Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

MASSONERIOPOLI

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 MASSONERIOPOLI

MASSONERIA. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

MASSONERIA: QUELLO CHE NON TI DICONO.

 

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Massoneria non si può non parlare dei tarli che divorano il sistema Italia e le commistioni tra le cosche criminali locali con le lobbies, le caste e le massonerie deviate. Queste detengono il potere politico, economico ed istituzionale e per gli effetti si garantiscono impunità ed immunità. Delle Caste e delle Lobbies si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Della Mafia, si parla dettagliatamente anche in altra inchiesta ed in altro libro.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione." Di Antonio Giangrande

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

TINA ANSELMI ED AGOSTINO CORDOVA: I PASIONARI CONTRO LA MASSONERIA DEVIATA.

CHI COMANDA IL MONDO E LE INCHIESTE CHE NON SI DEVONO FARE.

 ‘NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

PARLIAMO DI MASSONERIA E DI CHI COMANDA IL MONDO.

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

CHI FA LE LEGGI? 

LA MASSONERIA E PALAZZO GIUSTINIANI.

IL RITO DI INIZIAZIONE.

ERO MASSONE.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

P2 E DINTORNI. CHI ERA LICIO GELLI?

A SINISTRA SI E’ PIU’ INTELLIGENTI?

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

SE NASCI IN ITALIA…

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

SE IL NEMICO NON LO PUOI BATTERE, FATTELO AMICO!

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

MASSONERIA: QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

IL FENOMENO FEMEN.

UN APPROFONDIMENTO, ANCHE LETTERARIO, SULLA MASSONERIA.

LA MASSONERIA TRA CHIESA E 'NDRANGHETA.

MAGISTRATI MASSONI, GIU' IL CAPPUCCIO!!!!

LA MASSONERIA DEL TERZO MILLENNIO. I DELITTI MASSONICI E LE NOTE DI CRONACA.  IL MISTERO DELLA MORTE DI RINO GAETANO, DI MARCO PANTANI E DEGLI ALTRI NOMI NOTI E LO SCANDALO MOSE.

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO?

GUERRA DI TOGHE.

LE CARICHE PUBBLICHE E LA MASSONERIA. FATTI AMICO UN MASSONE DI SINISTRA.

SILVIO E GIORGIO: AFFINITA’ E FRATELLANZA.

CHI NON E’ MASSONE DEVIATO, SCAGLI LA PRIMA PIETRA: MAGISTRATI, POLITICI, MAFIOSI.

LA MASSONERIA ED IL POTERE.

FINANZA E POTERE. IL GRUPPO BILDERBERG E LE TEORIE COMPLOTTISTICHE.

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

FRATELLI COLTELLI.

ABOLIAMO LA MASSONERIA?

AFFARI DEI TEMPLARI LEGHISTI.

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA, FINANZA E MAGISTRATURA.

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

MASSONI. QUEGLI UOMINI IN NERO NASCOSTI TRA POLITICA, MAGISTRATURA ED AFFARI.

MASSONERIA: GLI INSOLITI NOTI CHE SONO IN MEZZO A NOI.

MAGISTRATI ED AVVOCATI MASSONI?

PARLIAMO DI MASSONERIA.

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA.

TORINO CAPITALE, COVO DI MASSONI.

PARLIAMO DI MASSONERIA DEVIATA, MAFIA, SERVIZI SEGRETI E SETTE SATANICHE.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO E LE SETTE DI STATO.

STORIA DELLA MASSONERIA.

POLITICA E MASSONERIA.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA.

LOGGIA PROPAGANDA 2.

GLADIO.

P3 E CRICCHE ANNESSE.

LE P....POTERI OCCULTI, MA NON TROPPO.

WALT DISNEY, IL MASSONE?

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

L'UNITA' IL PECCATO ORIGINALE. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 30 gennaio 2018. L’intera storia di questo Paese andrebbe riscritta per smascherare il sistematico ricorso alla coercizione armata degli apparati dello Stato per perpetuare il potere della “borghesia compra dora” (una classe media indigena alleata con gli investitori stranieri, multinazionali, banchieri e gli interessi militari) asservita al grande capitale cosmopolita e del suo partito: la massoneria. Le origini di molti mali dell’Italia di oggi risiedono nelle circostanze con cui l’unità nazionale fu raggiunta, cioè una spietata guerra di conquista e di saccheggio scatenata dal Piemonte contro i floridi stati preunitari. Gli obbiettivi di Cavour erano quelli di garantire alla nascente industria del Nord i capitali per il suo sviluppo e un mercato per i suoi prodotti. Quindi si deve parlare di una vera e propria guerra coloniale: dove la potenza imperialista interviene direttamente per garantire la sicurezza degli investimenti e lo sfruttamento del territorio. Con l'emancipazione nazionale il grande capitale arruola tra gli indigeni il personale di cui ha bisogno: tecnici, amministratori, forze di polizia. Poi in modo più sfumato, la potenza imperialista continua a condizionare la colonia attraverso i programmi di assistenza economica, militare e culturale, ma ricorrendo anche alla corruzione, all’intimidazione, al colpo di stato e all’intervento militare diretto. Il tutto nell’interesse del grande capitale, che nel frattempo è diventato cosmopolita. In Italia il Regno del Piemonte si sostituì, all’Austria come potenza coloniale e l’unità segnò il punto di transizione dall’epoca coloniale al neocolonialismo. Di fatto termina una dominazione straniera e sorge uno Stato unitario e formalmente indipendente sul piano politico, ma pur sempre aggiogato al carro del grande capitale. Fu la grande finanza ebraica a spingere i governi europei a intraprendere le iniziative coloniali dell’Ottocento. Ciò accadde perché il grande capitale non trovava più sufficientemente remunerativi gli investimenti nelle loro nazioni d’origine. Il caso italiano non fa eccezione: furono i Rothschild di Parigi e i loro agenti a Parigi, Londra e Ginevra a finanziare le guerre d’indipendenza, la costruzione di cantieri navali, ferrovie e fabbriche di armi, l’allestimento di una moderna flotta. Re Vittorio Emanuele II e Cavour contrassero con la finanza ebraica debiti di tali proporzioni da rendere necessario il saccheggio sistematico del resto della Penisola. Questo fu il meccanismo criminale che portò all’unificazione della Penisola. L’Italia è sempre stata una terra ricca grazie ai suoi porti, alla sua collocazione geografica, alla fertilità delle campagne, all’ingegnosità dei suoi abitanti: c’era tanto da predare in Italia. La resistenza delle strutture tribali alle strutture del capitalismo avanzato provocano un fenomeno di reazione, che è possibile osservare nella storia di ogni Paese toccato dal colonialismo. Questa situazione si trova anche nel Mezzogiorno italiano e prende il nome di brigantaggio. Con l’affermazione di una classe sociale, detta borghesia compradora, da non confondere con la borghesia produttiva che fa impresa o la piccola borghesia cittadina dedita al commercio spiccio, né quella rurale dei piccoli proprietari terrieri. Ma l’agente del grande capitale nei Paesi in via di sviluppo: è la classe sociale degli amministratori, degli ufficiali dell’esercito, degli impiegati di banche straniere e multinazionali, dei liberi professionisti, la cui unica ragione è la difesa degli investimenti stranieri sul territorio minacciati dalle rivendicazioni sociali del popolo oppresso. I suoi membri traggono una rendita di posizione, che si esprime nelle forme del potere personale, del prestigio e della ricchezza. La borghesia compradora comparve in Italia alla vigilia dell’unità col preciso compito di saccheggiare il Paese per sé e per i propri padroni: i potenti banchieri israeliti di Parigi, Londra e Ginevra guidati dai Rothschild. Furono costoro, che finanziarono le guerre d’indipendenza e il processo di modernizzazione del Paese. Considerati gli interessi che essi difendono, non sorprende che governi di diverso colore politico si alternino tra loro senza che nulla cambi. (“Tutto cambia perché nulla cambi”. Tomasi di Lampedusa). Il sacco d’Italia iniziò accentrando in un’unica mano la leva della fiscalità a partire dal 1861 e fu condotto per mezzo di un esercito di amministratori corrotti e soldati. Così, servendosi della borghesia compradora selezionata e arruolata dalla massoneria, il grande capitale instaurava le sue strutture economiche nella Penisola. Il risultato fu un’ondata di miseria quale non se ne ricordava da secoli: fu a quel punto che milioni di compatrioti iniziarono a emigrare in America con le famose valige di cartone. (Oggi il fenomeno si ripete: sono giovani diplomati e laureati che partono in cerca di opportunità di lavoro che in Italia mancano, piccoli imprenditori che chiudono le loro fabbrichette in Italia per delocalizzare le produzioni, pensionati che fuggono in Portogallo, in Romania o in Tunisia per poter vivere dignitosamente gli ultimi anni della loro vita con quel poco di pensione che si ritrovano). Tutto questo accade perché esiste una casta che nulla produce, ma depreda, dilapida e si vende le ricchezze che dovrebbe amministrare in nome del popolo sovrano. Dal 1861 i vari governi che governavano il Paese imposero al Sud la pesante tassazione che già gravava sul Nord, aggiunsero nuovi balzelli, come l’odiosa tassa sul macinato, confiscò i palazzi e le tenute fondiarie della Chiesa, che i soliti faccendieri si accaparrarono a prezzi stracciati. Tutto ciò serviva ad alimentare la corruzione, la speculazione e il clientelismo mentre prestiti sempre crescenti venivano richiesti sui mercati alimentando la spirale del debito pubblico. Fu così l’Italia si configurò, fin dall’inizio, la “cleptocrazia” cioè il governo basato sul malaffare.

Ma la vera grande protagonista dell’unità d’Italia fu la massoneria: il Grande Oriente d’Italia sorse ufficialmente come estensione della Loggia Ausonia, fondata nel 1859 a Torino con la benedizione di Cavour. Vi entrarono in massa personaggi che occupavano posizioni sociali di rilievo ed erano incredibilmente ardenti patrioti. Fu quindi la massoneria a selezionare la borghesia compradora in Italia, che sostituì gli amministratori e gli sbirri austriaci e assorbì al proprio interno quelli borbonici. In una continuità, assicurata dalla massoneria, nella trasmissione del potere da una generazione all’altra, attraverso i meccanismi ben noti del nepotismo, della raccomandazione e della corruzione. È l’Ordine che garantisce l’impunità della casta al potere, controllando contemporaneamente il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, mettendo in relazione il magistrato col il malavitoso, il politico corrotto col faccendiere corruttore, l’élite italiane e con quelle straniere. Tutto ciò si palesa chiaramente nella storia di Adriano Lemmi, il “banchiere del Risorgimento”, Gran Maestro della Massoneria negli anni tra il 1885 e il 1896. Egli fu il punto di congiunzione tra il mondo dell’alta finanza e la borghesia compradora italiana. Lemmi fu l’eminenza grigia dietro il primo ministro Francesco Crispi, un “33” del Rito Scozzese. Fu Lemmi a creare una Loggia supersegreta, la Loggia di Propaganda, per nascondere l’affiliazione massonica dei personaggi più autorevoli e influenti del tempo: banchieri e uomini politici. (Quando il Venerabile Licio Gelli assurse a eminenza grigia della Prima Repubblica, non fece altro che ricopiare i metodi di Lemmi creando la Loggia Propaganda 2). Come ogni borghesia compradora, anche quella italiana è corrotta, inefficiente e arrogante. Il primo scandalo dell’Italia unita fu quello delle Ferrovie meridionali, nel quale Lemmi figura come l’organizzatore di un giro di mazzette che coinvolse faccendieri, uomini politici e avvocati. Nel 1893 il governo Giolitti cadde a causa dello scandalo della Banca romana, una truffa colossale di cui Lemmi era il regista. Pure negli odierni scandali bancari si può leggere, dietro alle collusioni tra politica e finanza, la lunga mano della massoneria. Poco più di un secolo dopo, la storia si è ripetuta con lo scandalo della metropolitana di Milano, per il quale il Presidente del Consiglio Bettino Craxi e altri furono condannati per corruzione. Possiamo aggiungere che Craxi e Martelli, nel 1981, avevano letteralmente comprato il Partito Socialista con i soldi messi a disposizione dalla P2 secondo le dichiarazioni dell’on. Cicchitto. La super-loggia di Gelli fu coinvolta anche nello scandalo del crack del banco Ambrosiano, al quale va collegata l’uccisione del banchiere massone Roberto Calvi. Questi fenomeni crimininali si ripetono periodicamente nella storia italiana proprio a causa del peccato originale della genesi dell’Italia unita: un’operazione colonialista condotta in nome del grande capitale, nel quale la massoneria ha giocato un ruolo decisivo.

«Noi massoni? Nessuna segretezza: abbiamo fatto l’unità d’Italia», scrive Simona Musco il 18 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Parla Santi Fedele (Gran Maestro e storico): “I grillini non hanno la cultura politica per capire quale sia stato il nostro ruolo”. Non si può più parlare di segretezza, né ignorare che la storia della massoneria «è legata strettamente» all’unità d’Italia. A dirlo è Santi Fedele, Gran Maestro aggiunto del Grande Oriente d’Italia nonché professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Messina, che interviene sulla caccia al massone avviata dal Movimento 5 stelle. Una caccia «a ciò che non si comprende», cavalcando le paure di chi non conosce la massoneria «a fini elettorali», racconta al Dubbio.

Professore, cosa lega la massoneria all’unità d’Italia?

«Inizialmente la massoneria viene messa fuorilegge da tutti i governi degli Stati preunitari ma è presente attraverso la carboneria, nella quale molti massoni continuano a operare per l’unità. Ma quello che vorrei sottolineare è il contributo dato al farsi dello Stato italiano. Ricordiamo la celebre frase di D’Azeglio: fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani. Noi la interpretiamo in termini lamentativi moralistici, invece era un’esortazione: bisognava creare una coscienza nazionale tra popolazioni prima divise».

Qual è stato il suo contributo?

