni resistenza del primo. Già allora, infatti, fra i giovani magistrati si era diffusa la fama di Giovanni Falcone, come quella di un magistrato non soltanto competente e tecnicamente ben attrezzato, ma soprattutto era già ampiamente conosciuta la forte motivazione e una spinta ideale senza precedenti nella lotta al fenomeno mafioso. Come ho accennato, la mia richiesta di essere assegnata al dottor Falcone non era stata accolta con grande favore dal magistrato coordinatore. A quell’epoca non me ne era stato subito evidente il motivo, ma oggi so bene - ed anche allora mi fu più chiaro in breve torno di tempo - che fra i magistrati dell’epoca (la maggior parte degli anziani, comunque) si era già diffuso un grande pregiudizio circa le così decantate capacità e professionalità di Giovanni Falcone. Tuttavia, alla fine, l’insistenza della postulante e l’entusiasmo con cui la richiesta era stata caldeggiata, avevano avuto la meglio su quelle evidenti remore ascrivibili a non troppo sotterranea malevolente invidia nei confronti di quel collega che, così giovane, riscuoteva già tanta ammirazione fra i giovanissimi che guardavano a lui come un faro. Fu, dunque, lo stesso consigliere istruttore Rocco Chinnici che ci affidò (me e il mio collega Filippo Gullotta) al Giudice Falcone. Io già avevo avuto il privilegio di farne la conoscenza perché la moglie, Dottoressa Francesca Morvillo, aveva frequentato in precedenza la casa dei miei genitori, essendone anche gradita commensale e perché un professore di università comune amico, molto vicino al vice questore Ninni Cassarà, mi aveva procurato un informale abboccamento con il Giudice Giovanni Falcone perché potessi chiedergli la sua generica disponibilità ad accogliere uditori giudiziari. Allora, le cose si facevano più alla buona rispetto ad oggi, molta meno burocrazia; non esistevano rigidi criteri per la formazione dei piani di tirocinio e questo aveva giocato un punto a mio favore, rendendo possibile il soddisfacimento della mia aspirazione.

E la fortuna volle che quando si concretizzò la mia assegnazione (insieme al collega Filippo Gullotta) al Dottor Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo erano appena (all’incirca nel maggio precedente) transitati dalla procura per essere istruiti, con la formale, i famosi processi a carico di “Spatola Rosario + 120” e a carico di “Mafara Francesco ed altri”, che erano stati per l’appunto assegnati entrambi dal consigliere istruttore Chinnici al Giudice Falcone. Fu proprio istruendo questi processi che Falcone prese a testare il suo nuovo metodo di indagine, ricusando il ruolo attendista della vecchia figura di giudice istruttore disegnata dall’allora vigente codice di rito (che in sostanza aspettava il rapporto redatto dalla Polizia giudiziaria per esaminarlo) ed assumendo in prima persona il controllo e la direzione delle investigazioni, compiendo anche personalmente alcuni atti, o delegandone singoli altri, ma non mai più genericamente, come per il passato, tutta l’attività di investigazione. Quelle indagini vennero portate avanti con criteri del tutto innovativi. Giovanni Falcone, infatti, facendo tesoro delle sue competenze nel ramo civile e del diritto bancario, essendo stato giudice fallimentare, aveva sviluppato una tecnica di investigazione che partiva dal presupposto che per colpire la mafia ed i suoi affari illeciti, occorreva seguire i flussi di denaro, nella consapevolezza che in qualunque attività lucrosa sul territorio controllato l’organizzazione criminale si insinuava con sapienza, con i suoi metodi, ora violenti, ora sotterranei, a seconda della bisogna. Fu così che noi uditori trovammo la scrivania del Giudice Falcone (che allora naturalmente chiamavo, come si fa fra colleghi, familiarmente, Giovanni, dandogli del tu, ed oggi mi guardo bene, come ritengo doveroso, dal continuare a chiamare così) diuturnamente “affollata” - quel che colpiva particolarmente - da numerosissimi assegni, vere e proprie mazzette di assegni, lì pronti per essere meticolosamente passati al setaccio ed esaminati nelle loro girate per individuare i destinatari finali dei crediti portati da quei titoli. E fu quindi proprio in quei giorni per l’innalzarsi della soglia di rischio dei magistrati in dipendenza della qualità degli imputati, e, quindi, dei processi da istruire che venivano fatti i sopralluoghi tecnici per il montaggio dei vetri blindati nell’Ufficio d’Istruzione e Processi Penali (così si chiamava). Fino ad allora, nessuna sofisticata misura di protezione era stata ancora adottata a tutela di quelli che sarebbero diventati i paladini della lotta a Cosa Nostra (e recentissimi erano l’uso da parte del Giudice Falcone e dei suoi colleghi di auto blindate e l’assegnazione di scorte). Ricorderò solo per inciso che quei vetri ben presto si sarebbero rivelati non sufficienti a fermare le armi letali di Cosa Nostra, che aveva utilizzato, con soddisfacenti risultati, proprio i vetri blindati della gioielleria Contino di via Libertà per provare i suoi kalashnikov poi serviti nell’agguato in cui trovò la morte nel maggio 1981 Salvatore Inzerillo. Tornando agli assegni, il giudice Falcone ci mise al corrente della necessità di una verifica capillare dei diversi passaggi di mano dei titoli di credito e ci insegnò a porre attenzione alla lettura delle “girate”. Al di là di quelle indicazioni di metodo del tutto anodine (nessun riferimento all’identità dei primi prenditori e dei giratari e all’eventuale loro inserimento nell’organizzazione mafiosa) necessarie ad illustrarci nelle linee generali la sua nuova metodologia di indagine, però, con mia grande incosciente delusione, Falcone ci tenne sempre ben lontani dalle notizie e dai fatti potenzialmente pericolosi, quelli cioè emergenti dalle indagini su Cosa Nostra, spiegandoci con grande delicatezza che non era certo per mancanza di fiducia sulla nostra serietà e riservatezza, ma che si trattava di tutelare la nostra sicurezza. A noi venne affidata, quindi, la stesura di ordinanze o di ordinanze-sentenze riguardanti i fascicoli “ordinari”. Ma Giovanni Falcone, nonostante oberato da una mole di lavoro veramente spaventosa (la quantità di fascicoli che affollavano la sua stanza e i diversi armadi la diceva lunga al riguardo) che lo costringeva ad orari veramente stressanti, trovava, comunque, il tempo di indirizzarci nella lettura delle carte processuali e nella redazione dei provvedimenti a noi assegnati; le minute che gli sottoponevamo venivano da lui attentamente corrette e le correzioni antecedentemente discusse e concordate con noi. Anche nello svolgere il compito di “magistrato affidatario”, quindi, il giudice Falcone non mancava di essere, come sempre nello svolgimento della sua attività professionale, attento, infaticabile, preciso, puntuale; ma il suo essere in tutto eccellente non gli faceva perdere di vista l’indulgenza. Potrei dire, con quasi assoluta certezza (anche se, estremamente riservato nell’esternazione dei suoi sentimenti, nulla avrebbe mai verbalizzato al riguardo) che dietro alcuni dei suoi indimenticabili sorrisi sornioni, che non ci faceva mancare mai, si nascondesse anche una tenera benevolenza e comprensione per i nostri primi incerti passi. Sono ancora in possesso - e le custodisco gelosamente - di quelle bozze di provvedimenti che recano le correzioni vergate a mano da Giovanni Falcone. Una di queste mi è particolarmente cara, perché rammento ancora l’interesse e l’impegno che prodigò per aiutarmi ad addivenire alla decisione più giusta di quella vicenda giudiziaria così delicata, riguardante un caso umano veramente pietoso. Si trattava di un processo penale per tentato omicidio plurimo e pluriaggravato a carico di tale C. F., della quale non ho mai potuto dimenticare il nome. Il 29 novembre 1979, a Palermo, la donna, madre di due figli adolescenti (di 17 e 14 anni), entrambi portatori di handicap, perchè gravemente cerebrospatici, dopo aver messo a letto i ragazzi nel letto matrimoniale della propria stanza nella quale aveva collocato una bombola di gas liquido da 15 Kg, aprendone la valvola, si era distesa, a sua volta su un lettino vicino. L’odore di gas proveniente dalla casa aveva allarmato una vicina che aveva chiamato il 113 e provocato l’intervento di un altro vicino che entrato nella casa aveva tratto in salvo i ragazzi e la mamma ancora vivi e coscienti, apprestando loro i primi soccorsi in attesa dell’intervento dell’autoambulanza. Si era, dunque, proceduto con la formale istruzione, nel corso della quale era stata disposta perizia tecnica “per accertare la possibilità di esito letale dell’avvelenamento da gas” (sic la correzione del dottor Falcone riportata nella mia minuta, come sempre rigorosamente con la sua inseparabile stilografica). Il PM aveva concluso chiedendo il proscioglimento dell’imputata con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ho molto apprezzato il fatto che il Giudice Falcone mi avesse assegnato proprio quel processo così delicato e spinoso, per lo studio degli atti e la stesura del provvedimento conclusivo, perché avevo avuto modo di comprendere come Egli avesse preso molto a cuore quel caso umano veramente straziante; infatti, dimentico delle migliaia di carte sul suo tavolo (assegni e quant’altro) in attesa di essere studiate meticolosamente, posponendo anche i mille abboccamenti quotidiani con la PG (i cui dirigenti – alcuni dei quali oggi tristemente noti, vuoi perché caduti per mano mafiosa, vuoi perché condannati per collusioni con Cosa Nostra - quotidianamente facevano la fila nel corridoio antistante la sua stanza per relazionargli gli ultimi esiti delle attività di indagine), si era messo a spiegarmi qual’era la via migliore per giungere alla “giusta” conclusione della vicenda processuale, facendo ricorso all’istituto, ben poco usato, del reato impossibile. Ricordo bene che infervorandosi, a dispetto dell’ostentata sempiterna imperturbabilità, si era raccomandato di redigere una motivazione molto accurata perché la sentenza di proscioglimento non fosse passibile di impugnazione. Quella sfortunata donna andava prosciolta e messa al riparo da conseguenze giudiziarie negative del suo gesto disperato. Il mio "Affidatario", noncurante e dimentico degli altri impegni, si era prodigato, quindi, in ogni possibile chiarimento soffermandosi a rammentarmi quali fossero i criteri per ritenere applicabile l’istituto, sostanzialmente facendomi una dotta disquisizione sul reato impossibile, argomento che mostrava di avere “fresco” nella memoria come lo avesse studiato il giorno prima. Questi era il giudice istruttore Falcone, una persona profonda con doti umane non comuni e grande sensibilità come deve essere un Giudice, prima ancora che un raffinatissimo giurista, un eccellente investigatore ed un tecnico espertissimo dotato di una memoria degna di Pico della Mirandola. Da quest’uomo di dirittura morale inimitabile, di mentalità moderna, dallo straordinario coraggio e dalla prorompente personalità, dalle doti umane superiori, dall’intelligenza poliedrica (o piuttosto genio) ed eclettica, all’humor pungente e salace, che faceva capolino in battutine buttate lì a fare da contrappunto ed alleggerire le non dissimulate, né dissimulabili atmosfere pesanti e spesso grevi di quell’Ufficio, e dalla volontà ferrea nel perseguire la sua missione, con energia inconsumabile, ho appreso il fortissimo senso delle istituzioni e del dovere ed è questo “metodo Falcone” (l’unico che ho potuto apprendere) che ha guidato ogni passo della mia carriera, nella quale con i miei limiti e nel mio piccolo, ho cercato di non dimenticare mai gli insegnamenti ricevuti, con l’opera, ed in ogni gesto quotidiano, da un uomo dalla statura morale superiore quale era il giudice istruttore dottor Giovanni Falcone.

Uno “scienziato” dell'investigazione, scrive il 21 maggio 2018 su "La Repubblica" Angiolo Pellegrini - Generale dell'Arma in pensione, nei primi anni '80 capitano della “sezione Anticrimine” dei carabinieri di Palermo. Il 23 maggio 1992 si verificava l’attentato più grave nella storia della giovane Repubblica italiana: l’esplosione di 500 chilogrammi di tritolo, posti all’altezza di Capaci e, di conseguenza, la morte del magistrato Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta. Perdeva la vita quel “giudice” che mi piace definire ”lo scienziato dell’attività istruttoria ed investigativa” mente e coordinatore del pool antimafia che, in soli 4 anni (1980 – 1984), era riuscito a dimostrare che la mafia esisteva come organizzazione unitaria e gerarchicamente strutturata, e, nello spazio di poco più di dieci anni, al termine del più grande processo mai celebrato al mondo, ad ottenere la condanna per i capi a 19 ergastoli e per gli appartenenti all’organizzazione a 2665 anni di reclusione. La mafia, nata come associazione segreta, radicata in una subcultura ben definita era riuscita per lungo tempo a far pesare sulla società la sua forza intimidatrice e, nel contempo, a fare sorgere nei suoi confronti il consenso, adattandosi apparentemente ai canoni di giustizia propri della società delle aree meridionali. Ma, come si sarebbe potuto e dovuto prevedere, i settori d’intervento della mafia all’inizio degli anni 70 non erano più limitati a quelli tradizionali della Sicilia agricola: in pochi anni si sarebbe assistito a sempre più stretti collegamenti delle organizzazioni mafiose siciliane con quelle della Calabria e della Campania, prima nel settore del contrabbando dei T.L.E. e, poi, nel traffico degli stupefacenti, gradualmente esteso in tutto il mondo. La mafia, con l’aumento vorticoso del consumo delle droghe, ha sentito la necessità di disporre di grossi capitali con conseguenti enormi utili che attrassero nel “gioco” anche coloro che potremo definire di “terzo livello”. Quando la mafia – divenuta ricchissima - tanto da ritenersi più forte dello “Stato legale” – esce allo scoperto, la lotta si radicalizza ed, in conseguenza, della più decisa azione di contrasto degli organi investigativi dello Stato, si assiste ad una reazione quanto mai violenta, sfociata negli omicidi del T.C. Russo, dei Capitani Basile D’Aleo, del Maresciallo Ievolella, del V. Questore Boris Giuliano, dell’agente Zucchetto, dei Magistrati Terranova, Costa, Chinnici e del Prefetto dalla Chiesa. Ma, nello stesso tempo si verificano alcuni fatti importanti: la perdita progressiva del consenso da parte della popolazione, l’affermarsi di nuovi metodi d’indagine, la convergenza degli sforzi della magistratura e delle forze di Polizia, l’approvazione della c. d. “legge Antimafia”. E’ vero che il traffico internazionale di stupefacenti coinvolge una vera e propria multinazionale del crimine: i produttori di oppio del Medio Oriente, i contrabbandieri italiani, francesi e greci, addetti al trasporto della morfina, i gestori dei laboratori di produzione dell’eroina in Sicilia, i corrieri siciliani e italo – americani per la distribuzione degli stupefacenti in USA ed in Canada e per il ritorno in Sicilia di ingentissime quantità di dollari e le collusioni politiche per il riciclaggio del denaro. Ma, se è vero che la complessità degli accertamenti comporta grandi difficoltà per gli investigatori e per i magistrati, sono proprio tali difficoltà ad introdurre metodi d’indagine nuovi: in particolare si prende coscienza che il punto debole del fronte della mafia è costituito dalle tracce che lasciano i grandi movimenti di denaro. Falcone, proseguendo su questa strada, riesce a dimostrare dopo ben 18 secoli la mancata attualità dell’assunto, tramandatoci dallo storico latino Svetonio, “Pecunia non olet”. E’ nato quello che sarebbe divenuto il famoso “metodo Falcone”. Falcone, infatti, capovolse il metodo d’indagine: il Giudice Istruttore anziché lavorare, come era stato sempre fatto, su quanto riferito dalle forze di Polizia, assunse in prima persona lo svolgimento delle indagini, compiendo direttamente atti istruttori e delegando una serie impressionante di accertamenti, approfondimenti, indagini, riuscendo così a pervenire ad una visione unitaria del fenomeno mafioso. Riunì vari processi, pur se sembravano non riconducibili a gruppi criminali tra loro collegati (Spatola  più 119, Gerlando Alberti, Mafara Francesco, sequestro Sindona, arresto del belga Gillet e poi Greco Michele  più 161, Riccobono Rosario più 39, Provenzano Bernardo più 29 ), evidenziando che avevano tutti numerosi dati in comune e, soprattutto, il coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e nel riciclaggio del denaro. In sostanza, la capacità di sintesi, la memoria eccezionale, la visione strategica del problema consentì a Falcone di realizzare una sorta di enorme mosaico, sul quale riuscì a porre, ciascuno al posto giusto, migliaia di tessere, fornendo così una rappresentazione attuale ed aggiornata di “Cosa Nostra”, un’organizzazione unitaria, verticistica, con i propri organi di comando a livello provinciale e regionale, con collegamenti in tutta Italia e nel mondo intero. Lo stesso Falcone in un suo intervento alla tavola rotonda, organizzata a Palermo nel 1984 da Unicost, ha affermato: “Negli ultimi anni, uno sparuto drappello di magistrati e di appartenenti alle FF.PP. ha cominciato in più parti d’Italia ad impostare le indagini in modo finalmente adeguato alla complessità del fenomeno ed i risultati non si sono fatti attendere. E’ cominciata ad emergere una realtà di enormi dimensioni ed inquietante, solo intuita nel passato”……… “Non ci si è lasciati scoraggiare dalle difficoltà e, fra l’indifferenza e lo scetticismo generale, si è proseguita la via intrapresa cominciandosi ad ottenere i primi risultati: la positiva verifica dibattimentale di istruttorie particolarmente complesse riguardanti organizzazioni mafiosi ed efferati delitti di stampo mafioso”……. “Dall’iniziale separatezza fra i diversi organismi preposti alla repressione del fenomeno mafioso, si è passati in pochissimi anni, superando ostacoli ed incomprensioni di ogni genere, ad un clima di collaborazione di reciproca fiducia, impensabile fino a poco tempo addietro”.

La mossa vincente di seguire il denaro, scrive il 22 maggio 2018 su "La Repubblica" Leonardo Guarnotta - Già Presidente del Tribunale di Palermo, nei primi anni '80 componente del pool antimafia dell'ufficio istruzione. La lotta dello Stato alla mafia ha origini che risalgono, quanto meno, agli ultimi anni dell'800 e, verosimilmente, al 1° febbraio 1893, giorno in cui venne assassinato per mano mafiosa il marchese Emanuele Notarbartolo, persona incline all'etica e al rispetto della legge, già sindaco di Palermo per alcuni anni e direttore del Banco di Sicilia, storico istituto di credito dell'isola. E' stato considerato il primo eccellente delitto di mafia che, all'epoca, accese un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, anche se inizialmente nessuno osò fare nomi. Da allora e, per moltissimi anni, la lotta alla mafia è stata quasi sempre emergenziale consistendo in provvedimenti susseguenti a singoli fatti delittuosi, come la commissione antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Poi gli anni settanta con la Palermo dei delitti eccellenti ad opera dei corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano quando, in proditori agguati mafiosi, vennero uccisi, tra gli altri, il Procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice questore Boris Giuliano, il giornalista di inchiesta Mario Francese, il dottore Paolo Giaccone, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il Procuratore Gaetano Costa, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era questo il fosco, nebuloso contesto temporale in cui approdarono all'Ufficio di Istruzione del Tribunale di Palermo, alla fine degli Anni Settanta, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e, dopo l'uccisione di Rocco Chinnici per mano mafiosa, il dottor Antonino Caponnetto che gli subentrò nelle funzioni di consigliere istruttore. Con il loro avvento e con la creazione del pool antimafia, nel quale era stato nel frattempo cooptato il giudice Leonardo Guarnotta - io - i rapporti di forza tra Stato e mafia cambiarono e venne sferrato un attacco senza precedenti a “cosa nostra” grazie  all'impegno quotidiano profuso da quei magistrati, alla inaspettata collaborazione di Tommaso Buscetta il cui “esempio” venne seguito da Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Marino Mannoia, passati dalla parte dello Stato, le cui propalazioni, accuratamente riscontrate, hanno consentito di infrangere il  muro dell' omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri sui si basa la stessa esistenza di Cosa nostra, ma grazie anche e soprattutto alla professionalità, alla competenza, alla preparazione ed all'intuito investigativo di Giovanni Falcone. In una stagione giudiziaria in cui le conoscenze dell'apparato strutturale e funzionale di Cosa Nostra erano frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l'azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni '60 e '70 si erano chiusi i processi di Catanzaro e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), Giovanni Falcone seppe cogliere la struttura unitaria, verticistica, piramidale di Cosa Nostra, intuì che il fenomeno mafioso andava affrontato con una strategia diversa da quella posta in essere sino ad allora (e che si era dimostrata inefficace) ed elaborò un metodo investigativo del tutto innovativo e straordinariamente incisivo che, a ragione, è stato definito “rivoluzionario”. Nei primissimi mesi del 1980, il consigliere Rocco Chinnici aveva incaricato Giovanni Falcone di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano su cui gravava l'accusa di gestire un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano ben cinque “famiglie” mafiose dedite al commercio di armi e allo spaccio della droga. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a cosa nostra, consentì a Falcone di comprendere che la potenza economica della mafia aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Perchè, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di colore i quali l'assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l'acquista.

Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all'estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni. Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro. Venivano svolte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed ora anche all'estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all'altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni bancari e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto e mirabilmente guidato dal consigliere Antonino Caponnetto,  un organo giudiziario non previsto dall'allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo ( era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile uno scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi. Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della polizia, dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con la intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell'incipit dell'ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985. Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all'estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Il “metodo Falcone” era lui stesso, uomo e giudice, scrive il 23 maggio 2018 su "La Repubblica" Pietro Grasso - Giudice a latere della Corte di Assise del maxi processo, Procuratore nazionale antimafia, ex Presidente del Senato della Repubblica. Le mie conoscenze ed esperienze personali, professionali ed istituzionali mi inducono ad affermare che l’espressione “metodo Falcone” è una approssimazione generica e superficiale, usata spesso per riferirsi ad ambiti diversi e che riesce a dare l’immagine, di volta in volta parziale, solo di talune peculiarità dell'azione di Falcone, senza riuscire a coglierne per intero la complessità e l’importanza. Ricordo che lui stesso non amava quell'espressione, ritenendola quasi alla stregua di quell’altra dispregiativa qualificazione dei risultati delle sue indagini come “teorema Falcone”. In realtà il “metodo Falcone” era Falcone medesimo, la sua stessa personalità, il suo modo di essere e di concepire in maniera rivoluzionaria la funzione del giudice istruttore del vecchio codice di procedura penale. Anziché, come in passato, limitarsi a verificare gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria nei rapporti presentati, Falcone iniziò a dirigere direttamente le indagini, compiendo personalmente tanti atti, come interrogatori di imputati e assunzioni di testimoni, o delegandone altri specificatamente volti a trovare riscontri obiettivi. Io stesso potei rendermi conto personalmente di questa sua nuova concezione del ruolo di giudice istruttore.

ERA DIVERSO, ERA UN FUORICLASSE. Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera in magistratura dapprima come Pretore a Lentini, poi come giudice a Trapani, finché nell’estate del 1978 chiese e ottenne il trasferimento presso il Tribunale di Palermo. Dopo una prima esperienza alla sezione fallimentare, nell’autunno del 1979 e dopo l’omicidio del giudice Terranova e la nomina a capo dell’ufficio istruzione di Rocco Chimici, venne accolta la sua domanda di essere assegnato a quest’ultimo ufficio. Io in quel periodo, giovane sostituto procuratore presso la Procura di Palermo, mi trovai a seguire da P.M. il caso di rinvenimento di una carcassa di un ciclomotore rubato, con numero di matricola abraso. Un fatto assolutamente insignificante destinato a concludersi, come tanti altri, con una richiesta di archiviazione contro gli ignoti autori del furto. Grande fu la mia sorpresa quando mi resi conto che Falcone, nel restituirmi il fascicolo per le mie ulteriori richieste, trattò questa istruttoria con lo steso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Affidò una perizia al medico legale Paolo Giaccone (ucciso da Cosa Nostra l’11 agosto 1982), che aveva frattanto sperimentato un sistema per ricostruire il numero di matricola; attraverso questo risalì al derubato, cui restituì il motorino; trovò dei testimoni e fece arrestare i ladri, individuandoli in ragazzi del quartiere. Scoprii così che Falcone era un magistrato che non trascurava nulla, neanche le cose minime, che prendeva a cura i diritti delle vittime, che manifestava una tenacia investigativa ed un impegno eccezionali. Mi resi subito conto che era diverso da tutti noi: era un fuoriclasse. Anche Rocco Chimici intuì subito le sue qualità e gli affidò sin dal maggio 1980 alcuni rilevanti indagini sulla mafia e sul fiorente traffico di stupefacenti fra Italia e USA, come quelle contro Spatola Rosario + 120 imputati e contro Mafara Francesco ed altri. Il primo processo riguardava i rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense nel traffico di eroina fra i due continenti, l’affare Sindona e il reinvestimento dei profitti; il secondo aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto di Roma Fiumicino di un belga con 8 kg di eroina destinata ad una famiglia mafiosa palermitana. Frattanto al quadro generale investigativo Falcone collegò altri fatti: il sequestro da parte del Capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 19 luglio 1979) di 4 kg di eroina nel covo di via Pecori Giraldi, frequentato da Leoluca Bagarella; il sequestro di una valigia all’aeroporto di Palermo contenente 500.000 dollari e magliette di pizzerie di New York (da qui nasce il nome dell’indagine “Pizza Connection”), cui seguì dopo pochi giorni il sequestro a New York di valigie piene di eroina purissima. Infine la scoperta presso una villetta di Trabia (nei pressi di Palermo) di un laboratorio per la produzione di eroina gestito da Gerlando Alberti, a cui si arrivò seguendo tre chimici francesi inviati a Palermo dal “clan dei marsigliesi” per far apprendere ai mafiosi il procedimento di raffinazione e trasformazione della morfina base in eroina purissima.

LA SCOPERTA DELLE RAFFINERIE DI EROINA. Nel prosieguo dell’indagine sul sequestro all’aeroporto di Roma di 8kg di eroina, Falcone ottenne dal belga arrestato (Gillet) e da altri due corrieri (un altro belga, Barbé, e uno svizzero, Charlier) delle sensazionali dichiarazioni che aprirono degli scenari assolutamente inaspettati. Rivelarono infatti di essere stati, tra l’altro, incaricati di reperire in Medio Oriente, ed in particolare in Turchia e in Libano, morfina base da portare a Palermo, che, una volta trasformata in eroina con alto grado di purezza, provvedevano essi stessi a consegnare in Usa da dove, di ritorno, portavano a Palermo e in Svizzera ingenti quantità di dollari, provento della droga. Si ebbe così l’importante riscontro che la mafia non importava più l’eroina, ma la produceva direttamente. E sull’onda di tale svolta investigativa si accertò che per il traffico di stupefacenti si era riproposta una struttura analoga a quella del contrabbando di tabacchi, con partecipazione per quote e con utilizzazione, da parte dei mafiosi Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e Giuseppe Savona, dei canali del “Triangolo d’oro” del sud est asiatico (Thailandia, Laos, Birmania), per l’approvvigionamento della morfina. Falcone si trovava proprio a Bangkok a seguire le tracce di tali traffici in collaborazione con la polizia thailandese il 29 luglio 1983, giorno della strage del suo capo, Rocco Chinnici. Aveva compreso che la mafia siciliana operava non solo in Sicilia, ma anche in altre zone d’Italia e all’estero, per cui attraverso la cooperazione internazionale, basata soprattutto sui rapporti personali, bisognava viaggiare e cercare contatti e prove al di fuori degli uffici. I primi contatti furono stabiliti con i magistrati di Milano nell’ambito del processo Spatola, perché in quella città era stato sequestrato il più grosso quantitativo di eroina (40kg), che, provenendo da Palermo, avrebbe dovuto raggiungere gli U.S.A., eludendo i pervasivi controlli agli aeroporti di Palermo e di Roma. Falcone convinse il collega milanese a trasmettere per competenza l’indagine a Palermo, istaurando un clima di fiducia e di collaborazione, che si rivelò particolarmente fruttuoso, anche coi magistrati della Procura milanese Colombo e Turone nel corso delle indagini sul caso Sindona, riuscendo a ricostruire tutti i suoi movimenti ed il ferimento compiacente da parte del medico Miceli Crimi.

I SUOI RAPPORTI CON L'FBI E CON RUDOLPH GIULIANI. Identica e feconda attività di cooperazione internazionale venne svolta da Falcone con l’ufficio del Procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani e coi suoi collaboratori Louis Free e Richard Martin. Al di là dei trattati internazionali e di precedenti significativi, gli strettissimi e amichevoli rapporti personali instaurati gli consentirono di muoversi con concretezza e speditezza, al di fuori delle formalità delle rogatorie internazionali, nello scambio di informazioni sui rapporti tra le famiglie mafiose siciliane ed i componenti di cosa nostra americana. Falcone fece tesoro anche degli strumenti investigativi usati in maniera pragmatica dai colleghi statunitensi, come i collaboratori di giustizia e gli infiltrati, figure che sarebbero state dopo molti anni (1991), introdotte anche nel nostro ordinamento. Si gettarono anche le basi per un accordo Italia-Usa su collaborazione giudiziaria ed estradizioni che venne sottoscritto nel 1984. Poiché molti indagati nelle intercettazioni telefoniche disposte sia dalla DEA e poi dall’FBI parlavano in dialetto siciliano stretto, per accorciare i tempi delle trascrizioni in inglese e in italiano, di comune accordo, squadre della polizia italiana si trasferirono da Palermo in Usa, per procedere direttamente all’ascolto delle conversazioni. L’idea di squadre investigative comuni era per quei tempi assolutamente innovativa, realizzabile soltanto per la fiducia e il rispetto dei ruoli e delle regole che Falcone aveva il pregio di saper infondere. Frattanto erano stati scoperti, a Palermo, altri laboratori per la raffinazione dell’eroina. Un’altra importante indagine, che poi confluì formalmente nella “pizza connection” e nel Maxiprocesso, venne generata dall’attività di un infiltrato dagli agenti americani, tale Amendolito, reclutato dalla mafia siculo-americana per trasferire valigie piene di dollari in piccolo taglio dapprima a Nassau, nelle Bahamas, e poi in Svizzera in banche di Lugano e Zurigo. Parte di quei soldi venivano reinvestiti nel traffico, una parte tornava a Palermo e veniva depositata in banche con false attestazioni di vendita di prodotti agroalimentari e parte ancora finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola. Falcone, per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia. Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Falcone non tralasciava nulla e si precipitava ovunque in Italia e all’estero avesse notizia dell’arresto di un trafficante di droga, di esperti in materie specialistiche, avulse dalla diretta competenza dell’organizzazione, come chimici, riciclatori, professionisti o imprenditori, per cercare connessioni con cosa nostra. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso. Inoltre, aveva inaugurato la prassi di essere presente con attenti sopralluoghi dove erano stati commessi omicidi o stragi. Tutti questi comportamenti innovativi per il ruolo del giudice istruttore gli avevano fatto affibbiare la denigrante nomea di “giudice sceriffo” e “giudice planetario”. A tutti i soggetti con cui veniva in contatto, Falcone garantiva rispetto delle loro funzioni, reciprocità nello scambio delle informazioni, rigorosa difesa del segreto istruttorio: ciò gli conferiva un patrimonio di credibilità, di imparzialità e di fiducia che convincerà anche tanti mafiosi a collaborare, e solo con lui. Tutto ciò faceva parte del suo “metodo “? Certamente sì, ma non si può liquidare solo con questo. Falcone credeva anche nell’importanza del lavoro di gruppo, del coordinamento delle indagini, e nella necessità di non disperdere, attraverso nuove tecnologie, la memoria dei singoli fatti d’indagine.

UNA NUOVA STRADA FINO AL MAXI PROCESSO. Ad aprire questa strada giuridico-organizzativa fu Chinnici. Quando, dopo l’omicidio del collega Cesare Terranova divenne capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, del quale già faceva parte come giudice anziano, diede nuovo impulso all’ufficio, dirigendo personalmente tutte le indagini più importanti come quelle sui cosiddetti omicidi eccellenti (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa) e affidando a magistrati di indubbio valore, come Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, le altre inchieste più rilevanti come quelle sul costruttore Rosario Spatola, sull’omicidio del Capitano dei carabinieri Emanuele Basile, e su Michele Greco + 161, così creando i presupposti per quel pool antimafia, che avrebbe sviluppato al massimo la sua potenzialità con il successore, Antonino Caponnetto. Questi, infatti, col pieno accordo dei citati magistrati, validissimi sotto il profilo delle tecniche investigative e dotati di ineguagliabile tensione morale, formò attraverso la co-assegnazione di tutte le istruttorie pendenti, un gruppo coeso, capace di una particolare efficienza e laboriosità, l’unico idoneo a indagare sui mille rivoli dell’attività della mafia. Superando i problemi procedurali e sostanziali del vecchio codice, che prevedeva la monocraticità del giudice istruttore, e adottando soluzioni già sperimentate, anche per la condivisione dei rischi, dai giudici di altri uffici del nord nel contrasto al terrorismo, fu possibile coordinare e ricondurre ad un’unica centrale investigativa, diretta nel quotidiano da Giovanni Falcone, una massa innumerevole di episodi delittuosi, di documenti e di pregresse indagini. Così inaugurando un nuovo metodo di indagine, che collegava i tanti filoni legati unicamente, più che da connessioni soggettive o oggettive, dalla riferibilità dei reati all’organizzazione mafiosa cosa nostra, di cui era intuita quella struttura unitaria, verticistica, che sarà svelata successivamente da Buscetta e avallata da altri collaboratori di giustizia. Per la prima volta, attraverso le risultanze degli ultimi dieci anni di indagine, si potè tracciare un’immagine più aderente alla realtà criminale di Cosa Nostra, già tracciata, in passato, ed in ultimo col rapporto Michele Greco +161, dalla polizia giudiziaria attraverso fonti confidenziali, che, in mancanza di riscontri documentali e testimoniali, avevano portato sempre all’assoluzione dei mafiosi. Fu un lavoro di gruppo, ma che si fondava sulla capacità strategica di Giovanni Falcone, sulla capacità di trovare rimedi e soluzioni a problemi che apparivano insuperabili, che andavano dall’ottenere dal Ministero risorse materiali e addirittura di costruire un’aula bunker ad hoc per il Maxiprocesso sino all’interpretazione inedita di una norma. L’enorme quantità di lavoro, la sua singolare abilità nel prevedere gli sviluppi delle indagini e nell’organizzare il lavoro degli altri componenti del pool, il necessario coordinamento di tutto il materiale raccolto, anche tramite precise e puntuali deleghe alla polizia giudiziaria, trovarono poi, il prezioso, determinante e valido contributo di Buscetta che, a partire dal luglio del 1984, svelò regole, strutture e storie delle famiglie di cosa nostra, avallate da una miriade impressionante di riscontri. A questo apporto, seguì quello di numerosi altri collaboratori, che mostrarono anche il volto violento della mafia, descrivendo nei minimi dettagli decine e decine di omicidi, strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido. E si deve allo scrupolo investigativo di Giovanni Falcone, se, seppur, dopo tanti anni dai fatti, a seguito di ispezioni, sequestri, rilievi e perizie anche su una vecchia corda, rinvenuta nella cosiddetta “camera della morte”, vennero trovate tracce di sangue e di cellule umane, inequivocabile riscontri che resero credibili i racconti dei pentiti e rafforzarono l’impianto probatorio del maxiprocesso. Così come fatti apparentemente non conducenti, come le minacce epistolari ad una famiglia non gradita sul territorio per costringerla a sloggiare, furono utilizzati per dimostrare in maniera inequivocabile la condizione di assoggettamento, intimidazione e di omertà in cui vivevano i cittadini, a riprova dell’elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso. L’arresto poi di Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani, il rinvio a giudizio di questi ultimi tra gli imputati del maxiprocesso (fu processato solo il secondo, essendo Nino deceduto in Svizzera prima della fase processuale), furono utilizzati da Falcone per dimostrare che cosa nostra, come dichiarato da Buscetta, non era una comune organizzazione criminale, da contrastare soltanto con operazioni di polizia, ma un potere con ramificazioni nascoste nell’imprenditoria, nella pubblica amministrazione, nella politica, tra i professionisti e nella società, dato che i cugini Salvo, appartenenti a cosa nostra ed in particolare alla famiglia di Salemi (Trapani), erano stati per anni il fulcro tra affari, mafia e politica regionale e nazionale. Infine, a maggiori riprova dei rapporti di cosa nostra con entità eversive esterne, di notevole interesse si rivelò il coinvolgimento, riferito da Buscetta in istruttoria e confermato in aula dallo stesso Luciano Liggio, dell’organizzazione, attraverso i suoi vertici del tempo, nella fase preparatoria del Golpe Borghese del 1970. Liggio voleva delegittimare il pentito, attribuendogli delle interessate omissioni e si ritrovò in aula come un boomerang le puntuali dichiarazioni di Buscetta nei verbali precedentemente rese a Falcone, trattenute per approfondimenti istruttori. Anche in questo consisteva il “metodo Falcone”: saper prevedere e disinnescare preventivamente le trappole. Sapeva perfettamente che un processo poteva essere distrutto da un solo errore, bastava un nonnulla per poter incrinare irrimediabilmente la credibilità di un pentito o di un perfetto impianto accusatorio. Per questo era maniacale nella revisione e nel controllo di ogni singola carta, di ogni atto, di ogni riscontro. Cercava di evitare al massimo gli incidenti di percorso provocati da leggerezza, superficialità e sciatteria.

LA "GESTIONE” DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA. Con questo metodo, con queste qualità, potè impostare una istruttoria, prima ed un processo, poi, come il maxiprocesso di Palermo, con 475 imputati, 438 capi di imputazione che comprendevano non solo l'associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti o a criminali collegati a cosa nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e 120 omicidi, che comprovassero le attività anche a livello internazionale dell'organizzazione. E questa fu una ben precisa scelta di Giovanni Falcone, dato che qualcuno aveva prospettato la possibilità di portare a giudizio solo gli imputati detenuti, proprio per accelerare i tempi ed evitarne la scarcerazione, ma Falcone giustamente ritenne che solo una visione complessiva di tutti i fatti ed i soggetti collegati a cosa nostra potesse fornire ai giudici di una corte di assise, composta anche da cittadini non togati, l'inequivocabile contesto probatorio sull'esistenza dell’organizzazione, fino ad allora sempre negata. Sarebbero, peraltro, rimasti fuori dal processo tanti capi allora latitanti, come Riina e Provenzano e difficile da comprendere il loro contributo alla commissione provinciale di Palermo, organo propulsivo dell'associazione che ne testimoniava la struttura unitaria e verticistica. Il metodo Falcone, avuto riguardo al maxiprocesso, fu quindi quello di ripercorrere i fatti e i delitti di mafia a partire dalla prima fase successiva alla strage Ciaculli e di viale Lazio, cui partecipò anche Provenzano, sino alla cosiddetta seconda guerra di mafia, caratterizzata dalla supremazia delle famiglie appartenenti alla fazione dei “corleonesi”, che si impadronirono di tutti traffici, anche quello lucroso degli stupefacenti, mettendo insieme tutte le pregresse indagini bancarie, cementate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, nonchè le relazioni esterne di cosa nostra con le realtà imprenditoriali e politiche, rappresentate dei cugini Salvo e da Ciancimino. Cioè con quell'area che riusciva a far realizzare investimenti produttivi e grandi profitti, a persone che allora non avevano la competenza e la professionalità per farlo. Il “metodo” comprendeva anche magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, che mettessero insieme tutti quegli indizi provenienti dalla captazione delle intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e soprattutto dai collaboratori di giustizia. La gestione di questo piccolo esercito di coloro che via via uscivano dall'organizzazione fu estremamente difficile per il pool antimafia, per l'assenza di norme che ne regolassero i rapporti con i requirenti e con gli addetti alla loro tutela. Per tanti anni la loro protezione fu affidata al volontarismo, all'improvvisazione e alla genialità dei singoli uffici investigativi. Falcone per Buscetta, prima, e per Contorno e Marino Mannoia, in un secondo momento, si dovette “inventare” un accordo con le autorità statunitensi, che prevedesse “il prestito” temporaneo dei pentiti per farli testimoniare nel processo americano della “Pizza connection”, in cambio di un'adeguata protezione. Si dovettero attendere ben sette lunghi anni dalle prime dichiarazioni di Buscetta (luglio 1984) per ottenere nel 1991 la prima legge che stabilisse i requisiti della collaborazione, i diritti e i doveri dello status di collaboratore, oltre che misure di protezione e di copertura dell'identità, compatibili con il nuovo processo penale, anche sotto il profilo dei benefici. A Falcone non mancò mai la piena consapevolezza (tant'è che ne incriminò qualcuno per calunnia come il catanese Pellegriti) delle insidie che, in una procedura assolutamente garantista dei diritti della difesa, comportasse l'uso di tale strumento di indagine. Il suo metodo, che era solito suggerire ai giovani magistrati, era quello che, in senso figurato, si doveva sempre mettere un tavolo tra l'inquirente e il pentito, senza confidenziali incontri al caminetto, per rendere manifestamente visibile all'interlocutore che davanti aveva un rappresentante di quello Stato, che fino a poco prima aveva considerato un nemico da battere, e a cui doveva dare contezza della sua assoluta credibilità. Il metodo Falcone applicato ai pentiti suggeriva di acquisire il maggior numero possibile di dettagli, particolari, circostanze, anche apparentemente insignificanti, circa i fatti caduti sotto la loro diretta percezione, per potere trovare più agevolmente i relativi riscontri. Per dare il giusto rilievo alle motivazioni che avevano portato alla determinazione di rompere il vincolo di sangue acquisito col giuramento di appartenenza a cosa nostra, bisognava approfondire ed esemplificare con fatti concreti quelle espressioni gergali spesso usate dai dichiaranti, come, ad esempio, “Tizio è nelle mani di…”, “Caio è un uomo di…”, “Sempronio è collegato con..., Mevio è coinvolto in…”, così come valutazioni e opinioni assertive e spesso immotivate. Naturalmente, in applicazione del rigore metodologico di Falcone, bisognava evitare di mostrare particolare interesse per un argomento o per taluno degli indagati; accertare se il pentito avesse eventuali ragioni personali di vendetta o di ritorsioni nei confronti degli accusati; impedire qualsiasi possibilità di incontro dei collaboratori, in modo da poterli utilizzare, senza sospetti di preventivi accordi, come riscontri reciproci; ed, infine, mantenere un atteggiamento critico, non supinamente acquiescente, attento ad approfondire ogni elemento utile per un giudizio di piena attendibilità, come, ad esempio, la spontanea ammissione di responsabilità per reati non contestati. Il rigore metodologico di Falcone era un giusto equilibrio tra l'estrema cautela nel raccogliere dichiarazioni da soggetti che si erano macchiati di gravissimi delitti e l’ovvia considerazione che in una organizzazione criminale, che aveva fatto del segreto e dell'omertà uno dei suoi fattori di sopravvivenza, solo dalla viva voce dei protagonisti era possibile trarre elementi di conoscenza, altrimenti non acquisibili, di gravissimi episodi delittuosi.

SEMPRE ALLA RICERCA DI VERITA'. Sono queste le ragioni per cui il maxiprocesso di Palermo riuscì a resistere a 1000 eccezioni di nullità, impugnazioni, critiche anche da parte della politica, dell'informazione e soprattutto di una folta schiera di grandi avvocati di tutta Italia. Fu così che il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente (cui aveva ceduto il posto il collega Carnevale per ragioni di opportunità, stante l'infuriare di aspre polemiche per la mancata rotazione nelle cariche) pronunciò la sentenza definitiva che sanciva l'esistenza di cosa nostra e della sua struttura unitaria e verticistica, accogliendo in pieno l'impianto accusatorio della sentenza di primo grado. Un colpo durissimo per un’organizzazione che per la prima volta, dalla sua ultracentenaria esistenza, vide i suoi vertici condannati all'ergastolo, col vantaggio, per gli altri giudici che si sarebbero occupati di cosa nostra, di potersi limitare a provarne l'appartenenza. Si infranse così il mito dell'invincibilità e dell'impunità della mafia e si realizzò la concreta azione di uno Stato che in tutte le sue componenti, magistratura, forze di polizia, governo e Parlamento, si mostrò finalmente deciso a interrompere il rapporto di connivenza, di sudditanza e di indifferenza di cittadini e istituzioni. Del “metodo Falcone” non bisognerebbe trascurare un particolare e cioè che Falcone, nonostante tutte le accuse rivoltegli in vita: di essere dapprima comunista, poi andreottiano, infine socialista (quando fu chiamato al ministero della giustizia da Martelli), non si fece mai influenzare da idee o motivazioni che non rientrassero nella sua strategia di politica giudiziaria. Seguendo la sua visione della lotta alla mafia, cercava di volta in volta di ottenere l'aiuto e la collaborazione di chi poteva dargli l'opportunità di realizzare il suo obiettivo: l’ostinata ricerca di verità e di giustizia nel solo interesse di liberare i cittadini e le istituzioni dalla pesante oppressione della mafia.

IL "METODO FALCONE” COME MATERIA DI STUDIO. In conclusione, tutti i successi ed i risultati ottenuti sino ad oggi nel contrasto a cosa nostra e alle altre organizzazioni di tipo mafioso, non ho remore ad affermarlo con convinzione, costituiscono il frutto diretto del “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, o meglio della estrema capacità personale e professionale di Giovanni Falcone. Infatti, le fondamenta della legislazione antimafia furono edificate proprio da lui, quando, dopo gli ostacoli che lo avevano convinto a lasciare la procura di Palermo, si trasferì, come direttore generale degli affari penali presso il ministero della giustizia. In quell’anno (era il 1991), oltre la già citata legge sui pentiti e sui sequestri di persona, videro la luce norme per obbligare le banche e gli istituti finanziari a segnalare le operazioni sospette ai fini di riciclaggio di proventi illeciti; furono istituiti i servizi centrali (ROS, SCO, GICO) e interprovinciali di polizia giudiziaria, costituiti rispettivamente da carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza, per assicurare il collegamento investigativo. Fu creata, per accentrare tutte le indagini sulla mafia, la direzione investigativa antimafia, organo interforze accostato dei giornali ad una sorta di FBI italiana, la procura nazionale antimafia (DNA) e le direzioni distrettuali antimafia DDA), strutture indispensabili per coordinare tutte le indagini svolte dalle procure distrettuali sulla criminalità organizzata nazionale e transnazionale e sui traffici collegati. Questo modello, questo metodo di lavoro condiviso era, per Giovanni Falcone, null’altro che la trasposizione sul piano nazionale dell'esperienza del pool antimafia maturata negli anni del suo eccezionale impegno a Palermo. È difficile oggi spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni eroici, quali forze, quale coraggio, quale capacità di resistenza siano state necessarie per superare migliaia di ostacoli personali, materiali e giuridici. È difficile oggi raccontare come Falcone portasse avanti il suo lavoro nonostante le invidie, le calunnie, i veleni e gli schizzi di fango lanciati contro di lui. Così come far comprendere con quale spirito di servizio e rispetto dei ruoli istituzionali, dopo il trasferimento di Caponnetto e la nomina di Antonino Meli come nuovo capo dell'ufficio istruzione, pur preferito dal consiglio superiore della magistratura a lui, che più di tutti la meritava, collaborò, suo malgrado, a smantellare e a smembrare tutte le indagini, trasferendole ad altri uffici giudiziari, dal suo capo ritenuti, con ottuso formalismo, competenti per territorio, secondo una logica e una strategia giudiziaria completamente opposta rispetto a quella da lui precedentemente seguita. Ritengo che oggi sia giusto che tutti gli operatori di giustizia e tutti i cittadini sappiano quanto dobbiamo a Falcone e a quello che, genericamente, è stato più volte definito come il “metodo Falcone”. Se proprio vogliamo accettare questa definizione con tutto quello però che la contraddistingue, ritengo che il miglior riconoscimento a tutta la sua vita fatta di dedizione, di sacrifici e di professionalità sia quello di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura, per meglio formare i giovani magistrati, che si apprestano a svolgere funzioni così importanti per i cittadini e per la società, una nuova materia: il “metodo Falcone”.

Quello che ha rappresentato per lo Stato, scrive il 24 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio De Francisci - Giudice del pool antimafia dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo nei primi anni '80, oggi è procuratore generale della Repubblica di Bologna. Dopo ventisei anni dall’assassinio di Giovanni Falcone mi viene chiesto di raccontare cosa fosse il “metodo Falcone”. Ho esitato a lungo prima di accogliere la richiesta di Attilio Bolzoni perché mi sembrava di dire sempre le stesse cose e quindi essere poco utile o, peggio, inutilmente ripetitivo. Poi ci ho ripensato, e ciò sia per la cortese insistenza di Bolzoni sia perché sempre più spesso, incontrando giovani colleghi o studenti, specie qui in Emilia Romagna, mi rendo conto quanto la figura e le opere di Giovanni Falcone siano poco conosciute e quindi non siano diventate memoria collettiva. Troppo poco si sa di lui e quindi torno a parlare di lui, di quello che ha rappresentato per l'azione dello Stato italiano contro la mafia. Troppe volte, quando dico che il 23 maggio devo essere a Palermo, mi si chiede il perché; questa data non è entrata nella comune memoria e invece dovrebbe essere scolpita nella coscienza di ogni italiano. Il segreto del metodo Falcone non aveva nulla di segreto; era tutto nella persona di Falcone, nelle sue qualità umane prima ancora che professionali. La sua assoluta serietà nel lavoro, impegno totalizzante di tutta la sua vita. Lavorare con lui, che per me fu un grande privilegio, significava adottare i suoi ritmi di lavoro o almeno cercare di avvicinarsi a quelli. Falcone non aveva hobby, passatempi, non giocava a calcetto, non scalava montagne, lui stava in ufficio. Le trasferte di lavoro, anche all'estero, con Falcone sono state per me una scuola di elevato livello, con esami continui, con lui sempre in prima fila e tu dietro a seguire, a imparare, a stare zitto, a fare domande dopo, nelle pause. Si imparava a interrogare i detenuti, con calma, a volte col sorriso, sempre con serenità e rispetto. Mi tornano in mente mille episodi, alcuni anche divertenti, che per me hanno significato apprendimento di tecniche, di stile, di vita professionale. La prima trasferta a Milano con lui, interrogatori nella sede della Criminalpol. Gli chiedo il permesso, a fine pomeriggio, di andare in piazza Duomo, non ci andavo dagli anni dell'infanzia. Gli chiedo di andare insieme, mi risponde di no: vai tu, io devo finire di leggere qualche carta. Lui non mollava mai. E poi ancora a Marsiglia, seconda metà degli Anni Ottanta, indagine per un traffico di stupefacenti tra Italia, Francia e Stati Uniti. La polizia francese ci invita a pranzo prima degli interrogatori fissati nel pomeriggio; era una splendida giornata di sole, ristorante sul mare, mi ricordo ancora quasi tutto il menu. Lui mangia come tutti, ma finito il pranzo è pronto per iniziare a lavorare, io molto meno, cerco di stare al passo, ma con esiti molto modesti. Quel giorno ho imparato che quando si lavora, meno si mangia e meglio è. Lui capì la mia difficoltà, non mi disse nulla, ma io sapevo che aveva capito e, almeno quella volta, perdonato. E poi la sua lealtà nei confronti di tutti i colleghi, specie quelli giovani, che trattava con rispetto e con grande umanità. Mi correggeva qualche mio scritto sempre in punta di piedi, senza commenti sgradevoli, con brevi tratti di penna stilografica. Non sopportava i superficiali, gli spregiudicati, gli arruffoni. Era coraggioso come sanno esserlo le persone serie che hanno consapevolezza dei rischi che corrono, ma credono di avere gli strumenti per superarli. Ricordo perfettamente, durante un interrogatorio di alcuni mafiosi americani negli Stati Uniti, le minacce che uno di questi gli rivolse; in tono untuoso e con la faccia che dice più delle parole, in perfetto stile mafioso. Io percepii la serietà della situazione, ma non lo vidi particolarmente preoccupato, ma conscio che quella inchiesta aveva smosso acque stagnanti. Aveva una fiducia illimitata nel rapporto con gli organi investigativi degli Stati Uniti, preparava con precisione ogni viaggio oltre Atlantico tutte le carte, le domande pronte, l’elenco degli atti da chiedere ai colleghi americani. Si entusiasmava financo del caffè americano che ci veniva offerto ovunque con generosità. Apprezzava quel sistema giudiziario, ma senza le approssimazioni utilizzate da chi vuole importarlo da noi solo nei limiti della convenienza del momento. Sognava un pubblico ministero nuovo, non poliziotto ma che guidava la polizia giudiziaria, che partecipava attivamente alle indagini, delegando solo l’indispensabile, interrogando imputati e testi, e soprattutto conoscendo ogni carta del processo. Sono passati 26 anni. Che ne è dell'insegnamento di Falcone? Quanto è stato realizzato della sua visione del mondo giudiziario? Non sono il più indicato per rispondere a queste domande. Certamente il Ministero della Giustizia (dove egli dette il meglio di sé), negli anni, ha portato avanti molte delle sue idee e i metodi di indagine da lui inventati e sperimentati sono stati diffusi in tutte le Direzioni Distrettuali Antimafia, organismo che lui ideò e che ha consentito di accentrare in sede distrettuale le indagini di mafia, obiettivo che oggi sembra facile aver raggiunto, ma che, allora, fu una rivoluzione e che ha impiegato anni per funzionare a regime. La Direzione Nazionale Antimafia, altro frutto delle sue idee, anche se diversa da quella da lui pensata, si muove comunque nel solco del metodo Falcone e del suo esempio. E non è poco.

Mafia: Fico, meglio mano in tasca che su cuore di traditori Stato, scrive Adnkronos riportato il 23 Maggio 2018 da "Il Dubbio". “Il rispetto per il Paese - scrive Fico - passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle […] “Il rispetto per il Paese -scrive Fico- passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle emozioni, piuttosto che tutto quanto detto e fatto in questa meravigliosa giornata. Preferisco una mano in tasca per qualche secondo alla mano sul cuore di chi poi tradisce lo Stato”. Poi il presidente della Camera prosegue sulla strage di Capaci: “Ciò che avvenne quel 23 maggio del 1992 ha smosso l’anima del nostro Paese, come ha smosso la mia. Ricordo perfettamente quel pomeriggio, quando si diffuse la notizia della strage di Capaci e della morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta”. “Il percorso che ho intrapreso in questi anni deriva anche da quella giornata, da quella sensazione e da quella presa di coscienza che non avrei più dimenticato: bisogna decidere da che parte stare, ogni giorno. Perché ogni giorno possiamo lottare contro la mafia attraverso il nostro lavoro e le nostre azioni”.

Memoria d'accusa: quando Giovanni Falcone denunciava il caso Palermo. Ecco l'intervento del giudice ucciso che L'Espresso ha pubblicato in esclusiva il 18 settembre 1988. «C'è un senso di scoraggiamento. Ci hanno messo nella condizione di non muoverci», scrive Pietro Calderoni il 23 maggio 2018 su "L'Espresso". Ecco l'atto d'accusa che il giudice palermitano Giovanni Falcone ha fatto domenica 31 luglio (1988 ndr) davanti al Comitato antimafia del Consiglio superiore della magistratura. È una testimonianza eccezionale (l'audizione era segreta) e sconvolgente con la quale il magistrato più esposto nella guerra contro “Cosa nostra”, per la prima volta, ha parlato esplicitamente degli intralci nel suo lavoro, dei contrasti insanabili col suo capo, il consigliere istruttore Antonino Meli, del tentativo di smembrare e di fatto disinnescare il “pool” antimafia, dell'impossibilità - visto il clima che tira nell'Ufficio istruzione di Palermo - di continuare a istruire i processi. Insomma, dice Falcone, qualcosa si è inceppato nella lotta alla mafia. E spiega il perché. Falcone denuncia che, al Palazzo di giustizia di Palermo, è in corso uno scontro, decisivo, tra due modi d'intendere la lotta alla mafia. Da una parte, il consigliere Meli, reo di voler gestire il delicatissimo momento giudiziario in forma esclusivamente burocratica, rallentando l'iter dei processi più importanti e svilendo il lavoro del pool; dall'altra parte, appunto, i giudici del pool antimafia, con Falcone in testa, preoccupati per questo calo di tensione negli uffici giudiziari palermitani. È una polemica che nasce, in realtà, il 20 luglio dopo una intervista, a “Repubblica”, del giudice Paolo Borsellino, fino a qualche tempo prima nel gruppo dei giudici antimafia di Palermo e poi passato a dirigere la procura della Repubblica di Marsala. Borsellino fa pesanti accuse: «Stiamo tornando indietro come vent'anni fa», dice. E aggiunge: «Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata come prima, più di prima». Non solo: Borsellino sostiene che Meli ha cominciato a smantellare, con i pretesti più diversi, il pool anti mafia. Meli replica stizzito che non è vero. Le gravi parole del giudice Borsellino, però, non cadono nel vuoto. Nemmeno 24 ore dopo l'intervista, infatti, è addirittura il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, a intervenire chiedendo che sia fatta piena luce su quello che sta accadendo all'interno del Palazzo di giustizia di Palermo. Lo scontro fra Meli e Falcone, fino a quel momento covato sotto la brace, emerge in tutta la sua crudezza. Uno scontro che, il 19 di gennaio (1988 ndr), aveva avuto il suo prologo, quando il Consiglio superiore, premiando l'anzianità rispetto alla professionalità e alla competenza specifica, aveva deciso di nominare, a strettissima maggioranza, dopo lunghe discussioni e spaccature, consigliere istruttore di Palermo proprio Meli invece di Falcone. Alla fine di luglio, dunque, in una Roma oppressa da un caldo africano, le porte del palazzo dei Marescialli, dove ha sede il Csm, si aprono per ascoltare le ragioni dei protagonisti. È un'indagine il cui epilogo è destinato a emergere dalla riunione del Consiglio fissata a partire da martedì 13 settembre. A luglio, il giudice Borsellino conferma le sue parole. Subito dopo, davanti agli 11 membri del Comitato antimafia del Csm, si siede Giovanni Falcone. Ha appena consegnato una lettera in cui chiede di essere trasferito in un altro ufficio; lui, l'uomo che ha istruito il maxiprocesso, che per primo ha raccolto le confessioni di Tommaso Buscetta, che ha incriminato il sindaco democristiano Vito Ciancimino, che ha indagato per scoprire gli assassini dei grandi delitti eccellenti, da quello di Piersanti Mattarella a quello di Pio La Torre, dice che così non ha più senso andare avanti. E ricorda, accusa, elenca, davanti agli altri giudici del Consiglio superiore della magistratura, portando esempi, rievocando fatti, rivelando episodi rimasti fino a quel momento segreti. Il lungo intervento di Falcone è introdotto dal consigliere Carlo Smuraglia: «Falcone, la ringraziamo per essere qui. Lei conosce le ragioni... la preghiamo di parlare». E il giudice parla.

Parole di Falcone. «Si è verificata purtroppo una situazione di stallo che ci sta portando verso quella gestione burocratica dei processi di mafia che è stata la causa non secondaria dei fallimenti degli anni, dei decenni trascorsi. Cosi vengono a confronto due filosofie del fare il giudice: quella che prevede una gestione burocratica-amministrativa-verticistica dell'Ufficio e quella che tende ad ottenere i risultati dell'istruttoria. Il consigliere Meli spesso, molto spesso, mi sollecita a chiudere le istruttorie, ma certi processi hanno bisogno del loro sfogo, certi processi politici, come l'omicidio Mattarella [era il presidente democristiano della Regione, dc, ndr.], quello La Torre [era il segretario regionale del Pci siciliano, ndr.] o quello Parisi [Roberto Parisi, presidente del Palermo calcio, ndr.] non si possono chiudere, a meno che non si voglia fare il solito fonogramma al Commissariato chiedendo l'esito di ulteriori indagini e, alla risposta che l'esito è negativo, chiudere la solita bellissima sentenza contro ignoti. «Il problema è cominciato a diventare più pressante con l'insediamento del consigliere Meli. Ci saremmo aspettati quanto meno di essere convocati per uno scambio di idee, per discutere dei problemi enormi, materiali e di gestione di tutti questi processi, ma nulla di tutto questo è avvenuto... Se c'è una filosofia del pool, del lavorare insieme in materie così intimamente connesse come quelle che riguardano le attività mafìose, era proprio quella di cercare di seguire sempre l'evolversi delle varie indagini per vedere attraverso un esame globale del fenomeno di poter incidere in maniera più efficace; senonché ci siamo accorti che mano mano le cose cambiavano. I processi venivano assegnati con un criterio da noi non conoscibile e in contrasto coi criteri predisposti e approvati dal Consiglio superiore della magistratura, criteri che prevedevano che a quel gruppo di sezioni dovessero essere affidati tutti i processi di mafia... Tutto questo invece non veniva osservato: non soltanto non veniva osservato, ma noi non ne conoscevamo il perché».

IL SEQUESTRO MISTERIOSO. «Faccio un esempio, il processo per l'omicidio di Tommaso Marsala [industriale, ucciso nel 1987, titolare dell'appartamento-base dei killer del vicequestore Ninni Cassarà, ndr.]: Marsala era imputato dell'omicidio Cassarà, era stato scarcerato per mancanza d'indizi ma permanevano sul suo conto pesanti sospetti. A un certo punto Marsala viene ammazzato: dopo l'inchiesta sommaria il processo contro ignoti viene formalizzato e assegnato al giudice Lacommare. Egli prospetta dci motivi di opportunità [poiché evidentemente non fa parte del pool antimafia, ndr.], ma gli viene risposto che un po' tutti si devono occupare d'indagini di mafia. «Lo stesso avviene col processo per il sequestro di Claudio Fiorentino [il maggior gioielliere palermitano, rapito il 10 ottobre 1985, ndr.], che è uno dei fatti più gravi e più significativi su cui occorre, a mio avviso, approfondire le indagini. I Fiorentino erano già venuti fuori nel 1980, ai tempi del processo Spatola [il clan mafioso in contatto anche con Michele Sindona, ndr.] per una sorta di attività di riciclaggio di denaro, dollari statunitensi di provenienza illecita, Il sequestro appariva abbastanza anomalo e soprattutto in contrasto con un divieto di compiere sequestri di persona stabilito da Cosa Nostra in Sicilia. Quindi delle due l'una: o il sequestro era finto o erano cambiate le regole di Cosa Nostra; fra l'altro il sequestro era avvenuto in territorio Partanna-Mandello, cioè in una zona molto vicina ai Corleonesi e quindi si trattava di cercare di fare luce sull'episodio. Bene, questo processo il Consigliere istruttore se lo assegna a se stesso senza dare nessuna spiegazione in merito. A questo punto prendiamo atto di questa realtà e gli chiediamo copia degli atti, una richiesta che ci consentiva di vedere se e quali agganci potessero esserci con altri processi in corso. Tra l'altro segnaliamo al Consigliere, nella nostra richiesta, l'esigenza indifferibile del potenziamento del pool; gli abbiamo detto, nei modi più garbati, che in questa maniera si smembra tutto, gli abbiamo spiegato i motivi per cui noi ritenevamo che quei processi avessero attinenza al gruppo antimafia; infine gli abbiamo ricordato che all'Ufficio istruzione esiste uno strumento informatico molto importante, creato da noi giorno dopo giorno, per cui la conoscenza di quel processo ci serviva anche per inserire gli atti nell'elaboratore elettronico...«Succede che, di fronte a queste nostre richieste, il consigliere avoca la titolarità del processo contro Cosa Nostra... E poi si rifiuta di trasmetterei copia degli atti richiesti affermando che dovevamo chiedere atti determinati e non tutti gli atti. Io mi chiedo com'é che potevamo chiedere atti determinati se non li conoscevamo! «Poi sono cominciati ulteriori problemi, da ultimo questo processo per l'omicidio di Antonio Casella (grosso imputato, chi si occupa di queste indagini sa bene che significa questo nome: Edilferro eccetera), fatto di gravità inaudita, perché significa una spaccatura all'interno della maggioranza egemone [di Cosa Nostra, ndr.]. Naturalmente chiedo ai colleghi della Procura: "Quando lo formalizzate, me lo fate sapere". Il processo viene assegnato al collega Grillo, il quale, appena lo legge, va da Meli e gli dice: "Ma guardi, cosa c'entro io?". Risponde Meli: "Ah, non me ne ero accorto''. Allora io dico, come si fa a non accorgersi di un fatto del genere, significa non aver letto nemmeno il rapporto, cioè fare l'assegnazione solo sulla copertina. Allora, per rimediare, è un po' maligna la cosa, il Consigliere Meli assegna il processo per l'istruttoria di questo omicidio a otto persone! Ora io chiedo, come si fa a istruire così, un processo del genere? La risposta la lascio alla vostra intelligenza. «E poi in queste assegnazioni, stranamente, alcuni colleghi del gruppo antimafia non vengono presi in considerazione, nel senso che non vengono loro assegnati questi processi, ma processi ordinari, processi per rapine... Tutta una serie di processi del carico ordinario li abbiamo istruiti sempre; ma, se si aumenta indiscriminatamente il carico ordinario, ci fermiamo tutti e difatti quando io parlo di situazione di stalla, intendo dire che adesso le indagini, gli interrogatori, gli esami testimoniali, li posso fare soltanto io perché gli altri sono occupati a gestirsi l'ordinario. E a questo punto ci blocchiamo tutti. «Ecco io non lamento altro; però una cosa è molto seria, questa mancanza di comprensione dei problemi. Il Consigliere non ha letto ancora una pagina del processo di cui è formalmente assegnatario, ma ha determinato tutta questa serie di reazioni a catena per cui ci siamo inevitabilmente fermati tutti. E io personalmente non intendo avallare una gestione di processi di questa gravità in una visione burocratico amministrativa».

IL BLOCCO TOTALE. «Io non intendo assolutamente sovraccaricare nulla e ho sempre ispirato la mia condotta alla volontà di sdrammatizzare tutti i problemi, ma le condizioni obiettive sono queste: noi ci troviamo bloccati da fatti che, presi uno per uno, sembrano delle miserie, ma presi globalmente bloccano tutto. Tutta questa situazione all'interno dell'Ufficio in realtà ha prodotto il blocco totale. Ci trastulliamo con vicende che non meriterebbero nessuna attenzione, mentre sui nostri problemi non riusciamo a concentrarci».

Domanda il consigliere Guido Ziccone, del Sindacato magistrati: «Da come lei ha riferito i fatti, mi sembra di aver capito che c'è una serie di difficoltà che mano a mano sono emerse, evidenziate dal modo in cui questo pool ha ragionato e operato. È un modo che il Consigliere istruttore avrebbe voluto o vorrebbe modificare?»

Falcone: «Io non so nemmeno se vuole che ci sia un pool, e con quali persone, perché non ce ne ha informato ancora!».

Ziccone: «La cosa che mi colpisce, che colpisce tutto il Paese... è come si arrivi a questa diagnosi d'impossibilità di andare avanti... ».

Falcone: «C'è un senso di scoraggiamento da parte dei colleghi... Le faccio un altro esempio (ma ne potrei fare centinaia di questo esempi): processo per truffa di miliardi alla Sicilsud Leasing, processo molto importante sorto fra l'altro da indagini che avevamo fatto noi (io in particolare) e che poi sono state sviluppate dalla Procura della Repubblica e dalla Guardia di finanza; processo in cui ancora una volta viene a trovarsi coinvolto, come perno, Tommaso Marsala.

IL PROCESSO NEGATO. «Essendo un processo molto importante, aspettiamo che arrivi all'ufficio istruzione; finalmente un giorno telefono alla cancelleria c mi dicono che è arrivato da una decina di giorni; chiedo a chi è assegnato c mi rispondono che è assegnato anche a me. Pensando di dover lavorare anch'io, chiamo il collega assegnatario e gli chiedo quando ci riuniamo per parlarne. Risponde di no, che è inutile riunirsi, che io posso richiedere la sola copia degli atti. Pensando che ci fosse l'assegnazione congiunta, vado a vedere e l'assegnazione è in questi termini: il processo è assegnato al giudice istruttore Barrile e, limitatamente agli atti che potrebbero essere importanti nelle indagini su Marsala, anche ai giudici Falcone e Lacommare; s'inserisce una terza persona ed ecco che siamo in quattro. Ora io vi chiedo: sulla base di questa delega, come ci possiamo muovere noi?... Cosi mi si mette in condizioni di non muovermi, non posso fare nulla. Giorno dopo giorno c'è un problema, poi quando cerchiamo di far capire queste cose, ti spunta sul “Giornale di Sicilia” un comunicato: basta coi miti, queste beghe fra magistrati, queste sono beghe fra cordate di magistrati, tutti sono in grado di fare tutto. Voglio dire che è tutta una serie di colpi di spillo che ti mette in condizione di non muoverti. Certo, se scomponiamo e rianalizziamo queste vicende, sono tutte risolvibili, però, poi, in concreto ti accerchiano c non ti muovi. Tutto questo ti delegittima, tutto questo t'impedisce di andare avanti; diceva Dalla Chiesa che Palermo era una città dove il “prestigio” conta...».

Domanda il consigliere Smuraglia: «Rispetto a quando è venuto a Palermo il Comitato antimafia del Consiglio, cioè a fine gennaio, la situazione complessiva è migliorata, è rimasta uguale o è peggiorata?».

Falcone: «io direi che al peggio non c'è mai fine, ma certo migliorata non è... Recentemente mi è capilato di dover rivivere quegli stessi errori che abbiamo censurato per il passato. Agli inizi degli anni '60 certe frasi come “rappresentante”, “famiglia mafiosa”, “reggente” (tutto un insieme di notizie che poi ci sarebbero state dette anche da Tommaso Buscctta) c'erano già scritte nei rapporti. Poi, dagli anni '70 in poi, tutto questo sparisce, perché? Per la mancanza di memoria storica, per la mancanza di professionalità specifiche per questi problemi. Cosi noi ci troviamo adesso in una situazione identica a quella di prima che iniziassimo le indagini istruttorie... Adesso constatiamo scarsezza di collaborazione e di entusiasmo, io non vedo funzionari di Polizia nel mio ufficio da mesi, mesi e mesi...».

L'AUTISTA AL COMPUTER. Smuraglia: «Il Procuratore Borsellino ci ha detto che adesso dei computer, dell'impiego degli elaboratori elettronici si occupa il collega De Francisci».

Falcone: «Se ne occupava! Perché Dc Francisci, occupato anche lui nell'ordinario, è costretto a diradare il suo impegno nell'informatica ed il laboratorio viene gestito da un commesso, l'ex autista di Chinnici...»

Smuraglia: «Non è arrivato un tecnico?»

Falcone: «No, no, no. Queste elaborazioni vengono affidate a questa persona dotata di sensibilità, che però può omettere dei dati che per noi sono significativi e per lui non lo sono».

Domanda il consigliere Pietro Calogero: «Il ricorso al carteggio che si è dispiegato in questi mesi fra i componenti del pool e il consigliere Meli a cosa è dovuto? Qual è la ragione del ricorso allo scritto tra componenti dello stesso ufficio?».

Falcone: «Noi abbiamo fatto ricorso allo scritto solo dopo che ci siamo resi conto che non c'era alcun dialogo. Io stesso più d'una volta l'ho detto al Consigliere: incontrati con noi, non vogliamo altro che lavorare in piena armonia. Non è stato possibile».

Calogero: «Quindi anche la richiesta di copia degli atti in ordine al sequestro Fiorentino, era stata preceduta da richieste verbali di conoscere gli atti del processo?».

Falcone: «Erano andati a parlare con Meli sia Natoli che Trizzino... Insomma nel concreto: ci siamo resi conto che se l'è assegnato lui, ritenendo che fosse un qualcosa di ordinario e credo che forse tuttora non sia convinto che sia importante questo processo, ma in realtà è molto importante».

Calogero: «In relazione ai processi che si è autoassegnato, processi di mafia s'intende, risulta che Meli abbia svolto atti istruttori?».

Falcone: «No...».

Il consigliere Massimo Brutti: «Vorrei che Falcone ci desse tutte le indicazioni possibili sulla base della buona volontà per uscire dall'impasse, perché si possa risolvere tutto questo problema nella chiarezza».

Falcone: «La buona volontà da parte nostra c'è tutta. Io penso che il punto focale è che il Consigliere Meli dovrebbe comprendere che non c'è nessun complotto di nessun genere. Meli, a mio avviso, è stato male informato. Io credo che non abbia compreso un fatto fondamentale: che noi non abbiamo altri interessi che non siano quelli istituzionali. Ma, vivaddio, tutte le responsabilità, tutte le colpe saranno perseguite, a qualsiasi partito appartengano coloro che abbiano commesso determinati reati. Solo a queste condizioni io sono disponibile per continuare. Ripeto, purché tutti quanti ci si renda conto che bisogna lavorare serenamente, in buona fede e senza fini di altro genere».

"Ho tollerato le accuse in silenzio". Le parole di Giovanni Falcone, tratte da lettere e libri del giudice ucciso, scrive il 23 maggio 2012 "L'Espresso".

Lettera di Giovanni Falcone al CSM, Palermo, 30 luglio 1988, ora in G. Monti, Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia, Editori Riuniti/L’Unità, Roma, 2007, pp. 88-90. Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto, ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità dell’ufficio. È certo però che esulava completamente dalla mia mente l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo svolgimento della mia attività. Il ben noto esito di questa vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale. Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere. Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti. Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia. […] Mi auguro che queste mie istanze, profondamente sentite, non vengano interpretate come gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio di chi è costretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio pensiero senza condizionamenti di sorta. 

Da "Cose di Cosa nostra", in collaborazione con Marcelle Padovani, 1991, edizione del maggio 2004, p.8'2-83 e p.170-171. Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. […] Sono uomini come noi. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia […] Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcuni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente innocue, certi comportamenti, che nel resto d’Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito […] Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. 

Da "Interventi e proposte" (1982-1992), Sansoni editore, pp.304-305. Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di "emergenza", in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali […].

Dopo le inchieste della magistratura, ora la politica ritrovi le responsabilità di quegli anni. La nuova Commissione antimafia deve continuare il lavoro interrotto. E svolgere nuovi approfondimenti per fare luce sui lati oscuri di quel periodo, scrive Lirio Abbate il 22 maggio 2018 su "L'Espresso". Le indagini su gravi episodi di omissione e depistaggio hanno portato negli ultimi anni a nuovi processi per le stragi del 1992, aperti a Caltanissetta. Processi rifatti e nuovi imputati alla sbarra. E nuove sentenze di condanna sono arrivate. Per l'attentato di Capaci si sta ancora processando il latitante Matteo Messina Denaro, considerato uno dei mandanti. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, alla partenza della nave della Legalità che porta gli studenti di tutta Italia a Palermo ha detto: «Il 23 maggio è una data che non si può dimenticare, viene ricordata ogni anno la data del vile attentato di Capaci. Da allora si è sviluppato un movimento di reazione civile prezioso e importante, contro la mafia che ha ottenuto risultati importanti ma che richiede ulteriori impegni». Del periodo stragista di ventisei anni fa e si è occupata la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi che ha affrontato il carattere politico-mafioso di quelle stragi. Sono stati sentiti i magistrati di Palermo e Caltanissetta, i componenti della famiglia Borsellino, dalla sorella Rita, al fratello Salvatore, alle figlie Fiammetta e Lucia. È stato audito anche il magistrato Gianfranco Donadio, per il suo ruolo di procuratore aggiunto della direzione nazionale antimafia, e per i peculiari compiti che gli erano stati affidati, per il quale è stato un protagonista delle indagini sulle stragi «con un inevitabile strascico di polemiche e di ulteriori vicende anche giudiziarie». I commissari hanno svolto un grande lavoro che però non si è potuto allargare, per mancanza di tempo, e di fine legislatura. È adesso compito della prossima Commissione antimafia a svolgere ulteriori approfondimenti, tentando – sempre che ci sarà la volontà politica - di far luce su alcuni aspetti di queste oscure vicende. Le inchieste giudiziarie faranno il loro corso, ma è opportuno dare maggiore spazio all’inchiesta politica e all’analisi storica sulle responsabilità – politiche? - di quegli anni.

Perché Giovanni Falcone vive ancora oggi. Dal giorno dell'attentato il giudice ha cominciato a rinascere, a diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Sino a essere, con Paolo Borsellino, punto di riferimento di chi crede in una giustizia capace di schiacciare la sopraffazione e la mentalità mafiosa. Per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2016. Giovanni Falcone ha iniziato a rinascere proprio su quel cratere dell'autostrada squarciata 24 anni fa da cinquecento chili di tritolo fatti esplodere dai mafiosi. C'è voluta questa strage, con il pesante sacrificio umano che si è trascinata, per scuotere le coscienze. E far cambiare idea non tanto ai mafiosi ma a quella pletora di nemici, pubblici e privati, che il dottor Falcone ha avuto durante la sua carriera. E a quei siciliani che continuavano a ripetere fino a quel momento: tanto si uccidono fra di loro i mafiosi. Magistrati e professionisti, politici e borghesi, che hanno attaccato il dottor Falcone in vita, dopo la sua morte come per un incantesimo hanno iniziato a dire che erano tutti amici di "Giovanni", che stimavano "Giovanni" e che gran magistrato era "Giovanni". Dopo la sua uccisione il dottor Falcone sembrava di colpo aver conquistato più amici. Anche e soprattutto fra i nemici. Che strana è la vita di questo uomo-magistrato che durante la sua carriera si è dovuto confrontare prima contro i mafiosi, che hanno cercato in più occasioni di ucciderlo, poi contro una maggioranza di suoi colleghi che proprio perché erano maggioranza lo mettevano in minoranza quando Falcone chiedeva di poter andare a ricoprire altri incarichi dove avrebbe potuto mettere a frutto l'esperienza nella lotta alla criminalità organizzata. Poi contro i politici che difendevano gli interessi dei mafiosi. E poi contro i veleni di "palazzo". Non si è fatto mancare nulla. La gente, che però non era una maggioranza, lo sosteneva. Ma i corvi avevano sempre la meglio. Ma una giustizia arriva sempre. Per tutti. Sono però tutte storie dimenticate. La strage ha fatto dimenticare - non a tutti - queste cose. Ma il dottor Falcone proprio da quell'attentato di Capaci ha iniziato a rinascere. A diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Oggi Giovanni Falcone è il punto di riferimento, come lo è anche Paolo Borsellino, di chi crede in una giustizia che può schiacciare la sopraffazione mafiosa con i loro clan e i loro affiliati. Ma anche la mentalità. Per questo Giovanni Falcone ancora oggi vive. E per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto. I magistrati di Caltanissetta dopo aver istruito diversi processi ai mandanti ed esecutori della strage, ancora oggi si trovano a puntare il dito su altri responsabili che fino adesso erano rimasti fuori dalle indagini e grazie alle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia è stato possibile individuare. Come pure il latitante Matteo Messina Denaro che per 24 anni è rimasto lontano dalle indagini e adesso i pm nisseni hanno provato il suo coinvolgimento, insieme a Totò Riina, come mandante dell'attentato. Il lavoro di Falcone dava fastidio a Cosa nostra, e per questo è stato ucciso. I pm di Caltanissetta escludono l'intervento di soggetti esterni alla mafia nell'esecuzione della strage di Capaci. Lo ha voluto ribadire poche settimane fa il pm Stefano Luciani durante la requisitoria del nuovo processo per la strage. "Abbiamo diverse dichiarazioni generiche sull'intervento di soggetti esterni, in particolare componenti dei servizi. Dichiarazioni che arrivano da persone estranee a Cosa nostra o da chi era ai piani bassi dell'organizzazione, ma nessuno di coloro che stava ai piani alti della mafia e che poi ha deciso di collaborare con la giustizia, come ad esempio Giovanni Brusca, ha mai parlato dell'intervento di esterni nell'esecuzione della strage. E allora cosa dovremmo fare? Teorizzare un enorme complotto che mirava a tappare la bocca a questi collaboratori?", ha detto il magistrato Luciani. "Ci stiamo occupando di un fatto che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese, a livello di ipotesi si può dire tutto, ma quando dobbiamo andare sul concreto dobbiamo agire sulla base degli elementi raccolti. Sono stufo di sentire dire che questo ufficio tiene la polvere nascosta sotto il tappeto. Si è parlato anche del coinvolgimento di Giovanni Aiello (ex agente di polizia reclutato dai Servizi indicato come "faccia di mostro" ndr). Abbiamo sentito molti testi, ma riscontri sicuri non ne sono arrivati. I suoi familiari hanno detto di non sapere che collaborasse con i servizi e quando ad alcuni testi è stato chiesto di descriverlo sono stati commessi errori". La Procura di Caltanissetta, che dal 2008, dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza, sta cercando di riscrivere la verità sui due attentati di Capaci e di via D'Amelio, ha messo insieme gli elementi raccolti individuando mandanti ed esecutori materiali rimasti per lungo tempo impuniti. Falcone intanto risorge.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti: "Quel giorno ho visto l'asfalto salire in cielo". Il racconto dell'attentato costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta nelle parole degli agenti sopravvissuti al tritolo, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2017 su "L'Espresso". Una delle tappe della strategia attuata dai mafiosi di Cosa nostra nel 1992 - attaccare frontalmente lo Stato - è l’attentato di Capaci al magistrato Giovanni Falcone. È una strategia funzionale alla ricerca di nuovi referenti politici. E anche per questo l’attentato viene eseguito in fretta. Totò Riina aveva premura di portare a termine il progetto di uccidere il magistrato che era il principale nemico di Cosa nostra. Perché aveva premura? Perché aveva perso il potere, non era più credibile agli occhi di alcuni boss e quindi doveva essere un attentato eclatante. Riina si era impegnato con i suoi picciotti affinché la sentenza della Cassazione ribaltasse le condanne all’ergastolo per gli imputati del maxi processo a Cosa nostra. Ma questo non era successo. Accanto all’azione dei mafiosi gli inquirenti oggi cercano di capire se possono esserci delle mani esterne ad aver agito insieme a Cosa nostra. Ciò che è avvenuto il 23 maggio 1992 lo spiegano i sismografi siciliani che registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Un’esplosione che è come una scossa di terremoto. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell’autostrada in direzione di Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. L’esplosione prende in pieno la prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggiano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Nella prima auto ci sono i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani mentre in quella che segue ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede nel sedile posteriore. Il magistrato aveva preferito mettersi alla guida con accanto la moglie. La deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l’auto del magistrato. Appena dietro c’è la terza blindata del corteo, con gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono. I tre poliziotti scendono dall’auto e cercano di dare aiuto al giudice, alla moglie e all’autista. Nonostante le lesioni riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere. Per lui è necessario aspettare i Vigili del Fuoco. Come raccontano agli inquirenti Corbo, Capuzza e Cervello, il giudice Falcone, sua moglie Francesca e l’autista Costanza dopo l’esplosione sono ancora vivi. La donna respira ma è priva di conoscenza, mentre Falcone mostra con gli occhi di recepire le sollecitazioni dei soccorritori. La corsa in ospedale in ambulanza e gli sforzi dei medici non riescono però a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione. L’autista Costanza invece, ricoverato in prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apre il corteo, nell’immediatezza dell’arrivo dei soccorsi non c’è traccia. Le prime persone arrivate sul posto pensano in un primo momento che sia riuscita a sfuggire alla deflagrazione. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma verrà ritrovata accartocciata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri di distanza, con i corpi dei tre poliziotti dentro. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l’attentato vengono ricostruiti dai tre agenti sopravvissuti alla strage. E sono loro che offrono agli inquirenti le “immagini” dell’attentato attraverso la loro descrizione di ciò che hanno visto.

Macerie dappertutto. «C’è stato un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione. Mi sono sentito catapultare in avanti», racconta Angelo Corbo. «Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dall’auto, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Uscendo si è capito della gravità della situazione, la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare nessuno. L’auto era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante. Non riuscivamo a estrarre né Falcone né la dottoressa Morvillo, altre persone sono venute in aiuto. Ricordo che non riuscivamo ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era il vetro sradicato, e con l’aiuto di volontari l’abbiamo tirata fuori dall’abitacolo. Intanto l’auto di Falcone stava prendendo fuoco, allora ci siamo attivati per spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, non so dire se era cosciente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva nulla, comunque era vivo. Si era pure rivolto verso di noi guardandoci. L’autista Costanza era sul sedile posteriore ed era sdraiato su un fianco».

Uno sguardo ormai chiuso. «Nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, ho sentito una grande deflagrazione, un’esplosione. Non ho visto più niente e non so che cosa ha fatto in quel momento l’auto», racconta Gaspare Cervello. «Non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Ho ripreso i sensi dentro l’auto, lo sportello era bloccato e solo con forza riesco ad aprirlo. Non ho fatto caso ai colleghi, se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa che mi ha dettato l’istinto è stata di uscire dall’auto e andare direttamente verso quella del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla blindata ho visto una scena straziante. L’auto era coperta da terriccio e asfalto, e c’era ancora il vetro, ma non riuscivamo a dare aiuto. Nulla. L’unica cosa che ho fatto è stata quella di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni...”, e lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti che lo schiacciava. Aveva soltanto la testa libera di muoversi. Ha mosso la testa solo per quegli attimi in cui l’ho chiamato. La dottoressa Morvillo era chinata in avanti come l’autista Giuseppe Costanza, e la prima sensazione è stata: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”. Mentre la macchina degli altri colleghi che stava davanti, non l’ho vista... Ho pensato che ce l’avevano fatta, che fossero andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo fare più niente perché la nostra auto era distrutta».

L’ultima parola: “Scusi”. «L’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è quando gli ho chiesto quando dovevo riprenderlo. Mi ha detto: “Lunedì mattina”. Io gli ho risposto: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi dia le chiavi dell’auto in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina», racconta Giuseppe Costanza. «Probabilmente era sovrappensiero perché lui allora sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendo: “Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. E lui allora mi disse: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c’è più nulla. Potevamo andare a una media di 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità».

Le mani che tremavano. «Guardavo a destra dell’auto e ho sentito un’esplosione, seguita subito da un’ondata di caldo. Mi sono girato verso la parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva», ricorda Paolo Capuzza. «Ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato e siamo andati a finire sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’auto del dottor Falcone. Sul tettuccio sentivamo ricadere tutti i massi e una nube nera. Non vedevamo niente, polvere e nube nera. Poi siamo usciti dall’auto con le armi in pugno, ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prendere il mitra, perché la mano non riusciva a tenerlo, non riuscivo a stringerlo. Ho preso la mia pistola e siamo usciti dalla blindata e ci guardavamo intorno, perché ci aspettavamo che arrivasse il colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’auto del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore. C’era un principio di incendio ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra auto, abbiamo spento le fiamme. L’incendio era proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era sul limite del precipizio, dove si era creata la voragine. Ci siamo guardati intorno per proteggere ancora il magistrato mentre il collega Gaspare Cervello chiamava per nome il dottor Falcone, che non ha risposto. Però si è girato con la testa... Abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». Era il 23 maggio 1992, 25 anni fa.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti. La drammatica testimonianza di Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, i tre agenti che si trovavano sulla terza auto blindata che seguiva quella del giudice Falcone e della scorta, scrive Lirio Abbate il 20 maggio 2016 su "L'Espresso". Il 23 maggio 1992 i sismografi siciliani dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell'autostrada in direzione di Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci. L’esplosione impatta sulla prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggia il magistrato Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Nella prima auto ci sono gli agenti della Polizia di Stato Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani mentre in quella che segue immediatamente dopo ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede però nel sedile posteriore. Falcone aveva preferito mettersi lui alal guida con accanto la moglie. La potente deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l'auto del magistrato. Appena dietro c'è la terza blindata del corteo in cui c'erano i poliziotti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono all'attentato. I tre poliziotti dopo l'esplosione scendono dall'auto e cercano di dare aiuto al magistrato, alla moglie e all'autista. Nonostante le ferite riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere e per questo è necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. Come racconteranno Corbo, Capuzza e Cervello, Falcone, Morvillo e Costanza erano vivi. La giudice Morvillo respirava, ma priva di conoscenza, mentre il dottor Falcone mostra di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli chiedono i soccorritori. Dal luogo dell'attentato dunque, Giovanni Falcone e la moglie escono vivi. La corsa in ospedale in ambulanza e poi gli sforzi dei medici non riescono a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione, mentre Costanza ricoverato con la prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apriva il corteo, nell’immediatezza dell'esplosione non c'era nessuna traccia sull'autostrada, tanto che i primi soccorritori pensano in un primo momento che fosse riuscita a sfuggire alla deflagrazione e che sarebbe corsa avanti a chiedere soccorsi. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma viene ritrovata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri completamente distrutta. È in un terreno adiacente il tratto autostradale, con i corpi dei tre poliziotti morti. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l'attentato vengono così ricostruiti dai tre poliziotti che sono sopravvissuti alla strage di Capaci. Sono queste le prime “immagini” della strage descritte grazie al racconto dei sopravvissuti.

Angelo Corbo: «Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d'aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l'esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficoltà ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far si' che c'era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all'autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dottor Falcone e della dottoressa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dottor Falcone e la dottoressa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c'era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dottoressa Morvillo e uscita dall'abitacolo della macchina. Invece il dottor Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l'altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c'era stato anche un cercare di spegnere questo principio d'incendio. Il dottor Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, però, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L'autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell'abitacolo della macchina».

Gaspare Cervello: «Dopo il rettilineo, diciamo, all'inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un'esplosione che neanche il tempo di finire un'espressione tipica che non ho visto più niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioé se erano vivi; l'unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perché poi c'era il terriccio dell'asfalto che proprio copriva la macchina; c'era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l'unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: "Giovanni, Giovanni", però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l'ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l'autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: "Ormai tutti e tre non ce l'hanno fatta", mentre la macchina davanti, non l'ho vista... Ho pensato che ce l'avevano fatta, ce l'avevano fatta, che erano andati via... ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo dare più niente perché la macchina nostra era anche distruttissima».

Giuseppe Costanza: «Io l'ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è, appunto, nel chiedergli quando dovevo venire a riprenderlo; mi ha detto: "Lunedì mattina", io gli dissi: "Allora, arrivato a casa cortesemente mi dà le mie chiavi in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina, ma probabilmente era soprappensiero perché una cosa del genere non riesco a giustificarla soprattutto da lui. Sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendoci: "Cosa fa? Così ci andiamo a ammazzare". Questo è l'ultimo ricordo che lui girandosi verso la moglie e incrociandosi lo sguardo e girandosi ancora verso di me fa: "Scusi, scusi". Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c'è più nulla. Potevamo andare a una media di 120, 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità perché la marcia era rimasta inserita era la quarta».

Paolo Capuzza: «Io ero rivolto, diciamo, un po' nella sedia della parte destra e guardavo un po' sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un'esplosione ed un'ondata di caldo è arrivata, ed in quell'attimo mi sono girato nella parte anteriore dell'autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l'asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l'autista abbia sterzato l'autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all'autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l'autovettura del magistrato. Mentre eravamo all'interno dell'autovettura, si sentivano ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioé non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiché siamo usciti dall'autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l'M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perché appunto la mano non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall'autovettura e per guardarci intorno, perché ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c'era davanti all'autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c'erano delle fiamme ed abbiamo preso l'estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l'autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c'era più il vano motore e... ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, sì Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto però si è girato con la testa come... poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». 

Queste dunque le prime immagini della strage tratte dal racconto dei sopravvissuti.

 ‘NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

Ci sono più pentiti che boss: la vera follia dell’antimafia. Costano 100 milioni l’anno ma non fanno nomi nuovi. Che dirà Salvini nella relazione? Scrive Errico Novi il 10 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Sarà interessante sentire Matteo Salvini alla sua prima relazione sui pentiti. Tecnicamente, la “Relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione”. L’ultima l’ha presentata Marco Minniti. Il nuovo ministro dell’Interno non ha ancora esordito su tale terreno. Sappiamo solo che vuole «togliere anche le mutande, ai bastardi mafiosi». Ma come? Attraverso le confessioni dei collaboratori di giustizia? Non che tocchi a lui, certo, la prima linea della lotta alla mafia, presidiata da magistrati e forze di polizia. Eppure spetta al Capo del Viminale riflettere sulle decisioni della Commissione centrale, che decide se e a chi applicare i programmi di protezione. È al ministro dell’Interno che è giusto chiedere conto dell’efficacia del sistema. Ed eventualmente, di predisporre modifiche alle norme. A oggi le collaborazioni sono regolate dalla legge 82 del 91 così come modificata dalla legge Amato, la 45 del 2001. Naturalmente sono decisive le azioni e le valutazioni dei magistrati, compresi quelli della Direzione nazionale Antimafia, che presentano relazioni e pareri su ciascun aspirante pentito. Ma sarà Salvini a dover riflettere su due dati: il numero totale dei collaboratori di giustizia, che secondo l’ultima statistica disponibile, quella presentata appunto dal predecessore Minniti nel giugno 2017, è di 1.277 unità; l’altro dato è il numero dei boss in carcere, che si può desumere semplicemente dai detenuti in regime di 41 bis: in tutto, 730 persone. I secondi, cioè i capimafia, sono poco più della metà di chi è “beneficiato” e protetto affinché aiuti a scovare nuovi boss. Ha senso tutto questo?

Il regime speciale di detenzione resta uno dei vulnus giuridici più gravi, in Italia, ed è stato scientificamente liquidato come incostituzionale dall’ultima commissione Diritti umani del Senato. Ma qui interessa ragionare sul meccanismo che consente di decapitare le cosche. E chiedersi se i collaboratori di giustizia siano davvero ancora utili allo scopo. La domanda, peraltro, viene suggerita da una fonte riservata dello stesso ministero dell’Interno: «I programmi di protezione sono costosi. Sono anche una scelta giudiziaria. Negli ultimi anni l’impegno complessivo dello Stato su questo fronte non è mai sceso al di sotto degli 80 milioni di euro. E se si considera il costo degli immobili messi a disposizione dei pentiti, si arriva sicuramente ai 100 milioni annui. Adesso», continua la fonte, «i collaboratori di giustizia propriamente detti dovrebbero aver superato quota 1.300. Ma se un magistrato riconosce il valore delle dichiarazioni di un mafioso, o di un camorrista, e se riferisce alla Commissione centrale che quel soggetto va ammesso al programma, ritiene che l’aspirante pentito possa servire ad accertare la verità. Ecco, per esempio, dovrebbe consentire di portare al 41 bis almeno un paio di soggetti di spessore. Non può limitarsi ad additare qualche gregario, né ad attribuire il novantesimo omicidio a Riina, cioè a chi tanto è già al 41 bis o è morto». È chiaro che se al 41 bis c’è un numero di criminali pari a poco più della metà di chi si pente, i conti non tornano. «E forse le direzioni distrettuali antimafia su questo dovrebbero riflettere», chiosa l’interlocutore del Viminale. Da una delle Dda più impegnate quanto a collaboratori di giustizia, quella di Napoli, viene poi fatto notare l’altro aspetto del problema: «Molti di coloro che sono ammessi al programma di protezione sono ormai figure di bassissimo spessore. Piccoli criminali che non hanno capacità di direzione strategica. Vanno protetti, ma non sono in grado di dare informazioni di peso. Ciononostante portano dietro costi enormi». Quello di Napoli è il distretto di Corte d’appello che produce più pentiti. Sui 1.277 totali, quasi 800 vengono da lì. I “collaboratori” dell’area che fa capo al capoluogo campano hanno famiglie numerosissime. Da proteggere a loro volta. Non solo mogli (le donne pentite restano pochissime, 63 in tutta Italia conto 1.214 uomini). Spesso si aggiungono le nuove compagne, magari con rispettivi figli nati da precedenti relazioni. Delle comunità complesse, diciamo così, che fanno lievitare in modo impressionante l’altro dato significativo dell’affare “collaboratori”: i congiunti a cui si estende il programma. A livello nazionale sfiorano l’astronomica cifra delle 5.000 unità: sono, precisamente, 4.915. C’è solo un’annata, nella cronologia del pentitismo, in cui si è andati oltre: il 1996. L’apice di una fase del tutto particolare, descritta dal libro di Paolo Cirino Pomicino, "La Repubblica delle giovani marmotte" di cui diamo ampia “rilettura” in queste pagine. Ventidue anni fa si registrò il picco delle persone protette: se nell’ultimo score disponibile se ne contano 6.525, nel ’ 96 si arrivò a 7.020 persone. Grazie soprattutto al record dei familiari dei pentiti, 5.747, mentre i collaboratori veri e propri restarono comunque di poco al di sotto del primato recente: se ne contarono 1.214 (alla somma vanno aggiunti i testimoni di giustizia, poche decine). Ma si era nel pieno della rivincita da parte dello Stato nei confronti della criminalità organizzata, in particolare siciliana. Parliamo degli anni in cui furono acquisite collaborazioni come quella di Giovanni Brusca. Oggi non si riesce a individuare più pentiti di quel “calibro”. Ed ecco perché nella lotta alla mafia, il governo, prima di ogni altra ambizione, dovrebbe coltivare quella di riconsiderare il sistema della protezione.

Pentiti di mafia, logge deviate e pezzi di Stato. Quegli strani intrecci dietro l'omicidio Scopelliti. Il ritrovamento dell'arma del delitto apre scenari inediti. C'è qualcuno che parla con i magistrati? Analisi di un assassinio che coinvolge ben più delle strutture militari del crimine, scrive Consolato Minniti, giovedì 9 agosto 2018, su lacnews24.it. Ha scelto una giornata simbolica il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri. Aveva la notizia già da un po', ma ha preferito attendere perché il giorno del ricordo non fosse solo tale, ma diventasse anche quello della speranza. Così come avvenne qualche anno fa, per i carabinieri Fava e Garofalo, i cui congiunti ascoltarono dalla viva voce dell'allora capo della Procura, Federico Cafiero de Raho, una frase sibillina: «Presto arriveremo alla verità». Fu una promessa, mantenuta solo pochi mesi dopo, quando il gip di Reggio Calabria emise un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per i presunti mandanti di quel duplice omicidio. Una verità ancora da scrivere con una sentenza, certo, ma che dimostrò il grande lavoro svolto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.

La novità investigativa. Oggi Bombardieri fa di più e annuncia il ritrovamento di un fucile calibro 12, ritenuta l'arma utilizzata per uccidere il giudice Antonino Scopelliti. Non è un'ipotesi campata in aria. Prima di pronunciarsi, il procuratore ha atteso i primi accertamenti della Squadra mobile di Reggio Calabria, ossia un gruppo di investigatori di primissimo livello che raramente sbagliano un colpo. E gli esiti dicono che ci sono altissime probabilità che quel fucile sia quello da cui partirono i colpi all'indirizzo del magistrato Antonino Scopelliti. Non staremo certo qui a ricordare chi fosse il giudice “solo”: dalle inchieste sul terrorismo e mafia, passando per quelle riguardanti l'omicidio di Aldo moro, Scopelliti rappresentò un punto fermo per la Corte di Cassazione della quale era sostituto procuratore generale.

Il maxi processo e l'omicidio. La sua vita cambiò decisamente nel momento in cui sulla sua scrivania arrivò un fascicolo con su scritto “Maxi processo a Cosa nostra”. Quello istruito dai giudici Falcone e Borsellino. Alla sbarra c'erano tutti i più grandi boss che rischiavano di essere sommersi da centinaia di ergastoli. Scopelliti non fece una piega. Per lui quelle carte erano lavoro. Come sempre, come ogni processo. Così, con la meticolosità che gli era propria, se le portò persino in vacanza, nella sua amata Campo Calabro. Era solito girare sempre senza scorta, accadde anche il pomeriggio del 9 agosto del 1991. Pochi chilometri più a sud, sulle strade di Reggio Calabria i cadaveri si contavano a centinaia. Circa 700 morti ammazzati con la seconda guerra di mafia. Il clima era rovente fra i due casati più importanti. Scopelliti, però, aveva in testa solo i boss siciliani. Ignorava che nel tragitto che l'avrebbe ricondotto a casa, lo stavano attendendo due sicari. L'auto finì in un dirupo. Si pensò ad un incidente. Poco dopo la scoperta: il giudice era stato ucciso con più colpi di fucile. Ma da chi e perché?