«Ad esempio l’intitolazione delle strade a Roma risorta, a Garibaldi e così via. Potrà sembrare banale ma è uno strumento formidabile per veicolare, in una popolazione quasi totalmente analfabeta, un’identità nazionale. E nei 50 anni dopo l’unità, i massoni ricoprono il ruolo di ministro della Pubblica istruzione, con l’obiettivo di sviluppare l’istruzione popolare. Coppino, che istituisce la scuola elementare obbligatoria e gratuita, era massone e questa legge è finalizzata all’acculturazione ma anche alla conquista dei diritti civili. La legge elettorale, agli inizi, è infatti censitaria: votano soltanto coloro che pagano almeno 40 lire di imposte dirette. Successivamente si aggiunge il criterio della capacità: può votare colui che sa leggere e scrivere. Chi frequenta le prime due classi elementari, grazie alla legge Coppino, viene quindi iscritto nelle liste elettorali. Ciò comporta la formazione di una coscienza civile».

Qual è stato il periodo più duro?

«Tra il 1919 e il 1945. Tutti i regimi totalitari in Europa hanno in comune l’avversione dichiarata nei confronti della massoneria. Il fascismo lo ha fatto per due motivi: la soppressione della massoneria è il prezzo richiesto a Mussolini dalla Chiesa – che non ne tollera l’impronta razionalista – affinché si pervenga ai patti lateranensi, in secondo luogo uno Stato totalitario esercita un controllo globale e quindi è inconcepibile l’esistenza di una società che ha un’attitudine alla riservatezza».

Come si spiega l’avversione da parte del M5s?

«Non attribuisco al suo gruppo dirigente una cultura politica tale da poter capire che la storia della massoneria è legata all’avvio del costituzionalismo moderno. Si pensa di poter avere dei consensi elettorali sfruttando le paure inconsce, rievocando la P2, che noi abbiamo combattuto dandoci regole rigide. È un dato inquietante, ma guardiamo avanti. E non si può più parlare di segretezza, ma solo di riservatezza, riferita al dato meramente rituale. Ma anche quello, ormai, è cosa nota».

«Sì, la massoneria ha un valore storico. Ma è un potere che minaccia lo Stato», scrive Simona Musco il 18 Febbraio 2018, su "Il Dubbio". Risponde lo storico Franco Cardini: «La massoneria dice di non essere più segreta, ma mantiene delle caratteristiche che vanno contro le istituzioni». Franco Cardini, professore ordinario di Storia medievale presso l’Università di Firenze, non ha dubbi: la segretezza della massoneria non è mai venuta meno. E sebbene la caccia al massone sia una fenomeno strumentale, che verrà superato dopo il 4 marzo, il problema rimane: «il confine stabilito dalla legge non va superato».

Professore, cos’è la massoneria?

«È un’associazione di mutuo soccorso che una volta diventata associazione della classe dirigente è diventata molto più potente. Di per se stessa è segreta: ci si entra con una serie di atti liturgici. Con la rivoluzione francese si è avvicinata alla politica, e durante il Risorgimento molti patrioti sono entrati nella massoneria, perché avversati dalla Chiesa. E lì si è creato uno scontro rimasto insanato».

Qual è stato il suo contributo al Risorgimento?

«La diffusione di una sorta di religione civile, fondata sulla virtù, sulla lealtà allo Stato, l’onestà dei cittadini. È una religione civile, non ha un fine trascendente».

Perché la diffidenza nei suoi confronti è durata a lungo?

«Perché è una organizzazione di potere: quando i membri della massoneria entrano nei governi agiscono perché siano i confratelli ad occupare posti di potere. È un lavoro di coordinamento di un potere occulto, basato su un patto segreto di aiuto reciproco tra i collegati. Quindi minaccia anche la stabilità dello Stato».

Perché il M5s cavalca questa paura?

«Il M5s riprende una vecchia ipotesi comune anche ad altri partiti: la segretezza. Oggi i massoni fanno anche i convegni, però c’è una tradizione secondo cui alcune logge si mantengono coperte, cioè hanno membri che sono segreti, con elenchi non visibili e cerimonie a porte chiuse. Tutto questo può andare contro le leggi dello Stato, perché alcuni elementi sfuggono al controllo dello Stato. Il caso più noto fu quello della P2».

Però fu una degenerazione.

«Sì, ma chiunque viene colto in fallo può dire che è stato un malinteso. È una linea di difesa che può anche essere presa per buona. Ma è una posizione apologetica che apre la strada anche a precedenti importanti».

Cosa rinnova la paura nei confronti delle logge?

«Ogni tanto viene fuori qualche scandalo legato a questo o quel gruppo massonico e allora tornano le vecchie questioni, ma è un po’ come le attuali critiche di ritorno al fascismo. Non bisogna pensare che queste polemiche abbiano un’origine profonda all’interno dell’opinione pubblica, sono manovrate, sono strategie. È solo una guerra simbolica tra bande in vista del 4 marzo, dopo il quale saranno dimenticate».

Ma chiedere l’esclusione di un massone da un gruppo politico non è antidemocratico?

«Non sono democratiche organizzazioni che in parte o in tutto sono segrete. Lo scopo di questa segretezza è favorire personaggi che stanno all’interno del gruppo stesso. La massoneria ritiene di non essere più un’associazione segreta, ma conserva quella che chiamano discrezione. C’è una linea sottilissima che la separa dalla segretezza, che nel nostro codice civile e penale non va oltrepassata. Ma avviene di fatto, il problema è tutto lì».

Da Garibaldi a John Wayne, gli iscritti illustri alla massoneria. Nata per scopi di assistenza, la massoneria nel tempo ha assunto un ruolo politico e, forte della segretezza, ha avuto anche pagine oscure. Tra i nomi famosi Garibaldi, Foscolo, Beccaria e Mameli, scrive Cesare Zapperi il 16 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Le espulsioni decretate dal Movimento 5 Stelle nei confronti di candidati alle elezioni che si è scoperto essere iscritti alla massoneria ha portato alla ribalta il tema dell’associazione segreta che, nata per fini corporativi o mutualistici, è spesso finita al centro di vicende poco chiare. In Italia viene alla mente subito la loggia P2 di Licio Gelli e il contorno di scandali e di coinvolgimenti di personaggi illustri dei mondi della politica, dell’economia e della società. Ma andando indietro nel tempo, tra gli iscritti alla massoneria (che è un’associazione coperta da segreto ma non tale da impedire, ex post, di conoscere chi ne ha fatto parte), ci si imbatte in figure di rilievo, sia in Italia che nel mondo. L’elenco è lungo: va da Garibaldi a Foscolo, da Cesare Beccaria a John Wayne. Secondo l’Enciclopedia Treccani, la massoneria «si costituì, a partire dal 17° sec., principalmente in Inghilterra e in Scozia, allo scopo di svolgere opera di assistenza e di beneficenza tra gli associati secondo gli ideali cristiani. Nei secoli ha subito profonde trasformazioni, assumendo un ruolo culturale e talvolta politico. Il nome deriva dalle antiche associazioni medievali di mestiere dei muratori e degli architetti (dal fr. franc-maçon «libero muratore»), i cui membri si tramandavano segretamente le regole del loro lavoro perchè nessun altro esterno all’associazione ne venisse a conoscenza». In Italia «fu sciolta dal regime fascista (1925) perché giudicata un’associazione di oppositori e i suoi beni furono confiscati. Risorta dopo il 1944, la massoneria italiana ha vissuto fasi alterne e si è esposta a trame economiche e politiche».

Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due Mondi è forse il massone più conosciuto della storia. Garibaldi a Montevideo nel 1844 indossò il primo “grembiulino” ed “ebbe la luce” massonica iniziatica. Aveva trentasette anni, e la loggia era L’Asil de la Vertud, una loggia irregolare, emanazione della massoneria brasiliana, non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran Loggia d’Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. A Firenze dal 21 al 24 maggio 1864, l’assemblea del Grande Oriente d’Italia elesse gran maestro Giuseppe Garibaldi; la sua carica durò pochissimo a seguito di disaccordi con gli altri membri. Diede le dimissioni dalla carica, e rimase gran maestro onorario a vita.

Ugo Foscolo. Anche il poeta «Dei sepolcri» (1778-1827) è stato associato alla massoneria. Fu iniziato nella Loggia Reale Amalia Augusta di Brescia e la sua rapida carriera tra le fila dell’esercito napoleonico si spiega, secondo gli storici, anche con la totale adesione ai progetti dell’imperatore ed ai suoi ideali profondamente intrisi nel messaggio massonico. Sulle orme di Foscolo, altri illustri poeti aderirono alla massoneria. Trai più noti: Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio (anche se in questo caso le fonti sono controverse).

Goffredo Mameli. L’autore dell’inno nazionale (1827-1849), pur giovanissimo, fu protagonista di innumerevoli iniziative patriottiche (come ad esempio l’esposizione del tricolore per festeggiare la cacciata da Genova degli Austriaci del 1746) e venne arruolato nell’esercito di Giuseppe Garibaldi. Fu membro della Gran Loggia d’Italia.

John Wayne. Anche il celebre attore americano (1907-1979) si iscrisse all’associazione segreta. La sua scheda di iscrizione, firmata il 24 giugno 1970 e accettata nella loggia numero 56 di Phoenix (Arizona) e lo stendardo rosso, su cui è raffigurato un pellerossa a cavallo, della loggia massonica del Minnesota, una delle prime in America, è conservata nel Museo italiano di simbologia massonica di Firenze. Ma nel mondo dello spettacolo massoni furono anche Totò, Stanlio e Ollio, Walt Disney.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

TINA ANSELMI ED AGOSTINO CORDOVA: I PASIONARI CONTRO LA MASSONERIA DEVIATA.

Addio Tina Anselmi, la donna che fece tremare i piccoli uomini del potere. Persona di eccezionale coraggio e di straordinaria normalità, si è scontrata contro i poteri occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni. Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo, scrive Marco Damilano l'1 novembre 2016 su "L'Espresso". Non l'avevano mai dimenticata. I vertici del Paese, colpevolmente, sì. Loro, Licio Gelli e i suoi amici, no. Non la dimenticavano e la odiavano come la loro peggiore nemica. Lo si capì nel 2004 quando il ministero delle Pari Opportunità commissionò a Pialuisa Bianco un dizionario biografico delle donne italiane. Alla voce Anselmi Tina si leggevano parole come queste: «Moralismo giacobino, istinto punitivo... I 120 volumi degli atti della Commissione, che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli dell'Anselmi's list, infatti, cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi». E ancora: «improbabile guerriera. Furbizia contadina». Così un governo aveva ben pensato di ricordare la prima donna ad aver occupato l'incarico di ministro in Italia. Ad aver commissionato il testo era stata la responsabile delle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo. Il presidente del Consiglio era quel Silvio Berlusconi che faceva parte degli «amici di Gelli», tessera numero 1816 della loggia massonica P2, gruppo 17, settore editoria. Non avevano mai dimenticato lei e i quasi tre anni, dall'ottobre 1981 al maggio 1984, in cui Tina Anselmi aveva presieduto la Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2. Una sfilata ininterrotta di ministri, generali, ambasciatori, segretari di partito, direttori di giornale, banchieri, magistrati. Si giustificavano: «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». «Bisignani (Luigi) pagato da Gelli, è ancora in rapporto con Gelli...». Apparivano untuosi, viscidi come il loro capo, di fronte a quella donna che li interrogava. Non fu solo la prima donna a diventare ministro, ma soprattutto una grande artefice del welfare italiano. Cercò di fare luce sula P2 e anche per questo poi fu emarginata. Aveva tutte le doti per diventare presidente, ma quando ci fu la possibilità il centrosinistra non ebbe il coraggio di mandarla al Quirinale e le preferì Napolitano. Una donna contro i poteri occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni come cellule tumorali che avvelenano un corpo sano. Di eccezionale coraggio. E di straordinaria normalità. «Tina, nome di battaglia Gabriella, anni diciassette, giovane, come tante, nella Resistenza. Non ho mai pensato che noi ragazze e ragazzi che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali, ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità....». Comincia così la sua autobiografia, "Storia di una passione politica" (Sperling & Kupfer), curata da Anna Vinci e pubblicata dieci anni fa. Una ragazzona del profondo Veneto, campionessa di giavellotto e pallacanestro a livello regionale, «in un tempo in cui lo sport era un'attività prevalentemente maschile», a 17 anni era entrata nella Resistenza dopo un colloquio con un'amica che aveva il fidanzato partigiano, «una ragazzina passata direttamente dalla vita in famiglia alla lotta armata». Aveva scelto il nome Gabriella come l'arcangelo Gabriele, il messaggero dell'annunciazione: staffetta partigiana, cento chilometri al giorno in bicicletta, la fame e la paura. Non aveva mai dismesso l'abito della resistente. Neppure quando, dopo la guerra, aveva cominciato a praticare un altro sport tutto maschile, la politica. Militante dell'Azione cattolica, amica e discepola di Aldo Moro, l'unica ammessa dalla famiglia in casa durante i 55 giorni del sequestro del leader dc, eletta deputata nel 1968, prima donna a essere nominata ministro, nel 1976, a 49 anni, nel terzo governo Andreotti, ministro del Lavoro e poi ministro della Sanità. Una donna in politica che portava uno spirito inedito nelle stanze del governo: spiritosa, anti-retorica, il contrario esatto di certi successivi modelli narcisisti e tutti auto-riferiti, una che di sé scriveva, con semplicità: «La ventata di leggerezza che nella mia infanzia ha spazzato tante volte via la malinconia mi accompagnerà fino alla fine, e avrà sempre per me l'odore del cocomero di nonna Maria e del panetto con l'uva di nonno Ferruccio». Ingenua, eppure consapevole di tutte le sottigliezze della politica. Esponente di quella generazione che aveva ricostruito l'Italia e che alla politica attribuiva primato e nobiltà, non in nome di una parte ma di tutti. Quando nel 1981 il Parlamento votò l'istituzione di una commissione di inchiesta sulla loggia di Gelli sembrava destinata a una luminosa seconda parte della carriera politica nelle istituzioni: presidente della Camera o del Senato. Invece il suo sì alla richiesta di guidare la commissione, arrivata da Nilde Iotti presidente della Camera, le cambiò la vita. L'incontro e lo scontro con il volto oscuro del potere. Quella coltre di mistero, fango, sporcizia, ricatto che inquinava, e inquina ancora, la vita pubblica italiana. Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo perché più sottile, con le parti in gioco non dichiarate. La Anselmi ha raccontato giorno per giorno quegli anni nelle pagine di diario pubblicate da Chiarelettere nel 2011. La pedinarono («esco da Palazzo San Macuto e mi accorgo di essere pedinata fino a casa da un uomo di statura piuttosto bassa, robusta, dell'età di quaranta, quarantacinque anni», annota all'una e un quarto di notte l'8 febbraio 1983), indagarono su di lei («Il giorno 7 gennaio 1985 sono venuti da me Lo Presti di Treviso e un suo collaboratore. Si sono dichiarati di professione agenti investigativi privati. Mi hanno raccontato di essere stati incaricati di indagare su di me, sui miei beni, sui miei parenti, per avere elementi contro di me. Hanno rifiutato di collaborare»), fu lasciata sola dagli uomini del suo partito, la Democrazia cristiana. «Lei ritiene di non poter fare nulla per impedire che materiale giudiziario venga sfruttato contro di me. Lei aveva tutti gli strumenti per bloccare un'operazione infame. Non li vuole usare», le scriveva Flaminio Piccoli, presidente della Dc. Dai socialisti: «Formica (Psi) mi ha detto ieri che la commissione P2 va chiusa e basta». E dall'opposizione comunista: «Non mi pare che il Pci voglia andare fino in fondo. Il gruppo pare abbandonato a se stesso. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo?». «Nulla si può escludere, neppure che Tina Anselmi sia una calunniatrice», scrisse infine Gelli al presidente della Repubblica eletto nel 1985, Francesco Cossiga. In tanti pensavano a lei per il Quirinale, in realtà. E poi nel 1992, quando il suo nome risuonò più volte nell'aula di Montecitorio durante le votazioni per il presidente della Repubblica e il settimanale di Michele Serra "Cuore" l'aveva candidata ufficialmente, e non c'era nessun intento satirico. E invece dopo la commissione la sua carriera politica di fatto terminò. Come aveva previsto un suo grande amico, partigiano come lei, Sandro Pertini. «Con Pertini parlano spesso del mio coraggio. Sanno che sono sola in questo compito», appuntava il 20 settembre 1983. E il 10 maggio 1984, alla chiusura dei lavori: «Visita a Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per il paese e per l'Italia. Mi conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia relazione». «Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta», aveva concluso il suo compito il 9 gennaio 1986, presentando nell'aula della Camera il lavoro della commissione. Sono passati trent'anni, non è andato via questo odore di stantio che si avverte in molti, troppi passaggi politici e economici. Ma neppure passerà il ricordo di Tina Anselmi. La ragazza della Repubblica che non hai smesso di sorridere nei momenti più difficili. La donna che fece tremare i piccoli uomini del potere. È lei, non i traditori dello Stato che lo hanno usurpato, a meritare a pieno diritto il titolo di patriota.

«La P2? Presto P3 e P4». La profezia della Anselmi. I diari segreti: possibile che Andreotti e Berlinguer non sapessero? I socialisti Tra i primi appunti dell'81 dopo che scoppiò il caso: «I socialisti sono terrorizzati dall'inchiesta» I comunisti Tra i 773 foglietti: «Strano atteggiamento del Pci... non mi pare che voglia andare fino in fondo», scrive Marzio Breda il 25 marzo 2011 su "Il Corriere della Sera". Il 17 marzo 1981 il colonnello Vincenzo Bianchi si presenta a Villa Wanda, a Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo, residenza dell'allora quasi sconosciuto Licio Gelli. Ha in tasca un mandato di perquisizione dei giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che indagano sull'assassinio Ambrosoli e sul finto sequestro di Sindona, mandante del delitto. Dopo qualche ora di lavoro, l'ufficiale riceve una telefonata del comandante generale della Finanza, Orazio Giannini. Si sente dire: «So che hai trovato gli elenchi e so che ci sono anch'io. Personalmente non me ne frega niente, ma fai attenzione perché lì dentro ci sono tutti i massimi vertici». Poche parole, dalle quali Bianchi è colpito per la doppia intimidazione che riassumono. Cioè per quel «non me ne frega niente», che esprime un assoluto senso d'impunità. E per quel «tutti i massimi vertici», che capisce va riferito ai vertici «dello Stato e non del corpo» di cui lui stesso indossa la divisa. Ed è proprio vero: c'è una parte importante dell'Italia che conta, in quella lista di affiliati alla loggia massonica Propaganda Due, che il colonnello sequestra assieme a molti altri documenti e trasporta sotto scorta armata a Milano. Ci sono 12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di Finanza, 22 dell'Esercito, 4 dell'Areonautica militare, 8 ammiragli, direttori e funzionari dei vari servizi segreti, 44 parlamentari, 2 ministri in carica, un segretario di partito, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, giornalisti, magistrati. Insomma: nella P2 ci sono 962 nomi di persone che formano «il nocciolo del potere fuori dalla scena del potere, o almeno fuori dalle sue sedi conosciute». Una sorta di «interpartito» formatosi su quello che appare subito come un oscuro groviglio d'interessi dietro il quale affiorano business e tangenti, legami con mafia e stragismo, il golpe Borghese, omicidi eccellenti (Moro, Calvi, Ambrosoli, Pecorella) e soprattutto un progetto politico anti-sistema. Quando, dopo due mesi di traccheggiamenti, gli elenchi sono resi pubblici, lo scandalo è enorme. Il governo ne è travolto e il 9 dicembre 1981, anche per la spinta di un'opinione pubblica sotto choc e che chiede la verità, s'insedia una commissione parlamentare d'inchiesta che la presidente della Camera, Nilde Jotti, affida alla guida di Tina Anselmi. Da allora l'ex partigiana di Castelfranco Veneto, deputata della Dc e prima donna a ricoprire l'incarico di ministro, comincia a tenere un memorandum a uso personale oggi raccolto in volume: «La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi», a cura di Anna Vinci (Chiarelettere, pag. 576, euro 16). Tra i primi appunti, uno è rivelatore del clima che investe la politica («i socialisti sono terrorizzati dall'inchiesta») e l'altro del metodo che la Anselmi intende seguire: «Fare presto, delimitare la materia, stare nei tempi della legge». Un proposito giusto. Lo sfogo del colonnello Bianchi le ha fatto percepire l'enormità dell'indagine e i livelli che è destinata a toccare. Diventa decisivo, per lei, sottrarsi all'accusa di «dar la caccia ai fantasmi» e di certificare quindi l'attendibilità delle liste (su questo si gioca la critica principale), come pure evitare che l'investigazione si chiuda con il giudizio minimalista accreditato da alcuni, secondo i quali la P2 sarebbe solo un «comitato d'affari». È un'impresa dura e difficile, per la Anselmi. Carica di inquietudini. Lo dimostrano i 773 foglietti in cui annota ciò che più la colpisce durante le 147 sedute della commissione. Riflette, ad esempio, il 14 aprile 1983: «Strano atteggiamento del Pci... non mi pare che voglia andare a fondo. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti, che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo? Più probabile la prima ipotesi. Mi pare che Br e P2 si siano mosse in parallelo e abbiano fatto coincidere i loro obiettivi sul rapimento e sulla morte di Moro». Altro appunto, del 26 gennaio '84, con l'audizione di Marco Pannella: «Com'è possibile che Piccoli, Berlinguer e Andreotti non sapessero della P2 prima del 1981?». Ragionando poi sul fatto che gli elenchi non sono forse completi e che Gelli potrebbe essere solo «un segretario», si chiede se la pista non vada esplorata fino a Montecarlo, sede di una evocata super loggia. E ancora, il 16 dicembre '81 mette a verbale che il parlamentare Giuseppe D'Alema (padre di Massimo) «consiglia di parlare» con un poco conosciuto giudice di Palermo che cominciava a conquistarsi le prime pagine sui giornali: Giovanni Falcone. S'incrocia di tutto in quelle carte. La fantapolitica diventa realtà. Ci sono momenti nei quali la commissione è una «buca delle lettere»: arrivano messaggi cifrati, notizie pilotate o false, ricatti. Parecchi riguardano la partita aperta intorno al Corriere della Sera, che era stato infiltrato (nella proprietà e in parte anche nella redazione) da uomini del «venerabile» e alla cui direzione c'è ora Alberto Cavallari, indicato da Pertini per restituire l'onore al giornale. In questo caso sono insieme all'opera finanzieri e politici, ossessionati dalla smania di controllare via Solferino. Si agitano anche pezzi del Vaticano, il cardinale Marcinkus, senza che la cattolica Anselmi se ne turbi e lo dimostra ciò che dice al segretario, Giovanni Di Ciommo: «Non ho fatto la staffetta partigiana per farmi intimidire da un monsignore». Ma a intimidirla ci provano comunque. La pedinano per strada. Qualche collega, passando davanti al suo scranno a Montecitorio, le sibila: «Chi te lo fa fare? Qua dobbiamo metterci i fiori». Fanno trovare tre chili di tritolo vicino a casa sua. Lei tira dritto. Quando, il 9 gennaio '86, presenta alla Camera la monumentale conclusione del suo lavoro, 120 volumi, definisce la P2 «il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale» (il piano di Rinascita Democratica di Gelli). Nel diario aveva profeticamente scritto: «Le P2 non nascono a caso, ma occupano spazi lasciati vuoti, per insensibilità, e li occupano per creare la P3, la P4...». Sono passati trent'anni e la testimonianza di Tina Anselmi, dimenticata e da tempo malata, è da riprendere. Magari riflettendo su un dato: nella lista compariva anche il nome di Silvio Berlusconi. All'epoca era soltanto un giovane imprenditore rampante e i parlamentari non ritennero di sentirlo perché era parso un «personaggio secondario».

LA P2 E IL DIARIO DI TINA, scrive il 29/03/2011 Luciano Scalettari su "Famiglia Cristiana". Trent'anni dopo esce un libro con gli appunti segreti di Tina Anselmi, presidente della Commissione parlamentare che indagò la loggia occulta di Gelli. Appunti quanto mai attuali. Oltre 700 foglietti, quasi dei post-it. Brevi, nervosi appunti presi nel corso delle audizioni o durante la lettura di atti e documenti. Un materiale enorme, difficile, delicato. «Tina me l’aveva dato da molto tempo, ma non avevo mai preso il coraggio di affrontare questo lavoro. Sapevo che era importante pubblicarlo. Ora l’ho fatto». Le parole sono di Anna Vinci, curatrice del libro La P2 nel diario segreto di Tina Anselmi, in uscita in questi giorni per Chiarelettere. Anna Vinci, romana, è scrittrice, autrice e conduttrice. Ma soprattutto è legata da una forte e antica amicizia con l’onorevole Anselmi. «La prima ragione per cui questo libro andava pubblicato», spiega, «è che volevo rendere omaggio a una grande donna, che a 17 anni ha voluto diventare staffetta partigiana (col nome in codice di Gabriella), che è stata il primo ministro donna della Repubblica, e che, infine, si è trovata a presiedere una delle più complesse e pericolose commissioni d’inchiesta volute dal Parlamento: quella sulla Loggia massonica P2 di Licio Gelli». «La seconda ragione», continua, «è l’estrema attualità di quanto Tina aveva capito e scritto nel corso dei tre anni di lavoro alla Presidenza della Commissione: la realtà italiana odierna rimanda sempre più al progetto di Gelli e quei settecento foglietti ci aiutano in modo sorprendente a svelare le radici dell’attuale situazione del nostro Paese. Del resto Tina in tutti questi anni ha continuato a ripetermelo: “Attenzione, quello ritorna”. Non so se si riferiva a Gelli o al suo progetto».

Dottoressa Vinci, perché Tina Anselmi appuntò furiosamente tante riflessioni, circostanze, fatti nel corso di quei tre anni?

«Aveva a che fare non solo con le audizioni, ma anche con le carte che venivano dalle Procure. Voleva documentare il suo lavoro perché temeva – e il timore era fondato – che il lavoro suo e dei commissari non venisse preso in considerazione. Scriveva per lasciare tutto “a futura memoria”. Quello che le è passato sotto gli occhi in quei tre anni era colossale. Come lei stessa l’ha definito, nel suo discorso del 9 gennaio 1986 alla Camera dei Deputati, la P2 è stata il “tentativo sofisticato e occulto di manipolare la democrazia”, di svuotarla dal suo interno rendendo l’Italia un Paese solo apparentemente democratico. Insomma, un vero e proprio piano eversivo».

L’onorevole Anselmi ha dichiarato, proprio al nostro settimanale in un’intervista del 25 maggio 1984: “Questi tre anni sono stati per me l’esperienza più sconvolgente della mia vita. Solo frugando nei segreti della P2 ho scoperto come il potere, quello che ci viene delegato dal popolo, possa essere ridotto a un’apparenza. La P2 si è impadronita delle istituzioni, ha fatto un colpo di Stato strisciante. Per più di dieci anni i servizi segreti sono stati gestiti da un potere occulto”. È per essere andata fino in fondo che poi ne ha pagato il prezzo politico?

«Sì. Quando le hanno proposto di diventare Presidente della Commissione, ha accettato perché è una donna coraggiosa. E la sua conduzione, nei tre anni seguenti, è stata un esempio di dirittura morale e onestà profonda. Anche se capiva che il “non fare sconti a nessuno” avrebbe comportato un duro prezzo. E l’ha pagato. Da allora è stata “fatta fuori” politicamente. È stata emarginata».

Quello che Tina Anselmi ha scoperto non era solo il tentativo di svuotamento della democrazia…

«No, infatti. C’erano anche le implicazioni con la strage di Bologna, con l’attentato dell’Italicus, con il caso-Moro, con il caso-Sindona, le relazioni con la mafia e la banda della Magliana. E con tanti altri episodi oscuri e inquietanti della storia italiana. Emergeva un cono d’ombra comune, che aveva la sua matrice nella P2 di Licio Gelli».

Lei, dottoressa, nel ripercorrere quei foglietti e le vicende ad essi collegati, cosa ne ha tratto?