Il processo a Reggio. Iniziò a circolare con sempre maggiore insistenza la voce che a volerlo morto sarebbe stata Cosa nostra con la complicità della 'ndrangheta. Una voce che divenne presto ipotesi processuale che vide alla sbarra i maggiori boss siciliani ed anche un presunto killer. Era Gino Molinetti “la belva”. Lui, che in diverse indagini emerse come sicario senza scrupoli, finì sotto processo per poi essere definitivamente assolto così come tutti i grandi nomi della mafia siciliana. Non si riuscì a provare la loro colpevolezza e l'omicidio del giudice rimase di fatto senza responsabili. Quale mandante del delitto, fu condannato in primo grado Pietro Aglieri, boss palermitano implicato anche nell'omicidio di Salvo Lima. Poi, però, pure per lui giunse l'assoluzione. Ma è un particolare che oggi torna di particolare attualità.

Le parole dei pentiti. La ragione? Va ricercata nelle dichiarazioni vecchie e nuove dei collaboratori di giustizia. Sono stati tanti, tantissimi quelli che hanno parlato di un continuo scambio di favori fra 'ndrangheta e cosa nostra. Scambio di killer, di omicidi, di affari. Ed il delitto Scopelliti rientrerebbe proprio in questa logica: la 'ndrangheta – hanno riferito numerosi collaboratori di giustizia – uccide il giudice su mandato dei siciliani, in cambio questi ultimi intervengono per far cessare le ostilità a Reggio, dove il business è fortemente in crisi a causa di quella guerra iniziata nel 1985. Sta di fatto che, proprio l'omicidio del magistrato segna la fine delle ostilità. Di recente, nel processo “'Ndrangheta stragista”, che sta facendo luce sui presunti mandanti dell'omicidio Fava-Garofalo e sugli attacchi ai carabinieri, ha deposto il pentito Francesco Onorato, killer siciliano ed esecutore materiale dell'omicidio di Salvo Lima. Stesso delitto per il quale fu chiamato a rispondere Aglieri. E cosa ha raccontato Orlando al pm Lombardo? Che l'omicidio Scopelliti fu un favore fatto dalla 'ndrangheta a Cosa nostra e nello specifico una questione di cui si fecero carico i Piromalli ed i Mancuso. Parole che sembrano segnare qualcosa più di una mera novità. Perché se è vero che da sempre sono stati ritenuti gli arcoti coloro che hanno organizzato l'esecuzione del delitto, è altrettanto vero che una decisione del genere non poteva essere presa – in costanza di conflitto interno di tale portata – senza l'avallo delle famiglie più rappresentative della 'ndrangheta. Ed allora ecco che le parole di Onorato acquistano ancor più vigore. La ragione risiede in una indissolubilità delle inchieste. Non si può pensare di comprendere la genesi dell'omicidio Scopelliti se non si analizza bene il contenuto dell'inchiesta “'Ndrangheta stragista” che ne rappresenta una naturale evoluzione con i suoi fitti legami fra Sicilia e Calabria.

Mafia, 'ndrine e massoneria. Ecco allora che se ciò è vero, non può sfuggire come il contesto nel quale maturò l'omicidio del giudice “solo” è qualcosa più di un humus meramente mafioso. Chiama in causa anche quei grumi di potere, al cui interno vi sono pezzi deviati dello Stato, senza i quali le mafie oggi non sarebbero quelle potenti organizzazioni che abbiamo imparato a conoscere. Sono processi come “Gotha” a rivelare l'esistenza di una componente riservata della 'ndrangheta, quella in grado di dettare le linee guida della strategia criminale, poi messa in atto dalla componente militare. Risulta evidente come un simile delitto non possa essere stato deciso solo da coloro che avevano il potere di sparare. Del resto, la storia dei legami fra Sicilia e Calabria è ben più risalente nel tempo. Non si dimentichi quanto hanno riferito gli storici pentiti calabresi Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca in ordine ad una super loggia segreta costituita a Reggio Calabria dal terrorista nero Franco Freda, nel periodo in cui la città dello Stretto divenne il laboratorio prediletto dell'eversione. Un capitolo che il giudice Scopelliti conobbe anche piuttosto bene. E cosa dissero i pentiti? Che una loggia gemella fu costituita anche a Catania. Sì, nella stessa città dove oggi il Procuratore Bombardieri ritiene di aver individuato l'arma che sparò a Scopelliti. Una pura coincidenza? Può darsi. O forse no. Forse, invece, quei legami inconfessabili fra lo Stretto e la città dell'Etna sono qualcosa di più profondo. Forse quegli scambi, continui e costanti, nascondevano una compenetrazione criminali ben più strutturata. Sta di fatto che aver individuato oggi un'arma, sotterrata e rimasta segreta per ben 27 anni fornisce un preciso messaggio.

Cosa c'è dietro il ritrovamento? Che ci sia qualcuno che finalmente abbia iniziato una collaborazione seria sulla morte del giudice Scopelliti? Non siamo in grado di dirlo, ma, se così fosse, l'arma potrebbe rappresentare un formidabile riscontro. Del resto, si dice sempre che un pentito, per essere credibile, debba dimostrare ciò che dice. E chi poteva sapere dove era tenuta l'arma del delitto? Solo chi ne ha avuto piena conoscenza. Ecco allora che questa notizia è molto più che un fatto tecnico. Il riserbo del procuratore potrebbe celare qualcosa di simile. La capacità tecnica degli operatori di polizia, peraltro, è nota: da una mera arma potrebbero risalire a molto di più. Per esempio capire se la stessa fu utilizzata per altri delitti eccellenti, magari con imputati condannati in via definitiva. Bisognerà attendere e non sarà certo questione di poco tempo. Ma la sensazione è che, anche in questo caso, non bisogna certo andare troppo lontano per cercare la verità. Chissà che, una volta per tutte, non si riesca a scrivere una parola di verità su uno fra i delitti più indecifrabili della storia recente. La Procura di Reggio Calabria ci ha già dimostrato di essere perfettamente in grado di farlo.

Chi infanga la massoneria, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 10/08/2018, su "Il Giornale". Non avendo problemi, in Sicilia, se li creano. Non bastassero la mafia e l'antimafia, la disoccupazione e lo sconvolgimento del paesaggio, gli sfaccendati parlamentari dell'Assemblea regionale si trastullano con disegni di legge come quello che impone l'obbligo di dichiarare l'affiliazione dei deputati e degli assessori regionali a logge massoniche e similari. Il proponente è Claudio Fava, che si compiace di sovrapporre associazione a delinquere con le libertà di associazione religiosa, culturale, politica previste dall'articolo 18 della Carta Costituzionale. Un simile arbitrio era stato tentato nelle Marche e prontamente dichiarato illegittimo dal Consiglio di Stato. Infatti la norma discrimina l'appartenenza alla Massoneria da ogni altra per cui non è richiesta alcuna declaratoria. Le leggi speciali odorano di stato di polizia e di dittatura. E umiliano un'appartenenza come se essa stessa fosse un crimine. Il crimine presuppone una responsabilità individuale. La massoneria ha una storia gloriosa che non può essere infangata dai disturbi persecutori di un Fava, seguito da parlamentari distratti e opportunisti, privi di rispetto per la storia e per la libertà di idee, senza nulla fare di penalmente rilevante. Essere massoni non significa essere criminali. Gli iscritti al Grande Oriente d'Italia, anche per statuto interno, devono avere i medesimi obblighi di rispetto delle leggi dello Stato, con la «dovuta obbedienza e la scrupolosa osservanza alla Costituzione dello Stato democratico e alle Leggi che ad essa s'ispirino». La vera colpa è ignorarlo.

Il pentito della super loggia massonica segreta: "C'erano anche capi di Stato ed esponenti di governo", scrive Ignazio Dessì il 26 settembre 2017 su "Tiscali". Che rapporto esiste tra le mafie e la Massoneria? Ha tentato di chiarirlo la Commissione Parlamentare Antimafia presieduta dall'onorevole Rosy Bindi che, dopo aver impattato contro il diniego delle organizzazioni massoniche italiane a consegnarli, ha deliberato il sequestro degli elenchi degli iscritti. Così a inizio marzo scorso gli uomini dello S.C.I.C.O., il Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata, hanno sequestrato le liste degli affiliati alle quattro principali associazioni massoniche italiane: il Grande Oriente d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia, la Serenissima Gran Loggia d’Italia e la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori. La reazione delle obbedienze massoniche non si è fatta attendere. Il Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, ha dichiarato: “Noi cerchiamo di utilizzare tutti gli strumenti che la legge consente per respingere l’atto (secondo noi illegale) che la commissione parlamentare antimafia ha fatto. La nostra non è lotta contro lo Stato”. Ma Rosy Bindi ha risposto spiegando che “la mancanza di collaborazione con le Istituzioni parlamentari, arrivata al diniego di consegnare i nominativi alla Commissione, ha portato al sequestro perché è stata lanciata una sorta di sfida. Ha fatto nascere alcuni dubbi sull’organizzazione massonica, assolutamente legittima nella sua esistenza, che non può tuttavia presentarsi come un ordinamento separato rispetto allo Stato rifiutando la collaborazione per proteggere i propri iscritti e il buon nome dell’organizzazione. Eppure non stiamo facendo una inchiesta sulla Massoneria, stiamo facendo una inchiesta sui mafiosi massoni”.

Il Gran Maestro del Goi Stefano Bisi e Rosy Bindi. Si tratta insomma di gettare un fascio di luce sulla nuova organizzazione delle mafie. Per la commissione presieduta dalla Bindi la questione è fondamentale. E’ importante cercare di far chiarezza su una realtà che vede “insieme pezzi delle mafie con pezzi delle massonerie, dello Stato e delle classi dirigenti del nostro Paese”, precisa la presidente della commissione.

"Indizi concreti". La esigenza di chiarezza del resto non è ingiustificata, si basa su indizi concreti. “Le conclusioni cui siamo giunti non sono definitive – spiega la Bindi nella puntata di PreasaDiretta intitolata I Mammasantissima mandata in onda lunedì su Rai3 - ma i primi risultati del nostro lavoro dimostrano che fra i nominativi degli iscritti di alcune logge della Calabria e della Sicilia vi sono alcuni condannati in via definitiva per 416 bis, quindi per associazione mafiosa, e un numero considerevole di situazioni giudiziarie in itinere di imputati rinviati a giudizio sia per reati di mafia, sia per quelli che comunemente chiamiamo reati spia, ovvero comportamenti mafiosi o comunque di collusione con la mafia”. Sono stati scoperti effettivamente dei mafiosi all’interno di logge regolari? Alla domanda della giornalista di PresaDiretta la presidente dell’Antimafia risponde di sì. Ma i Gran Maestri hanno detto seccamente no alla consegna degli elenchi. Anche se la Bindi precisa che “nessun nome è circolato e circolerà proprio perché non vogliamo rivelare un dato riservato che è quello dell’iscrizione alla massoneria”. La situazione sembra ormai a tinte fosche. “I dati quantitativi che stanno emergendo – afferma la Bindi - sono obbiettivamente ed effettivamente preoccupanti, si dimostra che alcune teorie sulle nuove organizzazioni della mafia, per cui questa starebbe assumendo nuove connotazioni che passano anche attraverso le organizzazioni massoniche sono in qualche modo convalidate”.

"Quali i nuovi varchi delle mafie". E' allora fondamentale comprendere bene e fino in fondo “quali sono i nuovi varchi delle mafie oggi”, quelle che “sparano meno ma corrompono di più, condizionano l’economia legale, la politica, la Pubblica Amministrazione e riescono a piegare ai loro voleri e interessi le classi dirigenti del Paese”. Per l’onorevole Bindi è indubitabile, “dopo i primi risultati, poter dire che anche le associazioni massoniche rischiano di essere un varco o addirittura una nuova forma di organizzazione attraverso cui le mafie creano relazioni con il potere”.

L'aderente alla massoneria pentito e la super loggia segreta. Particolarmente istruttiva l’intervista fatta da Raffaella Pusceddu di PresaDiretta ad un aderente pentito della massoneria, Cosimo Virgilio, imprenditore calabrese legato alla ‘ndrangheta e massone d’alto livello. Virgilio inizia col ricordare il suo ingresso in Massoneria, nel Goi (Grande Oriente d’Italia), negli anni ’90, a Messina. Poi il trampolino di lancio per arrivare a Roma: “L’ordine dei Templari, dove si ambiva ad essere riconosciuti dalla Santa Sede, dal Vaticano”, racconta. La loggia dove approdò dopo però non era una loggia delle obbedienze ufficiali. “Era una massoneria diversa”. In sostanza, sintetizza Virgilio, si trattava “dell’accorpamento del vero potere. C’erano Capi di Stato, esponenti del governo, alcuni dei quali ancora in carica”. Descrive anche il suo rito di iniziazione alla loggia segreta. “Un rito molto crudo – afferma – teso a significare la morte della vita terrena, in cui si doveva stare per ore a fianco di quella che rappresentava la morte del profano, ovvero lo scheletro”. Una Super Loggia in definitiva, “al di sopra di leggi e governi che decideva le sorti del Paese e non solo”. Il fine ultimo era sempre il solito: “Il denaro e il potere”. Per questo si arrivava alla “costituzione di banche per raccattare i capitali”. E altro. “Per fare un esempio, all’epoca era in ballo la fornitura in Turchia di elicotteri Agusta, mi sembra, e si andava a decidere lì” il da farsi.

"Anche esponenti della criminalità organizzata". E nella Super Loggia segreta c’erano “anche – a detta del massone e imprenditore – esponenti della criminalità organizzata. Ad esempio, per la ‘ndrangheta si gestivano proventi illeciti, si faceva riciclaggio insomma. Una nostra missione era inoltre quella di accorpare sempre più avvocati, perché gli avvocati avevano i rapporti con i magistrati, e se un ‘ndranghetista ha bisogno di aggiustare un processo non può andare a parlare direttamente con un magistrato”. Ma si tratta di una “’Ndrangheta al servizio della massoneria o di una massoneria al servizio della ‘ndrangheta? “Io lo definisco un sistema di mutuo scambio”, risponde Virgilio nell’intervista. Il punto di vista di uno che sa quello di cui parla. Virgilio infatti, oltre a far parte della loggia massonica segreta faceva parte anche di una loggia ufficiale. Era maestro venerabile della Loggia dei garibaldini, spiega il servizio. E a questo proposito la domanda dell’intervistatrice è puntuale: si trattava di una copertura o esiste un rapporto tra le logge segrete e quelle ufficiali? La risposta dell’imprenditore calabrese fa davvero riflettere: “C’è un riconoscimento universale, ogni massone non può rifiutare il riconoscimento di un altro massone. E’ inutile distinguere tra massoneria riconosciuta e non, con questa super loggia i maestri venerabili avevano grossi interscambi culturali. Diciamo così, culturali”. La giornalista di LineaDiretta a questo punto approfondisce non senza un moto di sorpresa: “Quindi lei mi dice – incalza - che esistevano rapporti tra obbedienze della massoneria ufficiale e quella dove c’era la ‘ndrangheta?”. La risposta: “Si, siamo fratelli comunque”.

I lavori della Commissione. Diventa allora ancor più comprensibile lo sforzo portato avanti dalla Commissione Antimafia per acclarare quali siano i rapporti reali tra mafie e massoneria. Davanti alla presidente Rosy Bindi hanno sfilato i nomi più importanti delle obbedienze italiane. Si sono domandati chiarimenti tesi a verificare possibili rapporti con ndrangheta e mafia. Si è chiesto se i Gran Maestri fossero a conoscenza di talune inchieste e rapporti. Si sono infine richiesti i nomi degli iscritti.  Ma tutti i responsabili si sono barricati dietro il diritto alla privacy. Il 17 gennaio il Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, ha chiarito che “la consegna degli elenchi dei circa 23mila fratelli non può avvenire, perché si compirebbe noi stessi un reato”. La Bindi gli ha detto a quel punto: “Vi siete chiesti perché in Sicilia e Calabria vi è una sproporzionalità tra abitanti di quelle regioni e iscritti alla massoneria rispetto alle altre regioni italiane?”. E Bisi ha risposto: “Sì, conosco i fratelli di quei territori e non sono peggiori di altri, sono come altri. Noi finché non c’è un documento penale non possiamo agire come organi di polizia giudiziaria”.

Trasparenza e rifiuto degli elenchi. Inevitabile per la giornalista autrice del servizio porre una domanda al Gran Maestro del Goi intercettato durante una riunione della sua organizzazione. “Come si concilia con la sua annunciata politica della trasparenza il fatto di non voler fornire i nomi dei vostri elenchi alla commissione parlamentare?”. E’ semplice, ad avviso del Gran Maestro: “Nessun’altra organizzazione umana di persone fornisce l’elenco dei propri iscritti, nessuna”. In soldoni, tutte le grandi obbedienze rifiutano di consegnare l’elenco degli iscritti. E la difesa si è fatta strenua. Schiere di avvocati sono state mobilitate perché – ha detto Bisi ai suoi – “Non si può continuare con le pesche a strascico. Ci opporremo con tutte le forze a chi sta trasformando in una caccia alle streghe una caccia all’uomo”. Inevitabile per la Commissione Antimafia e per Rosy Bindi deliberare per il sequestro degli elenchi attraverso la Guardia di Finanza.

Calabria: Platì è mafiosa? Già, ma ha eletto Rosy Bindi, scrive Ilario Ammendolia su Il Dubbio, il 7 giugno 2016. In questi giorni di vigilia elettorale, Platì, paese di tremila abitanti della Locride, in Calabria, è andato sulla prima pagina di tutti i più importanti quotidiani nazionali. Domenica s'è votato ed i candidati a sindaco sono due normalissime persone del luogo: Ilaria Mittica, funzionaria regionale e Rosario Sergi assicuratore. Elezioni normali come in tutti i paesi d'Italia ed, a tratti, quasi noiose. Ma per gli inviati speciali che per tutta la giornata si sono aggirati ai seggi con penna e taccuino, quella di ieri non è stata una normale manifestazione di libertà e di democrazia. A Platì, dietro ogni cosa, c'è sempre la ndrangheta anche se non è spuntata la lupara né il coltello. Anche se uomini e donne sono andati gioiosamente ai seggi e senza pistola alla tempia. Inutile. Qui si è colpevoli a prescindere. L'inviato di un importante quotidiano nazionale dinanzi alla gente che va al voto scrive che a "Platì siamo al Medioevo. Questa è una terra che è Italia solo sulla carta geografica". (La Repubblica)

Ed è vero. Questa è una Terra che non è Italia gli ospedali somigliano tremendamente ai lazzeretti. Non è Italia perché ha il tasso di disoccupazione più alto di Europa. Perché la garanzie costituzionali sono state sospese da tempo. Perché uno Stato intriso di mentalità mafiosa si arroga di sciogliere i consigli comunali democraticamente eletti. Non è Italia perché le classi dirigenti hanno seminato per decenni la malapianta della ndrangheta trasformando un popolo di lavoratori in popolo di emarginati. Non è Italia perché i parlamentari e la classi dirigenti regionali ha scambiato per mezzo secolo i voti della ndrangheta con favori accordati ai mafiosi. Infatti, la ndrangheta per decenni è stata uno di strumento di governo cresciuta persino (o soprattutto) nelle caserme e nei tribunali. Non è Italia perché le disuguaglianze sono più evidente che altrove. Non è Italia perché qui è stata eletta Rosy Bindi che, chiusa in una caserma di Locri, e debitamente a distanza dai "lebbrosi" che l'hanno eletta, pontifica come una vestale del tempio sulla mafiosità dei calabresi. Non è Italia perché il presidente del consiglio dei ministri indica il candidato a sindaco di Platì dal palco della Leopolda. Perché l'on. Fava si è permesso di affermare che i candidati di Platì pur essendo in regola con i criteri dell'antimafia sono comunque sospetti, ci mancherebbe altro! Non è Italia perché l'indegno spettacolo che in occasione del 2 giugno del 2015 il PD ha messo in scena a Platì, ha dimostrato la consistenza e la serietà dei partiti calabresi. Sostanzialmente uguali! Non è Italia perché il procuratore della Repubblica di Reggio, ha dichiarato che sarebbe utile affiancare al nuovo sindaco di Platì un funzionario per controllare ogni atto della futura amministrazione. Un super controllo a Platì mentre le classi dirigenti fanno sparire nel nulla i miliardi che sarebbero destinati alla sanità o all'ambiente. Si vuole una Calabria ridotta tout-court alla sola dimensione criminale (che esiste) perché ciò fa molto comodo alla "catena di comando". I mafiosi ci sono e vanno fieri dell'attenzione che ricevono dai giornali, dai "partiti", dalle istituzioni. In questa nottata in cui tutti i gatti sono neri, loro ci sguazzano come pesci nel mare. In tutta la Calabria il voto è stato espressione di un disagio estremo. Ovunque si notano segnali di una rivolta strisciante contro lo Stato e che solo Dio sa come potrebbe andare a finire. A Cosenza più che per il "buongoverno" del sindaco uscente si è votato contro gli oligarchi del potere. A Napoli De Magistris, che in Calabria, si è mosso come rigoroso custode dell'ordine costituito, è diventato il Masaniello che agita il "Sud ribelle" contro il Gran Ducato di Toscana. Napoli e Platì sono distanti solo in apparenza. Per usare il linguaggio di Sciascia è la linea della Palma che avanza. Chi vuole ridurre la questione meridionale che oggi si allarga sino a diventare una "questione Mediterranea" a mera questione criminale o di ordine pubblico si assume sulle spalle e per intero le responsabilità storiche di quanto potrebbe accadere. Nel Mezzogiorno, probabilmente la rabbia, lungamente repressa, non troverà sbocco nel movimento "5 Stelle" ma potrebbe sbucare come un fiume carsico nei luoghi più impensati con conseguenze che nessuno in questo momento è in grado di prevedere.

Bindi a capo dell'Antimafia: sfruttò i sindaci anti boss per farsi eleggere alla Camera. Il Pd la candidò in Calabria: ma una volta presi i voti, non s'è più fatta vedere, scrive Felice Manti, Giovedì 24/10/2013, su "Il Giornale". A Siderno la stanno ancora aspettando. Eppure a Rosy Bindi la Locride dovrebbe esserle cara, visto che quei voti raccolti alle primarie Pd in Calabria sono stati decisivi per la sua elezione come capolista. Da febbraio invece l'ex presidente Pd i calabresi la vedono solo in tv. D'altronde la Bindi non ha fatto un solo incontro sulla 'ndrangheta durante la campagna elettorale, ammettendo «di non sapere niente di mafia». «Doveva venire anche il 2 agosto, ero lì ad attenderla», dice al Giornale Maria Carmela Lanzetta, ex sindaco antimafia di Monasterace. Per la cronaca, allora Rosy preferì un talk show su La7. La Lanzetta è amareggiata, ma non lo ammette per orgoglio. Aveva resistito alla tentazione di dimettersi dal Comune stritolato dalla mafia, quando i boss le hanno bruciato persino la farmacia di famiglia. Poi era arrivato Pier Luigi Bersani, l'aveva eletta icona della sua campagna elettorale, e tutto lo stato maggiore del Pd in Calabria si era convinto che alla fine sarebbe stata lei la capolista del Pd nel feudo bersaniano. E invece il commissario bersaniano Alfredo D'Attorre - ça va sans dire - anziché rilanciare il partito si è fatto eleggere e ha dato l'ok al paracadute pure per Rosy, tra lo sconcerto dei sindaci antimafia: «Avevamo scritto a Bersani - dice ancora la Lanzetta - per chiedere una candidatura simbolica, del territorio, per un segnale di cambiamento». Poteva essere la Lanzetta oppure Elisabetta Tripodi, sindaco di Isola Capo Rizzuto (feudo degli Arena, quelli che elessero l'ex senatore Pdl Nicola Di Girolamo in Germania) o Carolina Girasole (bersaniana poi arruolata con Monti). Alla fine la Lanzetta ha perso tutto: niente scranno e niente fascia tricolore. Si è dimessa dopo il «no» del suo votatissimo assessore democrat alla richiesta del Comune di costituirsi parte civile in un processo nato da un'inchiesta antimafia che coinvolgeva due funzionari. Clelia Raspa, medico alla Asl di Locri dove lavorava il vicepresidente Pd del Consiglio regionale Franco Fortugno, ucciso in un seggio delle primarie nell'ottobre del 2005, forse non voleva mettersi contro il capoclan della cittadina della Locride, Benito Vincenzo Antonio Ruga. «Ma alla fine ce l'ho fatta a costituire il Comune parte civile per difendere l'integrità dell'istituzione», sorride amara la Lanzetta. In fondo il povero Bersani non aveva scampo. La Bindi era a un passo dalla rottamazione, travolta dal ciclone Matteo Renzi. Solo delle primarie «blindate» avrebbero potuto salvarla, come successo con Anna Finocchiaro, siciliana ma eletta a Taranto. Esclusa la «renziana» Toscana, quale posto migliore della Calabria? Anche nel 2008 il Pd di Walter Veltroni aveva piazzato Daniela Mazzucconi dalla Brianza, guarda caso protegée della stessa Bindi. A stenderle il velo rosso al debutto di Rosy c'era tutto lo stato maggiore del Pd. Il cronista di Report Antonino Monteleone venne cacciato in malo modo da un congresso al quale partecipavano tutti i colonnelli locali, come la vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà o il potentissimo signore delle tessere Gigi Meduri, sponsor dell'ex consigliere regionale Mimmo Crea, beffato da Fortugno che gli scippò il seggio e beneficiario «politico» della sua morte. Che c'entra Crea, oggi travolto da pesantissime accuse, con la Bindi? Quando entrò nella Margherita, come scrive Enrico Fierro nel suo Ammazzati l'onorevole, Crea «fu festeggiato a Torino in una cena. Meduri, intercettato al telefono, si lasciò scappare: «Sedici erano a tavola, sedici deputati. C'era Franceschini, la Bindi. Quando è arrivato il conto ho detto a D'Antoni provvedi a nome del compare Crea. Una scena che mi si mori... (una scena che a momenti morivo dalle risate, ndr)». Sai che risate con la Bindi all'Antimafia.

 “La quaestio massoneria ha assunto i crismi di una vera e propria crociata”, scrive il 30 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". La lettera del Gran Maestro del GOI Stefano Bisi inviata ai direttori dei giornali, che contesta l’operato della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi: “Noi per primi abbiamo sempre condannato e condanniamo la Mafia e le criminalità che inquinano la Società e oscurano la Legalità”. "Gentile Direttore, Le scrivo questa lettera all’indomani della relazione della Commissione Antimafia sulle infiltrazioni mafiose nelle Logge delle diverse Obbedienze italiane per sottoporre ai lettori del suo autorevole quotidiano e all’opinione pubblica alcune necessarie e opportune riflessioni sul ruolo etico della Massoneria nella Società e sulla enorme gravità, a mio avviso, di alcune idee ispiratrici di proposte di legge che la stessa Commissione ha avanzato per porre una esorbitante ed allarmante Quaestio Massoneria che ha assunto di fatto piuttosto i crismi di una vera e propria crociata nei confronti dei liberi muratori alla luce degli intendimenti della presidente Rosy Bindi e delle possibili determinazioni legislative future che sono state proposte dai commissari. In base ai numeri resi noti dopo il sequestro degli elenchi di Sicilia e Calabria al Grande Oriente d’Italia e ad altre tre Obbedienze sarebbero stati nell’arco temporale di 26 anni, 193 i soggetti indagati per fatti di mafia, in circa 350 procedimenti penali, e sei le persone che sono state condannate in via definitiva, mentre per altri 25 i procedimenti risulterebbero ancora in corso. Per quanto riguarda poi il Grande Oriente d’Italia, la Comunione di cui sono il Gran Maestro dal 2014, queste figure risulterebbero due (un pensionato e un commercialista, di cui la Commissione non ha fornito i nomi opponendo motivi di privacy). Questi i numeri che, pur non sottovalutando affatto la questione e auspicando la via della Giustizia e della Verità, nella realtà credo si commentino subito da soli. Ma, lascio a Lei e ai lettori, ampia valutazione di giudizio e di visione del problema. Secondo la Presidente Bindi e i membri dell’Antimafia, comunque questi numeri su un totale di 17.000 nomi passati al setaccio, basterebbero e/o sarebbero sufficienti per fare emergere un quadro a tinte fosche e preoccupante, per suffragare così l’equazione mafia-Massoneria e bollare a priori in modo infamante tanti onesti liberi muratori italiani. Siamo nel Paese dei teoremi e dei sospetti, si sa, e basta poco per scatenare una inopportuna e pericolosa caccia al massone. Lo stesso Giovanni Falcone non a caso diceva che il sospetto è l’anticamera della calunnia. Noi ci siamo sempre opposti e ci opporremo da fedeli cittadini osservanti della Costituzione ai tentativi di creare una situazione di estremo disagio e di vera e propria ghettizzazione nei confronti di uomini di tutte le estrazioni sociali che hanno liberamente intrapreso la via iniziatica di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza per l’elevazione personale e il miglioramento dell’Umanità. Non certo per essere tacciati di collusioni con organizzazioni che sono lontane dal nostro Dna e dai nostri sani valori. Noi per primi abbiamo sempre condannato e condanniamo la Mafia e le criminalità che inquinano la Società e oscurano la Legalità. Lo facciamo quotidianamente con le nostre azioni trasparenti dentro e fuori i Templi. Lo facciamo con la nostra solidarietà che ha portato la luce dell’impianto di illuminazione al campo di calcio di Norcia donato dall’Ordine ai ragazzi di questa area terremotata, e con le borse di studio ai maturandi delle scuole delle zone interessate dal Sisma che hanno studiato con coraggio, impegno e merito. Ma, alla luce degli ultimi eventi, tornando nel merito della vicenda, la nostra trasparenza e le nostre note finalità, per certi politici sono lontani dalle loro idee e dal modo di vedere la Libera Muratoria qual essa veramente è. La Massoneria e i suoi membri restano per questi filosofi del pregiudizio, entità sospette e segrete, dedite a chissà quali trame occulte e con l’aggravante – non provata – della presunta infiltrazione mafiosa. Al di là di quelle che possono essere le convinzioni altrui, entrare in Massoneria non è affatto facile e scontato, i controlli sono estremamente rigorosi e non legati solo all’ingresso nell’Istituzione. La nostra riservatezza eguale a quella di tutte le associazioni, non può essere fatta sconfinare in modo arbitrario e falso nell’accusa di segretezza. Ora l’onorevole Bindi e i membri dell’Antimafia propongono l’assoluta necessità di un intervento legislativo che vieti esplicitamente la segretezza delle associazioni. Ma lo fanno con toni, modi e soprattutto analogie di leggi fasciste che non esito a definire aberranti e inquietanti per chi ha a cuore la Storia, il sangue versato per la Libertà e la Democrazia. Questo è scritto nella relazione: “Non si vuole di certo auspicare il ripristino delle disposizioni fasciste sopra riportate, seppure, non va dimenticato che, accanto a coloro che perseguivano evidenti volontà illiberali, insigni giuristi apprezzavano tali normative che, per l’eterogenesi dei fini tipica delle leggi, garantivano comunque un sistema di conoscenza e di trasparenza”. Ebbene queste norme fasciste andrebbero tristemente rispolverate e fatte proprie oggi per mettere in riga la Massoneria, quella stessa Massoneria che il Fascismo colpi duramente sopprimendola. Il solo Gramsci con un discorso celebre si alzò in difesa del libero pensiero e della Libertà. Tutti quanti sappiamo cosa è accaduto dopo e quanto è costato il ritorno alla Democrazia. Gli odierni sostenitori di questo grave e allarmante richiamo al passato vogliono riutilizzare questa legge per “trasparenza e conoscenza”. Ma, in realtà, dietro la loro reclamata e declamata azione c’è il fine di mettere i massoni in un recinto. Dovranno esibire il loro status per legge e essere messi costantemente all’angolo. Chissà se in seguito potranno insegnare nelle scuole e nelle università o concorrere per posti pubblici? Quando si inizia con questi fini si può arrivare ovunque. Ecco perché, caro Direttore, mi sono permesso di sottoporle questa lettera che è anche un campanello d’allarme. Perché la Democrazia e il libero pensiero sono un bene di tutti e non di parti o visioni politiche. E dopo i liberi muratori potrebbe toccare ad altri soggetti essere destinatari di quella pregiudizievole attenzione che se non equilibrata può portare allo spegnimento della luce della ragione e al triste passato. Cordiali Saluti. Stefano Bisi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia".

Bindi vuole il diritto di sputtanare i massoni, scrive Simona Musco il 23 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La presidente dell’Antimafia vuole vietare il diritto alla segretezza degli iscritti alle associazioni. Bisi: “Vogliono reintrodurre le leggi fasciste”. In 26 anni sono state 193 le persone indagate per fatti di mafia, in circa 350 procedimenti penali, tra gli iscritti alle logge massoniche di Calabria e Sicilia. Ma tra questi, solo sei sono quelli condannati in via definitiva, mentre per altri 25 i procedimenti penali sono ancora in corso. Sono questi i numeri emersi dalla relazione conclusiva su “Mafia e massoneria”, illustrata ieri a palazzo San Macuto dalla commissione parlamentare antimafia. Numeri che, stando alle conclusioni del presidente Rosy Bindi, destano allarme e necessitano un intervento legislativo che vieti categoricamente la segretezza delle associazioni, elemento comune alle due associazioni e dunque terreno fertile per l’infiltrazione. L’analisi si è limitata a Calabria e Sicilia e ha interessato quattro fratellanze, per un totale di poco superiore ai 17mila iscritti. Su sei persone condannate, solo due (un pensionato e un commercialista) sarebbero tuttora iscritti e attivi. «Non è un’inchiesta sulla massoneria – ha precisato Bindi – ma sulla presenza della mafia nella massoneria». Un’inchiesta che parte dalle recenti indagini antimafia nelle due regioni e caratterizzata da «una mancanza di collaborazione dei gran maestri ostentata fin dall’inizio», denuncia la presidente. «Gli elenchi ufficiali – ha spiegato – presentano una certa opacità e impossibilità piena di individuare gli iscritti», circostanza che il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, ha smentito al termine della conferenza stampa. La mafia sarebbe interessata alla massoneria, si legge, «perché consente di incontrare la classe dirigente del paese», utile alla mafia per riciclare denaro sporco in attività legali. Di fronte a questa volontà, le logge si sarebbero dimostrate «arrendevoli» e avrebbero dimostrato «mancanza di volontà a dotarsi di strumenti» in grado di chiudere le porte alle mafie, «tollerando» la doppia militanza a mafia e massoneria, «spesso nota ad entrambe le organizzazioni» e «quasi ricercata». Le indagini giudiziarie, ammette però la relazione, non sono «mai giunte» ad un giudicato definitivo «circa una relazione stabile e continuativa» tra le due parti, ma il quadro complessivo rivelerebbe, in ogni caso, «una pericolosa e preoccupante contiguità», iniziata in Sicilia alla fine degli anni ‘70 e grazie alla quale sarebbe stato possibile «interferire in qualche modo sulle indagini giudiziarie». Più complessi, invece, i rapporti con la ‘ndrangheta, che ha dato vita ad una carica di livello superiore – la “Santa” – in grado «di creare un collegamento stabile tra l’associazione mafiosa e i vari centri di poteri presenti nella massoneria». Dura la replica di Bisi, che si è detto «preoccupato» dalla possibilità di reintrodurre «leggi fasciste», che in un passaggio della relazione vengono definite, al di là delle «volontà illiberali», come garanzia «di conoscenza e di trasparenza». Leggi che, ricorda Bisi, «hanno prodotto un regime repressivo violando ogni libertà».

Quei massoni mafiosi che sussurrano ai potenti. Sacerdoti, politici, magistrati, professionisti, imprenditori. E padrini delle cosche. La commissione parlamentare antimafia ha presentato la relazione sulle infiltrazioni dei clan nella massoneria. Tra Sicilia e Calabria 17 mila iscritti alle 4 obbedienze ufficiali distribuiti in 389 logge. 193 "fratelli" sono collegati a cosa nostra e 'ndrangheta, uno ogni due templi. I nomi restano top secret, scrivono Federico Marconi e Giovanni Tizian il 22 dicembre 2017 su "L'Espresso". Sacerdoti, magistrati, consiglieri comunali e regionali, assessori, sindaci, imprenditori, studenti, professionisti. E mafiosi, calabresi e siciliani. Al gran ballo della massoneria ci sono tutti, non manca proprio nessuno. Alle danze tra Sicilia e Calabria partecipano in 17 mila. In fondo, una loggia non si nega a nessuno. Insomma, tutti pazzi per il grembiule. Il dato inquietante è però un altro: in queste due regioni del Sud c'è un mafioso o un suo complice ogni due logge massoniche. Sono 193, infatti, i “fratelli” collegati ai clan. C'è chi è stato condannato, chi è stato prosciolto, chi ha festeggiato l'assoluzione e chi si sta ancora difendendo nelle aule dei tribunali. Gli iscritti totali alle quattro obbedienze, solo in Sicilia e Calabria, sono oltre 17mila. Una popolazione in grembiule numerosa come quella dell'isola di Capri. La commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha terminato l'indagine sull'intreccio tra massoneria e mafie. La relazione, approvata il 22 dicembre, è un viaggio nel lato oscuro della massoneria italiana. Un mondo di mezzo nel quale boss e insospettabili professionisti, padrini e rispettabili imprenditori, criminali e politici, si scambiano favori e appoggi. Dei 193 nomi sporchi la commissione precisa che «nove risultano condannati in via definitiva per reati vari, quali il traffico di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta, o destinatari, in via definitiva, di misure di prevenzione personali, come tali indicative di pericolosità sociale». Poi per altri quattro è in corso il processo di appello con l'accusa di associazione mafiosa o di reati aggravati dal metodo mafioso. Uno di questi in primo grado ha subito già una condanna a 12 anni. L'obbedienza con la maggiore presenza di iscritti dal profilo equivoco è il Goi, il Grande Oriente d'Italia. Il Gran Maestro è Stefano Bisi, il massone che più degli altri si è opposto al lavoro della commissione antimafia bollandolo come un atto fascista. Ora che l'indagine si è conclusa e la riservatezza è stata rispettata- nel documento non è presente alcun nome- si scopre che più di qualche boss ha frequentato i templi. Nella Gran Loggia regolare d'Italia i sospetti sono 58, nella Gran loggia d'Italia sono 9 e nella Serenissima solo 4. «Le risultanze illustrate nella relazione hanno fornito conferme in ordine alla rilevanza del fenomeno, a fronte di una sua negazione da parte dei gran maestri, indice o di un’inconsapevolezza o di una sua sottovalutazione, se non di un rifiuto ad ammettere la possibile permeabilità rispetto a infiltrazioni criminali», osserva l'Antimafia. La commissione, tuttavia, precisa che gli investigatori che hanno collaborato ai risconti sugli elenchi sequestrati nelle sede delle obbedienze hanno indicato solo «i soggetti iscritti per reati di mafia in senso stretto, restando pertanto non segnalati tutti i casi in cui il nominativo risulta essere stato, invece, indagato o condannato per altri reati, taluni certamente di non minore gravità». Come a dire: attenzione, i 193, che possono sembrare poca cosa, potrebbero aumentare sensibilmente se si sommassero a questi i massoni con precedenti per corruzione, abuso d'ufficio, reati economici e tributari. Tutti reati spia di una criminalità mafiosa che si insinua nei centri di potere locali: municipi, assessorati, aziende sanitarie, assemblee regionali e provinciali. «A tal proposito, si segnala che il 17,5 per cento degli iscritti presenti negli elenchi acquisiti dalla Commissione non sono identificabili o compiutamente identificabili». Questo significa che molti nella lista sono indicati con le iniziali, oppure con dati anagrafici errati. Il che ha reso impossibile risalire alla loro identità. «Nell’ambito dei 193 soggetti segnalati vi sono, come risulta dall’anagrafe tributaria, numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono quelle dei professionisti, come avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti pure in numero rilevanti i soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori nei più diversi settori, in primis quello edile. Così pure, non mancano coloro i quali hanno rivestito cariche pubbliche». Sono ben 9 gli amministratori, tra sindaci, assessori o consiglieri comunali. «Uno spaccato professionale denotante soggetti di un livello di istruzione medio-alto e, di tutta evidenza, in grado di stringere relazioni anche nel mondo della criminalità e in quello della società civile», si legge nella relazione.

Logge e politica. Un focus la commissione lo ha dedicato alla presenza della massomafia all'interno degli enti locali sciolti per mafia. Caso emblematico l'Asl di Locri, commissariata undici anni fa. «Fra i soggetti a vario titolo menzionati nella relazione della commissione di accesso e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria, figurano 306 nominativi. Di questi, 17 risultano censiti in logge massoniche. Tra essi, 12 soggetti figurano negli elenchi sequestrati dalla Commissione il 1° marzo 2017; 4 figurano solo negli elenchi (della massoneria ndr) sequestrati dalla Procura della Repubblica di Palmi nel 1993-94 (uno nel frattempo è deceduto); mentre un altro è presente in entrambi gli elenchi. Appare significativo che i 4 soggetti presenti negli elenchi del 1993-94 ma non in quelli del 2017, risultano essere stati raggiunti da provvedimenti cautelari personali o a carattere detentivo, uno dei quali per il reato di cui all’art 416-bis c.p». Ma chi sono questi mafiosi armati di compasso? «Uno è il figlio di un noto capo mafia; un altro, il nipote di un controverso personaggio ritenuto molto influente nell’ambiente mafioso; un altro ancora, figlio di un condannato in primo grado per mafia ma assolto in appello e, comunque, indicato come referente di una nota cosca calabrese, nonché in stretti rapporti con un capo indiscusso di una cosca del mandamento ionico della provincia reggina». Detto dei criminali o presunti tali, nella relazione si evidenzia un altro aspetto: «Deve ritenersi non occasionale, la significativa presenza di massoni in posti apicali dell’azienda sanitaria, nelle società presso la medesima accreditate e nelle pubbliche amministrazioni interessate dall’indagine penale. Di rilievo è il fatto che tali personaggi, di cui si è accertata l’appartenenza a logge massoniche regolari, hanno interagito con altri “fratelli” della stessa loggia o di altre per affari riconducibili a persone indagate e, in taluni casi, condannate per associazione mafiosa». Insomma, non è tanto la quantità di mafiosi presenti nelle logge, ne basta uno per usufruire dei vantaggi che il circolo di amicizie può garantire. Anche la Azienda sanitaria provincia di Cosenza è stata sciolta. Incrociando i risultati emersi nella relazione prefettizia con gli elenchi sequestrati, la commissione ha concluso che «su 220 nominativi individuati, presenti a vario titolo nella relazione conclusiva, 23 persone risulterebbero iscritte a logge massoniche».

A casa del padrino. Nel paese di Matteo Messina Denaro pullulano compassi e grembiuli. Undici logge di varie obbedienze per 31 mila abitanti. Una vera città della massoneria, Castelvetrano. Tanto da essere rappresentata degnamente in consiglio comunale, sempre e comunque. Nell'ultima consiliatura, 2007-2012, «8 consiglieri su 30 appartenevano, o avevano chiesto di entrare in logge massoniche. Tra i componenti del consiglio comunale eletto nel 2012, vi sono 11 iscritti ad associazioni massoniche (anche diverse da quelle in esame), uno dei quali è stato anche assessore e componente della giunta comunale, quest’ultima poi revocata il 28.01.2015. Nella nuova giunta nominata l’11.02.2015, il numero di assessori massoni aumenta considerevolmente, diventando cinque su dodici membri complessivi della giunta, cioè poco meno della maggioranza. In sintesi, considerando le ultime due consiliature del comune di Castelvetrano hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro obbedienze. A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri 4 - per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici. Negli elenchi massonici di una obbedienza (GLRI), vi sono infatti omonimi di altri quattro consiglieri comunali di Castelvetrano tra i soggetti che risultano privi del luogo e della data di nascita in quanto depennati. Il tutto distribuito in 11 logge quasi tutte presenti nella città di Castelvetrano e dintorni».

Capi e massoni. Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra.” Lo stesso concetto è stato ribadito alla Commissione, con riferimento ai primi anni del 2000, da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Campanella. Anche lui politico, massone e mafioso. Scrive la commissione: «Nelle più recenti indagini giudiziarie, calabresi e siciliane, ricorre la medesima affermazione che appare ancor più vera alla luce del mutamento delle mafie, ormai propense, come è noto, al metodo collusivo/corruttivo seppur collegato alla propria capacità di intimidazione...Anzi, proprio in questo peculiare momento in cui la mafia tende più ad “accordarsi che a sparare”, deve altresì considerarsi il dato oggettivo del continuo aumento del numero degli iscritti alla massoneria». Del resto le inchiesta recenti dell'antimafia di Reggio Calabria puntano a svelare proprio quel sistema criminale fatto di padrini e insospettabili uomini di potere, che spesso si ritrovano in circoli massonici, non per forza ufficiali.

Un favore al “fratello” boss. Nella loggia “Rocco Verduci” di Gerace, a Locri, si sono verificati fatti inquietanti. «Un magistrato onorario, appartenente alla predetta loggia, aveva chiaramente denunciato, ma soltanto in ambito massonico, una prima vicenda, risalente al dicembre 2010, riguardante le pressioni da egli subite ad opera di due suoi confratelli affinché si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del Tribunale di Locri al fine di ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a un procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato. Vale la pena aggiungere che il massone che sollecitava l’intervento del magistrato onorario in favore dei propri figli indagati, era un medico della ASL di Locri, poi sciolta per mafia, nonché figlio di un noto boss ‘ndranghetista, mentre il massone che lo accompagnava, per sostenerne la richiesta, era un soggetto che, all’epoca di fatti, svolgeva un ruolo direttivo nell’ambito della “Rocco Verduci”». Allo stesso magistrato onorario viene chiesto successivamente un secondo favore: «Intorno al mese di aprile 2012, fu ulteriormente sollecitato, da un altro dei suoi fratelli di loggia, affinché intervenisse ancora, riservatamente, presso i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria al fine di perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, in quel momento, nell’ambito di una indagine antimafia, naturalmente coperta dal più rigoroso segreto, si stava vagliando la sua posizione». In questo caso la vicenda assume contorni molto più oscuri. Sia perché è evidente la fuga di notizie che giungono all'orecchio di massoni borderline, sia perché si trattava di indagine in corso. «Vale la pena aggiungere, anche in questo caso, che il massone che si stava prodigando, presso il magistrato onorario, in favore del politico, già si era prestato, nei confronti di quest’ultimo per far ammettere nella loggia un nuovo bussante, figlio incensurato di un soggetto tratto in arresto per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Saggezza” dell'antimafia di Reggio Calabria».

Tonaca e grembiule. Nello sterminato elenco di personalità, non potevano mancare i sacerdoti delle logge. La chiesa lo vieterebbe, ma questo non ha evidentemente fermato le aspirazioni dei religiosi. «Non è questa la sede per affrontare la questione plurisecolare del rapporto tra Chiesa cattolica e massoneria, tuttavia appare utile ricordare che, in base alla Declaratio de associationibus massonicis emanata dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede il 26 novembre 1983 - presieduta dal Prefetto cardinale Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI - vi è inconciliabilità tra l’adesione alla Chiesa cattolica e alla massoneria», scrive la Commissione. Di recente, tra l'altro, papa Francesco ha respinto le credenziali di un ambasciatore straniero presso la Santa Sede perché iscritto alla massoneria.

Logge segrete e sconosciute. L'indagine della Commissione è stata effettuata sulle obbedienze conosciute, quelle più note e ufficiali. Tuttavia nel variegato mondo massonico esistono numerosi gruppuscoli più o meno noti, più o meno legali. Il tempo per analizzare anche quel mondo non sarebbe stato sufficiente. Per questo la commissione invita i prossimi membri della futura legislatura a proseguire nell'opera di inchiesta: «È stato evidenziato dallo stesso mondo massonico come in Italia, e in particolar modo nelle regioni del centro-sud, sia presente un florilegio di numerose piccole obbedienze, con dichiarate finalità lecite, considerate alla stregua di massonerie irregolari o di logge spurie. Così come è stato segnalato che esistono canali di dialogo tra queste entità associative e la massoneria regolare». E quindi: «L’insieme di queste dichiarazioni, dunque, proprio perché provenienti dall’interno del circuito massonico, e peraltro da chi lo rappresenta, acquistano particolare valenza in quanto pongono le premesse, unitamente ad altri elementi raccolti da questa Commissione, sulla necessità che il lavoro d’inchiesta avviato in questa Legislatura debba proseguire. Non potrà, infatti, essere trascurato l’approfondimento del mondo magmatico delle massonerie irregolari, del loro potenziale relazionale, dell’atteggiarsi delle mafie nei loro confronti». Interessante a questo proposito i particolari forniti dal gran maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia: «Una cosa che accade spesso è che gli iscritti alla massoneria, alla libera muratoria, sono contemporaneamente iscritti anche ad altre forme associative. Parlo del Rotary, dei Lions, dei Kiwanis. In queste associazioni i massoni di varie obbedienze – ed è l'unico posto dove avviene – si incontrano. Quindi, sarebbe ancora più interessante, secondo me, analizzare queste realtà, perché sono le uniche realtà all'interno delle quali la massoneria irregolare e regolare va a incontrarsi. Spesso, quindi, i presentatori incontrano i presentati all'interno del Rotary o del Kiwanis. Molti iscritti alla massoneria ne sono presidenti».

Gli elenchi? No, grazie. La Commissione pensava di trovare una sponda nei vertici delle obbedienze massoniche. Così non è stato. Nelle audizioni dei vertici delle organizzazioni negavano la presenza di infiltrazioni mafiose e sottolineavano l’esistenza di regole e prassi massoniche – come la richiesta dei carichi pendenti e del certificato antimafia ai nuovi membri – in grado di fronteggiare il possibile ingresso di “personalità problematiche”. Si aggiunge poi il rifiuto, in nome della segretezza, di fornire alla Commissione gli elenchi degli appartenenti alle logge, che una volta consegnati sono risultati parziali e incompleti. Le obbedienze hanno sottovalutato, minimizzato e a volte persino negato la presenza di massoni “problematici” all’interno delle logge. Basti pensare che l’infiltrazione mafiosa non è mai esplicitata nei documenti formali con cui ne viene decretata la chiusura delle logge infiltrate. Piuttosto vengono utilizzati l’espediente della “morosità degli iscritti” o questioni di mero rito massonico.