«Mi ha colpito la mancanza di senso dello Stato, l’irresponsabilità. “Mi sono iscritto, ma non credevo… non sapevo…” Questo lo dicevano in tanti. È lo spaccato di un’intera classe dirigente che non si capisce quanto fosse incompetente o truffaldina. Dal libro emerge non tanto un giudizio politico ma la pochezza degli uomini. Gelli riceveva all’Excelsior. Non era lui che andava a trovare i politici. E tanti nomi degli iscritti alla lista P2 sono ancora in piena attività».

Nel libro si fa riferimento anche al fatto che a un certo punto fu proposto di sentire in audizione anche Silvio Berlusconi, anch’egli presente nelle liste…

«Sì, ma come scrive Tina, la Commissione decise di no, perché in quel momento storico fu considerato un personaggio secondario. Allora, era soltanto un giovane imprenditore milanese».

È vero che l’Anselmi sottolinea questo senso d’impunità che manifestavano gli iscritti alla P2?

«C’è spesso questa ostentazione di “intoccabilità”. Un esempio? Quando viene scoperta la lista a Castiglion Fibocchi, uno degli investigatori, il colonnello Vincenzo Bianchi della Guardia di Finanza viene avvertito di chiamare il Comandante generale del Corpo. Il quale, in sintesi, gli dice: “So che hai trovato gli elenchi. Ci sono anch’io. Non me frega niente. Ma sappi che là ci sono tutti i massimi vertici”. Messaggio chiaro, no?».

Ci furono mai contatti fra Licio Gelli e Tina Anselmi?

«Gelli tentò di avere un’occasione d’incontro, l’anno scorso, tramite un intermediario. Tina rifiutò».

Tina Anselmi, una donna, si trovò a indagare in uno dei mondi più esclusivamente maschili, qual è quello della massoneria. È stato un valore aggiunto o un limite?

«Un valore aggiunto. Non se l’aspettavano la tenacia e il rigore di Tina. Quel mondo si è trovato spiazzato. Nella vicenda P2 non ci sono donne, in queste pagine non emergono donne. È una vicenda tutta al maschile. Questo mi porta a dire che, allora come oggi, al nostro Paese manca l’apporto del talento delle donne».

C’è una figura, fra le tante, che l’ha particolarmente inquietata?

«Francesco Cossiga. Appena divenne Presidente della Repubblica scrisse alla Anselmi. Era ossessionato dai vecchi rapporti con Gelli. Come scrive il magistrato Giovanni Turone, all’epoca titolare dell’inchiesta (con Gherardo Colombo) che portò alla scoperta della P2, Cossiga è una delle persone più inquietanti del nostro dopoguerra».

Perché, secondo lei, è importante leggere oggi di una vicenda di 30 anni fa?

«Tina diceva che una delle tragedie dell’Italia è che non abbiamo la memoria condivisa. Lei aveva cercato di ricomporre un puzzle che ci ha lasciato, perché non si dimentichi e perché non si ripeta. Il libro è in fondo un atto d’accusa della situazione in cui siamo caduti. Il declino andava fermato allora. Tina aveva compreso una cosa molto importante. Scrisse in uno dei suoi appunti: “Basta una sola persona che ci governa ricattata o ricattabile, perché la democrazia sia a rischio"».

Una questione molto attuale. Lei è pessimista?

«No. Vinceremo noi, alla fine, non i piduisti».

Agostino Cordova. Biografia di Agostino Cordova.

Reggio Calabria 1936. Magistrato. «Se qualche merito ho avuto, me l’hanno trasformato in colpa. Ho fatto sparire da Napoli il contrabbando dei tabacchi e hanno detto che toglievo il lavoro alla povera gente».

Cominciò la sua carriera a Reggio Calabria nel 1963, diventando pretore, giudice a latere della sezione penale e poi giudice istruttore. Nel 1978 firmò 60 rinvii a giudizio contro boss dei clan De Stefano, Mammoliti e Piromalli: sarebbe stato il primo maxiprocesso contro la ’ndrangheta calabrese. Nell’87 diventò capo della Procura di Palmi. Condusse inchieste contro la cosca dei Pesce, contro le Usl di Taurianova e Gioia Tauro, denunciò la scarsità dei mezzi, fu a sua volta denunciato al Csm per “incompatibilità ambientale” (caso poi archiviato). Indagò anche su massoneria e P2. Nel luglio del 1993 diventò procuratore di Napoli. La sua opera di coordinamento fu contestata da un gruppo di 60 sostituti, il Csm si spaccò, la destra lo sostenne, le divisioni in Procura diventarono anche politiche.

«Dalla massoneria internazionale al malaffare delle istituzioni, passando per le corruzioni (solo presunte) di altissimi funzionari del Viminale. La sua carriera professionale è costellata da battaglie giudiziarie altisonanti. Chiuse talvolta con sconfitte» (Il Messaggero).

«Furbissimo e scaltro – anche se ama rappresentare se stesso come un indomito cavaliere che affronta solitario il mondo della corruzione – preferisce che la politica gli tenga la mano sulla spalla. Ieri, fu la sinistra (politica e togata) che lo appoggiò contro Giovanni Falcone nella candidatura alla Procura nazionale antimafia e nel contentino della Procura di Napoli. Giunto alla falde del corrotto Vesuvio, la mano cambiò. Divenne quella della destra. Tormentava, senza costrutto (purtroppo per lui), l’amministrazione di Bassolino “il rosso”, e tanto bastava al centro-destra per non vedere le sconfitte incassate dal procuratore» (Giuseppe D’Avanzo).

«Ho un brutto carattere e non sono un diplomatico. Ma la diplomazia è come una bellissima dama che suole avere intimi rapporti con il compromesso e generare brutti figli che si chiamano condizionamenti, “apparamenti” (aggiustamenti — ndr) come si dice in dialetto napoletano, o ricatti».

La moglie Marisa si sfogò nel libro di Giorgio Bocca Napoli siamo noi (Feltrinelli 2006): «La vera “camorra” forse sono i colleghi di mio marito, sono i giudici che si fingevano suoi amici quando lui passava in procura. Lui lavorava senza guardare che cosa poteva essere utile a questo o a quello».

Gran sigaro, sopracciglioni.

GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 2 aprile 2014

Clan e massoneria, si (ri)parte dall’inchiesta Cordova. La proposta dello storico Ciconte alla Commissione parlamentare antimafia: «Mettiamo le mani su quei faldoni per ricostruire carriere e fatti che all’epoca ci sono sfuggiti», scrive Giovedì, 09 Marzo 2017, Pablo Petrasso su "Il Corriere della Calabria". Il nuovo spunto investigativo per la Commissione parlamentare antimafia arriva dall’audizione dello storico Enzo Ciconte. Quella dello scorso 1 marzo è più una lezione che un’audizione. Deputati e senatori sono condotti per mano nella storia delle mafie, prima dallo studioso Isaia Sales e poi dal docente calabrese. Che, a proposito della storia recente della ‘ndrangheta, evoca un nome che è una costante nei contesti in cui si discute dei rapporti tra cosche e massoneria: quello di Agostino Cordova. Le sue inchieste hanno avuto «pochissima fortuna sul piano giudiziario» ma il procuratore un merito lo ha avuto: «Ha raccolto una quantità enorme di carte». Ciconte guida deputati e senatori sul filo del suo ragionamento: «So che sono almeno 800 faldoni, presidente. Se si riuscisse a mettere mano su quei faldoni, a leggerli e a mettere in piedi un gruppo di lavoro che studiasse quelle carte di 25 anni fa, probabilmente riusciremmo a capire carriere, cointeressenze e fatti che sono accaduti nel corso degli anni successivi e che probabilmente ci sono sfuggiti, perché non li abbiamo capiti o non abbiamo attribuito loro una valenza completamente diversa». Non c’è una via agevole per arrivare al cuore delle sovrapposizioni tra clan e logge deviate. Non è priva di ostacoli quella seguita finora dalla Commissione (il prelievo degli elenchi dei massoni di Sicilia e Calabria eseguito dalla Guardia di finanza). Non lo è neppure quella indicata da Ciconte: decine di migliaia di pagine, carriere da ricostruire, migliaia di nomi da incrociare. Eppure è una strada, quest’ultima, che la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi pensa di esplorare: «Valuteremo la proposta del professor Ciconte di acquisire gli atti dell’inchiesta Cordova e di istituire un gruppo di studio degli stessi atti, magari chiedendogli di darci una mano». Servirà ben più di una mano e non soltanto per la vastità dei documenti. Ci sono fili scoperti e attraversati da altissima tensione. Per Ciconte lo prova, tra le altre, la storia del notaio Pietro Marrapodi: «Era un 33 (si riferisce al grado raggiunto nella scala massonica, ndr), quindi di livello elevato. A un certo punto, decide di collaborare con la giustizia. Marrapodi si mette a parlare dicendo che c’erano stati rapporti tra la ‘ndrangheta e la massoneria. Era molto amico di moltissimi magistrati reggini. Si mette a parlare e poi qualcuno gli chiude la bocca. O se l’è chiusa lui o qualcuno l’ha fatto per lui». Suicida o suicidato, la morte del notaio è uno dei misteri da illuminare per restituire un’anima alla città di Reggio Calabria. E si perde in un labirinto che mescola ‘ndrangheta e massoneria. Entità che, secondo Ciconte, rimangono distinte: «Non c’è un travaso, c’è semplicemente una cointeressenza – dice lo storico -. Io credo che funzioni un altro sistema. Lo chiamo “arcipelago” per come nell’arcipelago è possibile la presenza di più isolotti e isolette che stanno in collegamento tra di loro». Una lettura diversa da quella sposata dalla stampa e basata sull’intercettazione cult di uno dei capi del clan Mancuso («la ‘ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria, diciamo è sotto la massoneria. Ha, però, le stesse regole»).

Eppure in alcuni contesti i due livelli si fondono fino a toccarsi. Tra le isole dell’arcipelago si alza una nebbia che tutto confonde. In questa nebbia si muovono uomini come Paolo Romeo, perno dell’inchiesta “Gotha” e di tante oscure trame reggine. Alcuni intrecci conducono a insospettabili, ben felici di intrattenere rapporti con un uomo dal passato (e dal presente) oscuro: «Che Romeo abbia rapporti con uomini politici per me è un fatto abbastanza normale, nel senso che è stato deputato, è stato consigliere comunale e vive a Reggio Calabria. Il problema è perché quelli che lo conoscono abbiano rapporti con lui. Il problema non è lui. Il problema è chi con lui ha avuto in questi anni rapporti e, ancora peggio, ha avuto interessi in comune e ha fatto affari in comune. Un conto è prendersi un gelato in una gelateria di Reggio Calabria, un conto è fare affari con uno che è pregiudicato». Sarà dura orientarsi negli arcipelaghi della massomafia. Ma diradare le nebbie che avvolgono lo Stretto lo sarà ancor di più.

Conoscere i fatti. Nel 2000 l’archiviazione dell’inchiesta sulla Massoneria del procuratore Cordova. Roma 3 luglio 2000. Porta questa data il decreto di archiviazione della maxi-inchiesta sulla Massoneria avviata nel 1992 da Agostino Cordova, all’epoca procuratore della Repubblica di Palmi, indagine che ultimamente è tornata alla ribalta. Noi non aggiungiamo altro al lancio dell’Agi che riportò la notizia dell’archiviazione sette mesi dopo e che qui riportiamo. Quella notizia fu ripresa da alcuni giornali ma non dalle maggiori testate nazionali. Certo è che, per dovere di cronaca, ci si sarebbe aspettata una pubblicità maggiore, visto il vastissimo clamore che accompagnò la vicenda sin dall’inizio e che creò grandissimi pregiudizi e ripercussioni anche in ambito lavorativo a tanti iscritti del Grande Oriente d’Italia. Ma tant’è, in Italia, quando si parla di Massoneria. Il lancio dell’Agi sintetizza le ventitré pagine del documento, firmato da Augusta Iannini, che qui mettiamo a disposizione dei lettori ricordando anche la testimonianza di un esponente del Grande Oriente d’Italia che visse quei fatti. Si chiama Mario Valentini e ai tempi dell’indagine era sindaco di Perugia.