Massoneria, la Commissione antimafia: "Rilevate infiltrazioni delle cosche nelle logge". La relazione dopo le audizioni e i contestati sequestri delle liste di affiliati: quasi 200 'fratelli' sono stati coinvolti in inchieste sulla criminalità organizzata. E non tutti i condannati sono stati espulsi, scrive Alessia Candito il 22 dicembre 2017 su "La Repubblica". Quasi 200 "fratelli" toccati o lambiti da indagini di mafia. Sei condannati per associazione mafiosa, di cui due ancora attivi. Più di 130 logge calabresi e siciliane abbattute dal 1990 dalle quattro principali obbedienze massoniche in Italia, il Goi, la Gran Loggia degli Alam, la Gran Loggia regolare d'Italia, la Serenissima Gran Loggia d'Italia-Ordine generale degli Alam. Sebbene l'analisi del fenomeno sia stata solo parziale e nessun nome venga esplicitamente fatto, è un quadro inquietante quello ricomposto dalla Commissione parlamentare antimafia nella relazione appena approvata su "Mafia e massoneria". "L'esistenza di forme di infiltrazione delle organizzazioni criminali mafiose nelle associazioni a carattere massonico - si legge - è suggerita da una pluralità di risultanze dell'attività istruttoria della Commissione, derivante dalle audizioni svolte, dalle missioni effettuate e dalle acquisizioni documentali". I rapporti fra mafie e massonerie ci sono. E la Commissione ne ha la prova concreta. Dalle audizioni dei magistrati calabresi e siciliani sono emersi dati allarmanti. Gli inquirenti  trapanesi e palermitani hanno infatti evidenziato "un filo conduttore che ipotizza come le logge coperte si annidino ancora all'ombra delle logge ufficiali; come gli uomini, pur risultati iscritti alle logge coperte, abbiano continuato a far carriera sia nel mondo politico, sia nel mondo degli affari, non essendoci mai stata un'efficace reazione delle Istituzioni per isolarli anche dopo che i loro nomi e la loro appartenenza fosse divenuta palese; come vi sia riscontro che già appartenenti a logge segrete e irregolari siano poi trasmigrati in altre logge; di come sia possibile passare da una loggia regolare a una coperta e viceversa". Una situazione delicata soprattutto nel trapanese, "regno" di Matteo Messina Denaro. Nell'area, in cui si concentra un numero di iscritti, soprattutto provenienti dalla borghesia cittadina, assolutamente sproporzionato rispetto ad altre zone d'Italia - hanno riferito in commissione i magistrati -  c'è il rischio che le logge si trasformino in comitati d'affari. Ancor più compromessa, se possibile, sembra la situazione in Calabria, dove - hanno riferito i magistrati - la massoneria, tramite la Santa (la direzione strategica dell'organizzazione, ndc) "si è piegata alle esigenze della 'ndrangheta, così creando all'interno di quel mondo in cui convivevano mafiosi e società borghese professionale, all'ombra delle logge, un ulteriore livello ancor più riservato formato da quei soggetti che restano occulti alla stessa massoneria. Si tratta di coloro che, dovendo schermare l'organizzazione ed essendo noti soltanto a determinati appartenenti ai vertici più elevati, non si possono esporre a nessuna forma evidente, quali possono essere le organizzazioni massoniche". Indicazioni importanti, sebbene necessariamente generiche a causa di indagini e accertamenti in corso. Ma la commissione non si è fermata qui. Il lavoro principale è stato fatto sugli elenchi sequestrati alle quattro obbedienze con decreto firmato dalla presidente della commissione Rosy Bindi e affidati allo Scico per i controlli sulla fedina penale degli iscritti. Un'indagine che dimostra come i Gran Maestri, che si sono avvicendati in Commissione per giurare di non avere condannati o indagati per mafia tra i propri ranghi, abbiano mentito.  Sono 193 - è emerso dal lavoro dei parlamentari - gli affiliati alle logge massoniche di Sicilia e Calabria coinvolti o lambiti da inchieste di mafia. In molti casi, si tratta di procedimenti conclusi con decreto di archiviazione, proscioglimento o sentenza di proscioglimento per morte del reo, ma si tratta - si sottolinea nella relazione - di "un consistente numero di iscritti che è stato coinvolto in procedimenti per gravi delitti". Non per tutti però le inchieste si sono concluse con un nulla di fatto. In 6 sono stati condannati per associazione mafiosa piena, mentre altri 8 sono stati puniti per traffici di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta o sono stati destinatari in via definitiva di misure di prevenzione personali e dunque indicative della pericolosità sociale (semplice o qualificata). E non tutti sono stati espulsi dalle logge a cui appartenevano. Tanto meno sono stati tutti allontanati gli ulteriori 25 massoni che risultano condannati per altri reati gravi o sono tuttora sotto processo per associazione mafiosa o per intestazione fittizia di beni. Al contrario, 12 sarebbero ancora iscritti e attivi, di cui "10 presso logge del Grande oriente d'Italia, uno con una domanda di regolarizzazione presentata presso una loggia calabrese del Goi e membro del consiglio regionale della Calabria dal 2005 al 2010, il che fa desumere che fosse a quei tempi quantomeno pienamente iscritto ad altra obbedienza; uno, imprenditore agricolo, presso una loggia calabrese della Glri". E fra i fratelli che frequentano regolarmente le logge ci sarebbero anche i due, un commercialista e un pensionato, condannati definitivamente per mafia. "Tale dato - si legge nella relazione - che si riferisce ai soli nominativi compiutamente identificati assume significativi profili di inquietudine considerato che 193 soggetti, così come segnalati dalla Direzione nazionale antimafia, hanno avuto modo di operare nelle obbedienze massoniche e così segnalando una mancata o quanto meno parziale efficacia delle procedure predisposte dalle varie associazioni per la selezione preventiva dei propri membri".  Ma per i parlamentari c'è un altro dato preoccupante. "Al di là delle condanne o dei procedimenti in corso per gravi reati e al di là dell'appartenenza alle singole obbedienze - si legge nella relazione non può sottacersi che nell'ambito dei 193 soggetti segnalati, molti dei quali incensurati, a fronte di 35 pensionati e otto disoccupati, vi sono numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti in numero rilevante anche soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori dei più diversi settori, in primis quello edile".

Massoneria: Antimafia, mafia interferisce su giustizia, scrive il 22 dicembre 2017 "Il Giornalelavoce.it". “Con il sequestro non è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono” e comunque “non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti, occulti grazie a generalità incomplete, inconsistenti o generiche. Il vincolo di solidarietà tra fratelli consente il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia, legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi e impone il silenzio” come emerge “in un caso di estrema gravità”. Lo scrive l’Antimafia. In particolare nella relazione presentata oggi dalla presidente dell’Antimafia Rosy Bindi si evidenzia il caso di un magistrato onorario che nel 2010 aveva denunciato, solo in ambito massonico, di aver subito pressioni ad opera di due confratelli perchè si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del tribunale di Locri per ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato. Nel 2012 il magistrato fu ulteriormente sollecitato da un altro dei suoi fratelli di loggia, perchè intervenisse presso i magistrati della procura distrettuale di Reggio Calabria per perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, nell’ambito di una indagine antimafia coperta da segreto, si stava vagliando la sua posizione. L’ex consigliere regionale è stato poi arrestato insieme ad altre 13 persone e condannato a 12 anni di reclusione. L’antimafia critica il fatto che non siano state avvertite le autorità civili “degli evidenti indizi di violazione delle norme penali. Nemmeno dal magistrato onorario risulta alcuna denuncia. L’agire massonico si è pericolosamente atteggiato ad ordinamento separato dallo Stato. Probabilmente un atteggiamento diverso gioverebbe alla massoneria: si abbatterebbe il pregiudizio nei suoi confronti e si ridurrebbe il rischio di pericolose zone grigie”, conclude la relazione Bindi.

Antimafia, legge Anselmi va modernizzata. E’ opportuno “modernizzare la legge Spadolini-Anselmi” ed necessaria una previsione di legge che chiarisca che le associazioni segrete, “anche quando perseguono fini leciti, sono vietate in quanto tali perché pericolose per la realizzazione dei principi di democrazia”. E’ quanto scrive la Commissione antimafia nella relazione sulla massoneria. “Una norma del genere attuerebbe, finalmente, la volontà dei costituenti finora rimasta ignorata anche dalla legge Spadolini Anselmi”. Una norma che vieti la segretezza di tutte le formazioni sociali, massoniche e non, che celino la loro essenza – ragiona la presidente Bindi nella relazione sulla massoneria, presentata oggi alla stampa – non potrebbe ritenersi discriminatoria e nemmeno persecutoria nei confronti della massoneria, come più volte paventato dalla stessa”. L’Antimafia suggerisce di estendere ad alcune categorie – magistrati, militari di carriera in servizio attivo, funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti consolari all’estero – oltre all’iscrizione ai partiti politici, già previsto, anche “il divieto ad aderire ad associazioni che richiedano, per l’adesione, la prestazione di un giuramento che contrasti con i doveri d’ufficio o impongano vincoli di subordinazione”, cosa che si oppone alla fedeltà assoluta alle istituzioni repubblicane. Infine la Relazione dell’Antimafia evidenzia come la legge Spadolini-Anselmi “non ha offerto uno strumento adeguato” nemmeno per perseguire quanto prevede all’articolo 2, dove si dice che “Chiunque promuove o dirige un’associazione segreta o svolge attività di proselitismo a favore della stessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La condanna importa la interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Chiunque partecipa ad un’associazione segreta è punito con la reclusione fino a due anni. La condanna importa l’interdizione per un anno dai pubblici uffici”.

Massoneria: Antimafia, per alcuni tutt’uno con mafia. C’è un persistente “interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria fino a lasciare ritenere a taluno che le due entità siano divenute una cosa sola”. Lo scrive l’Antimafia. “Ciò non significa criminalizzare le obbedienze”; l’Antimafia si chiede se si siano “dotate di anticorpi”. Dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (medici, avvocati, ingegneri, commercialisti). C’è una certa presenza delle forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, di magistrati e politici. La presidente Bindi evidenzia tuttavia come in diversi casi non venga coltivato dalle obbedienze “il primario interesse alla impermeabilità dalle mafie” e come spesso il preteso rispetto delle leggi da parte della massoneria “si è rivelato più apparente che reale”. In particolare la relazione della Commissione parlamentare antimafia bacchetta “la segretezza, che permea il mondo massonico (e quello mafioso) il segreto costituisce il perno di alcune obbedienze”. Il documento parla di “un senso di riservatezza a dir poco esasperato”. L’insieme di queste regole viene “suggellata da una sorta di supremazia riconosciuta alle leggi massoniche rispetto a quelle dello Stato”. “Peculiare appare il giuramento del Goi, il Grande oriente d’Italia, in cui l’affiliato è tenuto a osservare la Costituzione “quasi si riservi un giudizio di legittimità costituzionale massonico sulle leggi che dunque non sono da rispettare sic et simpliciter ma solo se da essi ritenute conformi al dettato costituzionale”. Sul fronte dei numeri emerge che degli oltre 17 mila iscritti nelle obbedienze esaminate nelle regioni Sicilia e Calabria, la gran parte, oltre 9 mila, insiste nelle logge calabresi; in Sicilia gli iscritti sono 7.819. Per uno su sei nominativi presenti negli elenchi (quasi 3 mila nomi) non è stato possibile procedere alla completa identificazione poichè mancavano dati anagrafici essenziali. Oltre mille di questi 3 mila soggetti sono risultati anagraficamente inesistenti, altri 1800 privi di generalità complete, altri 80 indicati con le sole iniziali del nome o del cognome.

Bindi, pentito racconta importanza adesione a mafia e massoneria. “C’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati (..) la massoneria aveva (..) importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico, decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione”. E’ quanto dichiara il collaboratore di giustizia, Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, e riportato nella relazione conclusiva su “mafia e massoneria” presentata oggi a Roma dalla presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi. Campanella “sin da giovane si era dedicato alla politica, alla massoneria – si legge nella relazione -, aderendo alla loggia palermitana del GOI “Triquetra”, ma anche alla mafia, ponendosi al servizio del noto capomafia Nicola Mandala il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano. La contemporanea adesione, quasi contestuale temporalmente (fine anni ’90), alle due diverse associazioni, non era osteggiata nè dall’una nè dell’altra parte. Mandala, infatti – si legge nella relazione dell’Antimafia -, aveva ritenuto che potesse essere “una cosa interessante e che … sarebbe potuta tornare utile in qualche maniera”. Utilità, in effetti, giunte all’occorrenza. Attraverso i fratelli a lui più vicini, infatti, aveva acquisto informazioni utili dai Monopoli di Stato per la gestione delle sale Bingo (facente capo all’associazione mafiosa) nel momento più delicato in cui era intervenuto l’arresto di Mandala, e si temeva che tali esercizi potessero essere sequestrati”. Le sue dichiarazioni confermano – conclude l’Antimafia -, innanzitutto che l’appartenenza alla massoneria crea un vincolo esclusivo e permanente, che, come avviene in Cosa nostra, si dissolve solo con la morte”.

Massoneria: Bindi, pentito dice Provenzano aveva info da loro. “Esisteva un terzo livello di soggetti in relazione direttamente con Bernardo Provenzano, all’epoca, che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazione da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti, ecc. (..) Informazioni di prim’ordine. (..) a un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria”. E’ quanto dichiara il collaboratore di Giustizia, Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, e riportato nella relazione conclusiva su “mafia e massoneria” presentata oggi a Roma dalla presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi. Francesco Campanella, pur dichiarando che non ebbe “il tempo di capire come funzionavano, per dirla con tutta franchezza”, ha riferito di uno specifico episodio di “fughe di notizie” che potette constatare personalmente: “in quel momento specifico in cui Mandala era nelle grazie di Provenzano e gestiva la latitanza, (..) Provenzano comunica a Mandala, esattamente la settimana prima che sarà arrestato, che si deve fare arrestare, che cambierà covo, quindi di non parlare, di mettere tutto a posto. Mandala lo comunica a me: “mi arresteranno, fai riferimento a mio padre Tutta questa serie di informazioni arrivavano”. Un gioco a fare il massone (così Campanella ha definito la sua partecipazione alla “Triquetra”) ma che, tuttavia, corrispondeva all’interesse dello stesso collaboratore di giustizia, della sua famiglia mafiosa e della massoneria. Va ricordato che è stato sentito dalla Commissione Antimafia anche Cosimo Virgiglio, collaboratore calabrese, già più volte ascoltato dai magistrati di Reggio Calabria ai quali aveva reso un ampio resoconto sui meccanismi propriamente massonici.

“Davanti alla Commissione ha sostanzialmente confermato le sue ampie dichiarazioni, peraltro riportate in diversi giudiziarie. Tra queste si ricorda, come nota di colore, che dopo il suo arresto, l’obbedienza lo fece raggiungere in carcere da un avvocato incaricato di dirgli di tacere il nome dei fratelli. Un segreto dunque ancor più valido anche per chi sta dietro le sbarre di un carcere. Anche lui confermava, come Campanella, che il vincolo massonico e perpetuo: si estingue solo con la morte”, si legge nella relazione.

Gli interessi di ‘ndrangheta e mafia per la massoneria: la relazione dell’Antimafia, scrive il 22 dicembre 2017 "Qui Cosenza". Sono 193 i soggetti indicati dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo come iscritti in procedimenti penali ed è consistente il numero di soggetti che, pur non indagati, imputati o condannati per delitti di natura mafiosa, hanno collegamenti diretti con esponenti della mafia e possono costituire un anello di collegamento tra mafia e massoneria. La presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ha presentato oggi la relazione finale sulla massoneria dalla quale emerge come “Cosa Nostra siciliana e la ‘ndrangheta calabrese da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria”. “Da parte delle associazioni massoniche si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia. Sono i casi, certamente i più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza che si rivelano i più preoccupanti”. Un persistente “interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria lasciano ritenere che le due entità siano divenute una cosa sola. Ciò non significa criminalizzare le obbedienze”; l’Antimafia si chiede se si siano “dotate di anticorpi”. Dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (medici, avvocati, ingegneri, commercialisti). C’è una certa presenza delle forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, di magistrati e politici. Dunque “il tema del rapporto tra mafia e massoneria “affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti in connessione sia con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e in Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione”.

Un “rapporto” emerso dopo la missione effettuata a Palermo e a Trapani. “In quell’occasione è stato ripetutamente affrontato il tema del rapporto tra Cosa nostra e la massoneria in Sicilia anche in relazione alla vicenda dell’appartenenza a logge massoniche di alcuni assessori del comune di Castelvetrano (Tp) luogo di origine del noto latitante Matteo Messina Denaro”. Nel documento si ricorda che attualmente nel trapanese sono presenti 200 “fine pena” già detenuti per reati di mafia e di traffico di stupefacenti che, scontata la pena, ora sono in stato di libertà. Nel comune di Castelvetrano insistono 6 logge massoniche su 19 che operano nell’intera provincia di Trapani e nell’amministrazione comunale della cittadina, nel 2016, 4 su 5 assessori erano iscritti alla massoneria e 7 su 30 tra i consiglieri. Nella relazione si evidenzia anche che i fatti di Castelvetrano fanno il paio con le indagini delle autorità siciliana e calabrese, queste ultime sfociate nei procedimenti “morgana mammasantissima e Saggezza. In tutti i casi si evidenziano recenti episodi di infiltrazione mafiosa nella massoneria e si attualizzano gravi fatti del passato “che lasciavano supporre l’esistenza delle infiltrazioni di Cosa nostra e della ‘ndrangheta nella massoneria”. “Con il sequestro non è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono” e comunque “non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti, occulti grazie a generalità incomplete, inconsistenti o generiche. Il vincolo di solidarietà tra fratelli consente il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia, legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi e impone il silenzio” come emerge “in un caso di estrema gravità”.

Servizi segreti, massoni e politici: ecco tutti i legami della 'ndrangheta in Emilia Romagna. Nuovi pentiti svelano i contatti delle cosche padane. Tra cene elettorali, 007 "amici di Bisignani" e "grembiuli" bolognesi. A parlare sono soprattutto i boss, che fanno tremare un sistema di potere. E così gli 'ndranghetisti riprendono a uccidere, in una guerra di mafia che non sconvolge la Calabria. Ma la pianura emiliana, scrive Giovanni Tizian il 07 dicembre 2017 su "La Repubblica". Il lato oscuro della 'ndrangheta emiliana. Popolato da 007, forze dell’ordine, politici e massoni. L’intreccio tra potere e clan nella narrazione di quattro nuovi pentiti rivela scenari inediti in una terra che rifiuta l’etichetta di preda delle cosche. Sospetti per ora, che affiorano però negli interrogatori di alcune gole profonde. Un intrigo padano, dai contorni nebulosi, reso ancor più inquietante da un omicidio. La settimana scorsa in provincia di Reggio Emilia è stato ucciso un giovane di 31 anni, originario della Calabria. Persona perbene, lo descrivono tutti. Due figli piccoli e nessun precedente. Nella stessa via erano state bruciate due auto in quindici giorni. Oltre alla procura ordinaria si è attivata anche l’Antimafia. Si scava nel privato, senza tralasciare piccoli dettagli che portano all’attività del padre della vittima, un edile con una partecipazione in un consorzio dove sono presenti personaggi vicini ai clan. Il delitto è «come sale su una ferita aperta», ha detto il questore nei giorni in cui anche a Ostia le pistole sono tornate a far paura. Il timore che avessero ragione i pentiti però è forte. Alcuni di loro hanno avvertito i magistrati di Bologna di una possibile lotta interna alla ’ndrangheta. Non in Calabria, ma nella pianura emiliana. E come in tutti i conflitti la possibilità che muoiano anche gli innocenti è concreta. Sintomi di questa fibrillazione sono comparsi fin dentro i penitenziari, dove si sono verificati duelli tra ’ndranghetisti di opposta fazione. A nove mesi dell’inizio del più grande maxi processo alle ’ndrine del Nord, c’è chi teme un ritorno agli anni Novanta, quando a Reggio le cosche non esitavano a usare le bombe e le lupare. Sembrava la Corleone di Salvatore Riina, eppure era ed è la provincia di Reggio Emilia. Lungo la via Emilia si sta abbattendo un ciclone giudiziario, alimentato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che stanno rivoltando il passato di complicità che molti davano per sepolto. C’è chi prega in segreto per salvarsi, chi riflette come prevenire il colpo e chi, invece, contrattacca nelle aule di tribunale dove lo Stato sta fronteggiando la cosca Grande Aracri - originaria di Cutro, nel Crotonese - ma trapiantata dagli anni Ottanta al di là della Linea Gotica. Una cosa è certa: calato il sipario su questo processo dimenticato dalla stampa nazionale, nulla sarà più come prima in questa pianura trasformata in Far West. Tanto che il gruppo di ’ndranghetisti finiti in carcere ha trasformato le celle in hotel a 5 stelle. Tablet, cellulari, droga, caffè in cella preso con i poliziotti penitenziari, in stile don Raffaè. Pestaggi e accordi con la camorra. Tutto questo nella sezione alta sicurezza, da dove partivano persino pen drive con gli audio che servivano a istruire i testimoni del maxi processo. Episodi emersi grazie ai collaboratori. Il contagio più temuto dalla ’ndrangheta si è ormai diffuso: in meno di un anno cinque nuove richieste di collaborare con la giustizia. Quattro super pentiti affidabili e un altro che la procura antimafia di Bologna non ha ritenuto credibile, nonostante sia il braccio destro del capo dei capi Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, e reggente del clan a Reggio Emilia. Gli altri che hanno ottenuto la patente di collaboratori credibili non sono, però, da meno. Nell’ordine: Nicola Femia, “Rocco” per gli amici, col grado di boss dell’omonimo gruppo mafioso; Pino Giglio, imprenditore e cassaforte della cosca Grande Aracri; Antonio Valerio, affiliato del cerchio magico del padrino “Manuzza”; Salvatore Muto, uomo d’affari del gruppo criminale cutrese. Insomma, per l’impenetrabile mafia calabrese è un colpo durissimo. Una tragedia epocale per l’organizzazione che vanta il minor numero di pentiti rispetto alle mafie tradizionali. Il primo ad alzare bandiera bianca, sotto i colpi della procura antimafia di Bologna è stato Nicola Femia. A febbraio scorso “Rocco” ha chiesto di incontrare i magistrati. Dieci giorni dopo i giudici bolognesi lo condanneranno in primo grado a 26 anni per mafia. Nell’ambiente del gioco d’azzardo legale è conosciuto come il signore delle slot. Uno dei primi a investire nel settore allo scoccare del nuovo millennio. Affondano qui le radici del suo impero economico e criminale. Stringe alleanze commerciali con imprese note del gaming, diventa partner di affermati imprenditori del Nord Italia e sfrutta la complicità di ingegneri informatici. Regista di joint venture tra mafie con fatturati a sei zeri. Oggi è un super pentito, che ha già riempito migliaia di pagine di verbali di interrogatorio. Carte scottanti, per gli argomenti che svela e per i nomi citati. Dichiarazioni che hanno permesso di aprire fascicoli in diverse procure antimafia e di rafforzare inchieste che sono in corso. Di certo, Femia, non ha mostrato alcuna remora di fronte ai pm: già al primo confronto ha ammesso di aver ucciso una persona quando aveva 15 anni. Fu assolto. L’omicidio era stato ordinato dal vecchio patriarca della mafia calabrese Vincenzo Mazzaferro. Quello fu l’inizio della sua carriera. In segno di riconoscenza il padrino lo battezzò «riservato» dell’organizzazione. In pratica Nicola Femia non aveva dovuto affiliarsi formalmente: «Sapeva (il boss ndr) che poteva contare su di me per qualsiasi cosa, non aveva interesse a rendere ufficiale una mia affiliazione». Da allora Femia inizierà la sua ascesa. Era uomo dei Mazzaferro, e questo bastava a spianargli la strada verso il successo. In Calabria come in Emilia. Nipote, peraltro, di un pezzo da novanta della cosca processato assieme a Michele Sindona, il banchiere della mafia pre Riina. Femia, insomma, qualche segreto lo custodisce. Anche perché da quando ha lasciato la carriera di narcos per diventare re delle slot ha conosciuto figure di un certo peso. Come quel tale, descritto nei verbali come uomo dei servizi segreti, che si vantava di essere amico di Luigi Bisignani, «quello della P4, P5...», ha spiegato con una battuta. Non è l’unico 007 da lui frequentato. Le indagini hanno documentato diversi incontri con un agente segreto. Chiamato dai pm non ha voluto fornire spiegazioni. Il collaboratore Femia sta illuminando con le sue dichiarazioni zone buie di questo territorio che sono collegate anche alla politica. Svela ai magistrati le richieste ricevute dai clan della Lombardia per organizzare cene elettorali in Emilia in favore di alcuni politici i cui nomi sono ancora coperti dal segreto. Riferisce anche di un ex deputato, sempre emiliano, che gli aveva fatto chiedere voti tramite il suo faccendiere. Rivela, poi, i rapporti con professionisti iscritti alla massoneria bolognese, delle mazzette per comprarsi le sentenze e il rapporto con un avvocato già parlamentare. Le storie trapelano dall’ambiente giudiziario dove però vige un grande riserbo. Tutto quello che emerge dagli interrogatori fa vedere come in questo territorio si riesce con facilità a mettere in contatto un ex narcos diventato re dell’azzardo legale con pezzi delle istituzioni locali e nazionali. Basta pensare che nell’arco di sei mesi Femia con una sola società di gaming online è stato in grado di incassare fino a 40 milioni. Don “Rocco” non è tra gli imputati del maxi processo Aemilia contro la cosca Grande Aracri, ma in quell’aula è andato a testimoniare, perché con alcuni emissari di quella ’ndrina aveva stretto una partnership.

UNA QUESTIONE POLITICA. Il “pentito” Salvatore Muto ripercorre adesso l’intreccio politico mafioso in Emilia, partendo dal 1994 quando sostiene che venne impartito l’ordine dai clan di far votare Forza Italia. «Quelli che si diedero da fare erano tutte persone appartenenti alla ’ndrangheta o in qualche modo legate... mi occupavo del volantinaggio, appendevo i manifesti». Secondo Salvatore Muto a distanza di ventitrè anni la passione per il partito di Berlusconi non si è affievolita. Il primo politico condannato in Emilia per complicità con i clan si chiama Giuseppe Pagliani, consigliere comunale e provinciale di Forza Italia. Condannato in appello a 4 anni, assolto in primo grado, nel filone politico del maxi processo. In un altro stralcio della medesima inchiesta è tuttora indagato per rivelazione di segreto il senatore Carlo Giovanardi, in passato nel Pdl. Muto dopo la campagna elettorale per Berlusconi racconta di essere partito per Reggio Emilia. Accolto nella corte del padrino Nicolino Grande Aracri. Fu proprio don Nicolino a confidargli la formula del successo criminale: «Le guerre le ho fatte al Nord e le ho vinte io». Il collaboratore di giustizia custodisce segreti anche sull’attività politica attuale. Questioni di voti e potere. Ricorda quando il suo capo gli raccontò di aver ricevuto da un affiliato la richiesta di raccogliere voti per il candidato a sindaco del Pd di Reggio Emilia. Si tratta dell’attuale primo cittadino Luca Vecchi, successore dell’attuale ministro Graziano Delrio. Un sostegno interessato, che però non è stato ricambiato: «Il sindaco non era a favore nostro, si è messo contro di noi», precisa Muto nel verbale del 17 novembre scorso. La moglie di Vecchi, Maria Sergio, è stata per anni dirigente dell’ufficio urbanistica del Comune guidato da Delrio. La coppia Vecchi-Sergio è stata presa di mira dal boss Pasquale Brescia, volto imprenditoriale dell’organizzazione e vicino a diversi poliziotti. In una missiva inviata alle redazioni di giornali dal carcere ha lanciato accuse pesantissime sia al sindaco che a sua moglie. Lettera dai toni minacciosi, che ha portato la procura antimafia di Bologna a indagare Brescia e l’avvocato che lo difendeva. Il pentito Muto sta svelando ulteriori particolari di quella vicenda: sostiene che l’autore della lettera si vantava di sapere molte cose del sindaco Vecchi ma che non poteva parlarne. La lettera, dice un altro pentito che si chiama Antonio Valerio, «fu scritta per far muovere il sindaco Vecchi a prendere le parti dei cutresi... visto che anche sua moglie Maria Sergio è cutrese e aveva un parente capo di Cutro negli anni ’60-’70... sapendo questo si cercava a livello psicologico di assoggettarlo». In questo modo la 'ndrangheta emiliana messa alla sbarra ricatta. Per difendere ciò che ha costruito in trent’anni di colonizzazione.

CATASTO È POTERE. I carabinieri hanno acquisito documenti e sentito alcuni funzionari in Prefettura a Modena. È l'ultimo clamoroso sviluppo dell'indagine sui clan emiliani. Tutto questo mentre il maxi processo contro gli oltre 200 imputati è in corso. E al ministero dell'Interno giace una richiesta di scioglimento per il Comune di Finale. Potito Scalzulli è un ex dirigente del demanio di Reggio Emilia. Oggi fa politica in Romagna, lontano dalla città in cui tutto è cominciato. La prima denuncia porta la data del 23 novembre 2010, in tempi non sospetti, dunque. Quando, cioè, il bubbone 'ndrangheta emiliana non era esploso pubblicamente. Scalzulli nei suoi esposti non ha mai usato mezzi termini: all’interno dell’ufficio che dirigeva si era incancrenito un sistema, «il sistema catasto», lo definisce. Sette anni di esposti che non hanno smosso alcunché. Per questo, adesso, con il maxi processo in corso ha deciso di inviare il malloppo di documenti e denunce raccolte negli anni alla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi. «Prove documentali che certificano la collusione e la connivenza con il gruppo organizzato di pubblici dipendenti fautori del malaffare, il cosiddetto sistema catasto», si legge nell’incipit del documento inviato alla Commissione. Alla spartizione avrebbero partecipato, secondo l’ex dirigente, funzionari di vertice dell’Agenzia, politici interessati alla tenuta del “Sistema” per garantirsi la continuità del consenso «determinante per fare la differenza sugli equilibri politici elettorali». Al centro delle denunce di Scalzulli anche un politico locale del Pd nonché dipendente dell’Agenzia del territorio, Salvatore Scarpino. Consigliere comunale di riferimento della numerosa comunità calabrese a Reggio Emilia e in ottimi rapporti con l’attuale ministro Delrio. Su Scarpino oltre alle denunce di Scalzulli pesano le dichiarazioni in aula di un testimone durante il processo alla ’ndrangheta emiliana. Renato Maletta, in passato candidato a sostegno di Delrio sindaco e sottoposto di Scarpino all’Agenzia, ha raccontato di aver fatto campagna elettorale per il consigliere Pd. Sorprendenti, tuttavia, le frequentazioni di Maletta: invitato al matrimonio, in Germania, del figlio di un boss e proprietario di un cavallo nel ranch reggiano di un imputato per ’ndrangheta. Non il massimo per chi aspira a ruoli politici. D’altronde, però, l’Emilia non è neanche più la roccaforte etica di un tempo.

 Cateno De Luca, le accuse ai magistrati in diretta su La7, scrive il 27 novembre 2017 "Lettera Emme". "A Messina, nel momento in cui emergi, o ti affili o ti fanno fuori". Show del deputato regionale a "Non è l'Arena" di Massimo Giletti: dito puntato e fatti circostanziati, dai quali il conduttore ha tentato in tutti i modi di dissociarsi. Un imbarazzatissimo Massimo Giletti, conduttore su La 7 della trasmissione “Non è l’arena”, mentre tenta invano di domare un Cateno De Luca senza freni: L’essenza dell’intervista al deputato regionale di Sicilia Vera di ieri sera è questa. Come da qualche settimana a questa parte, De Luca non esita ad attaccare sempre più duramente la magistratura messinese, ogni volta aggiungendo un tassello in più. Stavolta, è toccato ad un non precisato alto magistrato, il cui figlio, secondo De Luca, sarebbe stato assunto in un ente di formazione: le sue indagini da parlamentare e lo “smascheramento” di una manovra che avrebbe portato il rampollo al Ciapi, un ente regionale, sarebbe alla base della sua persecuzione giudiziaria. Così ha gridato a tutta Italia un De Luca rosso in faccia ed in iperventilazione, mentre Giletti tentava di riportarlo a più miti consigli e, fallito il tentativo, ha scaricato su De Luca la responsabilità delle sue parole. “Si assume la responsabilità di quello che sta dicendo”, ha messo le mani avanti il conduttore, tentando di sovrastare le urla di De Luca, il quale ha prontamente risposto. “Ho già denunciato tutto due volte, sto procedendo con la terza, certo che me le assumo”, ha continuato l’ex sindaco di Fiumedinisi, senza mollare di un millimetro, e anzi rincarando la dose e parlando anche dell’arresto di Francantonio Genovese. “Abbassiamo i microfoni”, ha concluso ad un certo punto Giletti, che non riusciva ad avere la meglio su De Luca.

“A Messina, nel momento in cui emergi, o ti affili o ti fanno fuori”, aveva spiegato qualche minuto prima del siparietto Cateno De Luca. Secondo il parlamentare nel Palazzo di Giustizia messinese ci sarebbe una mano nera. Accusa appoggiata anche dal suo legale, Carlo Taormina, il quale ha riferito di altri esposti depositati per fare luce sulla vicenda, scrive “News Sicilia”. Ad alzare ulteriormente i toni l’accusa lapidaria lanciata dal neo deputato che ha parlato di “mafia della magistratura”, provocando la presa di distanza di Giletti e dell’ex magistrato di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, in collegamento da Milano. In collegamento, durante la trasmissione, anche Antonio Di Pietro, ex ministro ma soprattutto ex magistrato. Che ovviamente si è dissociato dall’attacco di De Luca contro quello che per decenni è stato il suo mondo.

La rete massonica ha condizionato (anche) la magistratura, scrive Paolo Pollichieni, lunedì 27 Novembre 2017, direttore de "Il Corriere della Calabria". La Commissione parlamentare antimafia intende consegnare alla magistratura, e segnatamente alle Procure distrettuali di Reggio Calabria, Catanzaro, Palermo e Catania, copia dei fascicoli contenenti tutto il materiale raccolto nell'ambito del filone sui rapporti tra massoneria e criminalità mafiosa e circa l'esistenza di logge occulte o coperte. La decisione dovrebbe essere formalizzata a breve, in una apposita seduta della Commissione. In questa direzione spinge, in particolare, il vicepresidente della Commissione, Claudio Fava il quale nel merito degli elenchi ha già avuto modo di puntualizzare alcune osservazioni: «Da una prima lettura degli elenchi degli aderenti alle logge massoniche in Calabria e in Sicilia, non sembra che emergano nomi di straordinaria notorietà ma c’é una dimensione di adesione alla massoneria che sfugge a ogni controllo, per esempio con le logge coperte o con “i fratelli all'orecchio”. La sensazione che ci siano propaggini che si spingono nel Parlamento è più che una sensazione; non mi stupirei se anche in Commissione Antimafia ve ne fosse qualcuno». Una «sensazione», quella di cui parla Fava, che il rapporto della Guardia di Finanza successivo alla comparazione degli elenchi con i tabulati degli archivi delle forze di polizia, avrebbe ulteriormente irrobustito. Sullo sfondo viene richiamata non solo la sentenza del Consiglio di Stato che “invita” quanti ricoprono incarichi di vertice nella pubblica amministrazione a segnalare la propria appartenenza alla massoneria, ma anche uno scontro che in precedenza aveva visto tre magistrati del Consiglio di Stato (Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa e Raffaele Greco) presentare un esposto disciplinare nei confronti di un loro collega che aveva redatto un articolo scientifico sulla degenerazione dei concorso pubblici, non mancando di citare i condizionamenti da parte della massoneria e dell’Opus Dei.  I tre magistrati ritenevano che in alcune parti quello scritto fosse offensivo nei confronti della giustizia amministrativa. Il successivo arresto dell’ex consigliere di Stato Carlo Malinconico per fatti corruttivi, nonché altri accertamenti giudiziari a carico di un ex presidente dell’associazione dei consiglieri di Stato e di altri magistrati in servizio nel Consiglio di Stato, si incaricò di far decadere l’esposto e riproporre la questione su quanti sono i massoni che indossano grembiulino e toga da consigliere di Stato. Non di meno resta aperta anche la questione dell'eventuale ricattabilità di tali soggetti, posto l'espresso divieto per i magistrati amministrativi di appartenere a logge massoniche. In merito va anche osservato che molti magistrati del Consiglio di stato (Luca Cestaro, Umberto Maiello, Antonio Plaisant, Roberto Pupilella, ecc.) hanno riproposto la questione chiedendo che venga imposto a tutti di fare chiarezza sulla propria eventuale militanza massonica. Il rischio, che dal lavoro della Commissione antimafia ormai viene fuori con chiarezza, è che il potere sia transitato dalle mani della politica a quello di ambienti non solo sottratti al controllo democratico ma addirittura in grado di condizionarne le scelte e l'operato. Non esiste solo la democrazia o la dittatura, esiste anche la cosiddetta oligarchia ed è a questa forma di gestione della cosa pubblica che sembra abbia puntato la massoneria. Una oligarchia che si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire un potere personale grazie al quale ottiene prima di tutto la sua sostanziale inamovibilità. Scorrendo gli elenchi, assicurano, si rileva come sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all'altro, da un grembiulino a un ente, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che diventano autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto di interessi.

Insomma, se i politici sono la casta, l'oligarchia burocratico-funzionale è molto spesso la super casta. Nella stessa loggia, poi, ecco convivere il grande burocrate con il boss di primo livello e tutti e due sottobraccio con mondo imprenditoriale e bancario. Anche la peculiarità territoriale di alcune logge ha attirato l'attenzione degli inquirenti. Ad esempio in Calabria quanti hanno a che fare con la sanità finiscono col ritrovarsi nella stessa loggia che pure è distante dai luoghi dove gli adepti vivono o esercitano la propria professione. In questo contesto oltre che di logge coperte si torna a parlare di massoni “all'orecchio”, vale a dire i cui nomi non compaiono in alcun elenco ufficiale ma sono noti solo al gran maestro. In molti casi si tratta addirittura di magistrati che operano in Procure della Repubblica e presso Tribunali importanti. Qualcuno di questi è rimasto impigliato in rapporti della polizia giudiziaria. In particolare è capitato a Potenza, Crotone e Vibo Valentia; le relative indagini, tuttavia, avrebbero segnato il passo una volta finite in mano, tutte, a un unico pubblico ministero in servizio presso la Procura ordinaria di Catanzaro e il cui nome comparirebbe, oggi, in uno degli elenchi sequestrati dalla Guardia di finanza.

Insomma, attraverso il controllo di alcuni importanti snodi della magistratura ordinaria e di quella amministrativa, il potere oligarchico avrebbe garantito una rete di protezione non solo a boss mafiosi ma anche a imprenditori disinvolti e a burocrati in carriera. Non sarebbe un caso il fatto che in un Paese dove la corruzione, secondo i parametri di rilevamento internazionali, si attesta su posizioni di preoccupante rilievo (al punto da far creare un apposita autority, l'Anac, affidata alla presidenza del magistrato Raffaele Cantone) si registra poi un bassissimo numero di indagini, processi e condanne per corruzione. E se si scende ad analizzare tali indagini si scopre che in massima parte sono riconducibili all'azione di uffici giudiziari del Centro-nord, con in testa Milano, Torino e Venezia, mentre si contano sulle dita di una mano i processi per corruzione nei distretti giudiziari di Catanzaro, Reggio Calabria, Caltanissetta e Cagliari. E sempre spulciando tra gli archivi di una loggia massonica calabrese, gli investigatori si sono imbattuti in una “Petizione al Capo dello Stato, On. Giorgio Napolitano, nella sua veste di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura” a mezzo della quale si chiedeva di invitare i magistrati a dichiarare sotto giuramento la loro eventuale partecipazione o iscrizione alla massoneria. Vale la pena di riportare alcuni passi di quella petizione, della quale non si ha notizia circa l'esito e neppure circa la sua effettiva consegna al presidente Napolitano.

Vi si legge: «La domanda circa l'appartenenza alla Massoneria non può mai ottenere risposta affermativa. Il perché è ben spiegato dalle parole stesse del giuramento che gli aspiranti Massoni pronunciano durante il rito d'iniziazione: “prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra”». Muovendo da tale premessa si chiedeva: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, ha il dovere di garantire la intangibilità della fiducia dei cittadini nell'istituzione giudiziaria e quindi di rendere disponibile un'informazione pubblica sui magistrati appartenenti alla Massoneria poiché lo stringente giuramento innanzi riportato comporta la promessa "di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra" potrebbe far dubitare dell'imparzialità del magistrato massone qualora, in un procedimento giudiziario, fra tutti i liberi muratori della terra, ve ne fosse uno coinvolto direttamente o indirettamente nei fatti soggetti al suo giudizio”. Infine la richiesta di notificare ad ogni singolo magistrato un formale atto d'interpello: «Lei ha aderito alla Massoneria? Se risponde affermativamente, può indicare lo stato attuale della sua appartenenza e la documentazione che lo comprova? Per completezza si allega un estratto di sentenza del Consiglio di Stato che esclude l'esimente della riservatezza in tema di appartenenza alla Massoneria del Pubblico Ufficiale o Pubblico Incaricato: Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 06.10.2003 n° 5881. Il Consiglio di Stato ha stabilito che è legittima una legge regionale che impone ad un soggetto l'obbligo di comunicare l'appartenenza ad una loggia massonica ai fini del conferimento di un incarico pubblico. Con la sentenza n. 5881 del 6 ottobre 2003 i giudici di Palazzo Spada affermano che tale obbligo non viola il diritto di riservatezza in quanto è correlato alla particolare posizione funzionale rivestita dal soggetto designato o nominato ad una pubblica funzione ed è giustificato da preminenti interessi pubblici e generali direttamente assistiti da garanzia costituzionale. Nella motivazione della sentenza il giudice amministrativo precisa inoltre che il diritto alla riservatezza, pur integrando un aspetto di non secondaria rilevanza della proiezione della persona, non è un valore assoluto che trova diretta tutela nella Carta costituzionale vigente come bene primario ed inviolabile ed è destinato perciò a soccombere di fronte al principio di buon andamento dell'amministrazione, postulato a livello costituzionale dell'art. 97».

Adesso a riproporre il tema è l'indagine conoscitiva della Commissione parlamentare antimafia, una indagine però che arriva alla sua parte più delicata proprio mentre la legislatura sta per chiudersi, il che, come capitato altre volte, lascerà incompiuto il tentativo di fare luce su ambiti che pure condizionano pesantemente il sistema democratico del nostro Paese.

Scocca l’ora dei magistrati massoni: ecco come bloccano la Giustizia in Italia, scrive Iacchite il 2 marzo 2017. Sembra che (finalmente!) ci siamo. L’annuncio della Commissione Antimafia di voler procedere al sequestro degli elenchi della massoneria ci dovrebbe dare (al di là delle proteste dei “fratelli”) l’esatta misura dell’inquinamento delle istituzioni da parte dei “deviati”. I massoni onesti, dunque, non dovrebbero contestare questa procedura perché è l’occasione giusta per cacciare a calci nel sedere chi approfitta dell’Istituzione. Soprattutto i magistrati. Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. Sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento. «Prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. L’inchiesta sulla massoneria, condotta da Agostino CORDOVA con l’ausilio della Guardia Municipale di Vibo Valentia, signor VILLONE, ha consentito di scoprire parecchi altarini. Magistrati inseriti nella lista della P2 e DF all’orecchio GOI assonnati dell’epoca, e non, negli elenchi attuali dei massoni: BARBARO Guido, in servizio. BUONO Antonio, in pensione. CASSATA Salvatore, in pensione. LIBERATORE Vittorio, in pensione. MARSILI Mario, in servizio. PALAIA Giovanni, in servizio. RANDON Giacomo, in servizio. RASPINI Domenico, in pensione. SIGGIA Elio, in pensione. STANZIONE Antonio, in servizio. ZUCCHINI Paolo, in servizio.

FONDO SEGRETO P2: DI BLASI Salvatore, D’ONOFRIO Mario, PALERMO Domenico, PINELLO Francesco, RINAUDO Antonio, SPINA Antonio, VELLA Angelo.

ELENCO MAGISTRATI MASSONI ESTRATTI DA ARCHIVI GOI-CSI- GL I: ALIBRANDI Tommaso Cds, in pensione. ARITI Alfredo, ARMANI Giuseppe, CASOLI Giorgio, D’AMICO Antonio, in pensione, DE PANFILIS Lorenzo, in pensione, DI PRIMA Lillo, in pensione, MONTI Davide.

SCHEDA MAGISTRATI MASSONI GOI (non risultanti negli archivi come Magistrati):

D’AGOSTINO Luciano (sì, negli archivi, non come magistrato, dati anagrafici rispondenti). D’AGOSTINO Luciano. La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove è stato giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.

ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.

DI BLASI Salvatore – Per molto tempo giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. Fino a pochi anni fa il giudice Di Blasi si è occupato invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Niccolò (sì, negli archivi, non come magistrato, dati anagrafici rispondenti). FRANCIOSI Niccolò. Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

MARTINO Salvatore (scheda numerata e con timbro, non negli archivi, sì, tra i magistrati, dati anagrafici corrispondenti).

PERRONE Pio, in pensione (scheda numerata e con timbro, non negli archivi).

RINAUDO Antonio (scheda con timbro, non negli archivi, sì, tra i magistrati). RINAUDO Antonio. Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…

ROMAGNOLI Riccardo (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, non come magistrato e senza dati anagrafici). ROMAGNOLI Riccardo. È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.

SALEMI Guido, in pensione (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, ma non come magistrato).

SCARAFONI Stefano (sì negli archivi, non come magistrato, dati anagrafici corrispondenti).

SERIANNI Vincenzo, assonnato (scheda con timbro, non negli archivi, dati anagrafici corrispondenti).

SPINA Antonio (scheda con timbro, non negli archivi, risulta tra i magistrati).

VELLA Angelo, in pensione (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, ma senza dati). VELLA Angelo. Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALE Francesco, in pensione (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, non come magistrato).

VITALI Massimo (scheda con timbro, sì, negli archivi, ma non come magistrato, dati corrispondenti). VITALI Massimo. Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.

E per il momento ci fermiamo qui.

Unical, il trionfo della massoneria sotto gli occhi di Minniti, Bindi e gattopardo, scrive Iacchite il 28 novembre 2017. Sulla stampa (anche di regime) delle settimane sorse sono state pubblicate le vicende dei sette professori di diritto tributario di Firenze messi agli arresti domiciliari da lunedì 25 settembre con l’accusa di corruzione per aver truccato le procedure per l’abilitazione universitaria. Altri 22 docenti sono stati sospesi dall’insegnamento per dodici mesi, mentre il numero totale degli indagati dalla procura di Firenze in quella stessa inchiesta è 59. Le accuse vanno dalla corruzione all’induzione indebita e alla turbativa del procedimento amministrativo. Molti degli indagati, in quanto membri delle commissioni nazionali nominate dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per rilasciare le abilitazioni all’insegnamento, sono pubblici ufficiali. Nonostante questa triste pagina di storia per l’Università Italiana, l’Università della Calabria, comandata dal massonissimo Babbo Natale (che di Santa Claus ha solo la fisionomia e la stazza, visto il suo menefreghismo e ci dicono anche la sua puerile cattiveria), rimane fuori dalle inchieste della Procura di Cosenza per grazia ricevuta. Molti si chiedono il perché. Ma trovare una risposta non è poi tanto difficile. Lo scriviamo da mesi ormai: il procuratore-gattopardo Mario Spagnuolo ha fatto affari e soldi con l’informatica grazie all’ineffabile professore Guarasci (quello che trucca i concorsi con Crisci) e il suo sostituto anziano Bruno Antonio Tridico è stato premiato con l’assunzione della compagna dopo aver fatto ridere tutta Italia con la sua inchiesta sui falsi esami all’Unical che ha assolto tutti i “pezzi grossi”. E così succede che Crisci sta allo stesso tavolo con Minniti, la Bindi e Spagnuolo e si prende addirittura la libertà di dare la mano al ministro dell’Interno con le modalità massoniche (il dito indice della mano destra staccato dal resto delle dita) sotto gli occhi di quell’incapace di Rosy Bindi, che fa guerra alla massoneria soltanto a chiacchiere. La situazione dell’Università della Calabria pertanto può degenerare senza problemi, tanto nessuno toccherà nessuno. L’8 novembre scorso si è verificato quello che abbiamo anticipato un anno fa: la vittoria del concorso dirigenziale predestinato e costruito ad hoc del dottore Roberto Elmo. Successivamente anche Repubblica è stata costretta a scrivere che non solo nel Dipartimento di Guarasci si truccano i concorsi e il Tar li annulla ma si ripresenta lo stesso candidato che ha barato tanto l’impunità regna sovrana. Prossimamente ci sarà anche un aumento di mansioni e di soldini per la bionda dissennata del primo piano, che dopo le battute veritiere di donna Rosa, fa finta di niente, ma continua a scegliere ditte e a fare le scarpe al suo capo Fabbricatore seminando odio con Babbo Natale. L’ex capo dell’ufficio stampa, Ciccio Kostner, dopo mille tentativi di ripresa e di ricorsi, pare si sia rassegnato alla volontà del supremo rettore, che con il placet del Dimeg e del suo vero direttore Saccà continua, nell’ombra, a governare l’ateneo. Raffaele Perrelli, solo intellettuale in questa bolgia di peccatori, sembra ormai sempre più un pesce fuor d’acqua. Il buon Franco Rubino, sperando in una sua condivisa candidatura a rettore, tesse rapporti con stato e antistato, regalando incarichi, dottorati di ricerca e tante altre cose ancora. Ma Gino Crisci, mentre ostenta la chiusura del Diatic, comincia ad alimentare (chiediamoci come) altri studenti (rappresentanti) per barcamenare nel tormentoso oceano dell’università. Il prorettore Luigino Filice (che si vuole candidare a Rettore a tutti i costi) invece fa finta di non sapere e non vedere che nelle residenze universitarie molti dipendenti e molti studenti sono abusivi. Ma Filice non può parlare altrimenti gli tolgono i suoi scheletri fuori. Altro schifo sono i fondi destinati alle associazioni studentesche. Le uniche a percepire di più sono quelle gestite dal dottore di ricerca (promosso e sostenuto da Rubino a discapito di gente meritevole e preparata) Diego Mazzitelli, consigliere di amministrazione in quota studenti, col voto telecomandato dal rettore. Che continua ad esaltare la “sua” massoneria, tanto anche Minniti e la Bindi ridono quando gli dà la mano come un “fratello”. Ovviamente deviato…

Omicidio Dalla Chiesa, l’intervista a Sciascia: «La mafia è cambiata e nessuno lo ha ancora capito». Nell’anniversario dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ripubblichiamo l’intervista a Leonardo Sciascia apparsa sul «Corriere della sera» del 5 settembre 1982. «Carlo Alberto Dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato». Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo l’assassinio del generale dei carabinieri. Sciascia non aveva stabili frequentazioni con il militare, ma ne era rimasto affascinato tanto da trasformarlo nel capitano Bellodi, protagonista de «Il giorno della civetta». L’incontro avviene nella casa di campagna dello scrittore a Racalmuto, poche migliaia di anime al centro del triangolo della miseria in Sicilia. Sciascia vi trascorre le vacanze in compagnia della moglie, n resto del mondo appare lontano. La notizia dell’assassinio del prefetto di Palermo Sciascia l’ha appresa solo ieri mattina, dodici ore dopo l’agguato. «Questo assassinio — dice — ha un solo significato ed è l’eliminazione di una singola persona che era diventata un simbolo. Le istituzioni sono tarlate, non funzionano più, si reggono solo sulla abnegazione di pochi uomini coraggiosi. A partire dall’assassinio del vice questore Boris Giuliano, la mafia ha deciso di eliminare questi uomini simbolo. Arrivati a Dalla Chiesa, però, mi domando, se non ci sia della follia in chi ordina questi delitti: che cosa vogliono? Qual è il loro obiettivo? Pretendono forse il governo dello Stato? In verità non riesco a capire. Vogliono forse Imporre un ordine mafioso che si sovrapponga a quello dello Stato? Ma questo è impossibile perché livello dei delitti è talmente alto da suscitare una fortissima reazione». «Io credo - continua Sciascia — che nessuna organizzazione eversiva possa gareggiare con lo Stato in fatto di violenza, anche quando lo Stato appare inefficiente. Anzi, la sua inefficienza, è direttamente proporzionale alla mancanza di funzionalità. In queste condizioni sfidarlo mi sembra un atto di napoleonismo folle. Ma tutto ciò mi preoccupa perché uno Stato inesistente è sempre capace di approvare una legge sui pentiti e di scatenare una furibonda repressione poliziesca». «Secondo me la mafia si combatte utilizzando onestà, coraggio e intelligenza e le indagini fiscali illustrate due giorni fa dal ministro Formica mi sembrano un buon inizio. Con questi strumenti la mafia si può debellare. «Per capire tale affermazione bisogna rifarsi alla tesi classica che voleva la mafia inserita nel vuoto dello Stato, mentre in realtà essa vive nel pieno dello Stato. Credo che dall’istituzione della commissione antimafia in poi, l’organizzazione abbia cominciato a sentirsi esclusa dal pieno dello Stato e ora ha assunto questa forma che potremmo definire eversiva. Ma in effetti appare come un animale ferito che dà colpi di coda». «Dalla Chiesa, forse — aggiunge lo scrittore —, non aveva intuito tale trasformazione e i pericoli che ne derivavano. Anch’io, peraltro, non credevo che si arrivasse a colpire tanto in alto. Ma in effetti noi tutti conosciamo bene solamente la vecchia mafia terriera. Per il resto tiriamo ad indovinare. Possiamo dire in ogni caso che la mafia è una forma di terrorismo perché vuole terrorizzare la gente. Ma i fini sono sostanzialmente diversi. Di comune c’è una sola cosa e cioè l’attentato alle nostre libertà». «Ma forse Dalla Chiesa — conclude Sciascia — non aveva piena coscienza di questo fenomeno. Mi meraviglio infatti della maniera con cui è stato ucciso. Quando un uomo arriva alle sue posizioni ha il dovere di farsi proteggere e di farsi scortare bene. Le manifestazioni di coraggio personale possono diventare forme di imprudenza pericolosa. Ciò nonostante mi sgomenta la incapacità della nostra polizia di prevenire. Infatti un attentato ad un uomo come Dalla Chiesa non si improvvisa in quattro e quattr’otto, ma nessuno ne aveva avuto sentore».

I nemici del generale dalla Chiesa. Non soltanto terroristi e mafiosi. «Dalla Chiesa» (prefazione di Aldo Cazzullo, Mondadori, pagine 324, euro 20). La biografia di Andrea Galli (pubblicata da Mondadori) ripercorre le vicende che portarono all’omicidio del 1982. C’è un vuoto di verità che va colmato, scrive Giovanni Bianconi il 28 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa (1920-1982), assassinato a Palermo da Cosa nostra. Si respira un’atmosfera da Giorno della civetta, quando un giovane capitano dei carabinieri sbarcato a Corleone il 3 settembre 1949 fa emergere a fatica i contorni di un misterioso delitto, nonostante latitanze e assoluzioni a protezione dei colpevoli. E non si fa scrupolo di denunciare le interferenze dei politici che «cercano di sopraffarsi affinché l’uno tragga vantaggi a scopi elettorali a danno dell’altro». Quel capitano — non il Bellodi creato da Leonardo Sciascia, ma l’ufficiale dell’Arma in carne e ossa Carlo Alberto dalla Chiesa — ha toccato con mano la mafia e gli intrecci che la proteggono, e sembrano inseguirlo fino a Milano, dove nella prima metà degli anni Sessanta si trova a indagare sulle propaggini lombarde della guerra fra cosche che ha rotto gli equilibri tra gli «uomini d’onore», con tanto di omicidi in trasferta. Poi dalla Chiesa, divenuto colonnello, torna sull’isola per comandare la Legione della Sicilia occidentale, ed eccolo alle prese con inchieste sui funzionari regionali legati a Cosa nostra, anticamera dei rapporti tra mafia e pubblica amministrazione; e con le calunnie di un Corvo ante litteram, impegnato a spargere veleni contro il comandante che con la sua fissazione per il rispetto delle regole rischia di mettere in pericolo il quieto vivere sul quale i boss hanno costruito il loro potere. Se ne andrà ma tornerà ancora, il carabiniere promosso generale e infine prefetto di Palermo, incaricato di guidare una battaglia che non farà in tempo neppure a cominciare: la mafia chiude i conti ammazzandolo a colpi di kalashnikov, insieme alla giovane moglie e all’inerme guardia del corpo. Era il 3 settembre 1982, trentatré anni dopo il primo incarico a Corleone. E stavolta non c’è lo sfondo arido e assolato da Giorno della civetta, bensì la determinazione cupa e sanguinaria de Il padrino. Tutto questo e molto altro, insieme alla sintesi di un lungo tratto di storia criminale e politica d’Italia, affiora dalle pagine in cui Andrea Galli ha ricostruito la vicenda del «generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia» (Dalla Chiesa, Mondadori, con prefazione di Aldo Cazzullo). Una parabola che comincia e finisce in Sicilia, ma in mezzo attraversa la lunga e drammatica parentesi della lotta armata, contro la quale lo Stato schierò dalla Chiesa due volte: prima agli albori delle Brigate rosse e poi, dopo l’inspiegabile scioglimento del suo Nucleo speciale, all’indomani del sequestro Moro. Il racconto di Galli, ricco di dettagli, suggestioni e episodi inediti o poco conosciuti, aiuta a ricordare che il capitolo più tragico del terrorismo rosso si apre e si chiude con le indagini di dalla Chiesa e dei suoi carabinieri, che tra il 1974 e il 1975 quasi arrivano a smantellare le Brigate rosse e in seguito, fra il 1978 e il 1981, avviano il percorso investigativo che porterà alla loro definitiva sconfitta. Un metodo innovativo più che una struttura organizzata, grazie al quale gli uomini del generale (un manipolo di fedelissimi selezionati e votati alla causa) riescono a infiltrare le bande armate e gli ambienti nei quali reclutano militanti, studiandone abitudini e obiettivi per anticiparne le mosse e riuscire a neutralizzarle. Fino al decisivo aiuto fornito dai terroristi «pentiti», primo fra tutti quel Patrizio Peci che proprio con dalla Chiesa decide di saltare la barricata e passare dall’altra parte. I successi del generale e del suo modo di lavorare — accompagnati dalle perplessità mai nascoste nei confronti di uno Stato che non sembra reagire compatto alla sfida del terrorismo rosso, e soprattutto non usa la stessa determinazione contro l’eversione di marca neofascista — lo trasformano in un obiettivo per i suoi avversari sul «campo di battaglia», ma determinano inquietanti preoccupazioni anche all’interno delle istituzioni, nonché gelosie e attenzioni poco benevole dentro l’Arma. Un quadro poco limpido, nel quale s’inserisce il ritrovamento del suo nome nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, che accompagna la nomina di dalla Chiesa a vice-comandante dell’Arma e poco dopo, nella primavera del 1982, a prefetto di Palermo, chiamato a contrastare l’emergenza della mafia che ha sferrato un attacco senza precedenti alle istituzioni, con una raffica di «omicidi eccellenti». Lui accetta anche per provare a sfuggire all’isolamento nel quale si sente confinato con il precedente incarico «privo di contenuti», come scrive lui stesso. Pur nella consapevolezza di essere strumentalizzato: «Mi sono trovato al centro di uno Stato che usa il mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti e non ha nessuna volontà di debellare la mafia», pronto a «buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati e compressi», annota nel diario. Al generale promosso prefetto non viene concesso il tempo di verificare la sua amara profezia. I killer mafiosi entrano in azione su ordine di Totò Riina e della Cupola prima ancora che dalla Chiesa possa cominciare a incidere su quegli interessi. Un particolare che ha pesato e continua a pesare sul reale movente del delitto, come avevano già sentenziato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri giudici istruttori del maxi-processo a Cosa nostra: «Persistono zone d’ombra sia nelle modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia nella consistenza di specifici interessi, anche all’interno delle istituzioni, volti all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A trentacinque anni di distanza dall’omicidio, il libro di Andrea Galli aiuta a riempire, almeno parzialmente, quel vuoto di verità.

“Dalla Chiesa, il mandante fu il deputato Cosentino”. Palermo 1982 - Il procuratore generale Roberto Scarpinato racconta all’Antimafia le accuse al piduista andreottiano per l’omicidio del prefetto, scrivono Gianni Barbacetto e Stefania Limiti il 4 aprile 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Parla lentamente, il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, davanti ai parlamentari della Commissione antimafia. È stato chiamato in audizione, come altri “esperti”, per raccontare i rapporti tra mafia e massoneria. Una storia lunga e complessa di due poteri che si sono, di volta in volta, fronteggiati, confrontati, alleati. E intrecciati con il potere politico. A un certo punto della sua audizione, parlando dell’omicidio del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, il procuratore generale scandisce le parole: “L’ordine di eliminare Dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma. Dal deputato Francesco Cosentino”. Democristiano, andreottiano, massone, Cosentino era un potente parlamentare della Dc, segretario generale della Camera, fedelissimo di Giulio Andreotti e personaggio di rilievo della loggia massonica P2 di Licio Gelli. È l’8 marzo 2017 quando Scarpinato fa risuonare di nuovo il suo nome davanti ai parlamentari della commissione. L’audizione era iniziata in seduta pubblica: “Sono stato informato”, aveva detto Scarpinato, “di progetti di attentati, nel tempo, nei confronti di magistrati di Palermo orditi da Matteo Messina Denaro per interessi che, da vari elementi, sembrano non essere circoscritti alla mafia, ma riconducibili a entità di carattere superiore”. Dopo le prime battute, l’audizione era stata secretata. A porte chiuse, il magistrato siciliano, secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, ha fatto una lunga ricostruzione storica dei rapporti tra mafia e massoneria, ricordando che già Stefano Bontate – capo di Cosa Nostra prima di Totò Riina, che lo fece ammazzare nel 1981 – era affiliato a una loggia segreta “che era un’articolazione in Sicilia della P2 di Licio Gelli”. Il 3 settembre 1982 viene ucciso Dalla Chiesa: un omicidio politico, non solo mafioso. E qui Scarpinato ha rivelato ai commissari dell’antimafia che Gioacchino Pennino, medico, uomo di Cosa nostra e massone, diventato collaboratore di giustizia ha raccontato di aver saputo da altri massoni che “l’ordine di eliminare Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma, dal deputato Francesco Cosentino”. Nessuno dei commissari lo ha interrotto, nessuno ha chiesto spiegazioni. Scarpinato ha proseguito il suo racconto, mettendo a fuoco i complessi rapporti con la massoneria dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, dopo l’eliminazione di Bontate. Riferisce che un fedelissimo di Riina, Giuseppe Graviano – che è uno degli strateghi dell’uccisione di Giovanni Falcone e delle stragi del ’93 – partecipa a riunioni massoniche. Le relazioni continuano fino a oggi, tanto che alcune fonti indicano come massone anche il superlatitante Matteo Messina Denaro: il boss che ha progettato attentati nei confronti di magistrati di Palermo “per interessi che sembrano non essere circoscritti alla mafia, ma riconducibili a entità di carattere superiore”. Per l’omicidio di Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, sono stati condannati all’ergastolo, come mandanti, i vertici di Cosa nostra dell’epoca: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 è arrivata la condanna anche per gli esecutori: Vincenzo Galatolo, Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Nella sentenza si legge: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. Ora abbiamo qualche indicazione in più sugli “specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni”, che hanno portato all’uccisione del generale, in “coesistenza” con quelli di Cosa Nostra. Sul ruolo di Cosentino, Scarpinato in Commissione antimafia non ha fornito altri dettagli. Morto nel 1985, è “figlio d’arte”: suo padre Ubaldo, anch’egli massone, fu segretario generale della Camera dei deputati dal 1944 fino alla sua morte, nel 1951. Il figlio Francesco ebbe la stessa carica dal 1962 al 1976, quando fu coinvolto nello scandalo Lockheed. Fu poi per breve tempo parlamentare europeo. Nel 1981 il suo nome fu ritrovato negli elenchi della P2, scoperti dai magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone negli uffici di Gelli a Castiglion Fibocchi. Una ventina dei 962 nomi dell’elenco trovato in cassaforte erano segnati con un evidenziatore giallo: tra questi, quello di Francesco Cosentino, come quello di Licio Gelli, di Michele Sindona, di Roberto Calvi, di Silvio Berlusconi… Il nome Cosentino compare più volte anche sulle agende di un altro noto fratello della P2, il direttore di Op Mino Pecorelli, che segnava meticolosamente i suoi appuntamenti: “Costa-Berlusconi-Licio-Gregori-Cosentino” (5 settembre 1977): “Berlusconi-Cosentino” (16 ottobre 1977); “Cosentino-Berlusconi Montedison” (27 ottobre 1977). Nel 1979, il Maestro Venerabile della P2 Licio Gelli apre una trattativa con il petroliere Attilio Monti per comprare i suoi giornali, Il Resto del Carlino di Bologna e La Nazione di Firenze. A Monti dice che sta lavorando per Cosentino, che è lui il possibile acquirente. La trattativa non andrà in porto. Ma anni più tardi, il ruolo preminente di Cosentino nella P2 fu messo in rilievo dalla moglie del banchiere Roberto Calvi, Clara Canetti, che alla commissione P2 di Tina Anselmi il 6 dicembre 1982 dichiarò: “Gelli era solo il quarto… Il primo era Andreotti, il secondo era Francesco Cosentino, il terzo era Umberto Ortolani, il quarto era Gelli”. Lo ripeterà il 2 febbraio 1989 a Michele Santoro nella trasmissione tv Samarcanda: “Mio marito mi aveva detto che sopra Gelli e Ortolani c’erano Andreotti e Cosentino”. Il secondo era tutt’uno con il primo. Nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che il 5 aprile 1982, poco prima di andare a Palermo, ebbe un colloquio con Andreotti al quale disse che non avrebbe avuto riguardi per “la famiglia politica più inquinata del luogo”. Era quella andreottiana. Ora Scarpinato rivela: “L’ordine arrivò da Roma”. Dall’andreottiano Francesco Cosentino.

"ECCO CHI E' IL MANDANTE DELL' OMICIDIO DALLA CHIESA", scrive il 4 ottobre 1989 "La Repubblica”. L' ultima verità sull' uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa i giudici della Corte d' Assise di Palermo sono andati ieri a cercarla nel carcere di Alessandria. Gliel' ha offerta il pentito Giuseppe Pellegriti, già boss emergente di un paese dell'Etna, arrestato nel febbraio del 1986. Ma le confessioni del pentito sono andate oltre l'omicidio del prefetto: Pellegriti infatti ha sostenuto di aver saputo dai Santapaola, al cui clan era collegato, che il mandante degli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa. Era uno solo: un politico democristiano di Palermo. Pallegriti ha fatto il nome e quel nome scottante adesso è nel verbale che la Corte ha riportato con sè a Palermo. Ci saranno controlli e verranno fatti accertamenti sui molti punti toccati da Pellegriti, il quale più d' una volta ha detto cose inesatte. Alla Corte che si era trasferita ad Alessandria, Pellegriti non è sembrato molto ansioso di indicare quel nome del mandante politico. IN PRECEDENZA, ad altri giudici che lo avevano sentito, parlando dell'ambiente nel quale era maturato il delitto Dalla Chiesa, aveva detto: Il mandante è un personaggio molto in alto di Palermo o di Roma. Ma non saprei aggiungere altro. Ieri le cose sono andate diversamente. Il presidente della Corte lo ha incalzato: Lei è in una Corte d' Assise. Questa Corte si occupa dell'omicidio Dalla Chiesa, se ha qualcosa da dire la dica adesso. Interessi palermitani e catanesi E Pellegriti ha risposto, facendo quel nome. E ha spiegato che per Dalla Chiesa si erano saldati alcuni interessi palermitani ad interessi catanesi. Gli esecutori furono scelti dai Santapaola. Pellegriti avrebbe avuto le prime notizie sulla vicenda nel corso di una riunione a Belpasso, vicino a Catania. Poi, fra l'86 e l'87 almeno altri due mafiosi incontrati in carcere gli confermarono tutto. Anche qui Pellegriti ha fatto i nomi: Salvatore Tuccio detto Turi di l'ova e Carletto Campanella. Entrambi del clan Santapaola. I giudici gli hanno chiesto se avesse riferito questo fatto ad altri inquirenti. Pellegriti ha riferito di esser stato sentito ai primi di agosto dal giudice bolognese Libero Mancuso, il quale passò i verbali a Falcone che lo interrogò il 17 agosto. Anche Domenico Sica si era fatto avanti. Ad uno dei tre, Pellegriti ricordava di aver fatto il nome del politico siciliano, ma non era più sicuro di quale fosse. E come mai soltanto adesso, l'improvviso pentimento? Qui Pellegriti ha dato una strana versione: ha detto di aver provato rimorsi nel momento in cui ha abbracciato la fede cristiana evangelica pentacostale. In realtà la Corte sembra più propensa a credere che la svolta sia avvenuta dopo che nell' ottobre ' 87 gli fu ucciso il padre Filippo. Una volta il presidente lo ha colto in fallo: è stato quando Pellegriti ha indicato in Carletto Campanella uno degli esecutori dell'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ebbene: Campanella in quei giorni era in carcere. Nel raccontare le meccaniche dei tre omicidi, Pellegriti avrebbe anche spiegato che mentre il delitto dalla Chiesa aveva anche un obiettivo per così dire funzionale, nel senso che gli si voleva impedire di fare indagini giudicate pericolose, gli altri due delitti, quello Mattarella e quello La Torre furono essenzialmente delitti politici. Ma dietro a tutti e tre c'era la mano dell'esponente politico dc. Nel carcere i due avvocati della famiglia Dalla Chiesa, il difensore di Pippo Calò, il presidente della Corte, insieme a uno dei giudici a latere e a un rappresentante della procura generale, hanno vissuto ore di tensione. La decisione di ascoltare il pentito era stata presa il 29 settembre scorso. Pellegriti avrebbe avuto un ruolo in almeno 12 dei 50 omicidi compiuti ad Adriano e a Biancavilla tra il 1985 e il 1987, e si è accusato dell'assassinio di Giuseppe Fava, il giornalista ucciso a Catania nel gennaio del 1985. Disse di aver organizzato l'agguato per fare un favore a Santapaola. A sparare sarebbe stato Antonino Cortese, arrestato nel marzo scorso a Padova. Riscontri non univoci Pellegriti ha parlato a lungo anche del delitto Mattarella. Le sue rivelazioni sono arrivate quando ormai l'inchiesta del giudice Giovanni Falcone volgeva al termine. Falcone ha fatto numerosi controlli sulle rivelazioni del pentito e ieri ha detto che esse sono risultate solo in parte coincidenti con riscontri obiettivi o con quanto era già stato acquisito dall' indagine.

LA MASSONERIA NEL VANGELO SECONDO I PENTITI. SCARPINATO: IL P.G. UN PO’ DISTRATTO, scrive il 5 aprile 2017 Mauro Mellini su "La Valle dei Templi". “Parla lentamente il Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato, davanti alla Commissione Antimafia. E’ chiamato in audizione come altri “esperti”…per raccontare i rapporti tra mafia e Massoneria”. Ad un certo punto il P.G. “scandisce le parole “l’ordine di eliminare Dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma. Dal deputato Francesco Cosentino, democristiano, andreottiano, massone”. Immagino la scena: Scarpinato che parla dopo aver convenientemente agitato la criniera leonina, con Rosy Bindi, il volto illuminato da un mezzo sorriso di compiaciuta, soddisfatta, estatica ammirazione. A Scarpinato piace fare scena. Tentò di farla, figuratevi, anche con me, teste a Palermo al processo Andreotti, agitando un giornale e contestandomi: “Lei ha parlato in un’intervista di “golpe dei giudici”. Come se potesse ritenere di avermi preso in castagna per una frase imprudentemente lasciatami sfuggire. Ed io a rimbeccarlo “Non è esatto!” Facendolo ricorrere subito a minacce di incriminarmi. Finché, superando i suoi rimbrotti ed i preoccupati interventi del Presidente, riuscii a dirgli “Ho parlato? Guardi che ho scritto un libro dal titolo “Il golpe dei giudici”. Certo è che del mio libro avrò anche “parlato”…Questo perché la precisione, l’esattezza non pare che sia la caratteristica degli exploit del Procuratore Generale. Leggendo i titoli di giornali ed agenzie “Dalla Chiesa, il mandante fu il deputato Cosentino”, sono andato subito a vedere a chi si riferisse, dove quel deputato fosse stato eletto etc.. Ma non c’era nessun deputato Francesco Cosentino. No so se perché anche le ulteriori qualifiche sono state dallo stesso Procuratore attribuite a Francesco Cosentino, o perché i giornalisti vi hanno messo del loro, ma di seguito si legge… “democristiano, andreottiano, massone…era un potente parlamentare della D.C. SEGRETARIO GENERALE DELLA CAMERA…”. Ma, in verità non so se Scarpinato oppure i giornalisti, mostrano di essere ignorantelli. Il Segretario Generale della Camera non è un deputato, ma un funzionario, che, in genere, se ha una propensione politica se la tiene per sé. Di Francesco Cosentino si diceva fosse “di area repubblicana” qualcuno si diceva informato del fatto che fosse Massone. Risultò, poi, nelle “liste” di Gelli. Espertissimo di diritto parlamentare, uomo autorevole e “potente” è probabile che si occupasse di cose siciliane e, in genere, di cose e di persone lontane da Montecitorio come è probabile che io mi occupi di commercio con la Cina. Scarpinato, così perentorio e, a dire dei giornali, solenne, nell’affermare che “l’ordine di ammazzare Dalla Chiesa venne da Cosentino” (glielo aveva detto tale Gioacchino Pennino, coinvolto in vicende mafiose e, pare, massone pentito, che lo aveva saputo da altri. Per i magistrati gli ambienti mafiosi sono molto pettegoli, specie per le questioni più rigorosamente segrete). Così disinvolto ad appioppare a Francesco Cosentino la qualifica di deputato, di democristiano e di “andreottiano”, Scarpinato ha dimenticato di riferire alla Commissione Antimafia che il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che affermò essere stato ucciso per mandato della Loggia P2 di Licio Gelli (e quindi, del “vero” capo di esso, il noto massone Giulio Andreotti, il quale era l’ultimo in Italia ad aver bisogno di qualcosa come la P2!!!) era egli stesso appartenente a tale singolare organizzazione massonica. “De mortuis nisi bonum, ma cancellare anche i fatti documentati (e farlo addirittura prima della morte) è un po’ troppo. Che Carlo Alberto Dalla Chiesa avesse fatto regolare domanda di iscrizione alla Loggia di Licio Gelli è indiscutibilmente provato e da lui stesso fu ammesso. E’ anche noto che Dalla Chiesa sostenne di avere chiesto quella iscrizione per “infiltrarsi” e conoscere che cosa si andava approntando là dentro. Ma la tesi del Generale dei Carabinieri (mica un sottoufficiale!) “infiltrato” è in sé assai poco plausibile. A renderla addirittura ridicola ci pensò lui stesso: “Chiesi…l’iscrizione, ben deciso, però, essendo cattolico praticante, a non giungere mai all’iniziazione”. Uno strano modo di “infiltrarsi” e di andare a conoscere le segrete cose di quella Loggia un po’ strana, rimanendo, però, sempre in anticamera. Addirittura tale da ben figurare in una pièce umoristica è, poi, l’affermazione che, essendo stato invitato da Gelli ad un colloquio, “io aderii a condizione, però, che fosse presente un sacerdote di mia fiducia, che indicai in Monsignor Pisoni…il giorno dell’appuntamento, però Monsignore ebbe altro da fare, così ci andai da solo”. Come dire: mostrai a Gelli di considerarlo un demonio, ma mi premurai di avvertirlo che mi portavo dietro l’esorcista, di cui fece, poi, a meno. Questo dichiarò il Generale al P.M. Turone di Milano. Il quale nulla eccepì né gli contestò al riguardo. “Piduista” il dott. Cosentino, ma “piduista”, anche il Gen. Dalla Chiesa. Perché, dunque la P2 (capeggiata in realtà dal noto massone Andreotti) avrebbe dovuto far uccidere il Generale se “era della partita?”. Di questi particolari, di queste quisquiglie Scarpinato non se ne è curato né ha cercato di darne spiegazione agli on. Parlamentari della Commissione. Rosy Bindi, figuriamoci. Anche se non dovrebbe essere digiuna di un po’ di storia parlamentare, credo si sia deliziata di tanta abbondanza di accuse di non poco conto alla sua ex casa politica, la D.C. Così si fanno le Commissioni Parlamentari di inchiesta nel nostro Paese. E si fa la storia. Non c’è da meravigliarsi che poi, la gente, ne faccia delle storielle e, magari, ci si diverta. Che, invece, c’è assai poco da divertirsi. Mauro Mellini.

Dalla Chiesa e la P2. Un fatto che “Il Fatto Quotidiano” nasconde, scrive giovedì 6 Settembre 2012 Giuliano Guzzo. Premessa: consideriamo – al pari di chiunque lo abbia conosciuto o ne abbia sentito parlare – il generale Carlo Albero Dalla Chiesa (1920-1982) un eroe. Di più: un eroe che si dovrebbe ricordare più spesso di quanto non si faccia, come in questi giorni, solo allorquando ricorre la commemorazione del suo vile assassinio. Parimenti, anche se non lo reputiamo titolo meritorio, ci rifiutiamo di considerare una vergogna inenarrabile l’essere appartenuti alla Loggia P2. Un punto di vista, questo, ben distante da quello della redazione de Il Fatto Quotidiano, in particolare del suo direttore, Antonio Padellaro, e del suo vice, Marco Travaglio: il primo quando lavorava per il Corriere ebbe il merito – come lo stesso Travaglio riporta in Inciucio (Bur, 2005) – di «portare in redazione gli elenchi della loggia di Gelli, appena scoperti dai giudici milanesi», il secondo non perde occasione di ricordare – vedi il libro Le mille balle blu (Bur, Milano 2006) – che Licio Gelli risulta «condannato per i depistaggi nelle stragi, e per la bancarotta del Banco Ambrosiano, ed è indagato per l’omicidio di Roberto Calvi». Insomma, Padellaro e Travaglio non stravedono affatto per la P2 e per coloro che ne fecero parte, tutt’altro. E poi si battono per far emergere il più possibile i “fatti” senza censure o bavagli. Sono giornalisti seri, insomma. E allora ci devono spiegare come mai hanno consentito che ieri il loro giornale pubblicasse un articolo di Gian Carlo Caselli dove si celebra – giustamente – il generale Dalla Chiesa spiegando che la sua eredità è di «importanza fondamentale», che rappresenta un «simbolo della lotta (vincente) al terrorismo brigatista»  e che è al suo sacrificio che dobbiamo «i due pilastri su cui ancora oggi si regge l’azione antimafia (reato associativo e misure contro l’illecita accumulazione di ricchezze)», ma dove ci si dimentica di dire che Dalla Chiesa chiese di entrare nella P2 e che pare non la considerasse affatto – lui, uomo delle istituzioni e del dovere – quel club di mezzi criminali e sovversivi che molti lettori del Il Fatto Quotidiano pensano. Come mai questa censura? Non eravate voi, cari giornalisti liberi e indipendenti, quelli contro il bavaglio? E allora perché lasciare i vostri lettori nell’ignoranza? E dire che la volontà di Dalla Chiesa di far parte della Loggia di Gelli è storia. Infatti, quando il 17 marzo 1981 la Guardia di Finanzia scovò gli archivi della P2 contenuti nella cassaforte di Licio Gelli – oltre al nome degli affiliati – scoprì parecchie «domande di iscrizione con firme illustri», tra cui quella del generale (Cfr. De Luca M. – Buongiorno P. Storia di un burattinaio in AA.VV. L’Italia della P2, Mondadori, Milano 1981, p. 60). Da quanto sappiamo Dalla Chiesa inoltrò questa richiesta tramite il generale Raffaele Giudice e il deputato Francesco Cosentino grazie ai quali «fu “presentato” (avevano sottoscritto il modulo di presentazione per l’inserimento nella loggia») a Gelli» (Pennino G. Il vescovo di Cosa nostra, Sovera, Roma 2006, p. 121). E’ meno chiara la ragione per cui Dalla Chiesa presentò quella domanda. Secondo alcune fonti lo fece quasi involontariamente – «anch’io, come altri, sono stato costretto a iscrivermi alla Loggia», avrebbe detto (cit. in Di Giovacchino R. “Il libro nero della Prima Repubblica”, Fazi, Roma 2005, p. 91) -; per altre avrebbe inoltrato la domanda ritenendo la cosa come non grave, anzi: «Io ho fatto la domanda […] per quanto ne sapevo, per le persone che conoscevo, si tratta di uomini per bene, servitori dello Stato...» (cit. in Carpi A.P. “Il Venerabile”, Gribaudo & Zarotti, Torino, 1993, p. 443). Dinnanzi ad una così vasta pluralità di fonti, una cosa appare comunque certa: Dalla Chiesa fece regolare domanda per affiliarsi alla Loggia P2, quella guidata da tale Licio Gelli, «condannato per i depistaggi nelle stragi, e per la bancarotta del Banco Ambrosiano, ed indagato per l’omicidio di Roberto Calvi». Cosa che per noi – lo ribadiamo – rappresenta un aspetto della minima rilevanza e che non scalfisce minimamente la statura morale, umana ed istituzionale di questo compianto ed eroico servitore dello Stato. Per altri, per i quali la P2 rappresenta il Male Assoluto, dovrebbe invece costituire un fatto quanto meno problematico. A meno che i “fatti”, come in questo caso, non vengano fatti sparire. Giuliano Guzzo

Indagini, veleni e guai: ecco cosa sta scuotendo l'Arma dei Carabinieri. Vertici sotto inchiesta. Litigi tra ufficiali. E rapporti opachi con la politica. La Benemerita vive il suo momento peggiore. Ecco cosa sta succedendo e chi potrebbe essere il prossimo comandante generale, scrive Emiliano Fittipaldi il 22 agosto 2017 su "L'Espresso". Chiunque arriverà, «dovrà rimboccarsi le maniche. Perché troverà macerie: erano decenni che l’Arma dei Carabinieri non soffriva di una crisi così grave». Il militare che lavora al Comando Generale di Roma forse esagera, ma non è l’unico a pensare che la Benemerita stia vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente. Una crisi latente da tempo, esplosa con l’indagine Consip. Uno scandalo che ha tramortito, in un domino di cui ancora non si vede la fine, tutti. Dal comandante generale Tullio Del Sette (indagato per favoreggiamento) ai capi di stato maggiore, ascoltati come testimoni; passando ai comandanti di reparti specializzati, accusati di depistaggio; e ai carabinieri iscritti nel registro per falso ideologico e materiale; per finire con la caduta di eroi simbolo dell’Arma come il colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Capitano Ultimo” per aver arrestato Totò Riina, allontanato su due piedi lo scorso mese da una delle nostre agenzie di intelligence perché considerato improvvisamente «non più affidabile». Leggendo le carte e le accuse dei magistrati - tutte ancora da provare - sembra che sul caso Consip l’Arma si sia spaccata a metà. Con il vertice della piramide impegnato a rovinare attraverso fughe di notizie insistite un’indagine giudiziaria che rischiava di compromettere l’immagine del Giglio magico di Matteo Renzi, e la base - rappresentata dagli investigatori del Noe - concentrata al contrario a costruire prove false pur di inchiodare Tiziano Renzi, il padre del segretario del Pd. Un cortocircuito mai visto nel Corpo, un disastro giudiziario e mediatico che ha indebolito ancor di più la posizione del numero uno Tullio De Sette, indagato dallo scorso dicembre a Roma per favoreggiamento e divulgazione di segreto istruttorio, con l’accusa di aver fatto trapelare a soggetti terzi (come l’ex presidente della Consip Luigi Ferrara) l’indagine sulla stazione appaltante dello Stato su cui stavano lavorando i pm di Napoli. Per lo stesso reato sono iscritti anche il ministro Luca Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia: il comandante della Legione Toscana, è stato accusato di aver spifferato informazioni segrete sia da Luigi Marroni (l’ex ad di Consip ha detto che era stato anche Saltalamacchia, suo amico, a dirgli «che il mio cellulare era sotto controllo») sia dall’ex sindaco Pd di Rignano sull’Arno Daniele Lorenzini. «Durante una cena a casa di Tiziano», ha specificato in una deposizione, «sentii Saltalamacchia» suggerire al papà dell’ex premier «di non frequentare un soggetto, di cui tuttavia non ho sentito il nome, perché era oggetto di indagine». Se gli ultimi mesi sono stati difficilissimi, va evidenziato che Del Sette, nato 66 anni fa in Umbria, a Bevagna, era inviso a pezzi dell’Arma anche prima dell’iscrizione nei registri della procura, e che fonti del Comando generale non negano come molti generali, davanti ai guai giudiziari del loro capo, non si siano certo stracciati le vesti.

Già: il comandante generale, arrivato al posto di Leonardo Gallitelli all’inizio del 2015, è infatti stato giudicato fin da subito “troppo” vicino alla politica: anche se la lunga carriera dell’Arma ne faceva un candidato autorevole, in molti non gli perdonavano (e non gli perdonano) i sette anni in cui è stato capo ufficio legislativo del ministero della Difesa, sotto governi sia di destra sia di sinistra; né la scelta, nel 2014, di accettare la chiamata del ministro Roberta Pinotti, per diventarne capo di gabinetto. Non era mai accaduto prima che un carabiniere assumesse quell’incarico fiduciario. A Del Sette viene poi contestato un carattere non facile. Se Gallitelli, mente fredda e raffinata, ha puntato su una guida inclusiva e meritocratica, seppur giudicata da alcuni troppo “curiale”, Del Sette ha preferito un comando verticistico, che per i critici ha finito con l’essere divisivo. «Del Sette è persona di grande valore, molto leale con le istituzioni. Ha lavorato bene con i ministri di ogni partito, come Martino, Parisi, anche con Ignazio La Russa. Molte delle leggi vigenti portano la sua “firma”, compreso l’accorpamento del Corpo forestale ai carabinieri», spiega chi lo stima e ha lavorato con lui al dicastero della Difesa. «Cosa lo ha penalizzato negli ultimi tempi? Su Consip credo si sia trattato di un’ingenuità, e la sua posizione sarà archiviata. Al comando generale invece, non l’ha mai aiutato il suo carattere fumantino. È un uomo capace, che però si arrabbia facilmente. Soprattutto quando si convince che il suo interlocutore non rispetta le gerarchie e i ruoli che lui ha definito». Del Sette viene definito sia dai suoi estimatori (che sono molti) sia dai suoi nemici (che sono ancor di più) un uomo schivo, persino timido, ma poco propenso alla mediazione. Appena nominato dai renziani a numero uno dei carabinieri, ha deciso in effetti di spazzare via la vecchia nomenclatura costruita in sei anni dal suo predecessore, scegliendo di andare allo scontro frontale con alcuni generali fedelissimi di Gallitelli. Molto stimati, però, dalla base dell’Arma.

Così, se il Capo di Stato maggiore Ilio Ciceri è stato sostituto da Vincenzo Maruccia (anche lui sentito come testimone dai pm di Roma per la vicenda Consip), e il generale Marco Minicucci è stato sottoutilizzato, un altro pezzo da novanta come Alberto Mosca ha dovuto cedere la poltrona di comandante della Legione Toscana a uno dei pupilli di Del Sette, proprio Saltalamacchia, dovendosi accontentare del comando della Legione Allievi Carabinieri. Clamorosa poi la scelta del colonnello Roberto Massi: l’ex comandante dei Ros considerato uno degli ufficiali più brillanti dell’Arma, e promosso da Gallitelli capo dell’ufficio legislativo nel 2014, dopo una breve convivenza con Del Sette ha preferito fare armi e bagagli e trasferirsi all’Anas nel 2016. All’ente nazionale per le strade Massi ricopre l’incarico di “responsabile della tutela aziendale”. L’unico gallitelliano che è riuscito a stringere un patto di ferro con il comandante umbro è stato Claudio Domizi, ancora influente capo del personale del primo reparto. «Le tensioni interne sono iniziate fin dal suo arrivo, ma sono peggiorate nel tempo. La crisi Consip le ha fatte solo esplodere», ragiona preoccupato un militare con le stellette, che considera i colleghi gallitelliani veri responsabili della spaccatura, perché nostalgici e incapaci di accettare il nuovo corso. Tutti, però, mettono sul banco degli imputati anche il sistema della rotazione obbligatoria degli ufficiali (che costringe pure i carabinieri più esperti e capaci a cambiare reparto dopo due anni) e l’assenza di una vera meritocrazia interna. «Qualche tempo fa a Reggio Calabria durante un giuramento a passare in rassegna i reparti, oltre agli ufficiali, è stato anche un appuntato del Cocer, il sindacato interno dei carabinieri a cui Del Sette si è molto appoggiato dall’inizio del suo mandato», racconta uno degli scontenti «Forse a voi civili sembra una sciocchezza, ma nell’Arma è una cosa inverosimile, che ha fatto accapponare moltissime divise». Ottimi rapporti con Maria Elena Boschi e lo stesso Lotti, qualche incontro con l’imprenditore renziano Marco Carrai (tra cui una cena a casa del compagno di Mara Carfagna, Alessandro Ruben, che ama invitare mimetiche e stellette nel suo salotto), Del Sette ha dovuto gestire anche la patata bollente del colonnello Sergio De Caprio, “Ultimo”. L’attivismo “anarchico” dell’ex vice comandante del Noe (che ha collaborato con il pm John Woodcock a quasi tutte le inchieste più delicate degli ultimi anni su politica e potere, da quelle sulle tangenti di Finmeccanica alla P4 di Luigi Bisignani, passando dalle tangenti della Lega Nord a quelle sulla Cpl Concordia) non è mai stato amato dai piani alti della Benemerita.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è caduta proprio nel luglio del 2015, quando una delle intercettazioni del fascicolo sulla Cpl (una telefonata privata tra il generale della Finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi in cui il segretario del Pd definiva il suo predecessore Enrico Letta «un incapace») è finita in prima pagina sul “Fatto Quotidiano”. Del Sette, dopo un mese di buriane politiche e polemiche infuocate, deciderà di firmare una circolare che toglie ai vicecomandanti dei reparti le funzioni di polizia giudiziaria. Una norma considerata da molti “contra personam”. «Continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che le sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere», polemizzò senza mezzi termini “Ultimo” in una lettera di saluto ai suoi uomini. Poi grazie alla mediazione dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti e del capo dell’Aise Alberto Manenti, De Caprio a fine 2016 viene distaccato ai servizi segreti. Per la precisione all’ufficio Affari interni, quello che controlla gli 007 italiani che righino dritto. Se malumori e dissapori sono una costante di ogni struttura gerarchica, la crisi dell’Arma supera i livelli di guardia a inizio del 2017. Alle indagini sulla fuga di notizie si aggiungono prima quelle sul capitano Gianpaolo Scafarto del Noe, accusato dai pm di Roma di aver falsificato le prove nell’informativa. Poi quelle al suo capo Alessandro Sessa, numero due del reparto, incolpato nientemeno per “depistaggio” per non aver detto la verità (questa l’ipotesi della procura) durante un’audizione con i magistrati. Infine il tentativo di ritrattazione dello scorso giugno di Luigi Ferrara, il manager Consip che aveva tirato in ballo Del Sette come colui che lo aveva messo sull’avviso in merito a un’indagine giudiziaria sull’imprenditore Alfredo Romeo e la stessa Consip: dopo un confuso interrogatorio, in cui probabilmente il manager ha cercato di proteggere proprio Del Sette, i pm hanno iscritto anche Ferrara nel registro degli indagati. Per falsa testimonianza.

La crisi strutturale del corpo “Nei Secoli Fedele” ha toccato nuove vette qualche giorno fa, quando i pm romani hanno scoperto che Scafarto mandava documenti riservati sull’inchiesta Consip a ufficiali ex Noe traslocati con “Ultimo” ai servizi segreti. L’ipotesi investigativa è che questi stessero ancora collaborando alle indagini su Consip portate avanti dagli ex colleghi. “Ultimo” e tutti i suoi uomini (De Caprio aveva portato con se due dozzine di fedelissimi, di cui la gran parte provenienti dal Noe) sono stati così allontanati dal nuovo incarico, e sono rientrati nell’Arma. Un allontanamento avvenuto senza accuse formali da parte della magistratura, e senza una richiesta esplicita di Manenti. È stato Marco Mancini, un alto funzionario del Dis (il dipartimento che coordina le agenzie d’intelligence) coinvolto in passato nel sequestro dell’imam Abu Omar a chiederne la testa. Dopo aver scoperto che Scafarto e gli investigatori del Noe, sempre nell’ambito dell’inchiesta Consip, lo avevano seguito e fotografato, mandando ai collaboratori di “Ultimo” all’Aise le risultanze dei loro appostamenti. L’incarico di Del Sette terminerà il prossimo gennaio. Ed è probabile che il suo successore verrà nominato non dal governo Gentiloni, ma da quello che entrerà in carica dopo le elezioni politiche, previste per la prossima primavera. In pole position ci sono il numero uno del comando interregionale Ogaden Giovanni Nistri (romano, tre lauree, giornalista pubblicista, ex comandante del comando per la Tutela del patrimonio e direttore del Grande Progetto Pompei, che ha ottimi rapporti con il Pd) e il generale Riccardo Amato, numero uno della divisione Pastrengo ed esperto di antimafia, che gode dell’appoggio del Quirinale. Subito dietro c’è Vincenzo Coppola (chiamato “il paracadutista”, una vita in prima linea nelle missioni di peacekeeping e da marzo promosso numero due dell’Arma), mentre il generale Ilio Ciceri e Riccardo Galletta, capo della Legione Sicilia, sembrano avere tutti i titoli necessari, ma meno chance. Il primo, considerato il miglior uomo macchina possibile, sconta il peccato di essere considerato un gallitelliano, mentre il secondo - all’inverso - un uomo di Del Sette. A chiunque toccherà, risollevare l’Arma non sarà impresa facile.

Il caso Saguto non finisce più. In ballo un'altra toga antimafia, scrive Riccardo Lo Verso il 20 febbraio 2017 su “Live Sicilia”. Il caso Saguto non è chiuso. Ci sono due informative che tirano in ballo un altro giudice che lavora a Caltanissetta. Con tutta probabilità il nuovo filone investigativo dovrebbe essere già approdato, per competenza, a Catania. Nelle intercettazioni dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sono finiti i dialoghi fra Giovanbattista Tona, Silvana Saguto e Carmelo Provenzano. Tona oggi è consigliere della Corte d'appello nissena, in passato da gip si è occupato anche delle stragi del '92, ed è uno dei magistrati più impegnati sul fronte antimafia. Saguto è l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo travolta dall'inchiesta nissena, il perno di un sistema che, secondo l'accusa, aveva trasformato la gestione dei beni confiscati alla mafia in un affare di famiglia. Provenzano è uno degli amministratori giudiziari che di quel sistema avrebbe fatto parte. Secondo i pm di Caltanissetta, Provenzano era stato scelto da Saguto per prendere il posto di Gaetano Cappellano Seminara, quando quest'ultimo iniziò ad essere troppo chiacchierato. Passaggi delicati di cui Tona sarebbe stato a conoscenza. L'ingresso di Provenzano nel sistema sarebbe coinciso con l'incarico nella gestione degli impianti di calcestruzzo degli imprenditori Virga di Marineo. Una procedura inizialmente assegnata a Giuseppe Rizzo che, secondo i pm, poteva contare su un big sponsor, il colonnello della Dia Rosolino Nasca. Saguto considerava Rizzo "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò". E gli venne affiancato Provenzano perché "è un docente e non può dire niente nessuno". Professore alla Kore di Enna, Provenzano è finito sotto inchiesta assieme alla Saguto. Si sarebbe speso, tra le altre cose, per agevolare la carriera universitaria, laurea inclusa, del figlio del giudice. Ad un certo punto, però, la coabitazione Rizzo-Provenzano divenne impossibile. Provenzano aveva un piano per sbarazzarsi del concorrente e ne parlò con Tona. L'esautorazione di Rizzo, per essere indolore, doveva apparire come la conseguenza della sua inefficienza. Dovevano “trovare un modo per dire che lui, la minchiata l'aveva fatta così grossa che lui scatti in piedi”. Bisognava fare emergere “tutto quello che ha fatto male. Il problema non è prendere incarichi, ma uscire con onore dagli incarichi”. Lo stesso Rizzo, sentito dal pm Cristina Lucchini, ha dichiarato di avere capito che tra Saguto e Provenzano c'era un rapporto confidenziale. Era Provenzano ad avere influenza sul giudice e non viceversa, tanto che Rizzo fu costretto a mandare a casa tutti i collaboratori che aveva scelto per fare spazio a quelli del professore. Ed è nel contesto di questo rapporto di forza sbilanciato a favore di Provenzano che si inserisce la figura di Tona e le due informative consegnate dai finanzieri ai pm di Caltanissetta alla fine del settembre sorso. Vi sono annotate le registrazioni dei dialoghi fra Provenzano e Tona di cui si fa cenno nell'avviso di conclusione delle indagini notificato nei giorni scorsi a Saguto e agli altri indagati. È ipotizzabile che sia avvenuta la trasmissione di questa parte dell'inchiesta a Catania, competente quando in ballo ci sono magistrati i servizio a Caltanissetta. Tona e Provenzano erano “amici”. Sarebbe stato il giudice a indicare al professore la strategia per scalzare la concorrenza di Rizzo. E il professore lo aggiornava passo dopo passo. Dalle conversazioni trasmesse a Catania sembrerebbe emergere che il magistrato nisseno era bene informato del modus operandi dei colleghi palermitani e anche dell'operato di Cappellano Seminara.

PER IL CULO SI PRENDONO LE SUPPOSTE, NON LE PERSONE.