(AGI) – Roma, 24 feb. 2001 – «Non può essere taciuto che in questo procedimento penale ‘l’indagine conoscitiva ha vissuto momenti di inusuale ampiezza». Dopo quasi otto anni la maxi inchiesta sulle logge massoniche in Italia, avviata dall’allora procuratore di Palmi Agostino Cordova (attuale capo della procura di Napoli), approdata poi a Roma, è stata archiviata dal gip Augusta Iannini, che ha dichiarato il non «doversi promuovere l’azione penale» nei confronti dei 64 massoni indagati. Il giudice, in sintonia con i pm di Roma che hanno ereditato il voluminoso fascicolo, punta, però, l’indice contro il collega Agostino Cordova che avrebbe avviato una maxi indagine conoscitiva che, fatta eccezione di uno stralcio relativo alle attività imprenditoriali su Licio Gelli (rinviato a giudizio anni fa su iniziativa dei pm della capitale per il crack finanziario del gruppo Di Nepi, il cui processo è ancora in corso), non avrebbe rilevato alcuna illecita attività compiuta dalla massoneria. Agostino Cordova ordinando decine e decine di perquisizioni ed anche alcuni arresti, ipotizzava nella sua indagini lo scambio di voti. Le sedi e gli uffici della massoneria italiana, su ordine del magistrato, vennero perquisite e la notizia ebbe particolare risonanza su tutti i quotidiani nazionali. Per il gip di Roma e su parere conforme dei pm della capitale, invece, non vi sarebbe stato alcuno scambio di voti. «Da uno sguardo d’insieme del ponderoso materiale acquisito e raccolto in circa 800 faldoni – scrive Augusta Iannini – e in un numero imprecisato di scatoloni contenente materiale sequestrato, si può trarre la certezza che è stata compiuta, in tutto il territorio nazionale, una massiccia e generalizzata attività di perquisizione e sequestro che le iniziali dichiarazioni del notaio Pietro Marrapodi (da cui è nata l’indagine, ndr), certamente non consentivano, quanto meno a livello nazionale». «Da questi racconti – prosegue il gip di Roma – a contenuto generalissimo, ma conformi all’immaginario collettivo sul tema ‘gruppi di potere, il pm di Palmi ha tratto lo spunto per acquisire una massa enorme di dati (prevalentemente elenchi di massoni) che poi è stata informatizzata e che costituisce una vera e propria banca dati sulla cui utilizzazione è fondato avanzare dubbi di legittimità, tanto più che l’indagine si sta concludendo con una generalizzata richiesta di archiviazione». Per il gip Augusta Iannini «in questo procedimento, infatti, l’articolo 330 cpp è stato interpretato come potere del pm e della polizia giudiziaria di acquisire notizie e non, come si dovrebbe, notizie di reato». Secondo il giudice romano «era infatti chiaro che l’acquisizione di elenchi di associazioni, anche e non solo massoniche, costituiva una mera notizia e non certamente una notizia di reato. Lo studio del materiale, una volta messo a disposizione di questo ufficio, è stato reso particolarmente difficoltoso dall’assenza di indici ragionati e dalla collocazione del materiale cartaceo, custodito in uno scantinato dei locali di piazza Adriana, privo di luce, di una scrivania e di qualsiasi attrezzatura che consentisse una consultazione dignitosa degli atti». Gli stessi pm di Roma che hanno ereditato l’inchiesta, su decisione della stessa procura di Palmi che di sua iniziativa aveva ritenuto la competenza della magistratura della Capitale, nel condurre gli accertamenti sulla maxi inchiesta avevano rilevato l’elevantissimo «numero di sequestri» ordinati dai pm calabresi, le «sistematiche richieste di informative indirizzate a tutti gli uffici di pg d’Italia sulle persone risultate iscritte negli elenchi massonici acquisiti tramite i sequestri», l’acquisizione di documentazione bancaria, di elenchi di nominativi di pubblici dipendenti, di attività d’indagini più mirate, come «sommarie informazioni testimoniali, intercettazioni telefoniche, ecc.», l’informatizzazione del materiale documentale ed informatico raccolto per permetterne la consultazione; ed infine la «raccolta di dati generali ritenuti utili ai fini delle indagini da ministeri e pubbliche amministrazioni su diversi argomenti». Per il gip Augusta Iannini che ha accolto la richiesta di archiviazione sollecitata dai pm di Roma Lina Cusano e Nello Rossi (oggi consigliere del Csm) «all’eccezionale ampiezza del raggio delle indagini ed alla conseguente accumulazione di un’amplissima documentazione sul fenomeno massoneria non ha corrisposto un altrettanto ampia localizzazione delle investigazioni in direzione delle specifiche attività di interferenza in ambiti istituzionali ricollegabili alle realtà organizzative individuate». «La riprova più eloquente dello stato delle indagini sin qui descritto – scrive il gip di Roma – proviene dalla stessa procura di Palmi», che «dopo investigazioni iniziate il 16 marzo 1993» decide autonomamente di trasferire l’inchiesta alla procura di Roma che poi, dopo aver inquisito, chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio di Licio Gelli per il crack del gruppo di Nepi, ha concluso l’indagine con una richiesta di archiviazione. Gli stessi pm nel sollecitare la chiusura della vicenda hanno sottolineato come «la trasmissione degli atti del presente procedimento da Palmi a Roma è avvenuta su esclusiva iniziativa dell’ufficio del pubblico ministero di Palmi e con i tempi da questo ufficio voluti senza che vi sia stata alcuna rivendicazione di competenza o richiesta di trasmissione da parte dell’ufficio del pubblico ministero di Roma». (AGI)

L’ex sindaco di Perugia Mario Valentini, libero muratore, ricorda la persecuzione inflitta ai massoni venti anni fa. ’Ndrangheta e massoneria, quel teorema di Cordova era perfetto, scrive l'1/02/2017 “La Gazzetta del Sud. «La prima volta che incontrai il procuratore di Palmi Agostino Cordova gli chiesi perché volesse tutti gli elenchi dei massoni del Goi (Grande Oriente d’Italia). Mi rispose: dalle nostre verifiche è emerso che i massoni della Calabria hanno connessioni con i massoni del Nord Italia e formulò l’ipotesi che la ’ndrangheta stesse occupando le regioni del Nord servendosi anche della massoneria. Quella che allora era un’intuizione di Cordova a distanza di 20 anni è una realtà». Lo ha detto, in audizione davanti alla Commissione parlamentare Antimafia, Giuliano Di Bernardo già Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. «Il procuratore Cordova mi ha fornito prove inconfutabili sul coinvolgimento di alcune persone aderenti al Goi ma anche su un fenomeno strano: mi mostrò un pacco di fogli che contenevano accuse di massoni contro altri massoni. Alcuni, insomma, si servivano della magistratura per fare fuori altri massoni. C’era una guerra fratricida. Quando ho avuto dal procuratore Cordova queste prove ho convocato la giunta del Grande Oriente d’Italia e ho presentato la situazione. Al termine di quella riunione ho deciso di dimettermi dal Goi perchè avevo constatato una realtà che mai avrei immaginato e che da quel momento mi sarei rifiutato di governare», ha proseguito Di Bernardo. Nessuno di quella giunta imitò Di Bernardo sulla decisione di dimettersi. «Dopo – ha raccontato l’ex Gran Maestro all’Antimafia – sono stato crocifisso, i miei ritratti bruciati nel tempio, ho ricevuto minacce inimmaginabili. L’allora ministro dell’Interno Mancino ha allertato più volte il prefetto per farmi proteggere, perché tra le persone da colpire c’ero io. Non ho potuto fare capire ai miei confratelli le mie ragioni. Ho lasciato al Gran segretario una lettera che, però, non è stata divulgata. Ancora oggi, dopo 23 anni, sono considerato il traditore, verso di me c’è un odio che non potete immaginare». Tra i motivi di contrasto, anche il fatto che Di Bernardo è riuscito a far riconoscere la Gran Loggia regolare d’Italia, che ha costituito subito dopo le sue dimissioni, dalla massoneria inglese, che, al contempo, ha tolto il proprio riconoscimento al Grande Oriente d’Italia.

L’INTERVISTA ALL’EX PROCURATORE DI NAPOLI. Cordova: «A 80 anni mi sento ancora come un mastino». «A Napoli non ho amici. De Magistris? Non lo giudico, fu uno di quelli contrari a me», scrivono Roberto Russo e Monica Scozzafava il 26 febbraio 2016 su "Il Corriere del Mezzogiorno". Vent’anni dopo, il procuratore più temuto e meno amato nella storia giudiziaria di Napoli è seduto su una panchina in pietra di piazza Bovio. Osserva lo scorrere del traffico con aria pacata, quasi rassegnata, come se assistesse a un film già visto mille volte. L’immancabile borsalino di colore blu che appoggia sui capelli radi, grandi occhiali con i vetri gialli e una sciarpa di colore grigio. Agostino Cordova, 80 anni tra qualche mese, in città non ha amici. «Nessuno, quei pochi che si dicevano tali sono spariti…». Così la panchina davanti alla Camera di Commercio è diventata l’alleato più fedele nei pomeriggi troppo lunghi della terza età, nel suo caso scandita da acciacchi. «I medici mi hanno proibito il sigaro, mi concedo raramente una pizzicata di tabacco, ma mia moglie si arrabbia perché si sporcano i vestiti». Sorride e mostra una scatolina in plastica bianca che contiene tabacco aromatizzato. «Lo trovo a Palmi, qui non so se si venda…». Abbozza un altro sorriso stanco e recupera il bastone che nel frattempo è scivolato dalla panchina. L’età lo rende sicuramente più morbido, nell’approccio e anche nella comunicazione. Un uomo dall’aspetto sempre burbero, ma che non riesce più a nascondere le emozioni. Quasi felice di raccontarsi oggi che non ha più cucita addosso l’etichetta di potente. «Vivo con mia moglie e i miei due figli che non sono sposati». Abitano sempre nella casa di corso Umberto, nella stessa città che gli ha riservato più di un’amarezza. Cordova è consapevole di aver subito tante accuse, a volte ingiuste. Di essere stato un magistrato potente e scomodo, criticato da destra e da sinistra. Bersagliato anche dai suoi stessi colleghi. «Mezza procura a Napoli firmò un documento chiedendo il mio trasferimento, gli altri si astennero». È il passato che torna nella mente di un uomo che oggi trascorre molti pomeriggi seduto su una panchina di pietra lavica. I pensieri viaggiano e i racconti dell’ex magistrato sono precisi, così come le sue riflessioni sulle vicende di stretta attualità.

Presidente Cordova, ci dica la verità. Le manca ancora la Procura?

«È soltanto una questione di funzioni. Non le esercito più, certo, ma dentro mi sento l’uomo inflessibile e rigoroso di un tempo. È una questione di regole che vanno rispettate. So di essere stato intransigente, ma mai per partito preso».

Eppure appena si insediò a Castelcapuano, nel luglio ’93, disse: “Napoli è la capitale dell’illegalità”. Scoppiò un putiferio. Oggi ripeterebbe quella frase?

«Essendo stato dichiarato incompatibile con Napoli, preferisco non esprimermi al riguardo».

Eppure oggi il sindaco de Magistris dice di aver ripristinato servizi e arginato il malaffare. È un ex magistrato, peraltro di sua conoscenza.

«Come sindaco non lo giudico, né mi esprimo sul suo operato. Se non ricordo male, fu uno di quelli contrari a me».

Meglio il ritorno di Bassolino, allora? Che pure all’epoca conobbe...

«Guardi, è una vicenda che non m’interessa. Se ha scelto di ricandidarsi è libero di farlo e avrà i suoi motivi».

Cosa fa, non si esprime? L’età l’ha resa più diplomatico?

«Io diplomatico? Senza generalizzare, la diplomazia è talvolta una bellissima dama che suole avere rapporti intimi col compromesso, generando dei figli che si chiamano ricatti…Macché, mi sento ancora un mastino, come ero stato soprannominato a Palmi. Non ho più il fisico, né l’età e soprattutto il ruolo per poter dire o fare determinate cose, ma sono rimasto quello di sempre. Mi diverto talora, a scrivere qualche articolo».

La massoneria è stata una costante nella sua vita.

«Sì, ma io non sono né sono stato nemico della massoneria regolare. Mi sono occupato a Palmi delle logge coperte sulla base delle dichiarazioni di numerosi pentiti circa i legami tra mafia ed alcuni settori deviati della massoneria. Si trattava, secondo quanto dichiarato, di organizzazioni segrete aventi complicità ramificate. Quando andai via da Palmi il procedimento venne trasmesso a Roma, dove fu archiviato. Tranne qualche rara eccezione in passato, sulla massoneria coperta è caduto il più assoluto e generale silenzio. Ecco, avendo avuto concrete notizie di reato, io avevo doverosamente, cioè obbligatoriamente, agito in base ad esse».

Le sue inchieste l’hanno messa spesso nei guai.

«Sì, sono state spesso malviste. Sono andato numerose volte in giro per i Tribunali a difendermi da accuse offensive contro cui avevo sporto querela. Su di me hanno detto e scritto tante cose, c’è un sito in cui mi si accusa addirittura di aver parlato malissimo di Giovanni Falcone, il che non risponde alla realtà: quando ero a Palmi collaborammo insieme, venne a trovarmi in Procura e pranzammo al ristorante, altro che avversario».

A ottant’anni la vita ha altre priorità. I ritmi sono più lenti ma forse anche più piacevoli.

«Mi manca invece l’attività. Trascorro le giornate a leggere, talvolta lo faccio fino alle tre del mattino. Ho ancora i ritmi di quando lavoravo in Procura. Navigo anche su Internet, anche se prima ne ero alieno».

Legge libri o quotidiani?

«Tutti e due. I quotidiani che più mi interessano sono quelli che non appartengono né alla destra né alla sinistra, che mi aiutano nella comparazione delle notizie ampiamente propagandate».

Che ne pensa delle unioni civili?

«Non le condivido, in quanto equivalgono ad un matrimonio civile e sono contro natura in quanto il termine matrimonio deriva dal latino mater, cioè unione finalizzata alla maternità. Ovviamente non è colpa degli omosessuali la loro caratteristica, ma è discutibile la loro unione legale, cioè matrimoniale. A tal punto, beninteso scherzosamente, perché non legalizzare anche la poligamia, in modo da consentire che il marito abbia più mogli, e, per la parità dei diritti, la moglie più mariti, riducendo così i casi di adulterio?».

Lei viene quasi ogni pomeriggio a sedersi in questa piazza. Non si sente un po’ solo?

«È il mio osservatorio sulla città, mi piace guardare la vitalità e rilassarmi con i miei ricordi. Uscire di casa, alla mia età, fa bene».

Non vede qualche amico, magari ex collega?

«No qui a Napoli non ne ho: quasi tutti quelli che avevo sono spariti. Ho amici a Palmi, a Reggio Calabria, a Roma e in altre città».

Il sorriso di Agostino Cordova si spegne, il vento della piazza inizia a diventare sferzante. Un colpo di tosse e lui abbottona il lungo paltò di colore blu. Napoli è la città che ha segnato, nel bene e nel male, la sua vita. Una metropoli tentacolare che non lo ha mai veramente avvinto.

La “cupola” Reggio-Cosenza: le inchieste di Cordova e i giudici massoni. Da Iacchite del 30 luglio 2017.

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI.

Da qualche mese ormai stiamo ricostruendo la genesi dell’asse politico-massonico-mafioso tra Reggio Calabria e Cosenza. Le inchieste di Federico Cafiero De Raho sono inevitabilmente figlie di quelle di Agostino Cordova, dello stesso Nicola Gratteri, di Salvatore Boemi e di Luigi De Magistris. Nessuno di loro, dal 1992 ad oggi, è riuscito a dimostrare l’esistenza effettiva di questa “cupola” nonostante ci abbiano lavorato con grande impegno ed ardore. E in mezzo a tanti doppiogiochisti ed esperti in depistaggi, in una parola sola pezzi deviati dello stato. Siamo partiti dal bandolo di questa storia, Paolo Romeo, detto dai pentiti il “Salvo Lima reggino”, che muove le fila della politica a Reggio Calabria, grazie ai contatti organici con le cosche e la massoneria. Finita la prima guerra di mafia, secondo le dichiarazioni di diversi pentiti, Giorgio De Stefano, insieme al cugino Paolo e ad altri appartenenti alla nuova ’ndrangheta, entrò nella loggia massonica segreta fondata, tra gli altri, da Franco Freda e Paolo Romeo, esponenti della destra eversiva che il 14 luglio 1970 avevano organizzato la rivolta dei “Boia chi molla” a Reggio Calabria (per protesta contro l’elezione di Catanzaro a capoluogo di regione). Il pentito Giacomo Lauro affermerà: “Mi risulta personalmente che anche alcuni magistrati avevano aderito alla massoneria e, per garantirli, la loro adesione era all’orecchio e i loro nominativi venivano tramandati da maestro a maestro”. Un sistema perfetto. Il vero “Modello Reggio” poi continuato da Scopelliti. Il gancio con Cosenza è Pino Tursi Prato, socialista prima vicino ai Gentile e poi ribellatosi al loro dominio per sposare la causa di Paolo Romeo nel PSDI di Antonio Cariglia “niente lascia e tutto piglia” come scriveva nei telegiornali di Telecosenza Giacomo Mancini, alla cui corte sarebbe poi approdato. Romeo e Tursi Prato, con l’aiuto di due capibastone della malavita cosentina come Franco Pino e Pietro Magliari, mettono a segno un’estorsione ai danni di un imprenditore reggino che aveva vinto un appalto nell’USL comandata dallo stesso Tursi Prato. E siglano la tregua con Tonino Gentile in uno studio legale cosentino, garante sempre Franco Pino. Il dado è tratto. Tursi Prato e Romeo vengono eletti a sorpresa alle Regionali del 1990 ma bussa alle porte il 1992, l’anno di Tangentopoli e delle grandi inchieste. E se Tursi Prato ha un rapporto privilegiato con la cosca reggina dei De Stefano, altri socialisti hanno intessuto trame con la ‘ndrangheta, a Rosarno, il regno dei Pesce. Ancora una volta la prova di un altro importante asse Reggio-Cosenza.

QUARTA PUNTATA. Alla vigilia delle elezioni politiche nazionali del 1992 scattò quello passato alle cronache come il “blitz delle preferenze” ordinato dall’allora procuratore di Palmi, Agostino Cordova, e dall’allora pm della Procura di Locri, Nicola Gratteri. Durante l’operazione, gli investigatori trovarono in diverse abitazioni di ‘ndranghetisti della Piana di Gioia Tauro e delle Locride, numerosi santini elettorali e fac-simili elettorali di alcuni candidati alla Camera dei deputati ed al Senato, fra i quali anche quelli di Sandro Principe. All’epoca Principe era appena quarantenne, alla seconda esperienza da deputato e viveva ancora un po’ nell’ombra del padre Cecchino prima da giovane sindaco di Rende (il loro feudo indiscusso trasformato in città modello con tanto di università) e poi da altrettanto giovane deputato investito della carica di sottosegretario al Lavoro ai tempi delle prime grandi vertenze regionali. Il procuratore Agostino Cordova chiese due volte alla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere contro l’allora onorevole Sandro Principe, autorizzazione però sempre negata. Nella richiesta del procuratore Cordova era dato leggere di una “campagna elettorale fatta per Sandro Principe da mafiosi e pregiudicati della Piana di Gioia Tauro (boss Versace di Polistena, Avignone di Taurianova, Pesce e Pisano di Rosarno ed altri)”. I carabinieri riuscirono pure a fotografare alcuni incontri di Sandro Principe con Marcello Pesce, esponente dell’omonimo clan, in un bar di Rosarno. Agli atti spediti nella richiesta di autorizzazione a procedere, anche le presunte lettere di “raccomandazione” inviate da Sandro Principe all’allora sottosegretario alla Difesa socialista al fine di far ottenere l’esonero dal servizio militare di un pregiudicato di Rosarno fratellastro di Marcello Pesce. Secondo i magistrati Agostino Cordova e Francesco Neri, tale ultimo favore sarebbe stato chiesto a Sandro Principe dall’allora consigliere comunale socialista di Rosarno, La Ruffa, ben noto alle forze dell’ordine e cognato degli stessi Pesce. Un atto assolutamente illegittimo, secondo i magistrati inquirenti, visto che il fratellastro di Marcello Pesce era stato dichiarato idoneo al servizio militare. L’intera vicenda si concluse per Sandro Principe nel migliore dei modi. Nel 1995 la Procura di Palmi (Cordova nel frattempo era già divenuto dal 1994 procuratore di Napoli) chiese ed ottenne dal gip l’archiviazione per le accuse rivolte a Sandro Principe. Fonte: Zoom24 – Giuseppe Baglivo. Agostino Cordova, figura controversa e testarda, da procuratore di Palmi firma, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata. Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. “La massoneria deviata – sosteneva Cordova – è il tessuto connettivo della gestione del potere […]. È un partito trasversale, in cui si collocano personaggi appartenenti in varia misura a quasi tutti i partiti…”. Cordova pone sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia, contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni.

LA MASSONERIA COSENTINA: ETTORE LOIZZO. Ed ecco apparire all’orizzonte un altro cosentino dopo Pino Tursi Prato, Antonio Gentile, Franco Pino, Franz Caruso e Pietro Magliari, che abbiamo incontrato nelle puntate precedenti. “Ettore Loizzo di Cosenza, mio vice nel Goi, persona che per me era il più alto rappresentante del Goi, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia”. A dirlo è stato l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo – in carica nei primi anni ’90 e fondatore poi della Gran Loggia Regolare d’Italia – sentito il 6 marzo 2014 dal pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nell’ambito dell’inchiesta Mammasantissima sulla cupola segreta degli “invisibili” della ‘ndrangheta. Ma chi è Ettore Loizzo di Cosenza? Prima Gran Maestro Aggiunto e poi reggente del Grande Oriente d’Italia, è il calabrese col “grembiulino” che ha raggiunto i più alti livelli della Massoneria di Palazzo Giustiniani, la più importante tra le “obbedienze” riconosciute nel nostro paese. E’ scomparso nel 2011. Per capire bene chi era bisogna andare parecchio indietro nel tempo. Ma possiamo partire da un dato: Loizzo è stato per anni un brillante esponente del Partito Comunista Italiano prima di essere costretto a lasciarlo proprio perché massone dopo il caso eclatante della loggia P2 di Licio Gelli degli anni Ottanta e la successiva legge Anselmi che vietava le società segrete. E quindi consigliava ai partiti di imporre una scelta ai massoni più o meno esposti.

LE INDAGINI SU ETTORE LOIZZO. Ettore Loizzo finisce nel calderone. Ecco l’agenzia AGI del 5 novembre 1992. (AGI) Cosenza 5 Nov – Proseguono, anche a Cosenza, le indagini disposte dalla Magistratura di Palmi alla ricerca delle prove circa l’esistenza di logge massoniche” coperte”. Sono stati perquisiti lo Studio e l’abitazione dell’esponente massonico Ettore Loizzo (anche se l’interessato ha negato il fatto) e quella di Mario Lucchetta, Gran Maestro della Loggia” fratelli Bandiera”. In quest’ ultima abitazione, secondo indiscrezioni, sarebbero stati sequestrati documenti e carteggi ritenuti importantissimi.  (AGI)

Così scriveva invece La Repubblica. Vengono fuori molte sorprese. A Cosenza, dove sono stati perquisiti lo studio e l’abitazione dell’ingegner Ettore Loizzo, uno dei massimi esponenti del Grande Oriente d’ Italia, i carabinieri hanno trovato carte e documenti relativi al processo su mafia, droga e politica da cui è scaturita questa maxi-inchiesta sulla massoneria deviata. In che maniera, con quale interesse e per farne quale uso Loizzo è entrato in possesso di quelle carte? Sono interrogativi che i magistrati cercheranno di chiarire. Ma nell’ inchiesta sulle cosche di Rosarno è coinvolto anche Licio Gelli. E in Calabria c’era qualche massone che si era adoperato per far riammettere l’ex capo della P2 nella massoneria. Una “trattativa” che si sarebbe conclusa nel 1991 con un accordo mai trovato dai magistrati di Palmi. Così come non furono mai chiarite le questioni che ruotavano intorno a Loizzo. Di sicuro, però, Di Bernardo si affretta ad uscire da questo grandissimo casino e lascia le responsabilità del suo incarico determinando la scissione. E così il cosentino Ettore Loizzo diventa Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993. Praticamente il nuovo capo della massoneria al posto di Di Bernardo. Già, Di Bernardo. Oggi che Loizzo non c’è più, è il solo che può riferire di quelle circostanze e nello specifico, dopo la clamorosa rivelazione del massone cosentino circa le 28 logge infestate dalla ‘ndrangheta, afferma testualmente. “Gli dissi: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui – ha detto Di Bernardo al pm – mi rispose: nulla. Chiesi perché. Mi rispose che altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse a prendere contatti con il Duca di Kent, che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie avute dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”. Ma Ettore Loizzo, già all’epoca, contestava con forza questa interpretazione dei fatti e definiva pesantemente Di Bernardo. “L’indagine di Cordova? Con questa rottura diplomatica tra noi e gli inglesi non c’entra – risponde Loizzo – anche se le menzogne di Di Bernardo hanno fatto da copertura a questo gioco. Non siamo stati neanche ascoltati dai fratelli inglesi – reclama più diplomatico Ghinoi – ma un imputato ha diritto ad un processo. Per quanto riguarda Cordova ci ha ricevuto ed ha specificato di non aver nessuno motivo di contestazione nei nostri riguardi, ma è interessato alla scoperta di eventuali logge deviate. Dal canto nostro abbiamo sospeso 75 fratelli sospetti, ma sono un esiguo numero di fronte agli altri 18mila iscritti oltre alle 1400 domande attualmente in attesa. Succede solo in in Italia – ha concluso Ghinoi – che l’iscrizione ad alcuni partiti politici sia vietata a membri della Massoneria. Ma la storia insegna che quando la Massoneria è attaccata, successivamente dopo viene attaccata la democrazia”. Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Comunicò che almeno 40 degli inquisiti della tangentopoli milanese erano massoni, così come lo erano 11 dei parlamentari per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere. Provvidenziale arrivò l’ordine di trasferire per competenza a Roma le indagini. E ancor più salvifico fu il ruolo del pm che venne delegato. Era Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, che sarebbe diventata di lì a poco personalità di spicco a via Arenula nei governi targati Berlusconi. Quell’inchiesta naufraga nel 2001 in una colossale archiviazione. «E da allora – raccontò Cordova alla Voce in un’intervista di qualche anno fa, alla vigilia del suo trasferimento forzato dalla Procura di Napoli – quei faldoni sono rimasti a marcire dentro i sotterranei di Piazzale Clodio».

CHI COMANDA IL MONDO E LE INCHIESTE CHE NON SI DEVONO FARE.