La massoneria torna a fare paura: sono tremila gli affiliati non identificabili. Dopo il caso P2, le obbedienze avevano promesso trasparenza. Invece regna l’opacità assoluta come dimostrano gli elenchi visionati dalla Commissione parlamentare sulle logge calabresi e siciliane, scrive Gianfranco Turano l'8 febbraio 2018 su "L'Espresso". Secondo Agatha Christie, un indizio è un indizio. Due indizi sono una coincidenza. Tre indizi sono una prova. Nell’inchiesta della Commissione parlamentare antimafia sui rapporti fra massoneria e crimine organizzato gli indizi sono 2.993. Tanti sono gli affiliati alle logge calabresi e siciliane che non è stato possibile identificare. Per un caso da manuale di eterogenesi dei fini, il lavoro della Commissione ha trovato il suo risultato più clamoroso in un contesto giuridico diverso da quello di partenza che era la caccia ai mafiosi fra le colonne mistiche di Jachin e Boaz. I pregiudicati per 416 bis sono sei su 17.067 nominativi, una percentuale da beatificazione degli ordini massonici rispetto a qualunque categoria professionale calabro-sicula. E le cose non cambiano di molto se si considerano i 193 soggetti «aventi evidenze giudiziarie per fatti di mafia... concluse in grande parte con decreti di archiviazione» o le «25 posizioni per cui vi sono ancora processi pendenti». A tornare in ballo nella relazione finale della Commissione è lo spettro della legge Anselmi sulle associazioni segrete nata all’indomani dello scandalo P2, la loggia coperta guidata dal Venerabile Licio Gelli con 962 affiliati, un terzo degli ignoti trovati nelle liste sequestrate per ordine di Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, il primo marzo del 2017. Per trentasei anni i dirigenti delle varie obbedienze hanno giurato di avere stroncato il fenomeno delle affiliazioni cosiddette all’orecchio o sulla spada cioè la pratica di occultare agli stessi fratelli, con l’eccezione del gran maestro, l’identità di iscritti che dovevano rimanere sotto il cappuccio. Lo hanno ribadito anche durante le audizioni davanti alla Commissione e Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi) lo ha anche detto sotto la forma dell’interrogatorio (18 gennaio 2017) ossia in una delle fasi in cui l’Antimafia è investita dei suoi poteri giudiziari in base all’articolo della legge che la istituisce. Gli scontri polemici di Bisi con la presidente Bindi, senese come il gran maestro del Goi, sono stati i più accesi di tutte le audizioni. Esiste anche la possibilità che il suo caso venga segnalato alla procura e che Bisi (appena assolto a Siena nel processo Timeout, legato a Montepaschi) sia l’unico leader massonico a finire indagato per falsa testimonianza in relazione alla segretezza degli iscritti e alle vicende della loggia Rocco Verduci nella Locride, sospesa nel 2013 dopo l’inchiesta “Saggezza” per disposizione del predecessore di Bisi, Gustavo Raffi, e poi cancellata. Quel che si può dire fin da adesso è che nelle due regioni a maggior rischio di infiltrazione della criminalità organizzata la trasparenza è un sogno. I consulenti della Commissione, lo Scico della Guardia di finanza e i magistrati Marzia Sabella e Kate Tassone, hanno suggerito che non si può «escludere in maniera aprioristica fenomeni di mera superficialità nella tenuta degli elenchi». Ma la trascuratezza qui è sistema. Ottanta nomi sono inseriti con semplici iniziali, in parte riferibili a soggetti cancellati. Altri 1.883 presentano generalità incomplete e 1.030 sono «anagraficamente inesistenti» perché non possono essere associati a un codice fiscale che riveli la certezza dell’identità.

“Irriconoscibili” ovunque. In grandissima parte, quindi, si tratta di fratelli attivi che, presumibilmente, partecipano alle attività sociali e che pagano la quota annuale e i contributi in mancanza dei quali si è passibili di sospensione e poi di espulsione. Esoterica quanto si vuole, con i soldi la massoneria non scherza e intere logge sono state abbattute perché non versavano il dovuto. Eppure proprio la più mistica delle obbedienze, la Gran loggia regolare d’Italia (Glri) del gran maestro Fabio Venzi, successore di Giuliano Di Bernardo, presenta il numero più alto di iscritti non identificabili. Sono 1.515 nelle 25 logge calabresi e nelle 44 logge siciliane su un totale di 1959 affiliati. La proporzione di fratelli non riconoscibili è del 77,3 per cento.

La più grande obbedienza italiana, il Grande Oriente d’Italia (Goi) ha 1185 nomi non identificabili, la Gran loggia degli Alam ne ha 258 e 35 la piccola Serenissima guidata da Massimo Criscuoli Tortora (appena 197 affiliati in tutta Italia di cui 60 nella sola Calabria). Il confronto con la precedente inchiesta sulla massoneria italiana, di stampo giudiziario perché condotta dalla Procura della Repubblica di Palmi e dal suo capo di allora Agostino Cordova nel 1993-1994, lascia scarso spazio all’ottimismo sulla voglia di trasparenza delle logge. Sui 5.743 nominativi di massoni calabresi e siciliani analizzati da Cordova un quarto non era identificabile. Oggi è il 17,5 per cento. Oltre vent’anni dopo il miglioramento è trascurabile. Non solo, ma l’Antimafia segnala un passaggio inquietante. «Premesso che gli elenchi agli atti della Procura di Palmi nel 1993-1994 riguardavano un novero di obbedienze in parte diverso e più ampio rispetto a quelli oggetto di esame da parte di questa Commissione, va rilevato che vi è una parziale discordanza tra di essi nella misura in cui non sono stati rinvenuti negli elenchi acquisiti nel 2017, come noto riferiti a un arco di tempo che va dal 1990 a oggi, taluni nominativi di soggetti all’epoca censiti e poi coinvolti in fatti di mafia». È il caso dell’Asl di Locri commissariata per infiltrazioni della “masso-’ndrangheta” e già al centro dell’omicidio mafioso di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale, nell’ottobre del 2005. «Alcune delle modalità di tenuta dei registri sequestrati alle quattro obbedienza massoniche», dice il membro dell’antimafia Davide Mattiello (Pd), «fanno pensare a pratiche di segretezza che nulla hanno a che fare con la riservatezza. Una sostanziale pratica di segretezza e di irriducibilità all’ordinamento repubblicano delle obbedienza massoniche desumibile anche da altre caratteristiche raccontate dai gran maestri auditi in Commissione. Non poter parlare di quel che si fa, non poter conoscere quel che si farà nei livelli successivi del percorso iniziatico, né chi ci sia, non poter denunciare alla giustizia profana un fratello colpevole, riservarsi un autonomo giudizio massonico non riconoscendo validità alle sentenze della giustizia profana».

Tra esoterismo e fascismo. Fatte le proporzioni, il dato più clamoroso riguarda l’obbedienza di Venzi (Glri) che raccoglie il 63 per cento dei suoi 2400 affiliati nelle due regioni a massimo rischio. Non è soltanto una questione numerica. La Glri è l’unica loggia italiana a potersi fregiare del riconoscimento internazionale più ambito, quello della Gran Loggia Unita d’Inghilterra (Ugle), vera casa madre della libera muratoria per filiazione diretta dalle Costituzioni di Anderson del 1717. A cavallo dello scandalo P2, che lo storico della massoneria Aldo Alessandro Mola ha definito una loggia “speciale” del Goi, era proprio il Grande Oriente d’Italia a godere del riconoscimento. Con l’uscita polemica e la scissione dell’ex gran maestro Di Bernardo nel 1993, in piena tempesta Cordova, la Ugle ha concesso il riconoscimento alla Regolare di Di Bernardo. Il suo erede Venzi, sociologo esperto di esoterismo, di Julius Evola e di rapporti tra massoneria e regime fascista che regna incontrastato sull’obbedienza dal 2001. Romano di origini calabresi, Venzi è il più restio ai rapporti con la stampa. In audizione ha messo in evidenza una volontà di massima di consegnare gli elenchi sua sponte senza poi metterla in pratica, in modo simile ad Antonio Binni, gran maestro degli Alam, e a differenza di Bisi che si è opposto fin dall’inizio. Per rafforzare la sua posizione di trasparenza, Venzi ha dichiarato di presentare due volte all’anno gli elenchi al ministero dell’Interno e in particolare alla Digos per controlli. A prendere per vere queste parole, si dovrebbe concludere che i controlli sono stati negligenti: oltre tre quarti degli iscritti alla Regolare non sono identificabili. Venzi in audizione ha spostato il problema sulle associazioni paramassoniche. «Bisogna verificare», ha detto il gran maestro, «gli ambienti di Rotary, Lions e Kiwanis, dove massoni regolari e irregolari si incontrano. La ’ndrangheta sceglie le obbedienze spurie piuttosto che sopportare le nostre riunioni a carattere filosofico-culturale».

In nome di San Giovanni. La tempesta che investe la massoneria sta portando alla luce un fenomeno che l’Antimafia non ha avuto il tempo e la possibilità di verificare. La disgregazione di alcune obbedienze come la Gran Loggia degli Alam, che avrebbe perso tremila affiliati sugli oltre ottomila che Binni aveva dichiarato solo un anno fa alla presidente Bindi, sta facendo proliferare nuove obbedienze e le cosiddette “logge di San Giovanni”. Due fuoriusciti dagli Alam, l’ex gran maestro Luigi Pruneti e il numero tre dell’obbedienza Sergio Ciannella, si sono messi in proprio ognuno con una loro organizzazione all’inizio e alla fine del 2017. «Noi aspettiamo che si risolva il contenzioso legale con Binni», dice Ciannella. «Se vinceremo ci riprenderemo palazzo Vitelleschi, se no, resteremo dove siamo e cercheremo di lanciare un discorso giuridico sull’articolo 18 della costituzione per stabilire i requisiti fondamentali su che cosa è la libera muratoria in collaborazione con la Serenissima, il Sovrano ordine massonico italiano e la Federazione del Diritto Umano. Oggi chiunque può dirsi massoneria e certamente esiste una proliferazione incontrollata di logge di San Giovanni. In parte, si spiega con la tendenza a sfuggire alla tirannia del gran maestro, che è un dato tipicamente italiano, mentre la massoneria nasce come loggia, non come obbedienza. In Svizzera il gran maestro è un semplice coordinatore, non un monarca. In parte, però, c’è la tendenza a coprire certe deviazioni malavitose che vogliamo e dobbiamo combattere insieme a quelle che un tempo si chiamavano logge coperte». Bastano sette fratelli, magari espulsi da un’altra obbedienza, a organizzare un nuovo tempio. È a questo fenomeno che ha fatto riferimento il numero uno degli Alam Binni quando in Commissione ha dichiarato che soltanto ad Arezzo esistevano 92 raggruppamenti massonici autonomi.

Obiettivo lobby. In Italia il fenomeno delle logge di San Giovanni è così diffuso che è nata anche una federazione di queste monadi massoniche, con tanto di sito web e pagina Facebook. Da anni il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, sta affrontando il fenomeno. Una delle sue fonti principali è il collaboratore di giustizia Cosimo “Mino” Virgiglio che si è dilungato sull’attività della sua Loggia dei garibaldini, fra comitati d’affari, riti iniziatici da reality-show e ’ndrine di Gioia Tauro. «Noi non riconosciamo», si difende Stefano Bisi, «associazioni come quella dei garibaldini ed è motivo di provvedimento disciplinare frequentarsi in riti misti, anche se fra obbedienze regolari. La massoneria irregolare noi l’abbiamo sempre combattuta». Ma il fenomeno non è mai stato debellato. Come ha dichiarato Virgiglio, l’obbligo di assistenza fra massoni va oltre l’appartenenza alle obbedienze e, secondo quanto racconta all’Espresso un fratello di provenienza Alam, sta tornando di attualità una riedizione perversa delle vecchie camere tecnico-professionali della massoneria pre-gelliana, quando i fratelli si riunivano per categorie di appartenenza (medici, giornalisti, avvocati) allo scopo di presentare proposte agli iniziati che sedevano in parlamento. Questo lobbying discreto in Calabria e in Sicilia ha visto partecipare migliaia di iscritti dei quali non si conosce l’identità. Se si pensa che mafia e ’ndrangheta hanno da tempo esteso la loro attività imprenditoriale ben più a nord del Pollino e che la Commissione non ha potuto approfondire le sue ricerche nelle altre diciotto regioni, c’è da sperare che la prossima legislatura continui il lavoro iniziato, anche se Bindi non si ricandiderà.

Mafia e ’ndrangheta unite dalle stragi: «Così lo Stato scenderà a patti». L’uccisione nel ‘94 di due carabinieri collegata agli attentati decisi da Cosa nostra. La procura di Reggio Calabria: «Gli attentati del 1993-1994 non vanno letti in maniera isolata», scrivono Giovanni Bianconi e Carlo Macrì il 27 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". A Gaspare Spatuzza, soldato fedele che aveva già partecipato alla strage di Firenze del 1993 e si preparava a far saltare in aria un camion di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma (progetto poi fallito), il capomafia Giuseppe Graviano l’aveva detto chiaro: «In Calabria si sono già mossi». A colpi di mitraglietta: la stessa M12 che aveva ucciso due militari dell’Arma - Antonino Fava e Giuseppe Garofalo - e ferito altri quattro in tre diversi agguati fra il 18 gennaio e il 1° febbraio 1994. A sparare andarono due giovani ‘ndranghetisti, uno all’epoca minorenne, che subito dopo l’arresto dissero che trasportavano armi e non volevano essere fermati e controllati; un depistaggio per coprire il disegno che la Procura di Reggio Calabria, nove anni dopo la traccia delle prime dichiarazioni del pentito Spatuzza, ritiene di avere svelato: un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, con l’avallo di massoneria e spezzoni di servizi segreti deviati, per aggredire le istituzioni e costringere lo Stato a norme meno severe contro il crimine organizzato.

La presunta trattativa con le istituzioni, insomma, si estende anche alle cosche calabresi, e ieri è arrivato un nuovo ordine d’arresto per il boss stragista Giuseppe Graviano e per il capo ’ndrangheta Rocco Filippone, oggi settantasettenne, che secondo l’accusa all’epoca dei fatti fece da tramite tra i capi dei clan e delle ‘ndrine nelle riunioni riservate in cui si decise il ricatto allo Stato. Un’indagine avviata su impulso della Procura nazionale antimafia al tempo della gestione di Pietro Grasso, basata sulle dichiarazioni di decine di pentiti delle due organizzazioni e sulle indagini della polizia, Servizio centrale operativo e Servizio centrale antiterrorismo; ai mandanti degli omicidi e dei ferimenti dei carabinieri viene contestata anche «la finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico».

Il disegno stragista che doveva condurre alla trattativa fu infatti figlio — secondo questa ricostruzione — dei mutamenti politici che caratterizzarono il biennio 1992-1994, ma in un certo senso cercò anche di orientarli. Perché dopo la fine dei partiti tradizionali, sia la mafia che la ‘ndrangheta si misero alla ricerca di nuovi referenti, e i boss dell’isola avevano in testa la creazione di un gruppo chiamato Sicilia Libera. I pm calabresi (il procuratore Federico Cafiero De Raho, l’aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto Di Bernardo) hanno acquisito e aggiornato l’inchiesta sui cosiddetti «Sistemi criminali» archiviata dai colleghi palermitani, che avevano scritto: «I vertici di Cosa nostra cambiarono cavallo abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che in effetti poi avrebbe vinto le elezioni) sicché a questo nuovo movimento, Forza Italia, andò il loro appoggio». All’esito della nuova indagine il pm Lombardo precisa che la strategia stragista «si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la `ndrangheta e altre organizzazioni criminali trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi».

A confermare questa impostazione sono arrivate le ultime registrazioni dei colloqui in carcere di Giuseppe Graviano, in cui il boss si lascia andare (consapevole o meno di essere intercettato) a espressioni di risentimento nei confronti di Silvio Berlusconi, «al quale rimprovera di non aver rispettato sostanzialmente i patti», sottolinea il giudice nel provvedimento di arresto. Che si sofferma anche sulla «straordinaria anomalia, davvero macroscopica» sull’allentamento del «carcere duro» introdotto dopo le stragi palermitane del 1992 con l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Se nel ‘92 ci fu una sola revoca e una sola mancata proroga, che nel ‘95 diventarono 2 e 2, nel 1993 si ebbero 122 revoche e 358 mancate proroghe, mentre nei primi mesi del ‘94 ci furono 9 mancate proroghe. Numeri che per il giudice segnano una coincidenza «non casuale» tra le stragi del ‘93 e gli omicidi dei carabinieri di inizio ‘94 con quei provvedimenti, «sintomatici del fatto che lo Stato aveva recepito le rimostranze degli stragisti, che avevano così perseguito con successo il loro obiettivo».

Essenziale, perché il messaggio lanciato da mafia e ‘ndrangheta alle istituzioni andasse a buon fine, era che la vera matrice delle bombe e delle sparatorie restasse coperta. Ecco allora le firme della fantomatica sigla Falange armata, utilizzata anche da appartenenti al servizio segreto militare rimasto spiazzato dallo svelamento della struttura clandestina di Gladio, che pure erano alla ricerca di nuovi referenti politici. Le indagini dell’Antiterrorismo hanno portato alla luce tre rivendicazioni calabresi per gli attacchi all’Arma, mentre il pentito Tullio Cannella ha ricordato che dopo le bombe del luglio ’93 a Roma e Milano il boss corleonese Leoluca Bagarella «era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, e disse con soddisfazione e ironia: “Vedi che ora queste cose le appioppano alla Falange armata”, poi disse ancora con tono compiaciuto: “Vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!».

Mafie, massoneria e servizi segreti deviati: la congiura per rovesciare lo Stato. Le stragi calabresi e siciliane con il marchio della Falange Armata. Dal 1990 nacque la "Cosa sola". 'Ndrangheta, Cosa nostra e le altre mafie decidono di fare la guerra allo Stato, scrive Guido Ruotolo il 26 luglio 2017 su "Tiscali Notizie". Quando il maresciallo della stazione dei carabinieri di Polistena aprì la busta, quella fredda mattina del 4 febbraio del 1994, rimase di stucco. Imprecò ma non capì. Lesse anche la firma «Falange Armata» e rimase disorientato. «Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi - era scritto con il normografo, con un carattere tremante su quel foglio di carta stropicciato - uccisi sull'autostrada. È un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine…cornuti e bastardi e figli di puttana». Non capirono i carabinieri, e neppure gli inquirenti quella rivendicazione. E neppure quelle tre telefonate tutte dello stesso tenore: «Questo non è che l'inizio di una strategia del terrore».

Era il 18 gennaio del 1994 quando sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, furono uccisi i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo. E prima, nella notte tra l'1 e il 2 dicembre del 1993, e dopo, il 1 febbraio del 1994, altri quattro carabinieri rimasero feriti. Tutti colpiti da una stessa mitraglietta M12. Uno dei due esecutori materiali degli attacchi ai carabinieri spiegò che quegli omicidi o tentati omicidi furono fatti per impedire che quelle pattuglie intercettassero tre distinti carichi di armi. Anche per la mancata strage di via Fauro a Roma, l'autobomba che doveva uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, il 14 maggio del 1993, e poi per le stragi di Firenze, Roma e Milano, arrivarono rivendicazioni telefoniche della Falange Armata. Mai la Ndrangheta e Cosa nostra avevano rivendicato un omicidio, una strage. E ora, leggendo le 976 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Reggio Calabria, contro il boss di Brancaccio, Palermo, Giuseppe Graviano, della cupola di Cosa nostra, e Rocco Santo Filippone, esponente di spicco della Ndrangheta dei Piromalli, quali mandanti dei tre attentati contro i carabinieri, si scopre che furono proprio Cosa nostra e la Ndrangheta a rivendicare le stragi e gli attentati firmandosi Falange Armata.

L'ipotesi (che sarà approfondita da nuove indagini) della Procura reggina, del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha coordinato le indagini della squadra mobile e dell'Antiterrorismo, è che furono uomini dell'ex Sismi, in particolare esponenti «del VII Reparto cosiddetto “OSSI” che, fino a pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) si occupava di Stay Behind, (Gladio, l'organizzazione paramilitare che doveva fronteggiare una eventuale invasione comunista, ndr) che, evidentemente, volevano destabilizzare il Paese creando un nuovo allarme terroristico. Costoro, che per anni avevano operato agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla “Falange Armata”. Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatta propria anche da Cosa nostra, nel corso della riunione di Enna (1991)».

Le indagini reggine aprono squarci e scenari mai coltivati prima, né a Reggio Calabria né a Palermo, Firenze e Caltanissetta, dove le procure hanno indagato sulle stragi di Palermo e del Continente e sulla trattativa Stato-Mafia. E questi scenari in sostanza ipotizzano che le varie mafie, anche la camorra e la Sacra corona unita, oltre che la Ndrangheta e Cosa nostra abbiano deliberato una strategia comune di attacco eversivo e terroristico contro lo Stato.

Per non essere equivocati, il gip ricorda che «la matrice stragista (il riferimento è ai tre attacchi alle tre pattuglie di carabinieri, ndr) frutto di un accordo tra Cosa nostra e la Ndrangheta, ha l'obiettivo di rompere con la vecchia classe politica e colpire le istituzioni e la società civile, nell'ottica di ottenere benefici a proprio favore in specie in relazione all'applicazione del 41 bis». Forse è giunto il momento di mettere in archivio vecchie «certezze». Intanto, dobbiamo retrodatare, e di molto, all'agosto del 1990, la riunione in cui la Ndrangheta che parla con Cosa nostra (un summit tra Ndrangheta e Cosa nostra si era già svolto a Milano) comunica al suo “popolo” che la strategia comune in via di definizione prevede una offensiva mia vista prima contro lo Stato.

Antonino Fiume, l'autista del boss (“capo crimine”) reggino, Giuseppe De Stefano, mette a verbale che nell'estate del 1990 al Villaggio Blu Paradise, in provincia di Vibo Valentia, già si parlava di adesione alla strategia stragista di Cosa nostra. E una conferma l'abbiamo con la decisione di rivendicare gli attentati con la firma di Falange Armata. «Sul finire del 1990 la Ndrangheta utilizza la rivendicazione falangista in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile (Lodi, 11 aprile 1990), compiuto dal gruppo di fuoco lombardo dei Papalia perché l'educatore aveva scoperto i rapporti che lo stesso Papalia aveva intessuto con gli apparati di sicurezza». In conferenza stampa, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha ricordato che i pentiti attribuiscono a Antonio Papalia la decisione di rivendicare l'omicidio Mormile con la sigla Falange Armata: «L'indicazione di utilizzare la sigla in questione - sostiene il gip - veniva dai servizi di sicurezza, Il Papalia, infatti, era persona scarsamente scolarizzata e del tutto priva di strumenti culturali, pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo».

Quella presentata ieri in conferenza stampa dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, dal procuratore di Reggio Federico Cafiero De Raho e dagli investigatori della questura di Reggio guidata da Raffaele Grassi, è solo un frammento di una inchiesta che deve ancora esplorare nuovi territori. A partire dall'omicidio del sostituto procuratore generale presso la Cassazione, Antonino Scopelliti, che doveva sostenere l'accusa contro i capi mafia condannati all'ergastolo nel maxi processo a Cosa nostra. Le carte reggine lasciano intravedere anche scenari politici che maturano alla fine delle stragi del 93, cioè dell'inizio del '94 con il fallito attentato e contro i carabinieri. Ci sono pentiti che raccontano che ben prima della stagione delle leghe meridionali di Cosa nostra (Sicilia libera che si presentano alle elezioni provinciali di Palermo e Catania nell'autunno del 1993), c'era stata quella della Ndrangheta con Calabria libera. E i magistrati reggini vogliono capire perché la famosa riunione tra i movimenti indipendentisti e leghista meridionali a cui aderiscono Livio Gelli e lo stesso Vito Ciancimino si svolge a Lamezia Terme. E perché Totò Rina sceglie l'aula del Tribunale di Reggio Calabria per pronunciare il proclama contro i «tragediatori», i Lentini, Caselli, Violante. Insomma, l'inchiesta di Reggio sembra un trattore diesel. Cammina piano ma vuole arrivare molto lontano.

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni: "Strategia comune di 'ndrangheta e Cosa nostra per le stragi mafiose". Blitz condotto dalla Direzione distrettuale antimafia. In manette due elementi di vertice: sono tra i mandanti degli attacchi contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994. Le tre riunioni "preparatorie" e il racconto di Spatuzza su un fallito attentato a Roma, scrivono Fabio Tonacci ed Alessia Candita il 26 luglio 2017 su "La Repubblica". Se la procura di Reggio Calabria ha visto giusto, un pezzo di storia d'Italia va riscritto. Un pezzo delicatissimo e cruciale, a cavallo tra il 1993 e il 1994, quando l'assetto dei partiti fu rivoluzionato dalla discesa in campo di Forza Italia e nacque la Seconda Repubblica. Secondo i magistrati, infatti, non furono solo i Corleonesi a compiere le "stragi continentali", con le bombe in via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma: alla strategia terroristica di destabilizzazione dello Stato partecipò, su richiesta di Cosa Nostra, anche la 'ndrangheta, con tre attentati in Calabria che lasciarono a terra i due carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo (18 gennaio 1994) e ne ferirono gravemente altri due. L'inchiesta si chiama, non a caso, "'ndrangheta stragista". E' il frutto di un lavoro durato più di quattro anni, a cui si sono dedicati principalmente il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto procuratore della Dna Francesco Curcio, e i poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria. Sono stati riascoltati decine di pentiti e collaboratori di giustizia, tra cui Antonino Lo Giudice e Giovanni Brusca. Decisive per rileggere i fatti di quel biennio sono state le dichiarazioni rese in altri processi da Gaspare Spatuzza, protagonista degli anni di sangue. Questa mattina è stato arrestato nella sua casa di Melicucco Rocco Santo Filippone, 77 anni, a capo del mandamento tirrenico della 'ndrangheta ai tempi delle stragi e tuttora "vertice della cosca Filippone, collegata alla più potente famiglia dei Piromalli di Gioia Tauro, al quale è demandato il compito di curare le relazioni con gli altri capi clan". Sono in corso una ventina di perquisizioni in tutta la regione. Un mandato di arresto è stato notificato in carcere anche a Giuseppe Graviano, il capo del mandamento palermitano di Brancaccio detenuto a Terni e "coordinatore" delle stragi continentali. L'alleanza 'ndrangheta-Cosa Nostra per mettere in ginocchio lo Stato e sostituire la vecchia classe politica "divenuta inaffidabile" si consolidò attraverso loro due.

Fu il boss dei boss Totò Riina, secondo gli inquirenti, a decidere di chiedere alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia del terrore. Dopo il suo arresto nel gennaio 1993, seguito alle stragi di Capaci e Via D'Amelio, si tennero nell'autunno di quell'anno almeno tre importanti riunioni in Calabria tra mafiosi e 'ndranghetisti: una in un villaggio turistico in provincia di Vibo Valentia, cui parteciparono tutti i capi delle cosche; una a Melicucco (alla presenza forse dello stesso Giuseppe Graviano); l'ultima a Oppido Mamertina. Territorio dei clan Mancuso, dei Pesce, dei Mammoliti ma soprattutto dei Piromalli, quelli che più avevano stretto i rapporti con i Corleonesi. I calabresi decisero di aderire al piano dei siciliani. E per questo organizzarono tre attentati contro i carabinieri, cioè contro quell'istituzione dello Stato che aveva materialmente arrestato Totò Riina. Il primo, nella notte tra il 1 e il 2 dicembre 1993, quando il commando composto da Giuseppe Calabrò, Consolato Villani (entrambi già condannati) e Mimmo Lo Giudice (deceduto), tentarono di uccidere due carabinieri a Saracinello con un mitra M12, senza riuscirsi e senza neanche ferirli; il secondo, il 18 gennaio 1994, quando con la stessa arma furono ammazzati sulla Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, gli appuntati Fava e Garofalo; il terzo, l'agguato ai due carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, che non morirono ma rimasero gravemente feriti.

E' in questo contesto che si inseriscono le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, affiliato della famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano. Ai magistrati ha raccontato di un suo incontro con Giuseppe Graviano al cafè Doney di via Veneto, a Roma, durante il quale il boss gli fece capire che dovevano riprendere l'iniziativa, con qualcosa di sconvolgente. "Abbiamo il Paese in mano, si deve fare per dare il colpo di grazia", mette a verbale Spatuzza. "Graviano mi dice che dovevamo fare la nostra parte perché i calabresi si sono mossi uccidendo due carabinieri e anche noi dovevamo dare il nostro contributo. Il nostro compito era abbattere i carabinieri e quello era il luogo dove potevano essercene molti, almeno 100-150". Quel luogo era lo Stadio Olimpico di Roma. Il giorno fissato, secondo Spatuzza, era "il 22 gennaio 1994". Un sabato. La macchina, una Lancia Thema riempita con 120 kg di tritolo, 30 kg in più rispetto a quello usato in via D'Amelio. Ma il telecomando non funzionò. Nonostante lo stesso Spatuzza premette più volte il pulsante, l'auto (che era posizionata in viale dei Gladiatori, vicino alle camionette dei carabinieri) non esplose.

Nell'indagine "ndrangheta stragista", cui hanno partecipato anche il procuratore capo Federico Cafiero de Raho, il pm Antonio De Bernardo, i poliziotti del Servizio centrale operativo, dell'Antiterrorismo della polizia di Prevenzione, sono diversi "i fili" che vengono tirati dagli inquirenti. Nelle mille pagine dell'ordinanza cautelare, infatti, si ricostruisce l'intera strategia di destabilizzazione dello Stato, a cui erano interessati in quei primi anni Novanta non solo 'ndrangheta e Cosa nostra: vengono approfonditi i legami delle cosche con la massoneria, gli apparati deviati dei servizi segreti (possibili ispiratori della strategia stragista) e l'appoggio che le mafie offrirono alle leghe meridionali. Emergono anche gli interessi della galassia dell'eversione nera e l'influenza che tutto ciò ebbe sul nascente assetto politico dei partiti. "Sullo sfondo delle stragi - scrivono i magistrati - appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2 ancora in cerca di rivincite".

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni contro la guida comune di 'ndrangheta e mafia. L'inchiesta di Dda, Ros e Sco, anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco ai carabinieri fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Tra gli arrestati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'inchiesta anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco all'Arma a cavallo fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, in una fase delicatissima della storia della Repubblica italiana: il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. In territorio reggino le aggressioni ai carabinieri furono tre, dal dicembre 1993 al febbraio del 1994, con un bilancio di due morti (Fava e Garofalo) e due feriti gravi (Musicò e Serra). Il passaggio successivo avrebbe dovuto essere ancora più devastante con la strage dello stadio Olimpico a Roma, fallita per un malfunzionamento del telecomando. Fra le tre richieste di arresto il nome più famoso è quello di Giuseppe Graviano, palermitano di 53 anni. Il mafioso di Brancaccio, insieme al fratello maggiore Filippo e all'affiliato Gaspare Spatuzza, sono da anni al centro delle inchieste che cercano di fare luce sulla stagione delle stragi. Della sua statura criminale non è lecito dubitare. Gli indagati calabresi (Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio), invece, sono meno conosciuti, nonostante la lunga anzianità di servizio. Rocco Santo Filippone, 77 anni, è nato ad Anoia, un paesino di 2 mila persone nell'entroterra di Rosarno confinante con Melicucco dove Filippone è stato arrestato. È la culla della 'ndrangheta, la piana di Gioia Tauro, dove le affinità strutturali fra crimine calabrese e mafia siciliana dei feudi sono assolute. Il volto contadino di questa 'ndrangheta non deve ingannare. I clan della Piana sono in prima linea quando si tratta di rapporti con la politica e di esportazione dell'impresa mafiosa verso il nord. Negli anni Settanta, il trentenne Filippone si fa strada nelle gerarchie partendo dalla guardiania di un terreno del Bosco in contrada Acquabianca. Il Bosco è la grande zona verde di ulivi e agrumeti fra Rosarno e Gioia Tauro dove il governo Colombo, a seguito dei Moti di Reggio del 1970-1971, ha deciso di impiantare il quinto centro siderurgico. Filippone si trova coinvolto come mediatore nella principale saga criminale di quel periodo. È la faida di Cittanova fra il clan Facchineri, già sbarcato nella capitale dove ha stretto rapporti con il cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, e il gruppo rivale Gullace-Raso-Albanese. La furia dello scontro è però inarrestabile. Ci saranno oltre 30 morti. Nel frattempo, le vicende politiche si evolvono. Il centro siderurgico viene abbandonato per la crisi dell'acciaio e sostituito con il progetto del porto di Gioia Tauro sul quale presiedono gli uomini della famiglia Piromalli, la cosca più potente della zona, se non la più potente in assoluto. Con il beneplacito dei re della Piana Filippone organizza il suo gruppo che controlla l'area di Cinquefrondi con i Bianchino e i Petullà e si federa con i Bellocco di Rosarno. È una cosca satellite, non di primo piano, una delle tante che reggono quel territorio con una dittatura feroce e che, come dimostrano gli arresti di un mese fa ordinati dalla Procura di Roma, sbarca il lunario con il traffico di droga. Il dinamismo di Filippone si esercita anche attraverso i nipoti, figli della sorella che vivono a Reggio. Sono Giuseppe e Francesco Calabrò. Il primo diventa un pistolero: è lui che aprirà il fuoco sui carabinieri Fava e Garofalo. Il secondo si dà all'edilizia insieme al primo cugino, Giovanni detto il marchese, e finirà sepolto con la sua macchina in fondo al porto di Reggio. Di Filippone non si avranno tracce fino al 2011 quando l'operazione Artù della Dda di Reggio, guidata al tempo da Giuseppe Pignatone, manda in carcere un gruppo di 'ndranghetisti che avevano tentato di cambiare un certificato di deposito falso da 870 milioni di dollari al Credito Svizzero. Filippone viene arrestato e poi rilasciato. Il processo è trasferito a Bologna per competenza territoriale, visto che il consorzio finanziario-criminale aveva centro in Emilia. Alla fine del 2016 ci sono stati i rinvii a giudizio, con Filippone a piede libero. Nella riunione plenaria delle 'ndrine all'hotel Sayonara, quando i mafiosi calabresi decisero di ritirarsi dalla strategia stragista, Filippone avrebbe svolto un ruolo di tipo logistico ricevendo i siciliani sbarcati in Calabria per discutere con i colleghi della 'ndrangheta l'attacco allo Stato. La parte qualificante dell'inchiesta sta però nei contatti con il mondo dell'eversione unificata fra massoneria segreta (loggia P2), servizi di informazione e quell'eversione nera che, dagli ordinovisti fino alla Falange Armata, prese la laurea proprio con i Moti di Reggio del 1970 e divenne, a braccetto con la 'ndrangheta, un interlocutore di spessore per chi desiderava pregiudicare il processo democratico nella fase della strategia della tensione. È questa la cosiddetta componente riservata della 'ndrangheta dove i confini fra criminali e uomini dello Stato sono troppo spesso spariti. L'operazione della Dda di Reggio, da questo punto di vista, è ancora incompleta, come gli stessi magistrati lasciano trapelare. Per mettere le mani sui traditori, gli uomini dell'intelligence che hanno aiutato i criminali a insanguinare l'Italia, si rimanda a una fase successiva dell'indagine.

Strategia comune 'ndrangheta e mafia, l'atto di accusa dei giudici. Dopo il blitz dell'Antimafia che ha portato agli arresti degli organizzatori degli omicidi dei carabinieri del '94, ecco la ricostruzione degli investigatori, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'ordinanza di custodia cautelare che accusa Giuseppe Graviano, Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio, di 45 anni, inizia la sua ricostruzione dalla pagina oscura dei tre assalti ai carabinieri nella zona di Reggio fra dicembre 1993 e febbraio 1994. Questa vicenda è stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale firmato dall'allora aggiunto Gianfranco Donadio. Le dichiarazioni del killer dei carabinieri, Giuseppe Calabrò, incaricato dallo zio Rocco Filippone, rappresentano una sostituzione del movente tipica dei depistaggi. Calabrò disse che Fava e Garofalo erano stati uccisi perché seguivano l'automobile carica di armi di Calabrò, guidata da Consolato Villani, imparentato con la famiglia Lo Giudice, al tempo minorenne e oggi pentito. In realtà, le tre aggressioni condotte in quaranta giorni segnalano il coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista di Cosa Nostra che aveva colpito a Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e Velabro), di Firenze (via dei Georgofili) e di Milano (via Palestro).

I Graviano di Brancaccio erano già legati per affari di droga alle 'ndrine della Tirrenica e chiesero ai calabresi di partecipare alle stragi volute da Totò Riina in modo da “garantire e realizzare i desiderata di Cosa Nostra” nel contesto del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica con le elezioni fissate il 28 marzo 1994 e la discesa in campo di Silvio Berlusconi che in Calabria farà eleggere Amedeo Matacena junior, primula rossa della latitanza a Dubai dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Bisognava sostituire, dicono i magistrati: “una vecchia ed ormai inaffidabile classe politica con una nuova, diretta emanazione delle mafie”. E aggiungono: “i tre delitti, nella la loro apparente incomprensibilità, come si vedrà, avevano dei tratti e delle tracce comuni, presentavano delle simmetrie tali, da indurre a ritenere, ragionevolmente, che i loro autori non agissero a caso o per sanguinaria imperizia, ma, piuttosto, seguissero un copione ben studiato, un preciso cliché, che, per la verità, avrebbe potuto consentire, già all'epoca dei fatti, a chi indagava su quelle vicende, di poterle ricondurre ad un medesimo disegno criminale di stampo mafioso/ terroristico”. E più oltre: “Sia l'opinione pubblica, sia la classe dirigente del paese, sia gli appartenenti all'Arma, dovevano intendere che il solo fatto di indossare una divisa rappresentava un rischio che trasformava il militare in un bersaglio. Ed è qui, proprio qui, attraversando questa linea di confine, che si passa dalla logica criminale a quella terroristica. E venendo ad un episodio più risalente nel tempo, in questa logica terroristica, come sarà poi analizzato, a dimostrazione dell'ampiezza del disegno criminale di cui ci si occupa, si poneva, anche, l'omicidio dell'Ispettore di PS Giovanni Lizzio in servizio presso la Questura di Catania. Tale delitto avvenne il 27.7.1992 a Catania per mano di sicari della famiglia Santapaola che così, all'epoca, intesero aderire alla richiesta dei Corleonesi di attacco frontale allo Stato”.

“L'elaborazione di tale disegno eversivo (servente rispetto a quello "politico") manifestò i suoi primi segnali di esistenza ben prima dell'inizio della cd stagione stragista in un periodo che può essere ricompreso fra due eventi determinanti nella presente ricostruzione, e cioè fra la prima rivendicazione ( avvenuta nell'autunno del 90) a nome delle sedicente organizzazione eversiva "Falange Armata", avvenuta in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile, delitto consumato vicino Milano, nell'Aprile del 1990, per mano di sicari della potentissima cosca calabro-lombarda dei Papalia che su richiesta di non identificati esponenti dei servizi di sicurezza utilizzò quella sigla per rivendicare il delitto, e le riunioni di Enna, dell'estate-autunno 1991, in cui i vertici di Cosa Nostra iniziarono a elaborare la strategia stragista programmando che le rivendicazioni dei futuri attacchi allo Stato sarebbero, pure, state eseguite con la ancora sostanzialmente sconosciuta sigla "Falange Armata". Giova, ribadire nuovamente, e sottolineare che, anche in relazione agli episodi oggetto della presente trattazione risulta la rivendicazione "Falange Armata"... la stessa sigla Falange Armata — poi utilizzata per rivendicare gli attentati materialmente eseguiti dalle mafie - è stata ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose... il fatto che lo stesso Paolo Fulci, già direttore del Cesis (proveniente però da una carriere diversa, quella diplomatica) in quegli anni fu vittima (precisamente in un periodo immediatamente successivo al disvelamento della struttura Gladio, ma precedente alla stagione stragista) di gravissime minacce da parte di soggetti riconducibili ai servizi di sicurezza (e, in particolare, come vedremo, riconducibili alla cd VII Divisione del Sismi — struttura che istituzionalmente si era occupata di organizzare e sovraintendere a stay behind e, quindi alla struttura Gladio)”.

“Per il numero e lo spessore dei soggetti intervenuti quella di Nicotera Marina fu sicuramente la più importante e tuttavia, altri incontri (che per comodità possiamo definire "satellite") su questo tema messo sul tavolo dai corleonesi, si svolsero in Calabria come risulta da numerose dichiarazioni acquisite sul punto. Ed è importante dire che in nessuna delle riunioni in questioni la `Ndrangheta prese, ufficialmente, una posizione netta. Risulta che non vi fu mai, all'interno della `Ndrangheta unitaria, una unanimità di vedute e che almeno all'epoca ed ufficialmente (parliamo di un periodo che va dal 1990, passando per il 1991- in coincidenza, sostanzialmente, con la riunione di Enna di cui si è detto, fino all'estate del 1992, cioè subito dopo la strage di Via D'Amelio, epoca in cui si svolse l'incontro plenario di Nicotera Marina) venne in sostanza presa - salve alcune eccezioni che poi vedremo - una posizione attendista. Insomma la `Ndrangheta nel suo complesso, intesa come forza unitaria, cioè, per motivi tattici, sia esterni (non si poteva opporre un rifiuto agli amici siciliani) che interni (si è detto che non vi era unanimità di vedute) fece intendere ai siciliani di essere pronta a collaborare se specificamente richiesta e se necessario, senza, però, attivarsi motu proprio. La partita, in realtà, come vedremo, si giocava sottobanco. Infatti, nel complessivo attendismo (quando non scetticismo) della `Ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti, invece, quelle che ruotavano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri - che, non a caso, avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata ( che in Italia aveva un nome e cognome, certificato da sentenze e da atti di di Commissioni Parlamentari d'Inchiesta : Licio Gelli ) —si muovevano nell'ombra, all'insaputa del resto della consorteria. Davano rassicurazioni agli amici siciliani fino a organizzare la riunione conclusiva di Melicucco a ridosso degli agguati ai Carabinieri, in cui si dava il via operativo agli attacchi armati per cui è richiesta cautelare”.

Madre contro figlio. Il ruolo di Filippone Maria in relazione alla ritrattazione di Calabrò Giuseppe. La correttezza dell'assunto appena riportato trova conferma nel contenuto della nota informativa della locale Squadra Mobile, del 15 maggio 2015 (successivamente integrate con ulteriori note informative di completamento e rettifica parziale, che si allegano alla presente) che, ad evasione di specifica delega verbale di questa Direzione Distrettuale Antimafia, ha collazionato e documentato alcuni specifici passaggi dichiarativi, registrati in sede di intercettazione telefonica e ambientale audio-video in carcere, riferibili a CALABRO' Giuseppe54 (operazioni autorizzate nell'ambito del presente procedimento penale, giusta R.I.T. 262/14 D.D.A., in data 10.02.2014). Giova precisare, peraltro, che nel corso della disposta attività di intercettazione, gli operatori di Polizia Giudiziaria hanno avuto modo di appurare fattivamente tutta una serie di criptici rimandi lessicali caratterizzati spesso da toni allusivi che, interfacciati con le risultanze probatorie già evidenziate nel corpo degli ulteriori atti di indagine, hanno consentito di mettere in evidenza le evidenti pressioni esercitate dai familiari del CALABRO', ed in particolare dalla di lui madre FILIPPONE Maria Concetta, al fine di costringere lo stesso a ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in merito ai fatti per cui si procede, interamente ricavabili dal verbale di trascrizione dell'interrogatorio dal predetto reso in data 07 maggio 2014 presso la Casa Circondariale di Tempio Pausania (Olbia), in qualità di testimone. Tale programma delittuoso non risulta in alcun modo privo di rilevanza per il sol fatto che la prima missiva di timida ritrattazione sia stata inviata a questo Ufficio in data 10 maggio 2014 e, quindi, in data antecedente alle conversazioni di seguito riportate. Tale primo accenno del CALABRO' alla sua intenzione di ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in data 7 maggio 2014 va letto, invero, alla luce della precedente missiva dell'8 maggio 2014 in cui il CALABRO' aveva comunicato a questo Ufficio di voler confermare e rafforzare il suo contributo narrativo a favore della condivisa strategia stragista di `Ndrangheta e Cosa Nostra. La ritrattazione del 10 maggio 2014 è, quindi, il frutto della fortissima tensione emotiva che vive il CALABRO' nel periodo immediatamente successivo alle dichiarazioni gravemente accusatorie rese a questo Ufficio. Appare fisiologico, invero, che il predetto dichiarante oscilli tra i propositi collaborativi e il timore di coinvolgere i propri prossimi congiunti in vicende di elevatissima rilevanza penale: tale assunto trova conferma letterale nelle parole che il CALABRO' pronuncia in data 8 maggio 2014: "Sono cosciente che, al termine delle mie affermazioni, molti miei congiunti saranno a rischio e, qualora ciò non dovesse avvenire, comunque tutti si allontaneranno da me rinnegando il ‘grado di parentela'. Appare evidente che il dichiarante senta un peso enorme sulle proprie spalle, che si traduce in un proposito collaborativo ancor più forte il giorno successivo alle dirompenti dichiarazioni del 7 maggio 2014 per poi trasformarsi dopo qualche giorno in un ritorno al desiderio di non provocare ricadute pesantissime sui soggetti chiamati in correità. Solo quando si registra l'intervento minaccioso e deciso della madre, FILIPPONE Maria Concetta, il detenuto, come di seguito documentato, abbandona definitivamente i suoi propositi collaborativi a favore dell'Autorità Giudiziaria — destinati a fornire ulteriori elementi di prova utili nell'ambito della presente indagine — per adottare nuovamente la scelta di scontare il lungo periodo di detenzione ancora residuo nel più assoluto silenzio. La palese condotta intimidatoria consumata da FILIPPONE Maria Concetta è da ricondurre in primo luogo alla voluta e programmata delegittimazione processuale del CALABRO', in grado di pregiudicare il corretto inquadramento delle complesse dinamiche criminali sottostanti alle azioni delittuose consumate in provincia di Reggio Calabria ai danni di appartenenti all'Arma dei Carabinieri e, quindi, di individuare nella figura del fratello FILIPPONE Rocco Santo e nel nipote FILIPPONE Antonino le ulteriori figure a cui riconoscere un ruolo di assoluto rilievo causale nella consumazione dei gravissimi delitti oggetto di contestazione in questa sede... Sin dal suo esordio "tutto dietro…di ritornare tutto indietro.." la donna condiziona le decisioni operative del figlio, esortandolo a tenere fede — nell'interesse comune, quale elegante accezione della comune appartenenza alla organizzazione di tipo mafioso — "fede... fedeltà...fedeltà", a comportarsi stoicamente in un certo modo: "bocca chiusa... e non sbagli mai".

Stragi di mafia, l'altra verità sui veri piani della 'ndrangheta. La malavita organizzata calabrese insieme a Cosa Nostra siciliana nell'attacco allo Stato. Ma solo per pochi mesi: poi gli interessi e le strategie sono cambiate. Ecco cosa svela un'inchiesta che riscrive il passaggio alla Seconda Repubblica, scrive Gianfrancesco Turano il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Aggiornamento del 26 luglio 2017. La strategia stragista della ’ndrangheta dura appena due mesi: dicembre 1993, gennaio 1994. Il 2 febbraio è tutto finito». Parla Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Non c’è altro che il magistrato possa dire riguardo all’inchiesta di importanza colossale sui tre attentati contro i carabinieri risalenti a 23 anni fa che, secondo quanto risulta all’Espresso, sta per giungere alla conclusione. Partita come una sorta di “cold case” dalle intuizioni di investigatori etichettati come visionari ed emarginati per la loro determinazione ad andare in fondo, questa indagine è diventata la chiave d’accesso ai misteri d’Italia nei sessanta giorni che portano alla Seconda Repubblica. È una rilettura che investirà posizioni di potere e personaggi rimasti attivi per decenni e, fino a oggi, nella zona d’ombra dove i confini fra crimine organizzato e istituzioni non esistono più per una tragica tradizione del potere in Italia iniziata ai tempi della strategia della tensione, quasi mezzo secolo fa. Il lavoro che ha preso forma a Reggio è frutto di un impegno collettivo durato anni fra Calabria e Sicilia perché alla fine si è capito che la distinzione fra ’ndrangheta e Cosa nostra ha senso solo a livello territoriale o mandamentale e non nella componente riservata, quella legata con filo diretto alla politica in una fase di passaggio delicatissima quale è stata la lunga e cruenta transizione dalla Prima Repubblica, fra discese in campo e spinte autonomistiche estese dal Lombardo-Veneto alle due regioni più a sud d’Italia. Sui nomi interessati dall’inchiesta il riserbo è ovviamente assoluto. Ma il quadro può essere delineato ricostruendo le attività di magistrati come Vincenzo Macrì e Gianfranco Donadio, ex aggiunti della Dna, o come Francesco Curcio, attuale sostituto alla direzione nazionale antimafia, e Giuseppe Lombardo, pm reggino titolare dei fascicoli più delicati del rapporto ’ndrangheta-politica confluiti da poco nel maxiprocesso battezzato Gotha. Tassello dopo tassello le parole dei pentiti, fra i quali Gaspare Spatuzza, Consolato Villani e suo cugino Antonino “il Nano” lo Giudice, potrebbero comporre lo scenario chiaro e definitivo nel quale la cosiddetta ’ndrangheta ha agito come tecnostruttura terroristica, per citare un’espressione di Donadio, in compartecipazione con gli apparati dello Stato.

Il primo attentato avviene il 2 dicembre 1993. Dal punto di vista criminale, è un fallimento. Il commando apre il fuoco contro una pattuglia di carabinieri in servizio nei quartieri della periferia sud di Reggio Calabria ma non centra il bersaglio. Il fatto rimane nelle cronache locali.

Il secondo episodio è un salto di qualità terrificante sotto il profilo militare. Il 18 gennaio 1994, poco dopo le feste natalizie, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo, 33 anni di Scicli, sposato con due figli, e Antonino Fava, 36 anni di Taurianova, capoequipaggio, anch’egli sposato con due figli, scortano fino al tribunale di Palmi un magistrato in arrivo dalla Sicilia. Attendono di riaccompagnarlo ma l’incontro negli uffici giudiziari si prolunga e la centrale operativa manda l’Alfa 75 dell’Arma in pattugliamento sull’autostrada. Una decina di chilometri a sud di Palmi, in un tratto in discesa e con varie gallerie fra gli svincoli di Bagnara e Scilla, i carabinieri notano un’auto sospetta. Prima che possano intervenire, vengono affiancati da un’altra macchina e investiti lateralmente da decine di colpi di Beretta M12, un’arma automatica. L’Alfa 75 finisce contro il guard rail. Gli assassini scendono e sparano ancora, stavolta frontalmente, dal parabrezza. Infieriscono con una valanga di piombo a compensazione del fallimento del 2 dicembre. Una telefonata rivendica l’azione. Si saprà dopo che a chiamare è Villani, autista del commando. Pentito del clan De Stefano, Villani ha dichiarato al processo Meta otto mesi fa: «Dovevamo fare come la Uno bianca». Il riferimento è alla catena di delitti commessi dai fratelli Savi, poliziotti, a Bologna e dintorni. Il massacro dell’A3 provoca un effetto enorme. A Reggio arriva il comandante dell’Arma Luigi Federici e annuncia la mobilitazione generale. Il cronista di Repubblica scrive senza mezzi termini che il massacro dell’autostrada è «il tassello di un disegno criminale terroristico-mafioso». Ci vorranno anni perché la definizione trovi riscontro giudiziario. E lo trova in Sicilia nell’autunno 2009, grazie alle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza a Caltanissetta.