Quelli che decidono tutto: nomi, cognomi, club, confraternite e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'8 novembre 2017. Spesso sulla stampa, nei media, nei talk show, in numerosi libri, si parla di poteri forti. Ma a cosa ci si riferisce con tale espressione? Tale espressione sta ad indicare un ristretto numero di persone che, in piena autonomia, gestisce i capitali e la finanza del mondo. In questi casi il pensiero va alle grandi dinastie dei banchieri come i Rothschild, J.P. Morgan, i Rockfeller o ancora la famiglia Hahn-Elkann e la famiglia Worms, la famiglia Thyssen, la famiglia Kahn, la famiglia Goldschmidt, le famiglie Fitzgerald e Kennedy, le famiglie Agnelli – Caracciolo e molte altre. Si tratta di poteri per lo più sconosciuti all’uomo comune ma che agiscono in silenzio ed hanno una notevole influenza sulle decisioni dei governi ufficiali. Scrive Marco Pizzuti nel suo libro “Rivoluzione non autorizzata” con riguardo a siffatti poteri: “Il loro braccio esecutivo” clandestino per eccellenza è la massoneria, un’organizzazione praticamente sconosciuta alla popolazione, che da secoli occupa tutti i palazzi del potere. Non è quindi una mera coincidenza se ritroviamo i suoi membri tra i principali leader di ogni grande capovolgimento storico”. Negli ultimi decenni la massoneria è stata affiancata da altri organismi, creati dalla èlite finanziaria, tra i quali vanno menzionati il club Bilderberg, la Commissione Trilaterale, il CFR, la Round Table e il club di Roma. Scrive ancora Marco Pizzuti nel succitato libro: “Tutti questi nuovi organismi cooperano con la massoneria, per accelerare il processo di globalizzazione nel rispettivo campo di competenza e ambito territoriale” Al fine di realizzare tale obiettivo i suddetti organi invitano nei loro club gli esponenti di maggiore spicco delle varie categorie sociali: industriali, banchieri, politici, scrittori, giornalisti, militari. Nel settore bancario internazionale particolarmente rilevante è, ad esempio, il ruolo svolto in passato e fino ad oggi dalla famiglia Rothschild, proprietaria di un impero bancario che, secondo le stime degli esperti controllerebbe più di 350 miliardi di dollari. Tra i componenti della famiglia, un ruolo primario ricopre Jacob Rothschild il quale, oltre a gestire i beni di famiglia, gestisce anche i beni di oltre 10 mila azionisti. Lo stesso ha intrattenuto rapporti con i più importanti uomini di governo e della politica internazionale quali i presidenti degli Stati Uniti Ronald Reagan e Bill Clinton e l’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher. Nel 2002 organizzò l’European Economic Round Table al quale intervennero ospiti di prestigio quali Nicky Oppenheimer, Warren Buffet, importante imprenditore ed economista statunitense, considerato il più grande valueinvestor di sempre (nel 2003 definì i derivati come armi finanziarie di distruzione di massa), Arnold Schwarzenegger, attore, politico, imprenditore e produttore cinematografico, James Wolfensohn, economista e banchiere australiano naturalizzato statunitense. Non inferiore a quella degli Rothschild è certamente la potenza finanziaria della famiglia Rokfeller il cui più prestigioso esponente è stato David Rockfeller uno dei fondatori del gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale. Nel 2012 Rockfeller e Rothschild, due delle più grandi famiglie di banchieri, si riunirono. La “RIT Capital Partners” di Jacob Rothschild acquistò una quota del “Financial Services di Rockfeller. Si trattò di un accordo storico a seguito del quale la RIT Capital Partners divenne socio del gruppo Rockfellere con il 37% di capitale. Il potere finanziario dei Rothschild è presente anche in Italia dove il gruppo Rothschild ha condotto l’acquisizione di Armani Exchange da parte di Armani Group, e ha avuto il ruolo di advisor per Cassa Depositi e Prestiti e Fintecna sulla privatizzazione di Fincantieri attraverso un’IPO di 390 milioni, e per l’acquisizione del 40% di Ansaldo Energia da parte di Shanghai Electric per ben 400 milioni di euro, e dalla creazione di due joint venture e dalla fusione da 24 miliardi di euro tra Atlantia e Gemina. Dovendo parlare di poteri forti non si può non parlare del gruppo Bilderberg del quale, come si è detto, uno dei fondatori fu David Rockfeller su iniziativa del quale nel maggio del 1954 fu organizzato il primo incontro. Il gruppo nacque con lo scopo di favorire, in un forum annuale, il dialogo tra l’Europa e il Nord America. Alle riunioni sono invitati a partecipare circa 120-150 leader politici, esponenti qualificati dell’industria, della finanza, del mondo accademico e dei media. L’incontro è un forum di discussioni informali sui trend e le principali problematiche che affliggono il mondo. Gli incontri sono caratterizzati da segretezza dato che non possono essere rivelate all’esterno le informazioni ricevute né l’identità o la appartenenza di chi ha fornito le informazioni. Non vi è alcun programma dettagliato, non vengono proposte delle risoluzioni, non viene espresso alcun voto e non viene esternata alcuna dichiarazione politica. E’ stata proprio la natura segreta dell’evento e del contenuto delle discussioni svolte all’interno del forum che intorno al gruppo Bilderberg ha fatto sorgere teorie complottiste, a mio avviso, non del tutto infondate. Sul presupposto che è impensabile ritenere che nel contesto di un mondo globalizzato qualsiasi questione, sia in Europa che nel Nord America possa essere affrontata in modo unilaterale, nel corso degli anni, gli incontri annuali hanno avuto ad oggetto una vasta gamma di argomenti spaziando dal commercio, ai posti di lavoro, alla politica monetaria per gli investimenti alla sicurezza e alle dinamiche politiche internazionali. Nel club Bilderberg vi sono stati e vi sono anche italiani. Si possono ricordare Franco Bernabè, banchiere e dirigente pubblico, già amministratore delegato dell’ENI e successivamente di Telecom Italia, fondatore di FB Group, holding di partecipazioni e management company di un gruppo attivo nel settore della consulenza strategica dell’ITC e delle energie rinnovabili e investito di numerosi altri incarichi di prestigio tra cui quello, dal 2011 al 2013 di Presidente della GSMA, organizzazione internazionale che riunisce gli operatori di telefonia mobile eancora membro dell’European Roundtable of industrialist e dell’International Council di JP Morgan. Si possono poi ricordare come facenti parte del club Bilderberg gli italiani Claudio Costamagna e John Elkann, il primo banchiere e dal luglio 2015 presidente della Cassa Depositi e Prestiti oltre che Presidente di FSI SGR Spa, società costituita dalla riorganizzazione del Fondo strategico italiano Spa-FSI di cui è statoa sua volta presidente e il secondo presidente della Fiat Chrysler Automobiles  oltre che presidente ed amministratore delegato della Exor N.V. una società di investimento controllata dalla famiglia Agnelli. Sembra facciano parte del club anche la nota giornalista della rete televisiva “La 7” Lilli Gruber nonché Carlo Ratti, architetto ed ingegnere, docente presso il Massachuttes Institute Technology di Boston. In passato, ci sono stati anche tanti altri membri italiani nella Bilderberg. Tra i quali spicca il nome dell’ex premier Mario Monti, un vero e proprio habitué della Bilderberg. Poi spiccano i nomi di Giovanni Agnelli, Umberto Agnelli, Renato Ruggiero, Barbara Spinelli, Marco Tronchetti Provera, Mario Draghi, Alessandro Profumo, Monica Maggioni, presidente della RAI e molti altri ancora. Per avere un’idea del potere che gestisce il gruppo Bilderberg basta pensare che tutti coloro che ne fanno parte possiedono più della metà del patrimonio mondiale, il che induce ad avanzare qualche dubbio sul fatto che la finalità di questo club e dei relativi incontri sia quella di “aumentare i dialoghi tra Nord-America ed Europa e che i partecipanti si incontrino per tre giorni all’anno soltanto per trascorrere un piacevole weekend o per perseguire finalità benefiche. Così come si è indotti a ritenere che ogni qualvolta questo enorme potere finanziario e non solo, venga messo in pericolo, il club reagisca con azioni non sempre ortodosse per usare un eufemismo. E non è un caso se ogni familiare di David Rockfeller è o direttore della CIA o ambasciatore all’ONU o segretario di Stato o ricopre incarichi di vertice nel settore della sanità. Lo stesso David Rockfeller è stato d’altra parte, dal 2000, presidente ed amministratore delegato di JP Morgan, la banca che certamente costituisce uno dei poteri forti di cui parliamo. Il gruppo Bilderberg raccoglie i potenti della terra, leader politici ed economici precursori della globalizzazione, di diversi paesi come, può constatarsi ad esempio avuto riguardo alla riunione che nel 2002, in un clima di segretezza e tra rigide misure di sicurezza, ebbe luogo a Chantilly in Virginia. Ebbene, a tali lavori parteciparono, tra gli altri, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, e l’ex direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi presidente della BCE. Più di recente, nel 2012 ha avuto luogo a Roma, una riunione del gruppo Bilderberg alla quale era presente Mario Monti, allora Presidente del Consiglio, che illustrò agli intervenuti gli sforzi dell’Italia per rimettere i conti in ordine. Presenti tra gli altri gli allora ministri Francesco Profumo, Paola Severino ed Elsa Fornero. Presenti erano anche importanti esponenti del mondo finanziario quali Ignazio Visco (Bankitalia), Alberto Nagel (Mediobanca), Rodolfo de Benedetti (CIR), Mauro Moretti (FS), Enrico Cucchiani (Intesa), Fulvio Conti (Enel), Etienne Davignon (già commissario europeo per il mercato interno). Presenti anche esponenti del mondo del giornalismo come Lilli Gruber. A presiedere il gruppo vi era Henry De Castries, pdg di Axa, società di assicurazioni. Numerose furono le contestazioni e le critiche allora formulate in occasione del suddetto incontro sia da parte della sinistra che della destra. In particolare affermò Francesco Storace che “partecipare al Bilderberg è peggio che essere della P2, è commettere tradimento”. Per quanto riguarda la partecipazione del Presidente del Consiglio Mario Monti, Palazzo Chigi fece sapere che Monti aveva accettato l’invito per poter parlare delle misure adottate dall’Italia per combattere la crisi e che “le polemiche sono fuor di luogo”. Monti ha ricoperto anche cariche nella Commissione Trilaterale, nella Università Bocconi, di cui era presidente, e in Goldman Sachs, incarichi abbandonati all’atto della sua nomina a presidente del Consiglio. Peraltro è stato sostenuto, non senza fondamento, che il forum del gruppo Bilderberg altro non è che un consesso dei poteri forti che decide le sorti del mondo, fuori dai meccanismi democratici. Di Contro Etienne Davignon nel negare questa caratteristica del gruppo Bilderberg ha affermato: “Se fossimo la cupola segreta che comanda il mondo dovremmo vergognarci come cani” Certo Davignon convince meno quando afferma che le 130 personalità che si incontrano ogni anno sono importanti quanto la cena sociale di un Cral di ferrovieri. Del club fanno parte e vi vengono invitate soltanto personalità di rilievo del mondo economico, finanziario, politico, dei media. Significativo è quanto verificatosi in occasione della riunione tenutasi nel 2011 a Saint Moritz e alla quale erano presenti tra gli altri Henry Kissinger, David Rockfeller, Paolo Scaroni, banchieri internazionali, imprenditori greci e spagnoli. In tale occasione, l’allora eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, si presentò al bureau per chiedere di partecipare ai lavori ma venne malamente allontanato.  Dichiarò allora all’ANSA: “Ci hanno letteralmente preso a spintoni. Mi hanno anche dato un colpo al naso che ora è sanguinante. Un comportamento che smaschera la reale natura di questa consorteria: è una società segreta e non un gruppo che si riunisce in modo riservato”. Sembra che questi incontri, ai quali più volte Gianni Agnelli aveva partecipato gli piacessero meno di quelli dell’altro grande circolo di potenti, la Trilaterale fondata nel 1972 dal suo grande amico David Rockfeller. La natura del gruppo Bilderberg e le sue finalità sono molto discusse e le critiche nei confronti di tale gruppo provengono sia dalla sinistra che dalla destra. Comune ad entrambe è la convinzione che ci si trovi in presenza di una organizzazione globale che vuole dominare il mondo. Per la sinistra si tratterebbe di un organismo composto da capitalisti e finanzieri che ordiscono trame politiche ed economiche mentre per la destra si tratterebbe di una elite che intenderebbe imporre i propri disegni, tipo euro, in un mondo antidemocratico. Al di là di enfatizzazioni, non vi è dubbio che il Bilderberg è un gruppo di capitalisti che difendono il capitalismo. Nel corso degli incontri i partecipanti affrontano non solo temi politici, di economia o di finanza ma probabilmente discutono di affari e magari ne fanno e talvolta favoriscono qualche nomina rilevante. Forse non è una coincidenza il fatto che, dopo la partecipazione di Herman Van Rompuy ad una cena organizzata dal gruppo a Bruxelles, questi, poco tempo dopo divenne presidente del Consiglio europeo. Van Rompuy, appena eletto presidente del Consiglio UE, si dimostrò favorevole ad un prelievo sulle transazioni finanziarie, una specie di Tobintax. Lo stesso, prima della sua nomina aveva spiegato questo suo orientamento ai potenti politici, banchieri e uomini d’affari del riservato gruppo Bilderberg in un incontro avvenuto nel castello di Valduchesse, nelle vicinanze di Bruxelles, in occasione della cena di cui sopra. Ma negli incontri si parla anche di vicende internazionali. Così, in occasione della riunione tenutasi a Saint Moritz, si parlò molto di Grecia, di dollaro, di Libia e del conflitto interno all’Opec tra sauditi e iraniani sul prezzo del barile di greggio. Se forse è eccessivo affermare che il gruppo Bilderberg costituisce una organizzazione globale che vuole dominare il mondo tuttavia tale ipotesi non è del tutto priva di un qualche fondamento. Ma vi è chi va oltre e ritiene la implicazione del club Bilderberg anche in vicende tragiche che hanno attraversato il nostro Paese. Così l’ex magistrato Ferdinando Imposimato, nel suo libro “La Repubblica delle stragi impunite” e in una intervista rilasciata in occasione della presentazione del libro sostiene che: “La stagione delle stragi non serviva a destabilizzare lo Stato, serviva ad impedire la dinamica politica nel senso di portare gli equilibri politici da destra verso la sinistra.” E continua: “Hanno fatto tutto questo non per fare un colpo di Stato ma per rafforzare il potere, destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico”. E spingendosi oltre afferma, facendo riferimento ad un documento rinvenuto tra gli atti della indagine condotta dal giudice Alessandrini sulla strage di Bologna e riportato nel libro, che il gruppo Bilderberg sarebbe responsabile della strategia della tensione e quindi anche delle stragi. “Il Bilderberg-afferma- governa il mondo e le democrazie in modo invisibile, in modo da condizionare lo sviluppo democratico di queste democrazie”. Si è sostenuto poi da Carlo Freccero, ma anche nei media e in varie pubblicazioni, tra cui Micro Mega, che Casaleggio & C sarebbero legati al gruppo Bilderberg e con una tesi alquanto azzardata, ma forse non priva del tutto di fondamento, anche se sfornita di prove certe, sostiene che i poteri forti “si sarebbero costruiti una gestibile opposizione interna attraverso Casaleggio, Grillo e quindi il movimento Cinque Stelle”. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto che del gruppo Bilderberg, sempre secondo Freccero, farebbe parte il giornalista Enrico Sasson, socio di Casaleggio, manager legato all’Aspen Institute e quindi al gruppo Bilderberg.  L’Aspen Institute , che sorge a Roma in Piazza Navona, è una filiale locale europea dell’Aspen e una ramificazione italiana  dell’internazionale Club Bildenberg e la cui finalità è l’internazionalizzazione  della leadership imprenditoriale. Enrico Sasson, in una lettera indirizzata al Corriere della Sera, pur ammettendo di essere socio di minoranza nella Casaleggio associati, precisava di non rappresentare alcun potere forte, di non conoscere Beppe Grillo, mai incontrato, di non avere mai partecipato alla gestione del suo blog in seno alla Casaleggio Associati, di non avere mai avuto niente a che fare con il movimento Cinque Stelle. Affermava essere calunniose e diffamatorie le teorie del complotto apparse in blog e in siti di diversa connotazione e che era una informazione distorta e malata quella che, anche in articoli e servizi televisivi, sosteneva il teorema dei poteri forti dediti ad infiltrare il Movimento. Se la tesi di Carlo Freccero fosse fondata, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso lui stesso di gestire l’opposizione. In altri termini, se dietro il Bilderberg vi fosse la Casaleggio, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso di infiltrare l’opposizione. Molto legata al gruppo Bilderberg è la Commissione Trilaterale all’interno della quale sono presenti più di 200 personalità eminenti (uomini politici, diplomatici, industriali, finanzieri, universitari, giornalisti) provenienti da Europa, America, e Giappone. Anche la Trilaterale fu fondata, qualche anno dopo la Bilderberg, da David Rockfeller, presidente della Chase Manhattan Bank di New York e altri dirigenti tra cui Henry Kissinger e pare anche da Gianni Agnelli anche se, per quanto riguarda quest’ultimo, non vi sono documenti che lo provino. Mario Monti ne fu presidente dal 2010 al 2011. Nel 2016, dopo oltre 33 anni, la Commissione Trilaterale si è riunita a Roma; in tale occasione gli Italiani che vi hanno partecipato sono stati oltre 20 tra cui Mario Monti, John Elkan, Mario Tronchetti Provera e la presidente della RAI Monica Maggioni. Riunioni della Commissione sono state tenute a Tokio, Washington, Parigi, Kioto e come si è detto in Italia. In occasione di una riunione avvenuta a Parigi nel dicembre del 1975 ed avente ad oggetto la gestione delle risorse mondiali, alla domanda su chi finanziasse l’attività della commissione, il direttore della stessa Zbigniew Brzezinky rispondeva: “Cittadini privati e qualche governo con contributi di minore importanza”. In occasione dell’incontro di Parigi si parlò sulla stampa di “un nuovo ordine mondiale”, affermazione non del tutto campata in aria se si considera che a tale riunione intervennero e fecero un discorso l’allora primo ministro Jacques Chirac e l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Gianni Agnelli, intervenendo, nel 1984 alla riunione della Commissione Trilaterale a Washington, sottolineò il ruolo dei vertici economici dei “sette grandi”, cioè i sette paesi più industrializzati.