«Spatuzza aveva notizie frammentarie sulle operazioni contro i carabinieri desunte da colloqui con il suo boss Graviano», dice Antonio Ingroia che da pubblico ministero ha raccolto le parole del pentito insieme al collega Nino Di Matteo e che oggi da avvocato è difensore di parte civile delle vedove di Fava e Garofalo. «Sa però che il duplice omicidio dell’autostrada fa parte di una reazione concertata contro l’Arma». Dopo il massacro di Scilla Graviano dice a Spatuzza che i calabresi si erano mossi e che adesso toccava a loro. Inizia così la preparazione della strage dell’Olimpico, dove un’autobomba deve esplodere in una domenica di calcio vicino a un pullman dei carabinieri. Una prima versione, definita dal procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, fissa l’attentato al 31 ottobre 1993 durante Lazio-Udinese, dunque prima delle operazioni in Calabria. Successive indagini spostano la data al 9 gennaio 1994 (Roma-Genoa) e infine al 23 gennaio (Roma-Udinese). L’attentato non va a segno per un malfunzionamento del telecomando dell’autobomba. L’operazione non sarà ripetuta perché i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati il 27 gennaio 1994, quattro giorni dopo la partita di Roma e circa un anno dopo Totò Riina. Il 26 gennaio 1994, mercoledì, Silvio Berlusconi annuncia in televisione la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito-azienda organizzato in pochi mesi da Marcello Dell’Utri.

Ma in Calabria non è ancora finita. Alle 20.35 del primo di febbraio 1994 una pattuglia in servizio sulla tangenziale di Reggio, nei pressi dello svincolo di Arangea, nota una macchina ferma. È l’ora di punta e il veicolo in sosta è un rischio per la circolazione. I militari, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, scendono per un controllo e vengono accolti da una tempesta di proiettili: fucile a canne mozze e machine pistol Beretta M12, la stessa dei delitti precedenti. Feriti in modo grave, i carabinieri si salvano soltanto perché i killer, a differenza di quanto accaduto a gennaio sull’autostrada semideserta, non possono fermarsi per il colpo di grazia. Rischiano di finire incastrati nel traffico. I due soldati si salveranno. L’Arma non tarda a reagire. Il 5 maggio 1994 vengono arrestati per gli assalti ai carabinieri Giuseppe Calabrò, Consolato Villani, ancora minorenne, e i presunti armieri. Calabrò e Villani incominciano a collaborare. In sostanza, confessano. Hanno sparato loro ed erano solo loro due quella notte d’inverno sull’autostrada: Villani guidava, Calabrò sparava. Ma operano una sostituzione del movente che condizionerà l’esito del processo: l’assassinio di Fava e Garofalo sarebbe stata la reazione d’impulso per evitare un controllo a un’altra auto di mafiosi che trasportava un carico di armi da guerra prelevate a Gioia Tauro. Gli investigatori seguono la pista del M12. Si scoprirà che la mitraglietta è un’arma prodotta per esigenze sceniche del cinema o della tv, senza marchio né matricola. Esce dalla catena di montaggio devitalizzata e viene rimessa in condizioni di normale funzionamento senza troppo sforzo dagli armieri delle ’ndrine. Pochi mesi dopo il massacro, gli uomini della Dia di Milano trovano anche il deposito dal quale provengono le armi sceniche. È in un capannone in Val Trompia nel bresciano, nel distretto produttivo della Beretta. Poi la traccia viene abbandonata. Le acque si calmano, salvo gli ultimi fuochi della banda della Uno bianca che arriva al capolinea con gli arresti di Roberto e Fabio Savi nel mese di novembre. Il 7 dicembre 1994 viene inaugurata a Reggio la scuola allievi carabinieri, intitolata a Fava e Garofalo. Le due vedove ritirano la medaglia d’oro al valor militare. Oltre quindici anni dopo sarà Donadio a riprendere la pista delle armi sceniche con l’aiuto di Francesco Piantoni e Roberto De Martino, i colleghi della procura di Brescia che si sono occupati della strage di piazza della Loggia.

Villani ha 17 anni. È un debuttante del crimine ma la sua famiglia ha solide tradizioni di ’ndrangheta ed è imparentata con i Lo Giudice, un clan di Reggio nord schierato con i Condello-Imerti-Serraino e contro i De Stefano-Tegano-Libri nella guerra da 700 morti finita nell’estate 1991, a ridosso dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Calabrò, che al tempo ha 22 anni, ha invece già una storia di sangue alle spalle. Si propone come uomo d’armi alla cosca di Reggio sud Ficara-Latella, schierata con il clan De Stefano-Tegano-Libri nella guerra. Viene accettato con riluttanza perché ha un profilo poco ortodosso. Gli piace esibire la sua mafiosità. Ama ’ndranghetiare, come si dice in Calabria. In compenso ha il grilletto facile tanto che viene soprannominato “Scacciapensieri” per la leggerezza d’animo con la quale esegue gli incarichi dei capi. Senza troppe domande ha sparato quindici colpi in pieno giorno e in centro per ammazzare un vigile urbano, Giuseppe Marino. Qualche giorno prima Marino aveva osato multare l’auto di un boss per divieto d’accesso alla zona pedonale del corso Garibaldi. La cosca tiene Calabrò a distanza di sicurezza perché lo considera instabile, come il fratello Francesco, coinvolto anch’egli nell’assalto ai carabinieri, pentito e subito bollato come psicopatico da una perizia ad hoc. Quando il processo inizia, Giuseppe Calabrò collabora. Il tribunale decide che è credibile quando si accusa ma non è credibile quando accusa gli altri. Il verdetto (febbraio 1997) condanna all’ergastolo il killer mentre Villani viene affidato al giudice del tribunale dei minori Domenico Santoro, poi gip nel processo Mammasantissima. Nel 1998 Calabrò viene spedito agli arresti domiciliari a Bologna. Lì evade e in mezzo alla folla del Natale ammazza due bangladeshi che, secondo lui, avevano stuprato la sua ragazza due anni prima. Il processo chiarirà che nel 1996 le vittime non erano neppure in Italia. Condannato all’ergastolo, stavolta in via definitiva, nel 2011 Calabrò pubblica il libro-memoriale “Una scia di sangue” con la prefazione di uno dei giudici più potenti del tribunale di Reggio, Giuseppe Tuccio, allora garante dei diritti dei detenuti su nomina del governatore regionale Giuseppe Scopelliti. Quando esce il libro di Calabrò, il fratello Francesco, che nel frattempo è diventato imprenditore, è già scomparso da cinque anni (2006). I suoi resti saranno trovati ad aprile del 2013, dentro una Smart gialla affondata nel porto di Reggio. Anche il primo cugino di Giuseppe Calabrò, Giovanni detto “il marchese”, diventerà un imprenditore, ma di notorietà internazionale con appoggi in Russia, Kazakhistan e un rapporto diretto con il presidente turco Tayyip Erdogan. Amico del governatore della Liguria Giovanni Toti e debitore del Comune di Roma per 36 milioni di euro, Calabrò ha fatto parlare di sé l’anno scorso grazie al tentato acquisto del Genoa calcio da Enrico Preziosi, prima di essere condannato in secondo grado a sei anni per la bancarotta dell’Algol dal tribunale di Busto Arsizio nell’aprile del 2016.

A cavallo fra il 1993 e il 1994 matura un mutamento politico di grande importanza a livello nazionale. È in arrivo Forza Italia, che troverà in Calabria il suo coordinatore in Amedeo Matacena junior, oggi latitante a Dubai per sfuggire a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e per le sue frequentazioni con il clan De Stefano, ribadite di recente in aula dal pentito Nino Fiume. Di qua e di là dello Stretto, stanno crescendo le proposte autonomistico-secessioniste con le Leghe del Sud. L’ipotesi investigativa è che l’attacco all’Arma sia inquadrato in un’ipotesi di autonomismo eversivo. A decidere la strategia è una commissione ristretta dove i siciliani, autori delle stragi del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e del 1993 (Roma, Firenze, Milano) concordano la linea con i rappresentanti dei due principali clan calabresi: i De Stefano di Reggio e i Piromalli di Gioia Tauro. Dopo gli assalti ai carabinieri, però, le famiglie della ’ndrangheta chiedono una riunione plenaria di tutta la provincia nel luogo dove per tradizione si svolge questo tipo di summit: il santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte. Il dissenso delle altre famiglie verso la strategia stragista è netto ed esplicito. La ’ndrangheta ha interesse a crescere e a prosperare economicamente, non a guerreggiare con la Repubblica italiana. Bisogna smetterla subito di attaccare l’Arma per rientrare nei ranghi e amministrare il nuovo potere all’orizzonte dall’interno, come la vera mafia ha sempre fatto, individuando referenti politici nell’ordine emerso dalle elezioni politiche del 28 marzo 1994 dove, fra gli altri, è eletto anche Matacena. La mozione di maggioranza è accolta, e forse con sollievo, anche da parte di chi aveva iniziato a seguire i siciliani sulla via dello scontro totale.

I Piromalli e i De Stefano non sono gente nuova al protagonismo politico. Già nel 1970, con i Moti per Reggio capoluogo, hanno strumentalizzato la rivolta popolare in parallelo con l’estrema destra del golpista Junio Valerio Borghese (Fronte nazionale) e del fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Ma anche lì hanno saputo tirarsi indietro quando i finanziamenti statali sono piovuti su Reggio città e su Gioia Tauro per il centro siderurgico, poi diventato il porto. Dal febbraio 1994, il crimine calabrese tornerà sott’acqua per diventare in pochi anni l’organizzazione più ricca e potente del mondo. Che poi sia davvero ’ndrangheta è una questione nominalistica. Il boss Pasquale Condello “il Supremo”, al momento del suo arresto nel 2008 ha dichiarato: «Chiamatela come volete: ’ndrangheta, se siamo in Calabria. Ma se eravamo in Svezia si chiamava in un altro modo». E Giuseppe De Stefano, erede al 41 bis del clan reggino protagonista dei Moti e di due guerre da mille morti, ha affermato in udienza al processo Meta: «Noi non siamo ’ndrangheta». E non voleva dire: siamo pacifici cittadini. Intendeva: siamo ben altro, siamo molto di più.

Il caso dei carabinieri rimane chiuso dalla sentenza del 1998 fino al 2011, quando in Dna lavora come aggiunto Macrì, poi sostituito dall’altro reggino Alberto Cisterna. Macrì è il primo e forse il più acuto analista dei legami fra la ’ndrangheta e lo Stato. È lui a inquadrare la figura di Calabrò nel contesto dei legami fra la cosiddetta ’ndrangheta e gli apparati dello Stato. In questo ambito sta già prendendo forma l’intuizione investigativa di Donadio, anch’egli alla Dna, su “Faccia da mostro”, il poliziotto coinvolto nell’omicidio del collega Antonino Agostino. Prima delle ferie estive del 2012, l’aggiunto di Reggio Michele Prestipino manda in Dna un’informativa con una lettera anonima che inquadra gli assalti ai carabinieri del 1993-1994 in una riedizione dell’eterna strategia della tensione italiana. Il 18 settembre 2012 un ex compagno di cella di Calabrò dice che la lettera è del killer. L’11 ottobre Donadio interroga in carcere Villani che, alla fine di un colloquio senza sostanza, mentre il magistrato sta uscendo dalla stanza, lo ferma: «Dottore, non ve ne andate». E racconta i fatti allineandosi ai contenuti della lettera. Calabrò viene interrogato a Bollate il 27 novembre 2012. Esordisce dicendo a Donadio: «So perché mi avete contattato». Conferma il contenuto della lettera, ammette che è sua ma si blocca quando sente parlare dei De Stefano.

Un terzo collaboratore entra in scena. È Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni (14 dicembre 2012) sono fondamentali per identificare Faccia di mostro ossia il poliziotto Giovanni Aiello, che si gode la pensione dello Stato a Montauro Lido, poco a nord di Soverato. Il Nano dice fra l’altro di essere in contatto con il capocentro del Sismi (i servizi militari) Massimo Stellato e che Aiello gli è stato presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, uomo della Dia arrestato a dicembre del 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in secondo grado a 10 anni nel maggio del 2016 insieme a Luciano Lo Giudice, fratello di Nino il Nano. Consapevole del rischio che corre, Lo Giudice si dà malato al colloquio successivo, fissato prima di Natale, poi scrive alcuni memoriali dove calunnia Donadio, Cisterna, Prestipino, lo stesso procuratore capo del tempo Giuseppe Pignatone, e a giugno 2013 scompare dalla località delle Marche in cui vive sotto il programma di protezione. Il caos organizzato di Lo Giudice ottiene risultati notevoli. Il 6 settembre 2013, il nuovo procuratore capo della Dna, Francesco Roberti, entrato in carica da un mese, ritira le deleghe a Donadio che, sotto procedimento disciplinare, si trasferisce alla Commissione Moro. Ma l’indagine procede a Reggio con Cafiero e Lombardo che lavorano su un arco temporale molto ampio. I primi risultati si vedono nel 2016, quando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati come Matacena per concorso esterno, tornano in carcere con nuove accuse che non configurano un ne bis in idem. Lo stesso accade con il fascicolo sulle stragi dei carabinieri. Condannati gli esecutori materiali, l’inchiesta riparte dai mandanti e dai moventi reali, molto diversi dalle follie individuali di un pistolero. «Siamo stati manipolati», conclude il pentito Villani. Stavolta sono i traditori dentro lo Stato a tremare.

La 'ndrangheta stragista che voleva attaccare lo Stato. In carcere i boss Filippone e Graviano, mandanti dell'omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo. Quei delitti, svela la Dda, erano parte di una strategia mirata a destabilizzare l'Italia. Gli incontri con gli emissari di Riina e il sì dei clan al progetto di aggressione alla democrazia. Le rivelazioni "calabresi" di Spatuzza, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". Negli anni Novanta c’era un piano per destabilizzare l’Italia ma a portarlo avanti non è stata solo Cosa Nostra. Anche la ‘ndrangheta ha fatto la sua parte. Per questo motivo, questa mattina la Squadra Mobile di Reggio Calabria ha stretto le manette ai polsi di due elementi di spicco dei clan calabresi e siciliani. In carcere è finito Rocco Santo Filippone, elemento organico al potentissimo clan Piromalli di Gioia Tauro, ed è stata notificata una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere a Giuseppe Graviano, capomafia del mandamento di Brancaccio, Palermo. Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo della Dda di Reggio Calabria, sono loro i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo, trucidati nei pressi dello svincolo di Scilla il 18 gennaio 1994, e dei due agguati che nei giorni successivi sono quasi costati la vita ad altri quattro loro colleghi, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, feriti alla periferia sud di Reggio Calabria il 1 febbraio, e Vincenzo Pasqua e Salvo Ricciardo, rimasti miracolosamente illesi dopo l’attentato subito il 1 dicembre del ’93. Tutti delitti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore Lombardo insieme al sostituto della Dna, Francesco Curcio – che si inscrivono in una strategia di attacco allo Stato, che dopo i brutali attentati costati la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha continuato a mietere vittime anche fuori dalla Sicilia. E non solo a Firenze, Roma e Milano. C’è stata una tappa calabrese nella strategia degli “attentati continentali”, concordata dai vertici delle mafie tutte. Un piano funzionale alla costruzione dello Stato dei clan. Sono in corso di esecuzione anche numerose perquisizioni in diverse regioni d’Italia. Alle operazioni eseguite dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, dal Servizio Centrale Antiterrorismo e dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, partecipano anche i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella sala convegni della Questura di Reggio Calabria, alla presenza del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Franco Roberti dei magistrati inquirenti e degli investigatori. A oltre vent’anni di distanza dal brutale omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e dal ferimento rimasto senza perché dei loro quattro colleghi, si ricompone in un quadro inquietante quello che all’epoca fu considerato un delitto da balordi. Per arrivarci, i magistrati hanno ascoltato centinaia di boss, pentiti e non, hanno fatto sopralluoghi, cercato riscontri, incrociato informative. Perché fra le pieghe di indagini del passato, più di un’indicazione era già affiorata. Oggi però, tutti quegli elementi sparsi trovano unità in un quadro inquietante che tiene insieme le mafie tutte, pezzi deviati dei servizi, ambienti piduisti e galassia nera. Tutti responsabili – affermano i magistrati di Reggio Calabria – di aver tentato di sovvertire l’ordine repubblicano in Italia. Un piano che in Calabria è stato oggetto di almeno tre riunioni, la prima al villaggio turistico Sayonara di Nicotera, controllato dal clan Mancuso di Limbadi, legato a doppio filo al potentissimo casato mafioso dei Piromalli, le altre due a Oppido Mamertina. Al tavolo, c’erano i massimi esponenti dell’epoca della ‘ndrangheta calabrese e gli “emissari” siciliani di Totò Riina. Storicamente legato ai Piromalli, storico casato di ‘ndrangheta che vanta legami con la Sicilia fin dalle prime decadi del Novecento, il boss siciliano si era rivolto a loro per “convincere” i massimi vertici delle ‘ndrine ad aderire alla strategia degli attacchi continentali.

IL PROGETTO Questo tuttavia – emerge dall’indagine della Dda reggina – non era che un aspetto parziale di un piano ben più ampio e complesso, da maturare in più fasi, iniziato a maturare qualche anno prima. A svelarlo negli anni scorsi erano stati collaboratori di giustizia come Antonio Galliano e Pasquale Nucera, che avevano parlato ai magistrati del progetto delle mafie di «destabilizzare lo Stato». Un progetto cui la ‘ndrangheta non ha lavorato da sola.

«Parallelismo inquietante tra politica e strategia stragista». Il procuratore aggiunto di Reggio, Lombardo, durante la conferenza stampa sugli arresti di Filippone e Graviano. «Dopo la vittoria Forza Italia diventa il referente delle mafie». Curcio: «Vittime scelte perché simboli dello Stato». Roberti: «Con l’indagine si è aperto uno squarcio di verità importante per la giustizia, le vittime e la democrazia», scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". «Oggi collochiamo la ‘ndrangheta nel suo giusto ruolo». È soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. A poche ore dall’esecuzione dell’indagine “Ndrangheta stragista”, dalle sue parole traspare l’orgoglio per un’inchiesta complessa, da più parti osteggiata perché considerata “visionaria” o “romanzata” ma in cui tanto la Dda reggina, come la Procura nazionale antimafia, hanno sempre creduto. Un’inchiesta che oggi riscrive un pezzo della storia dell’Italia repubblicana. Non è vero, come per anni è stato da più parti sostenuto, che la ‘ndrangheta abbia detto no alle richieste di partecipazione alla strategia stragista. Al contrario, vi ha partecipato attivamente. E per una motivazione molto semplice. Quella lunga scia di sangue voleva essere prodromica a un mantenimento dell’influenza delle mafie tutte sullo scenario politico italiano. L’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e il tentato omicidio di altri quattro militari dell’Arma in quei tumultuosi anni Novanta dovevano essere un messaggio, o meglio parte di un messaggio. «Le vittime di quegli attentati non sono state scelte, al contrario di quanto successo in passato, perché avessero svolto una particolare indagine o avessero particolari meriti, ma perché - spiega il sostituto procuratore della Dna, Francesco Curcio - erano un simbolo dello Stato». E quello Stato, che all’epoca aveva il volto di una classe politica che proprio in quel momento cadeva sotto i colpi di Tangentopoli, per i clan era sempre stato “cosa loro”. E doveva continuare ad esserlo, nonostante i cambiamenti di facciata. «Uno degli aspetti più inquietanti di questa ricostruzione – dice al riguardo il procuratore aggiunto Lombardo - è la presenza di un parallelismo inquietante fra vicende politiche di quegli anni e strategia stragista». Le bombe e i morti degli anni delle stragi continentali, cui oggi si aggiungono anche gli attentati ai carabinieri in terra calabrese, non sono dunque stati semplicemente espressione della feroce reazione dei corleonesi all’arresto di Totò Riina. Per le mafie tutte – e questo è uno dei più importanti dati che emerge dall’inchiesta – erano funzionali ad un piano di lungo periodo. E che interessava tutti i clan che già da tempo avevano iniziato a parlarsi e a consorziarsi, soprattutto in territori di nuova colonizzazione come la Lombardia. Per non pestarsi i piedi vicendevolmente, lì i clan avevano iniziato a parlarsi. E in questo modo avevano capito di essere più forti insieme. Per questo, quando gli storici referenti istituzionali del loro dominio iniziano a venir meno è insieme che decidono di reagire. Si tratta di una strategia decisa ai massimi livelli. È stata definita in una serie di incontri, organizzati in Calabria e non solo, che hanno visto al tavolo i massimi vertici delle mafie. Ma soprattutto si tratta di una strategia che doveva rimanere segreta. Non a caso, molti di quegli omicidi e di quegli attentati sono stati firmati come “Falange armata”. E non a caso la base, i picciotti, i piccoli capi di ‘ndrangheta non ne hanno mai saputo nulla per scelta cosciente della direzione strategica dei clan. «La logica – spiega Lombardo - era quella di gestire un discorso di livello molto alto, dunque come aveva fatto Cosa Nostra, anche la ‘ndrangheta doveva mantenere il segreto su quale fosse stato il suo ruolo in quella stagione». Perché la “strage lenta” doveva rimanere segreta? In primo luogo, perché per essere efficace doveva provocare un diffuso sentimento di instabilità e paura, secondo perché solo in pochi, ben selezionati referenti dovevano essere in grado di cogliere la portata e il reale messaggio sotteso a quell’attacco. «Ci troviamo di fronte – dice Lombardo - a un’organizzazione criminale che tiene conto delle evoluzioni politiche, che aderisce prima ai movimenti autonomisti, fino alla riunione di Lamezia Terme del ’93, quindi abbandona il progetto autonomista nel momento in cui la nuova formazione politica, quindi Forza Italia diventa il referente di determinati ambienti e si avvia una stagione del tutto nuova». Gli attentati si fermano, in Italia torna la pace, le mafie sembrano ritirarsi in buon ordine. E non solo loro. Perché anche altri attori hanno partecipato alla strategia stragista. Per i magistrati, anche settori dei servizi di informazione un tempo legati a Gladio e al piano Stay behind, ben conosciuti e comodi in ambiente piduista, nei tumultuosi anni Novanta stavano vedendo crollare le fondamenta del loro potere. Il blocco sovietico si stava liquefacendo, gli assetti internazionali stavano cambiando, dunque anche le condizioni alla base del loro straordinario potere. Per questo, si ipotizza nell’inchiesta della Dda reggina, anche loro, insieme alla galassia dell’eversione nera con cui hanno sempre avuto contatti, hanno avuto interesse a lavorare con le mafie alla strategia di destabilizzazione. A rivelarlo non sono soltanto innumerevoli collaboratori che hanno presenziato agli incontri fra uomini dei clan e agenti dei servizi, ma anche la stessa sigla Falange armata. Presa in prestito forse dalla falange di franchista memoria. «Quando abbiamo chiesto ad un collaboratore che aveva partecipato all’omicidio Mormile se sapesse il significato della parola Falange, se il suo capo Domenico Papalia, glielo avesse spiegato – ricorda Curcio - lui ci ha risposto “mi hanno detto di rivendicare così”. Attraverso una serie di ulteriori dichiarazioni, abbiamo scoperto che risultano contatti fra questo Domenico Papalia con soggetti appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca». E non isolati ad un unico caso o un unico omicidio. La conferma viene dall’interno degli stessi apparati di intelligence. «Una straordinaria conferma è arrivata dall’ambasciatore Fulci, capo del Cesis proprio in quel periodo storico, minacciato dalla Falange Armata – spiega al riguardo il sostituto procuratore della Dna - Lui si convinse che queste minacce provenissero proprio dall’interno dei servizi. Per questo il tema di ulteriori indagini dovrà essere proprio questo: individuare i soggetti che si sono incontrati con esponenti della criminalità organizzata, quanto meno per suggerire strategie». Ma non è l’unico filone che i magistrati intendono seguire. «Con quest’indagine – dice il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti – è stato aperto uno squarcio estremamente importante di verità ed è estremamente importante per la giustizia, per le vittime e per tutto il nostro Paese e gli assetti democratici del nostro Paese. Fare chiarezza continuerà ad essere nostro obiettivo e nostro dovere anche in riferimento ad altre vicende che sono oggi oggetto di indagine e che si iscrivono in quella stagione, come l’omicidio del collega Scopelliti». Per il procuratore capo della Dna «fu ucciso in prevenzione, come alcuni anni prima era stato ucciso il collega Saetta». Tutti tasselli – promette – «che vanno anche oltre la stagione stragista e si vanno componendo».

Perquisizione per Bruno Contrada. Il provvedimento rientra nell'inchiesta della Procura di Reggio Calabria sugli attentati ai carabinieri Fava e Garofalo. Per l'ex numero due del Sisde la Cassazione aveva revocato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, "Il Corriere della Calabria". La Procura di Reggio Calabria ha disposto una perquisizione in casa di Bruno Contrada, ex numero 2 del Sisde condannato per concorso in associazione mafiosa per cui, nelle scorse settimane, la Cassazione aveva revocato la condanna. La perquisizione rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla. Nelle oltre mille pagine di ordinanza di custodia cautelare, non appaiono rifermenti diretti all’ex numero 2 del Sismi. Ma il suo nome c’è ed è legato a quello di Giovanni Pantaleone Aiello, ex agente della Squadra Mobile di Palermo «legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati». Di Aiello hanno parlato dopo anni di esitazione per serio timore di ritorsioni i collaboratori di giustizia Nino Lo Giudice, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani. «Lo Giudice era preoccupato non di un fantasma, ma di un soggetto (e di tutti i collegamenti che a questo facevano capo) in carne ed ossa che lui ben conosceva la cui pericolosità, evidentemente, considerava ben maggiore di quella di tutti gli altri soggetti (che non erano propriamente delle mammole) che, fino a quel momento, aveva chiamato in correità». Per il collaboratore - si legge nelle carte - Aiello «risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate». L’ex agente – indagato e perquisito nell'ambito di questo procedimento – è stato indicato da Villani e Lo Giudice come “Il mostro”, uomo legato ad ambienti dei servizi che avrebbe avuto un ruolo in una serie di fatti di sangue. 

A caccia di prove in casa Contrada. Controlli e misteri: esito negativo, scrive di Riccardo Lo Verso Mercoledì 26 Luglio 2017 su "Live Sicilia". I poliziotti della Squadra mobile di Reggio Calabria sono piombati a casa palermitana di Bruno Contrada nel cuore della notte. Quaranta minuti dopo le quattro. A caccia della prova dei rapporti oscuri fra l'ex poliziotto e Giovanni Aiello, soprannominato "faccia da mostro" per la profonda cicatrice che ne deturpa il viso. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello, oggi in pensione, presenza costante nei misteri d'Italia, avrebbe convinto l'ex carabiniere Saverio Tracuzzi Spadaro a mentire ai pm sul suo rapporto con Aiello e sul ruolo del poliziotto nelle file della 'Ndrangheta. La perquisizione a casa Contrada, che ha avuto esito negativo, rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. Diversi i punti che hanno condotto i pm fino a casa dell'ex numero tre del Sisde a cui la Cassazione ha di recente revocato gli effetti della condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Contrada è risultato in contatto con l'ex agente di polizia Guido Paolilli che lo aveva chiamato per commentare le sue dichiarazioni ai pm su Aiello. Sia "faccia da mostro" che Paolilli sono stati indagati a Palermo per l'omicidio dell'agente Nino Agostino, ucciso insieme alla moglie nel 1989. Per Paolilli, che rispondeva di favoreggiamento, la Procura chiese ed ottenne l'archiviazione. Fu uno dei primi a indagare sul delitto Agostino, privilegiando la pista passionale. Aiello, accusato di omicidio, è ancora indagato dopo l'avocazione del fascicolo da parte della procura generale, decisa dopo diverse richieste di archiviazione da parte dei pm di Palermo. Contrada viene indicato dai magistrati reggini come la persone “più strettamente legata ad Aiello nella polizia di Stato”. Fonte dell'informazione sarebbe "una persona pienamente attendibile che non si nomina per evidenti motivi di cautela processuale". In passato è stato il pentito Nino Lo Giudice, detto il nano, a raccontare che Aiello gli fu presentato dal capitano Tracuzzi della Dia, condannato in appello a 10 anni perché considerato colluso con la 'Ndrangheta. Lo Giudice aggiunse che Aiello schiacciò il telecomando che innescò l'esplosione per la strage di via D'Amelio, e di avere saputo dallo stesso Aiello del suo ruolo nell'omicidio di Agostino e della moglie. Solo che quando iniziò a riferirlo ai magistrati sarebbe stato minacciato dagli uomini dei servizi segreti. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, l’avv. Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla.

L’attacco allo Stato di ‘ndrangheta e mafia siciliana, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". Un progetto mafioso e terroristico, per attentare al cuore dello Stato, colpendo una delle istituzioni più amate, l'Arma dei Carabinieri. Un progetto messo in piedi da 'ndrangheta e mafia siciliana, con l'inquietante collaborazione di pezzi dello Stato: la Procura di Reggio Calabria prova a riscrivere la storia d'Italia, partendo dagli attentati tre attentati compiuti in danno dei Carabinieri di Reggio Calabria, in cui persero la vita, il 18 gennaio 1994, gli Appuntati Antonino Fava Fava e Giuseppe Garofalo; rimasero gravemente feriti, l'1 febbraio 1994, l'Appuntato Bartolomeo Musicò e il Brigadiere Salvatore Serra e rimasero miracolosamente illesi, l'1 dicembre 1994, il Carabiniere Vincenzo Pasqua e l'Appuntato Silvio Ricciardo. Due i mandanti, il boss siciliano, Giuseppe Graviano, e Rocco Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, con importanti collegamenti con la potente famiglia Piromalli. Omicidi e tentati omicidi che si inquadrano negli anni della strategia stragista portata avanti da Cosa Nostra, ma che ora vede anche la 'ndrangheta grande protagonista: un progetto eversivo, che infatti spinge la Procura retta da Federico Cafiero De Raho a contestare anche l'aggravante terroristica, oltre a quella mafiosa. La Dda di Reggio Calabria ha ricostruito – attraverso l'apporto di nuovi e fondamentali elementi raccordati e collegati tra loro – le causali degli attentati ai carabinieri, ma, soprattutto, matrici e scopi sottesi a tali delitti, che vanno a collocarsi nel contesto della strategia stragista nei primi anni '90 messa in atto dalle mafie, con il coinvolgimento oscuro e inquietante di schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2, ancora in cerca di rivincite nonostante l'ufficiale scioglimento nel 1982. Costanti e inquietanti i riferimenti investigativi alla figura del Venerabile Licio Gelli. A spingere gli inquirenti, il procuratore Federico Cafiero De Raho, l'aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto Antonio De Bernardo, nonché il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, e il sostituto della DNA, Francesco Curcio, sulla matrice unica e sul disegno volto in parte a destabilizzare e in parte a conservare lo status quo, una serie di caratteristiche comuni sui tre delitti, a cominciare dall'utilizzo dell'arma, un mitra M12. Si sarebbe trattato, dunque, di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione sarebbe maturata non all'interno delle cosche di 'ndrangheta, ma si sarebbe sviluppata attraverso la sinergia, la collaborazione e l'intesa di organizzazioni criminali, come Cosa Nostra e 'ndrangheta. Sulla scorta delle dichiarazioni di decine di collaboratori di giustizia, gli inquirenti avrebbero scoperto come numerose riunioni – quasi tutte nella zona tirrenica della provincia di Reggio Calabria – avessero ad oggetto l'inquietante joint venture tra le due mafie: a fare da collante, Rocco Santo Filippone, nonché Giuseppe Graviano, che con la sua famiglia ha avuto negli anni il compito di saldare legami e alleanze con i calabresi. Così, dunque, le mafie volevano partecipare a una vera e propria opera di ristrutturazione egli equilibri di potere sul territorio nazionale: e tale strategia appariva condivisa da pezzi deviati dello Stato, in contatto con il piduismo. Sul punto le indagini hanno evidenziato come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie sarebbe da far risalire a oscuri suggeritori appartenenti ai servizi segreti e, comunque, alla massoneria deviata. Il disegno terroristico mafioso era, dunque, servente rispetto ad una finalità "più alta", che prevedeva la sostituzione di una vecchia ed inaffidabile classe politica con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Si stava attraversando un periodo di grandi cambiamenti a livello nazionale (ma anche internazionale) di natura storica e politica, in cui tutte le organizzazioni criminali, dopo il tramonto della c.d. "prima Repubblica", intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando. Al culmine della strategia stragista del '93, a partire dal mese di settembre, e quindi in epoca immediatamente successiva agli altri attentati posti in essere nel continente (Roma, Firenze e Milano), era stata organizzata una strage di proporzioni immani facendo saltare in aria alcuni pullman dei Carabinieri in servizio a Roma allo stadio Olimpico in una delle tante domeniche calcistiche particolarmente affollate, attentato che doveva essere eseguito nella terza decade del Gennaio 1994 e che falliva soltanto per un guasto tecnico al telecomando che avrebbe dovuto innescare l'ordigno. Ad aprire squarci di luce agli inquirenti, un atto di impulso della Procura Nazionale Antimafia, che segnala alla Procura di Cafiero De Raho le dichiarazioni del collaboratore di giustizia siciliano, Gaspare Spatuzza, già capo mandamento di Brancaccio, il quale ha vissuto dall'interno ed in modo completo tutta la vicenda delle stragi del '93 e del '94, dai progetti condivisi ai momenti esecutivi. Da qui il lavoro di raccolta delle dichiarazioni di altri pentiti – alcune in parte già note, altre riattualizzate – e la costruzione dell'impianto investigativo, inquietante e affascinante, quanto, secondo gli inquirenti, solido. E subito, davanti agli occhi dei magistrati, appare come la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della 'ndrangheta tirrenica - d'intesa con esponenti reggini - diedero assicurazione ai Corleonesi, rappresentati da Graviano - di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone individuarono nel giovane Giuseppe Calabrò (nipote di Rocco Santo Filippone, poiché figlio della sorella Marina), l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, in quanto egli, dotato di una eccezionale preparazione militare ed una straordinaria dimestichezza con le armi, era privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale. Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (già condannati definitivamente come autori materiali dell'omicidio di Fava e Garofalo) vennero poi aizzati a scatenare la strategia di attacco contro i Carabinieri dal defunto Demetrio Lo Giudice classe 1937, emissario della cosca Libri per il quartiere Reggio Campi di Reggio Calabria che fece crescere da un punto di vista militare e criminale Calabrò e che infine lo spinse ad eseguire i delitti oggi contestati; tale dato risulta coerente in relazione alla posizione assunta dalle cosche di 'Ndrangheta di cui Filippone e Lo Giudice erano, all'epoca, eminenti rappresentanti (vale a dire quella dei Piromalli-Molè-Pesce, il primo e dei De Stefano-Libri-Tegano il secondo ) che, non a caso, erano le famiglie di 'ndrangheta che, all'epoca, avevano manifestato maggiore apertura nell'appoggio a Cosa Nostra nella strategia stragista. Un soggetto importante, Filippone, la cui figura è stata per anni sottovalutata e, con ogni probabilità coperta, anche dalla magistratura calabrese. E' lui l'uomo che salda i rapporti con Cosa Nostra: così dunque, si può affermare che mafia siciliana e 'ndrangheta non siano unite solo da progetti di natura economica, ma anche da progetti di natura politica, attraverso spinte autonomistiche, non solo in Sicilia, ma, ancor prima, in Calabria. Un'indagine su tre gravissimi fatti di sangue, tre complessi attentati alle istituzioni democratiche, che, quindi, apre scenari inquietanti almeno sugli ultimi 30 anni di storia d'Italia: la 'ndrangheta emerge non solo perché era in stretti rapporti con Cosa Nostra, ma in quanto risultava particolarmente inserita in quei rapporti con la destra eversiva e la massoneria occulta, proprio in quel periodo stragista in cui entrambe le organizzazioni (Cosa Nostra e 'Ndrangheta) sostennero il disegno federalista attraverso le leghe meridionali. "Oggi ricollochiamo la 'ndrangheta nel suo giusto ruolo" dicono gli inquirenti, che sottolineano inquietanti parallelismo tra le vicende politiche di quegli anni (nel 1994 verrà fondata Forza Italia) e la strategia stragista. Il partito di Silvio Berlusconi sarebbe così divenuto il referente di determinati ambienti, con l'abbandono del progetto autonomista. A tal proposito, nella complessiva ricostruzione dei fatti, assume inoltre particolare rilievo la vicenda della riunione intermafiosa di Nicotera Marina (VV), avvenuta dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, svolta all'interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (VV), come noto legatissima a quella dei PiromallI che aveva come tema proprio la questione stragista: non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, ciò a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta. Un'inchiesta che svela i contatti stabili tra le due organizzazioni, l'esistenza di componenti elevate e occulte e che si innesta nella seconda fase delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Consolato Villani e Nino Lo Giudice: questi, infatti, scompare dalla località protetta in cui si trovata (per poi essere catturato nuovamente dopo qualche mese) quando Villani inizia a parlare dei mandanti degli attentati ai carabinieri. Entrambi collaboratori, non avevano avuto il coraggio di rivelare i meccanismi in cui erano stati inseriti negli anni '90. Lo Giudice sparisce quando la parte più importante della sua carriera criminale sta per essere scoperta. "Perché, a distanza di 25 anni dalle stragi esistono ancora zone d'ombra?" si chiede il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Perché, come spiegano gli inquirenti, l'attenzione ora è posta sulle connivenze istituzionali, su agenti segreti infedeli, massoni che hanno controllato e controllano fette consistenti dell'Italia.

E il ruolo di Reggio Calabria e della 'ndrangheta ora, finalmente, appare per quello che è sempre stato: cuore pulsante di alcune delle vicende più oscure d'Italia.

Patto 'ndrangheta-mafia, il summit a Nicotera Marina dopo la morte di Falcone e Borsellino, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". Esponenti di Cosa Nostra e 'ndrangheta si incontrarono in Calabria dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo affermano i magistrati della Dda di Reggio Calabria, negli atti relativi all'operazione "'Ndrangheta stragista" di oggi. Il summit si tenne a Nicotera Marina (Vv), a all'interno del villaggio turistico "Sayonara", controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (Vv), legata a quella dei Piromalli, egemone nella piana di Gioia Tauro (Rc). Al centro dell'incontro, la strategia stragista inaugurata dai siciliani. Per interloquire con Cosa Nostra furono chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, "cio' - secondo la Procura antimafia - a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta". Sarebbe stato l'allora capo indiscusso della mafia siciliana, Salvatore Riina, il promotore della richiesta alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia di Cosa Nostra, con l'individuazione degli obiettivi istituzionali da colpire. Altre riunioni si sarebbero svolte nella zona del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta (Rosarno, Oppido Mamertina, Melicucco), in ambiti territoriali sottoposti alla giurisdizione criminale dei Mancuso, dei Piromalli, dei Pesce e dei Mammoliti. Cosa Nostra, ipotizzano i magistrati, aveva indirizzato proprio ai Piromalli/Molè, con i quali i rapporti erano strettissimi, la richiesta di promuovere gli incontri "in vista di una adesione generalizzata della 'ndrangheta alla strategia stragista che Cosa Nostra aveva deciso di intraprendere". Diversi collaboratori di giustizia, aderenti alle varie cosche di 'ndrangheta, avrebbero raccontato delle riunioni. Alle loro dichiarazioni la Squadra Mobile avrebbe cercato riscontro attraverso intercettazioni telefoniche, ambientali e di altra natura. (AGI)

Il patto 'ndrangheta-mafia: le strategie eversive e i "suggeritori" istituzionali, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". C'era un vero e proprio patto eversivo, suggellato da esponenti di Cosa Nostra e della 'ndrangheta reggina nel corso di diversi summit, dietro agli attentati subiti in Calabria dall'arma dei Carabinieri, costati la vita a due militari, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi a colpi di mitra il 18 gennaio 1994 lungo l'autostrada A3 nel tratto Bagnara-Scilla, nel Reggino, ed il ferimento di altri quattro militari. Queste le conclusioni a cui è' giunta la Dda di Reggio Calabria che stamani ha emesso due provvedimenti restrittivi a carico di due esponenti di spicco delle mafie calabresi e siciliana: Rocco Santo Filippone, 73 anni, di Anoia (RC), considerato capo del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta all'epoca degli attentati ai Carabinieri, e Giuseppe Graviano, 54 anni, palermitano, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, coordinatore riconosciuto con sentenze definitive delle cosiddette stragi "continentali" eseguite da Cosa Nostra. Graviano era già detenuto nel carcere di Terni. Gli omicidi e i tentati omicidi, commessi nella stagione degli attacchi mafiosi allo Stato, sarebbero, secondo la Dda reggina, aggravati dalle circostanze dalla premeditazione, in quanto pianificate nell'ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista "ideato, voluto ed attuato - scrivono gli inquirenti - dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e 'Ndrangheta". Gli inquirenti ravvisano anche finalità di terrorismo e di eversione dell'ordinamento democratico, perchè Cosa Nostra e 'ndrangheta intendevano costringere lo stato italiano a rendere meno rigorose sia la legislazione che le misure antimafia, ma soprattutto puntavano alla sostituzione della vecchia classe politica, ormai giudicata inaffidabile, con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Dunque, dopo il tramonto della "prima Repubblica", i boss mafiosi intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica "proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando". Secondo la ricostruzione dei magistrati, elementi importanti della 'ndrangheta tirrenica, d'intesa con esponenti reggini, diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Queste componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone avrebbero individuato nel giovane Giuseppe Calabrò, nipote di Rocco Santo Filippone, l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, essendo dotato di un'eccezionale preparazione militare e di una straordinaria dimestichezza con le armi, ma anche perchè era, nelle valutazioni della Dda, "privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale". Filippone e Graziano sono accusati di essere i mandanti, in concorso fra loro e con Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (entrambi già condannati in via definitiva come esecutori di dei delitti) e Demetrio lo Giudice, detto Mimmo, del tentato omicidio ai danni dei carabinieri Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo, commesso in località Saracinello di Reggio Calabria nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1993; dell'omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e del tentato omicidio di altri due militari dell'Arma, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, contro i quali furono sparati numerosi colpi utilizzando un mitra M12 ed un fucile calibro 12. Serra e Musicò rimasero feriti gravemente. Serra rispose al fuoco con l'arma d' ordinanza. Anche quest'ultimo attentato avvenne a Reggio Calabria, in località Saracinello, il primo febbraio 1994. I tre attacchi all'Arma, si sottolinea negli atti dell'inchiesta, presentavano caratteristiche comuni. In primo luogo perchè furono compiuti nella cintura periferica di Reggio Calabria, ma anche perchè, in tutti gli episodi, era stata usata la stessa arma automatica (un mitra M 12), ai danni di pattuglie automontate, che, di notte, erano impegnate in normali turni di controllo del territorio. Sullo sfondo del patto stragista stretto da Cosa Nostra e 'ndrangheta negli anni '90 "appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate a loro volta collegate a settori del piduismo ancora in cerca di rivincita". Lo scrive la Dda di Reggio Calabria negli atti relativi all'inchiesta "'Ndrangheta stragista" nell'ambito della quale la Polizia ha notificato oggi due ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di un boss della 'ndrangheta e di uno, già detenuto, della mafia. L'uccisione di due militari dell'Arma sull'autostrada A3 nel gennaio del 1994 ed il ferimento di altri militari sempre in Calabria, dunque, "vanno a collocarsi - scrivono i magistrati reggini - nel contesto della strategia stragista che ha insanguinato il Paese nei primi anni 90' e in particolare in quella stagione definita delle "stragi continentali". Secondo l'impostazione accusatoria, l'obiettivo strategico delle azioni contro i Carabinieri, al pari di quello degli altri episodi stragisti verificatisi nel Paese, "era rappresentato dalla necessità, per le mafie, di partecipare a quella complessiva opera di vera e propria ristrutturazione degli equilibri di potere in atto in quegli anni. E tale strategia - secondo gli inquirenti - appariva condivisa, da schegge di istituzioni deviate, da individuarsi in soggetti collegati a servizi d'informazione che ancora all'epoca mantenevano contatti con il piduismo". Dalle indagini sarebbe emerso come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie, fra cui quelli per cui è stata emessa l'ordinanza eseguita oggi, "è da farsi risalire a suggeritori da individuarsi in termini di elevatissima gravità indiziaria, in appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca, nei cui confronti, comunque, le indagini proseguiranno". (AGI)

L'accorduni tra 'ndrangheta e Cosa Nostra: attacco coordinato per le stragi degli anni '90, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". "Cade in maniera netta l'assunto secondo cui la 'ndrangheta, o cosche di primo piano di essa, sia stata totalmente estranea alla svolta stragista impressa da Cosa nostra negli anni '90. Molti aspetti di queste torbide vicende saranno chiariti". É quanto si apprende in ambienti investigativi che hanno coordinato l'inchiesta che ha portato all'arresto di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano. Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza hanno avuto l'effetto di un colpo di maglio su oltre venti anni di storia criminale da cui la 'ndrangheta emerge come "alleato" affidabile di Cosa nostra "nell'attacco coordinato allo Stato ed alle sue istituzioni più rappresentative, come l'Arma dei Carabinieri". Gli inquirenti parlano senza mezzi termini di "progetto di disarticolazione della democrazia e delle istituzioni", in un quadro politico, come quello degli anni '90, caratterizzato dall'instabilità istituzionale e dalla chiusura della Prima Repubblica. "Sfuma così il tentativo - dicono gli inquirenti - di depotenziare le responsabilità della 'ndrangheta, per come raccontato finora, a seguito del rifiuto del boss Giuseppe De Stefano agli emissari di Cosa nostra negli anni '90 durante un incontro nella zona di Nicotera, che avrebbe sancito la contrarietà della 'ndrangheta alle stragi. E invece l'accorduni prese corpo proprio con gli autori dell'assassinio di don Pino Puglisi, ucciso dai Graviano a Brancaccio perché 'disturbava' taluni equilibri e complicità in quel quartiere di Palermo". Nel mosaico ricostruito dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria appaiono anche molti spunti di indagine chiuse frettolosamente negli anni '70 e negli anni '80, omicidi e intimidazioni contro personaggi pubblici che alla luce di quanto sta emergendo troverebbero una diversa valutazione, un filo di interessi economici e di potere tra parti deviate di istituzioni, estremismo di destra e, appunto, la 'ndrangheta.

Sinergie sempre più forti all’ombra della massomafia. La stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione. Il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta vertiginosamente con il crescente astensionismo. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”, scrive Paolo Pollichieni, Sabato 15 Luglio 2017, su "Il Corriere della Calabria". Funziona e regge. In una Calabria che si presenta devastata nel suo reticolo produttivo e ridotta a mal partito in quanto a rappresentanza politica, funziona e regge, anzi conosce una stagione di grande prosperità, quell’area che ha ormai smesso di essere “grigia” per diventare organica alla ‘ndrangheta nella gestione del territorio. Funziona e regge, in sostanza, quella camera di compensazione allestita al riparo da logge massoniche spurie dove potere criminale e potere politico si incontrano ed elaborano strategie tese al consolidamento del loro potere. Funziona e regge, quel modello criminale che affonda le radici già nelle cronache della prima indagine sulla massoneria deviata, quella di Agostino Cordova. Modello che ricompare sull’asse Lamezia-Vibo dieci anni più tardi, con la stagione delle “leghe” come veicolo per il traghettamento verso la seconda repubblica. Modello cristallizzato nell’indagine reggina denominata “Olimpia”, alla quale lavorarono Macrì e Mollace, Cisterna e Pennisi, Verzera e Di Palma. Carte oggi riscoperte e rivisitate ma che hanno stroncato più di una carriera e “mascheriato” più di un magistrato inquirente. Oggi quel “modello criminale” appare scolpito e scontornato nelle indagini di una magistratura meno aggredibile che, in uno con una polizia giudiziaria più autonoma, ci consegna una serie di indagini che a Vibo come a Lamezia, a Crotone come a Locri, a Gioia Tauro come a Reggio Calabria, evidenziano sempre più come la stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione e della sinergia criminale. Ci sarebbe materia per una riflessione attenta da parte di quel che rimane in Calabria di un ceto politico non cooptabile da parte della ‘ndrangheta. Anche il crollo della partecipazione democratica conosciuto in queste ultime tornate elettorali, oggi, si appalesa come funzionale agli interessi della massomafia: il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta di peso vertiginosamente in presenza di un altrettanto vertiginoso calo delle percentuali dei votanti. C’è questa voglia di riflettere da parte di quel che resta della Politica con la P maiuscola, in Calabria? Dobbiamo imporci di crederlo. Anche quando ti trovi a sbattere contro vicende come quelle reggine, dove l’isolamento di un assessore viene motivato con la sua irriducibilità davanti all’applicazione della legge. Anche quando devi prendere atto che la transumanza delle baronie politiche, lungi dall’essere bandita, diventa oggetto di adulazione da parte delle segreterie regionali più blasonate. Anche quando la sottovalutazione regna sovrana nella mente di chi fa incetta di deleghe e potere ritenendo che sigillare significa decidere. È questo lo scenario che abbiamo davanti in Calabria. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”; le indagini in corso, e quelle che arriveranno, possono creare la precondizione per ripulire la casa e renderla agibile ma sono ben altri i soggetti che debbono incaricarsi di evitare che venga nuovamente sporcata sino all’inagibilità. Non lo si otterrà nominando qualche magistrato in pensione al vertice della Stazione unica appaltante. Questo semmai è il segno di un senile ricorso all’imbellettamento. Serve lasciar spazio alle energie migliori e nella misura in cui questo si cercherà di fare chiaramente lo spazio selettivo si restringe. Fino a fare apparire asfittici i confini dettati dalla militanza storica in questo o quel movimento politico. È tutta qui la vera lotta alla ‘ndrangheta ed è tutta qui la battaglia per il cambiamento.  Le cosche sono attrezzate per sostenerla. Gratteri lo ha ripetuto anche di recente: investono meno in armi e più in settori di controllo sociale. Dai media alla clientela, dall’imprenditoria al controllo del consenso. Figurarsi che investono anche in “antimafia”.

Massoneria, coop rosse e consulenze: su cosa indaga Catanzaro. Gli incroci con Consip sono solo una piccola parte delle inchieste in corso. E riguardano gli affari della “Sviluppo srl” e di Rocco Borgia. Nel mirino di due Procure i legami con Cmc e aziende in procinto di chiudere affari con Regione, Anas e Sorical, scrive Martedì, 25 Luglio 2017 Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria". Rocco Borgia è un distinto signore, i suoi 74 anni li porta che è uno splendore. Merito, assicura ai suoi potenti amici, della “dieta calabrese” alla quale resta fortemente fedele, pur avendo lasciato la natia Melicucco da molti decenni. Oggi, infatti, vive a Roma, si definisce imprenditore e non fa mistero del suo alto grado in massoneria. Rimosso, invece, il suo passato da militante del vecchio Partito comunista italiano. È un maniaco della riservatezza, il che però non lo ha salvato da continue apparizioni nelle cronache giudiziarie del nostro Paese. L’ultima lo vede, nel febbraio scorso, perquisito nell’ambito delle indagini sulla Consip e sugli appalti da destinare al “Gruppo Romeo”. Una perquisizione giustificata dal fatto che gli inquirenti messi alle calcagna di Alfredo Romeo lo fotografano mentre va a pranzo con i vertici dell’Inps e poi a colloquio con il tesoriere del Pd, al Nazareno. In Calabria due Procure si occupano di lui ed entrambe seguendo il filo della cosiddetta “massomafia”, una “supercupola” che si incarica di mediare affari miliardari selezionando la classe dirigente locale, utilizzando le cosche per il controllo del territorio, garantendo i patti con le maggiori imprese nazionali. Anche nel nuovo assetto delle logge calabresi e nel voto per il rinnovo dei vertici nazionali, la “massomafia” avrebbe avuto un ruolo di primo piano. Così, nel 2015, quando una “cooperativa rossa” affidataria di lucrosi appalti pubblici sull’asse Catanzaro-Cosenza deve scegliersi un “ambasciatore” che poi garantisca gli accordi, avrebbe puntato proprio su Rocco Borgia. Vero? Falso? È quanto stanno cercando di chiarire le indagini delle procure distrettuali di Reggio Calabria e di Catanzaro. Quel che appare accertato è che la ingombrante figura del massone Rocco Borgia spacca la sinistra italiana. Il suo nome, infatti, figura in due articolate e durissime interrogazioni parlamentari. La prima risale alla scorsa legislatura e vede come primo firmatario Elio Lannutti. Siccome rimase senza risposta, ecco che viene riproposta nell’attuale legislatura, prima firmataria Laura Castelli. Gli interroganti chiedono lumi sul ruolo avuto dal Borgia alla guida di una missione italiana in Somalia. In particolare chiedono al ministro degli Esteri chi aveva accreditato il Borgia nella Ong italiana Cins. Chiedono anche di sapere se «l’alter ego apicale nel Cins, tale Umberto Santich sia lo stesso Santich sotto processo a Roma per lo scandalo che costò il posto al capo di Finmeccanica Orsi». Infine intendono sapere se i due, Borgia e Santich, fossero consulenti della Farnesina. Il nostro ministero degli Esteri rispondere che in effetti Umberto Santich lo è stato e anche Rocco Borgia, aggiungendo però che «Rocco Borgia era tra i rinviati a giudizio per reati di cui agli articoli 54, 110 e 640bis del codice penale per truffa ai danni del ministero degli Esteri».

In Calabria, a radicare attenzioni e competenze delle locali Procure, opererebbe oggi la “Sviluppo Srl”, in cui il Borgia, pur non comparendo come socio, avrebbe consolidati interessi, utilizzandola anche per una serie di sinergie con le “cooperative rosse”. In questo contesto è proprio l’indagine delle Procure calabresi a dar manforte all’inchiesta Consip, per un motivo molto semplice: dimostrerebbe un rapporto stretto tra Rocco Borgia e la Cmc, al punto da curarne le proiezioni e gli interessi in Calabria. La Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, è un colosso della cooperazione rossa e in Calabria costruisce di tutto. Alfredo Romeo teme che il nuovo assetto ai vertici dell’Inps possa nuocergli. Ne coglie le prime avvisaglie anche rispetto a interessi che la sua azienda ha nella gestione del patrimonio immobiliare dell’Inps in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Lazio. Lo dice chiaramente l’imprenditore amico di Tiziano Renzi, Francesco Russo mentre parla con il Romeo: «A me mi stanno martellando, sono quelli di Cmc, incontrali, incontrali, incontrali». E lui per “incontrarli” si rivolge a Rocco Borgia concordando con lui una lauta consulenza attraverso, appunto, la Sviluppo Srl. Chiacchiere? Non pare proprio, visto che nelle perquisizioni condotte salta fuori una fattura intestata a Sviluppo Srl di 24.400 euro, versati dalla Romeo Gestioni in un conto corrente acceso presso la Banca Popolare di Bari, per «attività di consulenza e assistenza in merito a possibilità di sviluppo commerciale e partenariato in materia di efficentamento energetico». Identica dizione e identica casuale di altre “consulenze” che le inchieste calabresi troveranno nel corso delle loro indagini. Ovviamente cambiano i contraenti, non più la “Romeo Gestioni” ma altre aziende in procinto di concludere affari con la pubblica amministrazione e in particolare con Anas, Sorical e Regione Calabria. Da ultimo, la Guardia di finanza, nel sequestrare un parco eolico da 300 milioni di euro in quel di Isola Capo Rizzuto, perché riconducibile al clan ‘ndranghetistico degli Arena, rinviene e cataloga altre “consulenze” riconducibili alla Sviluppo Srl. Comprensibile la furiosa reazione del procuratore distrettuale Nicola Gratteri davanti a una “fuga di notizie” che appare solo artatamente giustificata con le inchieste dei carabinieri del Noe sulla Consip e sugli amici, veri e presunti, di Babbo Renzi. 

Omicidio Mormile, "Umberto ucciso dalla ‘ndrangheta con il nulla osta dei servizi segreti", scrive Antonella Beccaria il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia”. A parlare è Vittorio Foschini, ‘ndranghetista pentito che il 26 aprile 2015 ha detto anche altro: Mormile sapeva di un patto tra criminalità organizzata calabrese e servizi segreti. L’educatore carcerario lo disse chiaramente: “Io non sono dei servizi”, quando gli venne chiesto un favore per il boss Domenico Papalia, e per questo – anche per questo – morì. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile”, spiega infatti Foschini.

Vediamo di capire meglio. Umberto Mormile, 37 anni, era un educatore in servizio nel carcere di Opera dopo essere stato a Parma. Fu ammazzato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, mentre andava al lavoro. Gli furono sparati sei colpi di 38 specialesplosi da un’Honda 600 che aveva affiancato la sua Alfa 33. L’omicidio venne rivendicato dalla Falange Armata – Falange Armata Carceraria, per la precisione – sigla che esordì proprio con questo delitto (e sul punto torneremo). In via definitiva per l’omicidio Mormile sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Nel corso del processo, la memoria dell’educatore carcerario fu sporcata da insinuazioni secondo cui avrebbe avuto una “condotta non specchiata” e troppo propensa a prestare favori ai boss detenuti, sia a Parma che a Opera. Falso, tanto che già nella stessa sentenza di condanna non lo si dava per certo, non c’erano elementi per sostenerlo. Perché tornare a parlare adesso di tutto questo? Per due ragioni. La prima è che il 19 luglio scorso, sul palco allestito a Palermo, in via D’Amelio, per la commemorazione della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino 25 anni fa, sono saliti per la prima volta Stefano e Nunzia Mormile, fratelli di Umberto. Insieme ad Armida Miserere, la direttrice di carcere legata sentimentalmente all’educatore assassinato e morta suicida a Sulmona il 19 aprile 2003, i fratelli hanno portato avanti per anni ricerche in proprio e sono giunti a una conclusione: Umberto fu assassinato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e amministrazione penitenziaria per entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis, il regime di carcere duro. Stefano e Nunzia Mormile lo hanno ripetuto pubblicamente pochi giorni fa in via D’Amelio e lo hanno fatto in modo tanto vigoroso da essere stati avvicinati da Nino Di Matteo, il pm palermitano oggi alla Direzione nazionale antimafia. La seconda ragione per cui tornare a parlare di Umberto Mormile si lega alla prima, l’esistenza di un antesignano del Protocollo Farfalla noto a Umberto e possibile causa (o almeno concausa) del suo omicidio. Di questo si parla nell’ordinanza ‘Ndrangheta Stragista, quella che ipotizza (in realtà conferma aggiungendo nuovi elementi rispetto a quelli già conosciuti) l’esistenza di un patto terroristico tra malavita calabrese e Cosa nostra per destabilizzare lo Stato. Proprio nelle 970 pagine dell’ordinanza compaiono le parole di Foschini e a pagina 914 c’è un paragrafo che si intitola “Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni Falange Armata. L’omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola. Il copyright della ‘ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale”. Sul delitto Mormile, che aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia e stava rifiutando il secondo favore, intervennero anche – scrive la gip di Reggio Calabria Adriana Trapani – i servizi segreti o, più precisamente, “non identificati esponenti” degli apparati di sicurezza, che suggerirono ai Papalia di usare la sigla Falange Armata per rivendicare il delitto. Così successe e nell’ordinanza reggina si legge ancora (a parlare è sempre Foschini): “Antonio Papalia, come ci disse (a me, a Flachi, a Cuzzola, a Coco Trovato e altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione ‘Falange Armata’ dell’omicidio Mormile”. A questo proposito ha aggiunto il collaboratore di giustizia Antonino Fiume: “Tutti gli omicidi di un certo tipo venivano decisi dal ‘consorzio'”. Certo, affermazioni da riscontrare ancora, ma ce ne sarebbe abbastanza per tornare a indagare sul delitto Mormile e sulle complicità di uomini dello Stato in quell’omicidio. Per questo, forse, a processo ci fu chi puntò sulla sua inesistente “condotta non specchiata”.

La Falange Armata: quell'abbraccio tra mafie e servizi segreti, scrive Claudio Cordova giovedì 27 luglio 2017 su "Il Dispaccio". La vicenda della Falange Armata, collegata a centinaia di minacce, rivendicazioni, illecite inframmettenze nello svolgimento di funzioni pubbliche di governo, ha generato lo svolgimento di approfondite e complesse investigazioni in diversi Uffici Giudiziari. Va detto, è questo è un dato giudiziariamente accertato, che, mai, seppure ipotizzata, è stata trovata prova dell'esistenza di una vera e propria cellula terroristica-eversiva, inquadrabile in una fattispecie associativa – con una sua gerarchia interna, con una sua struttura, con un sua logistica, con armi, con dei suoi mezzi economici, delle sue basi - che rispondesse al nome Falange Armata. Essa è stata una sigla con la quale si sono, per un verso, rivendicati stragi, delitti ed attentati fra il 1990 ed il 1994 organizzati e materialmente eseguiti da soggetti non inquadrabili nella sedicente struttura in questione (mafie, delinquenti comuni, ecc) e, per altro verso, anche, minacce, pressioni, intimidazioni, calunnie, commesse in danno di esponenti istituzionali con telefonate, missive, queste si confezionate da chi era intraneo alla sedicente Falange. Dietro questa sigla, ovviamente vi erano persone. Più esattamente, un gruppo - o forse, più di un gruppo - di soggetti che la utilizzavano per raggiungere proprie finalità di natura politica e di destabilizzazione. Le rivendicazioni avevano oggettivamente un fine chiaro ed evidente: colorando della natura politico/terroristica fatti che non erano tali e la cui vera finalità non poteva essere apertamente dichiarata (quella di ricattare le istituzioni) servivano a creare un certo clima nel paese, evidentemente favorevole alle finalità di chi poneva in essere le azioni criminali e dello stesso gruppo che si nascondeva ed aveva intentato la sigla stessa. E il clima che voleva crearsi era un clima di terrore. Dunque, più nel dettaglio, l'intenzione di attribuire ad una organizzazione terroristica la responsabilità di una serie di fatti anche gravissimi di sangue, aveva un duplice ordine di ragioni: la prima, scontata, ragione (strumentale alla seconda) – che è inevitabile conseguenza degli atti terroristici - era quella, come si è detto, di creare paura nel paese. Che già conosceva il terrorismo e ne temeva la ferocia. Tutto ciò per ottenere qualcosa.

Falange Armata – o almeno quel gruppo che aveva inventato la sigla e la utilizzava secondo un preciso disegno – da un punto di vista materiale, si limitava a rivendicare, minacciare, calunniare. La falange armata, insomma, utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità. Finalità che, stando alle risultanze investigative, sarebbero esclusivamente di natura politica, quale espressione di una (sordida) lotta per il potere. C'è un inquietante filo rosso che lega le vicende stragiste. Alla fine del 2013, Tullio Cannella, le cui dichiarazioni sono importanti con riferimento alla ricostruzione dei rapporti anche di rilievo politico intercorrenti fra Cosa Nostra siciliana e 'Ndrangheta, dichiarava: "...A questo punto della lettura del verbale si richiede al Cannella se è in grado di meglio precisare cosa ebbe a sapere, nel contesto mafioso, degli attentati del 92/93. Il Cannella dichiara: era il Luglio del 93, Leoluca Bagarella era con me al villaggio Euromare di Buofornello. Era ora di pranzo ed era accesa la televisione. Andò in onda il tg e diedero la notizia degli attentati di Roma e Milano. A questo punto Bagarella che era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, disse con soddisfazione e con ironia:"vedi che ora queste cose le "appioppano" alla falange armata" poi disse ancora con tono compiaciuto: "...vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!". Io gli dissi " ma perché tu hai a che fare con i terroristi?". Bagarella rispose: "...Diciamo che abbiamo avuto qualche contatto". La sera ricordo che Bagarella era di ottimo umore. Gli avevo offerto i suoi sigari preferiti, i Barmorall. Se ne stava compiaciuto a fumare. Ad un certo punto ritornò il discorso sugli attentati e disse con tono serio "il "mio amico" ci ha a che fare con questi terroristi. Ma devono fare quello che diciamo noi. Se sgarrano gli tagliamo la testa". Quando Bagarella parlava con me del "suo amico" si riferiva univocamente a Provenzano Bernardo. Di ciò sono certo. In particolare lui, come ho già detto, quando doveva prendere una decisione importante mi diceva anche che ne doveva parlare con il "suo amico". Capivo, intuitivamente, che l'unico amico che era al di sopra di Bagarella, all'epoca (siamo dopo la cattura di Riina) era Provenzano. Poi ne ebbi la certezza. Una volta, in quel periodo, mi disse che dovevo risolvergli un problema del "suo amico" o meglio della moglie del suo amico e mi diede dei documenti, non ricordo ora di che genere, che riguardavano Saveria Palazzolo, moglie di Provenzano Bernardo. Insomma quando parlava del suo amico era chiaro fra noi che si riferiva a Bernardo Provenzano. Quando con me parlava dei Graviano, diceva: " quei cornuti dei Graviano". Diceva ciò in quanto sapeva del mio rapporto conflittuale con i Graviano stessi.

ADR: dalle notizie che in quel momento passava il tg, mi riferisco a quello di ora di pranzo che sentii con Bagarella, non si faceva alcun riferimento alla Falange Armata. Dunque fu sicuramente Bagarella ad introdurre il discorso sulla Falange Armata...omissis".

Cannella è stato il soggetto più vicino al boss di Cosa Nostra Leoluca Bagarella nel periodo delle stragi. E' colui che, in quell'epoca agevolava la latitanza del Bagarella, e, dunque, è colui che meglio e più di qualsiasi altro collaboratore di giustizia è in grado di riferire le reazioni, le frasi, i contatti, avuti dal Bagarella nel periodo della stragi continentali. In primo luogo, dalle dichiarazioni di Cannella emergeva che lo stesso Bagarella aveva affermato di avere rapporti con gli estremisti di destra. E che tali rapporti, in particolare, erano riferibili (oltre che a lui stesso) a Provenzano (il suo "amico"). In ogni caso gli estremisti dovevano fare quello che dicevano "loro". Le carte dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" si soffermano sul fatto se i legami fra Cosa Nostra e la destra estrema - davvero esistessero, in quanto gli ambienti deviati da cui derivava la sigla Falange Armata, erano collegati e connessi alla destra eversiva. Nota la convergenza fra Cosa Nostra, la destra eversiva di Stefano Delle Chiaie, la massoneria controllata da Licio Gelli (i cui rapporti con la destra eversiva sono pure stati ampiamente dimostrati) che si realizzò nei movimenti autonomisti-separatisti, nei quali non a caso, proprio Bagarella e il suo uomo, Tullio Cannella, ebbero ruolo significativo. E in effetti la sera del 14 Maggio 1993 e nella notte/mattina del 15 Maggio 1993, alcune ore dopo l'attentato di via Fauro (che aveva come obbiettivo il giornalista Maurizio Costanzo) vennero effettuate telefonate di rivendicazione "Falange Armata"; la mattina del 27.5.1993, dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze, più telefonate all'Ansa rivendicarono l'attentato a nome Falange Armata; dopo gli attentati di Roma e Milano del Luglio 1993, furono effettuate rivendicazioni a nome Falange Armata. E, tuttavia, il fatto che le gravissime attività stragiste in esame, poste materialmente in essere da Cosa Nostra nel continente, fossero poi rivendicate "Falange Armata", non sembra sia stato il frutto di un caso, di una serie d' iniziative eterogenee e scoordinate fra loro che, però, hanno portato ad un risultato omogeneo. Appare dimostrato, sulla base di convergenti (e perfettamente sovrapponibili) dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, Salvatore Grigoli e Pietro Romeo, che Cosa Nostra, in persona di un uomo dei Graviano, Giuliano Francesco detto "Olivetti", ebbe a rivendicare (anche se non in tutti casi) con la sigla Falange Armata, gli attentati continentali. Questo spiega agevolmente la ragione per la quale Bagarella sapesse di tale imminente rivendicazione. E, come vedremo, si pone in perfetta coerenza e continuità con quanto, già anni prima, Cosa Nostra, e prima ancora la 'Ndrangheta, avevano concepito, programmato ed attuato. In particolare, Grigoli, il 26.3.2015, nel riferire degli intensi rapporti fra la famiglia di Brancaccio ed i calabresi, dichiarava:

"...A.D.R: Giuliano Francesco detto Olivetti - durante un incontro a cui eravamo presenti io, il predetto, Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e forse altri, incontro durante il quale stavamo preparando, in un sito di Palermo dalle parti di Corso dei Mille, l'esplosivo per lo Stadio Olimpico - ad un certo punto, ci disse che era stato proprio lui a fare le rivendicazioni "Falange Armata" relative ai precedenti attentati sul continente. Se non erro disse che queste rivendicazioni le faceva da Roma. Ma non sono sicuro.

A.D.R: il Giuliano Francesco, di carattere è un po' chiacchierone e a volte dice cose che non dovrebbero dirsi secondo le regole di Cosa Nostra. Io ad esempio delle rivendicazioni al suo posto non ne avrei parlato.

A.D.R: Ovvio che tale iniziativa, quella della rivendicazione, era così delicata che il Giuliano (che seppure era chiacchierone non era bugiardo) non poteva che averla presa se non a seguito di un ordine superiore che non poteva che venire da Giuseppe Graviano (più che da Filippo). Questo il Giuliano non lo disse espressamente o meglio non ricordo se lo disse o no, ma è certo, in base alle nostre regole interne, che dovesse essere stato Graviano Giuseppe che coordinava in modo puntuale tutta l'attività stragista a dare questo ordine.

A.D.R: Effettivamente non so neanche io - e certamente neppure lo sapeva il Giuliano - cosa fosse esattamente la "Falange Armata". Io ritenevo fosse una sigla terroristica tipo Brigate Rosse ovvero altra sigla anche di estrema destra, per me era lo stesso. Prendo atto ed informazione dalla SV, che si tratta di una sigla che venne usata per la prima volta in Spagna in epoca franchista. Se è così, e non ne dubito, si tratta di una cosa molto raffinata e neppure Graviano Giuseppe, aveva una simile cultura. Direi che in Cosa Nostra quello che aveva più cultura era Matteo Messina Denaro che io ho personalmente conosciuto.

A.D.R: Io ho sempre pensato che fosse scontato che la rivendicazione Falange Armata servisse a depistare le indagini e sono convinto sia così anche in considerazione della vicenda Contorno. Non bisognava capire, o almeno non doveva apparire una immediata riconducibilità degli attentati di Roma, Firenze, Milano e dell'Olimpico a Cosa Nostra, mentre era inevitabile pensare che l'attentato a Contorno era riconducibile a noi. Per tale ragione, mentre facevamo uso di tritolo per gli attentati precedenti e fra questi l'Olimpico, per l'attentato a Contorno usammo della gelatina ed un esplosivo bianco, granuloso che noi chiamavamo dash, assai diverso dal tritolo. Preciso a sua richiesta che, ovviamente, qualcuno doveva capire che c'entravamo noi con questi attentati continentali, altrimenti che li facevamo a fare, ma non doveva essere immediatamente visibile la nostra presenza, la nostra mano. Chi di dovere doveva capire e venirci incontro riducendo il carcere duro e le altre misure contro il crimine organizzato. Erano discorsi che facevamo sempre all'interno del gruppo di Brancaccio che si occupava di queste vicende. Dovrei avere parlato di questi fatti anche con Nino Mangano.

A.D.R: Vidi di persona, per una delle ultime volte (o forse era anche l'ultima volta, ma a distanza di anni non posso essere sicuro) Giuseppe Graviano a Roma più esattamente lo vidi in una villetta vicino al mare in una località nei pressi di Roma che si chiama Torvajanica. Era un giorno o forse due giorni (propendo più per due giorni) prima dell'attentato fallito dell'Olimpico. Non ricordo esattamente l'ora in cui arrivò il Graviano ma era buio, forse era sera o pomeriggio inoltrato. A vostra domanda escludo di essere stato presente, sempre in quel giorno o anche il giorno prima o il giorno dopo, in un locale di via Veneto a Roma di nome Donnay unitamente al Graviano Giuseppe e allo Spatuzza. Escludo di essere mai stato con Graviano in locali di Via Veneto. A sua domanda non posso escludere che prima o dopo il suo arrivo a Torvajanica il Graviano si sia visto con lo Spatuzza nel predetto locale. Non conosco la circostanza. Nel villino di Torvajanica quella sera iniseme a me e Giuseppe Graviano c'erano Spatuzza, Giuliano, Lo Nigro, Benigno Salvatore, Giacalone e forse altri. Forse, ma non sono sicuro, vi era anche Vittorio Tutino ovvero Cristoforo, detto Fifetto, Cannella, unitamente al Graviano quali suoi accompagnatori. A sua domanda preciso che non posso assolutamente escludere che il Graviano giunse a Torvajanica anche insieme allo Spatuzza o con lo stesso. Dato il tempo trascorso, di questi dettagli non ho ricordo preciso. A vostra ulteriore domanda rispondo che non ricordo che nel villino, ovvero in altre circostanze legate all'attentato alla FFOO dello Stadio Olimpico, si sia fatto riferimento a vicende calabresi più o meno simili.

ADR: Ricordo che nel corso dell'incontro nel villino in questione Giuseppe Graviano nel dire che bisognava concludere e portare a conclusione, immediatamente, l'attentato all'olimpico da subito (già il giorno dopo o forse quello ancora successivo) disse che bastavano quattro persone per fare l'attentato, per cui invitò me e se non sbaglio il Giuliano a ritornarcene in Sicilia. In effetti la mattina successiva partimmo per la Sicilia io e probabilmente come ho detto il Giuliano...

ADR: Era il Lo Nigro che aveva stretti rapporti con la 'ndrangheta come la vicenda del traffico di "erba" con la 'ndrangheta e la sua partecipazione a cerimonie che si svolsero in Calabria, tipo matrimoni, dimostrano (sono fatti di cui ho ampiamente già parlato). Ricordo che in questa occasione di viaggio in Calabria il Lo Nigro venne anche fermato dalla polizia. Può darsi, non posso escludere, che pure i Graviano avessero questi rapporti in Calabria, ma non sono in grado di dire fatti specifici.

ADR: Non sono in grado di riferire di viaggi dei Graviano in Calabria. Ricordo, invece, che Giacalone nel corso del 93/94, talora andava a Milano, presso un Ristorante di cui non ricordo il nome su diretta richiesta di Giuseppe Graviano e/o di Mangano per consegnare delle lettere al proprietario di questo ristorante che non so dire chi sia. Forse potrebbe essere anche un calabrese come la SV mi chiede. Giacalone che era mio socio in una rivendita di auto e che era con me in grande confidenza, mi raccontava di questi viaggi milanesi o spesso partiva organizzando proprio davanti a me il viaggio. Mi disse che una volta si era trovato in mezzo ad una sparatoria in un bar o comunque in un locale milanese in cui casualmente si trovava nel corso del viaggio che aveva fatto per recapitare queste lettere. Non conosco il contenuto di queste lettere.

ADR: La mia conoscenza dei fatti stragisti si limita a ciò che avvenne in Cosa Nostra nel gruppo in cui operavo quello del mandamento di Brancaccio in cui era inclusa la famiglia di Corso dei Mille cui io appartenevo. Non so dire se vi furono condivisioni della strategia stragista con entità criminali diverse da Cosa Nostra..."

A sua volta, il collaboratore di giustizia, Pietro Romeo, il 26.3.2015, anche lui rimarcando i rapporti fra la famiglia di brancaccio ed i calabresi, riferiva: "...A.D.R. Mi chiedete se nel contesto della mia partecipazione ai fatti stragisti continentali ho avuto informazioni sulle rivendicazioni "Falange Armata". Vi rispondo di sì. Premetto che io sono uscito dal carcere tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994. Quando uscii dal carcere – ero detenuto per delle rapine che avevo fatto - non ero uomo d'onore e, per la verità, non lo sono mai diventato. Tuttavia partecipai alle attività del gruppo di Brancaccio. In pratica quando, dopo la mia scarcerazione incontrai Giuliano Francesco, che io conoscevo come appartenente a Cosa Nostra, che faceva capo a Tagliavia Francesco di Corso dei Mille/Via Messina Marina, figlio di Giuliano Salvatore, esponente di rilievo della famiglia di Corso dei Mille. Del gruppo del Tagliavia facevano parte anche il Cosimo Lo Nigro ed il Barranca Giuseppe. Ebbene il Giuliano Francesco mi propose di entrare nel gruppo di fuoco guidato all'epoca da Nino Mangano. Si tenga presente che all'epoca erano in carcere sia i Graviano (capi di Brancaccio ma molto legati alle famiglie di Corso dei Mille e via Messina Marina) che il Tagliavia. Io accettai e così andai dalle parti di Roma ad aggregarmi al gruppetto che in quel momento doveva fare l'attentato a Contorno in località Formello, vicende tutte su cui ho reso ampie dichiarazioni. Venendo alla sua domanda le dico che il Giuliano che era persona molto loquace, di sua iniziativa, non solo mi parlo degli attentati precedenti (quelli di Roma, Firenze e Milano) ma mi raccontò anche che era stato proprio lui a telefonare, dopo gli attentati, rivendicando gli stessi a nome Falange Armata. Non ricordo a chi telefonò per fare le rivendicazioni. Mi disse, comunque, che così gli avevano ordinato di fare e lui così fece ed anche se lui non mi ha detto chi gli diede questo ordine, io penso che a darlo possano essere stati solo i Graviano o il Tagliavia perché Giuliano prendeva ordini da loro e comunque non poteva prendere una iniziativa così importante senza che i capi lo autorizzassero. Il Giuliano mi spiegò che, seppure le stragi erano state volute per affievolire il regime di carcere duro contro la criminalità organizzata e per avere, più in generale, dallo Stato, un migliore trattamento, tuttavia non si voleva – evidentemente da parte chi gli aveva dato l'ordine di fare le rivendicazioni in questione (e quindi da chi stava sopra a chi gli aveva dato tali ordini) - che fosse immediatamente ricollegata la strategia stragista a Cosa Nostra. Insomma queste rivendicazioni servivano a "depistare". Per la verità io dissi a Giuliano: ma tu pensi che facendo così lo Stato si arrende? Non ricordo la sua risposta ma certo non mi disse nulla di significativo se no lo ricorderei, almeno penso.

A.D.R: Giuliano, come ho detto era un chiacchierone. Dunque parlava spesso di questi argomenti. Non posso dirle dove esattamente mi disse queste cose. Direi sia in Sicilia che in Continente quando eravamo insieme.

A.D.R: Era Cosimo Lo Nigro, che aveva rapporti privilegiati con i calabresi. Ricordo che il Lo Nigro addirittura andava a dei matrimoni o battesimi o comunioni, non ricordo, di questa famiglia di 'ndrangheta che si celebravano in Calabria, non ricordo dove. La cosa me la disse lo stesso Lo Nigro. Inoltre come ho già ampiamente raccontato (su questi fatti sono stati celebrati dei processi) Lo Nigro faceva affari di ogni genere, sia nel settore della droga che delle armi, con i calabresi ed, in particolare, con la famiglia di questo Peppe presso cui era anche andato in occasione delle ricorrenze sopra indicate. Ho partecipato in prima persona e quindi rinvio alle dichiarazioni rese an suo tempo in quanto ovviamente ricordavo meglio i dettagli, a queste operazioni di traffico di droga e armi svolte insieme ai calabresi. Il fatto più eclatante che ricordo fra i tanti è che il Lo Nigro, sotto i miei occhi, mise 500 milioni in contanti all'interno dello sportella della sua vettura smontando un pannello. Tali soldi li portò in Calabria da Peppe o dai suoi amici per investirli in un ulteriore carico di droga. Erano i calabresi che avevano i contatti con i produttori e dunque a loro ci si rivolgeva. Tutto ciò avveniva subito dopo i fatti di Formello fra il 1994 ed il 1995. Ricordo anche di avere visto con i miei occhi il Peppe a Palermo vicino la casa di famiglia di Cosimo Lo Nigro, con una Renault Clio Williams blu. Era una vettura particolare dunque la ricordo. Portammo noi di Cosa Nostra, nel 94, dal Marocco, "fumo" dei calabresi fino a Palermo. In cambio avemmo una parte del carico ed il restante lo consegnammo alla famiglia di Peppe. Ricordo che tale carico lo portarono a Milano, con un camion, Piero Carra e Cosimo Lo Nigro. Nel traffico era implicato un altro calabrese, Giovanni detto "Virgilio", calabrese.

A.D.R: Non sono in grado di dire come il Lo Nigro avesse stretto in modo così significativo i rapporti con i calabresi. Mi chiedete se si trattava di amicizie dei Graviano ed io vi dico che non sono in grado di rispondere.

A.D.R: Non sono in grado di riferirle se la strategia delle stragi continentali ebbe un consenso anche da parte di altre organizzazioni di tipo mafioso. Io non avevo rapporti con i capi di tali organizzazioni. Neppure il Giuliano era all'altezza di avere questi rapporti i vertici di altre entità criminali...omissis".

La sigla Falange Armata, che Cosa Nostra decise di adottare ad Enna e che, quasi contestualmente (leggermente prima) la 'Ndrangheta decise di adottare, richiamava coordinate e conoscenze storico/politiche piuttosto ricercate . Il precedente più vicino (anzi, l'unico, per la verità, nella storia contemporanea, moderna e medievale) ed anche più congruo, era quello dei cd falangisti, della destra franchista spagnola del secolo scorso. In particolare, come è noto agli storici, la "Falange Espanola de las J.O.N.S." fu una formazione di ispirazione fascista fondata nella Spagna della Seconda repubblica da Josè Antonio Primo de Rivera nel 1933. Nel 1937, in piena guerra civile spagnola, si fuse con il movimento nazionalista e diede vita al partito "Falange Espanola Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista – FET y de las JONS", in cui confluirono le forze legate ai vecchi valori monarchici, clericali e conservatori. Il generale Francisco Franco ne assurse a leader indiscusso e, nel 1939, il "FET y de las JONS" diventa "Movimento Nacional", partito unico franchista. Se vogliamo andare più dietro nel tempo per trovare un altro riferimento alla Falange, è necessario affidarsi alle reminiscenze degli studi classici, evocando la cd Falange Macedone. Si tratta, come si vede, di riferimenti storici che, francamente, stridono con il livello culturale ed il grado di conoscenza della storia e della politica, antica e moderna, di Riina, Provenzano, Bagarella, Filippone, Papalia e compagni. E allora, forse, vi sono delle menti ancor più sopraffine dietro. Squarci di luce arrivano, ancora una volta, dalle dichiarazioni messe nero su bianco in fase di indagine. A cominciare da Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu". Egli, nel corso dell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava un dato fondamentale riguardante la genesi della strategia terroristica di cui Cosa Nostra fu massima artefice: la riunione, meglio, le riunioni "strategiche" di Enna della fine del 1991, in cui venne decisa la necessità di dare uno scossone allo Stato, innescando una spirale del terrore. Fatto di cui aveva riferito Leonardo Messina. E tuttavia, Malvagna, disvelava un particolare di non secondario rilievo relativo a tali riunioni: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...

A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...

A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace" (N.d.PM : si tratta esattamente della ricostruzione operata nelle sentenze fiorentine sulle stragi). Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla "Falange Armata"..."

Malvagna, quindi, veniva nuovamente escusso il 20.5.2015: "...A.D.R: Secondo il racconto di mio zio Malpassotu, furono i Corleonesi - ed in particolare Totò Riina - a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati "Falange Armata". Quando mio zio disse questa sigla in compresi che si trattava di un qualcosa che doveva rappresentare un riferimento ad una qualche organizzazione terroristica. Poi mio zio mi spiegò ancora meglio. Mi disse che bisognava confondere le acque. Non bisognava fare capire all'opinione pubblica e allo Stato che eravamo noi mafiosi a sviluppare questa strategia terroristica ma dovevamo gettare sconcerto e scompiglio fino ad indurre lo Stato a cercare una interlocuzione con noi. Mio zio mi disse per farmi comprendere a cosa alludesse che bisognava fare come in Colombia dove i trafficanti di cocaina quando erano stati duramente attaccati dallo stato colombiano che veniva supportato dalla DEA e dagli americani, iniziò a porre in essere, sotto mentite spoglie, una strategia di attentati terroristici che indussero lo Stato a scendere a compromessi con loro. Non so dire se questo esempio storico di mio zio sia corretto ma così mi disse. In ogni caso mio zio mi spiegò che bisognava da subito attivarsi anche con atti soltanto dimostrativi. Bisognava creare da subito un clima di paura. Fu così che immediatamente presi la palla al balzo e chiesi a mio zio se potevo fare giungere delle minacce all'allora sindaco di Misterbianco a nome Antonino Di Guardo che era un sindaco "antimafia" che ci dava fastidio denunciando pubblicamente il nostro sodalizio. Mio zio assentì e così io incaricai un giovane di mia fiducia tale Alfio Adornetto che faceva parte del gruppo che io dirigevo di telefonare a casa di questo sindaco e minacciarlo, rivendicando le minacce con la sigla Falange Armata. La cosa avvenne (siamo nella primavera del 1992) e se non sbaglio questo Sindaco è stato pure ascoltato come teste nel processo per la strage di Capaci nella quale pure io sono stato escusso. Ricordo anche che venne fatto un attentato dimostrativo davanti alla Caserma di Piazza Verga dei Carabinieri e anche in questo caso facemmo la rivendicazione Falange Armata. Di questo attentato si occuparono gli uomini di D'Agata. In quello stesso periodo erano in preparazione ma non ricordo se andarono ad effetto altre minacce o atti intimidatori con le stesse modalità ai danni del giornalista Claudio Fava, dell'avvocato Guarnera che difendeva i collaboratori di giustizia e il Sindaco Bianco (non ricordo se all'epoca fosse o meno in carica). Tutto ciò avveniva nello stesso periodo in cui il Santo Mazzei dava la disponibilità a fare attentati in continente. A proposito di ciò ricordo che mio zio il Malpassotu diceva che se il Mazzei fosse riuscito davvero ad eseguire gli attentati che si riprometteva di compiere avrebbe fatto una carriere fulminate superandoci nella gerarchia mafiosa. Ovviamente diceva ciò con preoccupazione in quanto temeva che noi perdessimo potere...omissis....

Le affermazioni di Malvagna, trovavano, poi, conferma nelle convergenti dichiarazioni di altro collaboratore di Giustizia catanese, Maurizio Avola, che aveva già parlato della riunione di Enna del 1991 nella quale i vertici di Cosa Nostra siciliana avevano deciso di attaccare lo Stato con atti terroristici in quanto i suoi rappresentanti non erano più affidabili con la conseguente necessità di creare una situazione di panico diffuso che avrebbe agevolato rivolgimenti politici favorevoli alle mafie. E tuttavia, anche Avola, peraltro in piena consonanza con sue pregresse dichiarazioni, nel corso dell'interrogatorio reso a questo Ufficio, in data 14.4.2015, dichiarava: "....ADR: Furono Aldo Ercolano e Marcello D'Agata che dissero a noi della famiglia Santapaola, quando già Santo Mazzei era divenuto un esponente di rilievo di Cosa Nostra catanese, in mia presenza, che laddove fossero stati eseguiti gli attentati contro lo Stato che avevano deciso i corleonesi, bisognava ricorrere a delle rivendicazione "di comodo" che non dovevano consentire di collegare gli attentati a Cosa Nostra, che, infatti, non rivendica mai le proprie azioni. Dissero che bisognava utilizzare la sigla Falange Armata. A vostra domanda vi dico che non sono in grado di dire come sia stata "inventata" questa sigla. Io pensavo che fosse una rielaborazione delle "Falangi" con cui si denominavano gli ultras del tifo calcistico. Ma si tratta di una mia ricostruzione e di una mia ipotesi. I miei capi non spiegarono l'origine della sigla. Faccio presente che allorquando nel 1992 venne collocato a Piazza Verga un ordigno di fronte ad una caserma dei CC da parte di Pippo Ercolano, venne fatta una rivendicazione Falange Armata. L'atto intimidatorio venne posto in essere dall'Ercolano perché all'epoca i CC indagavano su di una sua impresa. A vostra domanda preciso che non posso né escludere né affermare che fosse stato Santo Mazzei ad inventarsi questa sigla Falange Armata...".

Oscuri e inquietanti gli interrogativi su chi inventò la sigla Falange Armata, l'esatta individuazione e collocazione nel tempo delle modalità attraverso cui Cosa Nostra (e, soprattutto, la 'Ndrangheta) decisero di utilizzare la rivendicazione "Falange Armata" in occasione di eventi stragisti ovvero di delitti che, comunque, avevano come bersaglio figure istituzionali o politiche, e la individuazione del momento in cui le mafie, e non altri, iniziarono ad utilizzare concretamente la stessa. Oscuri e inquietanti gli interrogativi sui suggeritori esterni. L'idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato – il cui nucleo forte era costituito da una frangia del SISMI e, segnatamente, da alcuni esponenti del VII Reparto cd "Ossi" che, fino alla caduta del muro di Berlino (o, fino a pochi mesi dopo) si occupava di Stay Behind – che, evidentemente, volevano destabilizzare il paese creando un nuovo allarme terroristico; costoro – che non scordiamolo avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della 'Ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla "Falange Armata". Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatto proprio anche da Cosa Nostra, nel corso della riunione Enna. L'idea delle mafie di rivendicare le stragi con la sigla Falange Armata non era una trovata bislacca e cervellotica dei capi delle mafie, ma rispondeva perfettamente alle loro esigenze strategiche; era stata approvata da Cosa Nostra, nel lontano 1991, ad Enna, nello stesso periodo storico in cui Cosa Nostra e le altre mafie iniziarono a dare sostegno, con Gelli e l'estrema destra, alle cd liste autonomiste; il loro concreto atturarsi in occasione delle stragi continentali era noto e gradito al reggente di Cosa Nostra nel 1993 (Leoluca Bagarella) prima ancora che tali rivendicazioni fossero note. In tal senso, non è affatto secondario il rilievo di quanto, sempre sul conto di Bagarella, riferiva un collaboratore di giustizia siciliano, Emanuele Di Filippo, alla fine del 2013: "...A.D.R.: Ho fatto parte, originariamente, del gruppo di fuoco di Ciaculli nel corso dei primi anni 80'. Ero uomo d'onore ma non ritualmente "punto". Il mio capo, all'epoca, era mio cognato Marchese Antonino. Dopo il suo arresto avvenuto credo nel 1982, cominciai a prendere ordini da Giuseppe Lucchese detto "lucchiseddu" con il quale ho commesso numerosi omicidi per i quali sono già stato giudicato. Intorno alla metà degli anni 80', precisamente intorno al 1985, riuscii a "sganciarmi" dal ruolo "ingrato" di killer ed iniziai ad operare nel settore degli stupefacenti, delle estorsioni e del contrabbando di sigarette. Come ho già ampiamente spiegato, per svolgere tale mia ultima attività, nella quale sono stato impegnato fino al mio arresto nel 1994 ( ho iniziato a collaborare nel 1995, e grazie alle mie indicazioni e dichiarazioni venne catturato Leoluca Bagarella ) seppure rimanevo "inquadrato" nella famiglia di Ciaculli, operativamente mi sono "spostato" nella zona di Brancaccio/ Corso dei Mille, dunque, in tale contesto, facevo riferimento ai fratelli Graviano anche se costoro, ovviamente, non erano i miei capi.

ADR: Io avevo rapporti risalenti nel tempo e consolidati con Leoluca Bagarella dovuti a motivi di parentela. In particolare mia sorella si era sposata con Marchese Antonino che era il fratello della moglie di Leoluca Bagarella che si chiamava Vincenzina. A ciò si aggiunga che i rapporti fra i Graviano e Bagarella erano assai stretti e che io stesso facevo da tramite fra il mio predetto cognato, detenuto a Voghera, e Totò Riina – notoriamente vicinissimo a Bagarella di cui era cognato – facendogli pervenire dei pizzini di Riina stesso, pizzini che mi venivano consegnati, chiusi e sigillati, da Filippo Graviano...

ADR: Cesare Lupo era persona inserita in Cosa Nostra, molto vicina ai Graviano, anche se operava principalmente con la famiglia di Corso dei Mille (il cui territorio peraltro è limitrofo a quello di Brancaccio). Ho conosciuto il Lupo da libero nei primi anni 90', ma si è trattato di incontri occasionali. Mio fratello Pasquale, che pure collabora, ha avuto, invece, con il Lupo, rapporti più intensi e penso possa dirle su di lui qualcosa in più. Di seguito, in ogni caso, ebbi modo di rivedere ed incontrare il Lupo presso il Carcere dell'Ucciardone. Mi sembra alla sezione seconda. Eravamo nel 1994.

ADR: Mi si chiede se confermo quanto riferito alla DDA di Firenze nel già citato interrogatorio, sul fatto che il Lupo mi parlò di collegamenti fra il Leoluca Bagarella ed ambienti istituzionali deviati. Rispondo che lo confermo. In pratica il Lupo, proprio mentre ci trovavamo all'Ucciardone e parlavamo di pentiti, mi disse che Leoluca, prima o poi, li avrebbe individuati grazie ad informazioni che riceveva da qualcuno dei servizi segreti ....omissis".

Se, quindi, come risulta, vi erano rapporti o contatti fra il Bagarella ed esponenti dei servizi si ha una ulteriore traccia - coerente rispetto alle altre fonti di prova che consente di individuare in alcuni esponenti deviati dei Servizi di Sicurezza, suggerì a Cosa Nostra - in epoca antecedente e prossima alla riunione dell'estate 1991 ad Enna in cui la sigla venne adottata dal sodalizio mafioso - di utilizzare, per la rivendicazione delle stragi, la sigla Falange Armata. Specie se si considera che proprio il Bagarella era ben consapevole della funzione e delle finalità della strategia di rivendicazione delle stragi da parte di Falange Armata. Ed in questo ambito è ben possibile, oltre che coerente, che in più ampio quadro pattizio e, quindi, in un ambito in cui si erano individuati obbiettivi di comune interesse, si fosse proceduto ad una divisione di impegni e compiti fra i diversi partners, nel quale, le mafie, per la loro parte, si erano impegnate a "fare rumore". E, ovviamente, si badi bene, non deve affatto pensarsi che Cosa Nostra (e la 'Ndrangheta) avessero preso questi impegni controvoglia, sottomettendosi ad altri. Anzi. Le Mafie intendevano ricattare ed atterrire lo Stato con il terrorismo. Anche favorendo un ricambio della classe politica. In particolare, è noto che anche Licio Gelli – ed un suo vasto entourage - avevano preso parte, con ruolo di primario rilievo, al disegno di disgregazione del panorama politico istituzionale della Prima Repubblica. Ma tornando alle intelligenze fra Cosa Nostra e servizi deviati un importante elemento cognitivo, pienamente convergente rispetto a quelli fino ad ora evidenziati e che rafforza, quindi, la ricostruzione fino ad ora prospettata, proviene dalle affermazioni del collaboratore di Giustizia Armando Palmeri, legato alla mafia di Alcamo, che fin dall'inizio della sua collaborazione (nel 1998) aveva segnalato un episodio davvero inquietante. In particolare all'inizio del luglio 2016, Palmeri riferiva: "...ADR: Sono entrato in Cosa Nostra nel 1991. Nel 1995, avendo già preso le distanze da Cosa Nostra, con la quale era però rimasto in contatti, ho iniziato a collaborare informalmente con gli inquirenti, facendo in buona sostanza l'informatore e, poi, nel 1998 ho formalmente iniziato collaborare con la AG ottenendo il programma di protezione.

ADR: All'interno di Cosa Nostra non ero uomo d'onore ufficialmente, ma ero persona "riservata" di Milazzo Vincenzo, capo-mandamento di Alcamo. Mi spiego meglio: ero inizialmente e sono rimasto amico personale di Milazzo fino a quando non è stato ucciso nell'estate del 1992. Eravamo amici da alcuni anni, un paio circa. Io ero persona di fiducia del Milazzo, anche per gli affari di mafia del predetto. Spesso lo spostavo. Tenete conto che da quando io ebbi a conoscerlo era già latitante. Preciso che non ero stipendiato ma semplicemente molto legato al Milazzo. Ovviamente se e quando chiedevo dei soldi in relazione alle mie necessità, Milazzo me li dava. Ma in quel contesto più dei soldi contava la sincera amicizia. Io all'epoca ero istruttore di nuoto presso la piscina Camping El Baira di S.Vito lo Capo e alle Terme Segestane.

ADR: Con riferimento a contatti fra il Milazzo ed esponenti di apparati statali o sedicenti tali, posso dire che nel 1991 e, comunque, alcuni mesi prima dell'omicidio del Milazzo (non so dire se 1 anno, 6 mesi, 8 mesi prima o altro è passato troppo tempo) e comunque prima della strage di Capaci accompagnai il Milazzo ad un incontro che si tenne nelle campagne di Castellammare (svincolo che va a Scopello) in una villetta di pertinenza di tale Manlio Vesco. In effetti, precisamente, la villetta, era in contrada Consa. Costui, il Vesco, era un imprenditore amico del Milazzo, poi morto suicida, in circostanze molto particolari. Appresi, infatti, che stranamente il Vesco, prima di morire, aveva posteggiato la vettura lungo l'autostrada vicino lo svincolo di Alcamo per poi percorrere chilometri e chilometri a piedi, per poi, infine, lanciarsi nel vuoto. Ricordo che anche i mezzi d'informazione sottolinearono la stranezza del fatto.

ADR: Ricordo che Milazzo in occasione di questo primo incontro in contrada Consa, mi chiese di partecipare allo stesso. Io mi rifiutai, non volevo espormi e preferivo rimanere nell'ombra. Allora Milazzo mi disse di non entrare nella villetta ma di attenderlo fuori, rimanendo defilato ed invisibile, avendo cura di controllare i movimenti che potevano esserci intorno alla villa stessa. All'uopo mi diede anche un binocolo. Vidi arrivare due vetture dopo l'arrivo del Milazzo da cui uscirono, da una, due persone che non conoscevo (si trattava di persone ben vestite di circa 40 anni, che escluderei potessero essere dei "picciotti") accompagnate dal dott. Baldassarre Lauria, medico primario dell'Ospedale di Alcamo che io già conoscevo fisicamente e che li seguiva o precedeva con l'altra macchina. A seguito dell'incontro Milazzo mi apparve molto preoccupato e turbato. Lui aveva molta fiducia in me e senza che io chiedessi nulla (in Cosa Nostra non si chiede) mi raccontò che le due persone venute con il Lauria erano due dei servizi segreti i quali senza giri di parole avevano richiesto al Milazzo di fare una attività di tipo terroristico in continente per loro conto. Se non ricordo male gli chiesero di fare degli attentati in continente. Non sono sicuro se in questa occasione si parlò di Firenze, come uno dei luoghi in cui fare attentati o se invece con riguardo a questo stesso argomento la città di Firenze non venne in considerazione successivamente in quanto luogo ove si trovavano dei parenti della famiglia Ferro che avrebbero potuto fare da appoggio per la commissione dell'attentato. Su questo vi dirò in seguito procedendo con ordine. E' certo che, comunque, questi attentati andavano fatti in continente e in tale contesto in effetti, mi disse il Milazzo, che il dott. Lauria che partecipò alla discussione con quelli dei servizi, tirò fuori l'idea di procedere anziché con attentati dinamitardi con l'avvelenamento delle acque, a mezzo ii batteri. Insomma secondo il Lauria era più agevole avvelenare l'acquedotto (ubicato, forse, ma come ho detto non ricordo con certezza, a Firenze). Il Milazzo mi disse che l'idea del Lauria della guerra batteriologico venne tuttavia subito esclusa e rimase in campo solo l'idea degli attentati tradizionali con esplosivo.

ADR: Secondo quanto mi disse il Milazzo, negli intenti di costoro – e cioè di quelli dei servizi - vi era quello di destabilizzare lo Stato. Non so dirvi perché volessero destabilizzare lo Stato nel senso che Milazzo su questo aspetto nulla disse. Posso invece dirvi che il Milazzo, all'esito di questo primo incontro si riservò di dare una risposta.