Chi comanda, come e perché, dalle Logge all’Opus Dei, finanza e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'11 novembre 2017. Alla riunione della Trilaterale che ebbe luogo a Roma nell’aprile del 2016 parteciparono uomini di governo, ministri imprenditori, i massimi esponenti della classe dirigente mondiale del Nord America, Europa ed Asia. Tra i partecipanti vi furono l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, Jean Claude Trichet, ex presidente della BCE, Monica Maggioni, presidente della RAI. Presenti anche Andrea Guerra, ex AD di Luxottica, molto amico di Renzi, Maria Elena Boschi, allora ministro delle riforme che una settimana prima della Trilaterale, in una intervista aveva dichiarato: “Ci attaccano proprio perché non siamo schiavi dei poteri forti, non siamo il terminale di niente e di nessuno. Questo non piace a molti” Affermazione quanto meno strana se si considera che svolse un intervento in un meeting in cui erano presenti i poteri più forti del pianeta. Per dare una idea del vero e proprio grumo di potere presente alla riunione della Trilaterale di Roma basta considerare che tra gli invitati vi erano persone come Michael Bloomberg, miliardario, ex sindaco di New York, Jurghen Fitchen, della DeutschBank, Gerald Corrigan, vice presidente della Federal Reserve oggi a Goldman Sachs, Eric Schmidt, presidente di Google, Marta Dassau Finmeccanica, Herman Van Rompuy ex presidente del Consiglio europeo, oltre che David Rockfeller, fondatore della Trilaterale. Gianfelice Rocca, presidente dell’Assolombarda, intervistato da un giornalista della “Gabbia”, al termine della riunione dichiarava: “Io credo che questo governo abbia il sostegno di gran parte dell’establishement”. Secondo indiscrezioni trapelate dalla riunione, nell’incontro si sarebbe parlato anche del destino affatto roseo dell’Italia: la Trilaterale non immaginava un bel futuro per il nostro paese. Alla riunione si è parlato anche di privatizzazioni e di tagli alla spesa, il che significa la svendita del patrimonio pubblico dell’Italia, cioè la svendita delle aziende pubbliche. Ma al meeting si è parlato anche di immigrazione e, fatto strano, a presiedere l’incontro era Peter Satermann, direttore non esecutivo di Goldman Sachs, rappresentante generale dell’Onu per le migrazioni e componente del Bilderberg. Come mai e perché uno degli uomini più importanti della finanza internazionale si occupava di immigrazione? La risposta è semplice: lo scopo della Trilaterale è quello di favorire l’immigrazione di massa dal sud del mondo verso l’Europa in maniera da consentire alle multinazionali di avvalersi di una ingente massa di lavoratori sottopagati. Ciò è avvalorato dal fatto che, sempre secondo indiscrezioni, tutti i membri della Trilaterale concordarono sul fatto che i giornali parlassero dei vantaggi dell’immigrazione. Tutto ciò evidenzia la preminenza del potere economico –finanziario sulla politica che finisce con l’eseguire il diktat di questa elite di potere e come il fine del Bilderberg, della Trilaterale e di altri organismi simili, sia quello di togliere sovranità agli Stati e di creare un nuovo ordine mondiale. Desta impressione oggi leggere la relazione che, nel 1984, a conclusione della riunione della Trilaterale di Washington, fu predisposta dall’ex consigliere americano per la sicurezza Zbgniew Brzezinsky, dal segretario del partito socialdemocratico David Owen e dall’ex ministro degli esteri giapponese Saburo Okita, per conto della Commissione Trilaterale, relazione nella quale vengono indicati quelli che sarebbero stati i quattro pericoli per il mondo. Sembra quasi che i redattori del rapporto avessero previsto, con estrema precisione, e con 33 anni di anticipo, quello a cui oggi, nel 2017 assistiamo. Secondo quanto si legge nella suddetta relazione 4 erano i pericoli che, negli anni successivi avrebbero minacciato il mondo e l’umanità: Un significativo peggioramento della collaborazione economica e politica tra gli Stati , una crescente disoccupazione; un abbassamento del tenore di vita e una minore democrazia. Una escalation dei conflitti regionali, sempre meno contenibili sul piano internazionale e latori di rischi crescenti di confronto tra est ed ovest. Grossi sconvolgimenti sociali in ampie zone d’Africa e forse dell’America latina; fenomeni di carestie di grandi dimensioni che potrebbero sfociare, in massicce emigrazioni, in caos e violenza, riducendo in questo modo le prospettive di democrazia ed offrendo maggiori opportunità agli estremisti di destra e di sinistra di impadronirsi del potere. L’ultimo dei grossi pericoli che oggi incombono sull’umanità intera e sul pianeta è costituito dal rischio di una guerra nucleare. Afferma il rapporto della Trilaterale: “La guerra nucleare, con le sue capacità di provocare morti e distruzioni illimitate, costituisce una catastrofe dalla quale il globo potrebbe non essere in grado di riprendersi”. Il pensiero, leggendo queste parole, non può non andare al conflitto tra il premier nordcoreano e il presidente Trump che oggi rischia l’esplosione di un conflitto nucleare. Più che di previsioni viene da pensare ad un programma che nel 1984 qualcuno si proponeva di attuare negli anni successivi. Ma forse si tratta di una idea eccessiva. Ma come soleva dire Andreotti a pensare male si fa peccato ma spesso si indovina. Per quanto riguarda le reali finalità del gruppo Bilderberg, gli studiosi di questa materia scrivono a proposito dei promotori Bernardo de Lippe, ufficiale olandese, ex ufficiale delle SS  e Joseph Retinger, politico polacco e massone : “La loro ambizione era quella di costruire una Europa Unita per arrivare ad una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali…” Al di là delle teorie complottiste, non vi è dubbio che costituisce un dato  difficilmente smentibile il fatto che ci si trovi in presenza di un intreccio tra politica, finanza e in particolare banche  in cui un gruppo ristretto di persone, a partire dal 1954 e una sola volta all’anno, si riunisce per decidere, nella massima segretezza il futuro politico ed economico dell’umanità. “Le Monde” intravede nelle biografie di Mario Draghi, Mario Monti e Luca Papademos la prova dei disegni nascosti maturati “nei piani alti della banca d’affari Goldman Sachs”. Ed è legittimo nutrire dei sospetti sul conflitto di interessi di cui hanno dato prova i banchieri che, come Corrado Passera sono diventati ministri nel governo Monti. E non bisogna dimenticare che la caduta di Silvio Berlusconi fu determinata e voluta dai poteri forti che teleguidarono lo spread. L’influenza poi del gruppo Bilderberg sulla politica internazionale, secondo quanto scrive sulla “Repubblica “Giuliano Balestreri, sarebbe comprovata dalla lettera che Richard Perle, membro del comitato direttivo del gruppo Bilderberg e teorico del neoconservatorismo americano, scrisse a Bill Clinton per chiedere la rimozione di Saddam Hussein. Di tale gruppo direttivo, oltre che Henry Kissinger e Edmond de Rotschild, hanno fatto parte anche 12 italiani tra cui il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè. Si è anche sostenuto che le riunioni del Bilderberg fossero anche finalizzate ad ascoltare quelli che sarebbero stati futuri presidenti e premier, anche degli USA. Così, sarebbero stati ascoltati, Tony Blair, Hillary Clinton, e lo stesso Barak Obama. Quest’ultimo si dice fosse presente con Hillary nel 2008, quando Bilderberg avrebbe negoziato un accordo per passare la mano attendendo le elezioni del 2016. Al meeting, avrebbero partecipato un paio di volte Mario Monti (nel 2011 e 2013), Enrico Letta (nel 2012). Non sarebbe estranea a Bilderberg la formazione del governo Monti. Non si ha notizia di una partecipazione di Renzi. Sembrerebbe quindi che per governare in Italia e nel mondo bisogna essere graditi ai poteri forti. Non può poi non suscitare dubbi, sul ruolo del Bilderberg nelle vicende internazionali, quanto scritto dal giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol, secondo cui nel meeting del Bilderberg, nel 2002, si era parlato di invasione dell’Irak da parte degli USA, ben prima che ciò accadesse. Per comprendere l’importanza del Gruppo Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili e il peso che in ambito internazionale queste elite rivestono, basta avere riguardo all’oggetto delle discussioni che hanno luogo all’interno di questi gruppi in occasione delle periodiche riunioni anche se il contenuto delle relazioni e degli interventi è mantenuto rigorosamente segreto. I temi trattati infatti, riguardano spesso i rapporti tra Europa e Stati Uniti, l’economia e in particolare la gestione della crisi economica mondiale, l’euro, l’inflazione, il protezionismo, la globalizzazione, il petrolio, il mercato delle armi, l’immigrazione. Essendo però segreto il contenuto delle relazioni, non è dato conoscere le decisioni adottate dal gruppo riguardo tali problematiche; i partecipanti agli incontri sarebbero però tenuti a mettere in pratica quanto deciso. L’interrogativo che spesso si pone è quali siano i rapporti tra la massoneria e gli altri poteri forti anche se deve riconoscersi che le inchieste che hanno riguardato la massoneria e il potere politico finanziario nazionale e internazionale, quasi sempre non hanno portato a nulla. E’ appena il caso di ricordare come l’inchiesta sulla P2 si concluse, dopo tanto clamore, in un nulla di fatto. Va tuttavia detto che quando si parla di massoneria bisogna tenere presente che ci si trova in presenza di due diversi livelli: un livello ufficiale ispirato a temi quali la libertà, l’eguaglianza la tolleranza religiosa e un secondo livello segreto caratterizzato dalla presenza di comitati di affari e di rapporti con la criminalità organizzata, mafia, camorra ‘Ndrangheta, servizi segreti deviati e terrorismo stragista. In altri termini ci si trova in presenza di due mondi paralleli. Ma, come sostenuto da taluno, esiste un rapporto tra la massoneria e i poteri forti di cui abbiamo parlato e se esiste a quale dei due livelli fa riferimento? Una risposta interessante ci viene da Giuliano De Bernardo, ex Gran Maestro della principale “obbedienza” italiana, il Grande Oriente d’Italia, dal 1990 al 1993, quindi ai vertici della massoneria, che abbandonò riferendo quello che pensava realmente. Ha dichiarato De Bernardo: “Dietro Gelli, (che rappresentava il livello oscuro della massoneria ndr), c’erano gli ambienti americani. Gelli è un prodotto degli americani”. De Bernardo parla anche del sequestro di Aldo Moro che aveva perso la fiducia degli americani che lo consideravano “un cavallo di Troia, “un ponte che avrebbe consentito ai comunisti di arrivare al potere. Quindi gli americani si trovarono senza rappresentanti autorevoli e affidabili in un Paese chiave dello scacchiere internazionale. E in piena guerra fredda”. Ed aggiunge: “Sono anni convulsi, nei quali il confronto tra il mondo atlantico e il blocco comunista è durissimo: anni di riarmo nucleare, di servizi segreti attivissimi, di spie, di omicidi politici. Tutto appare lecito in quel momento. La prospettiva di un sorpasso elettorale da parte dei comunisti, così come l’ipotesi di un compromesso storico tra Dc e PCI, terrorizza gli ambienti atlantici”. Il dipartimento di Stato americano e la CIA si convinsero allora di avere a che fare con una situazione di emergenza in Italia. Gli americani ritennero, e qualcuno glielo suggerì che, in Italia, Gelli, l’esponente della più potente loggia massonica mai esistita, era l’uomo adatto ad arginare il pericolo comunista. Non vi è dubbio quindi che vi fosse un ben preciso interesse degli americani ad impedire a Moro di realizzare il suo progetto di un compromesso storico tra DC e PCI. Continua De Bernardo sostenendo che allorquando divenne Gran Maestro, Lino Salvini, Sindona, Calvi e Gelli accrebbero il loro potere “fatto di alta finanza, controllo dei media (come il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera), corruzione politica ed uso dei servizi segreti” e istaurarono collusioni pericolose. Ma De Bernardo parla anche dei rapporti con la criminalità organizzata e della mafia infiltrata nella famosa Loggia Garibaldi in cui confluivano esponenti dell’area grigia tra massoneria e malavita. Dice De Bernardo; “Ricordo che una volta, quando andai in visita a quella loggia pensai di avere intorno a me tutti i capi di Cosa Nostra in America”. La potente massoneria americana d’altra parte era legata fin dai tempi della Seconda guerra mondiale ai servizi segreti e in rapporti organici con ambienti siciliani. E’ d’altronde un fatto noto che lo sbarco degli alleati in Sicilia fu preparato dalla massoneria siciliana insieme a elementi della mafia americana. Io credo che si può dare per acclarata l’esistenza di rapporti non sempre leciti tra massoneria e potere politico- finanziario nazionale e internazionale nonché di una contiguità tra il livello oscuro della massoneria e le realtà criminali presenti nel nostro Paese. Così, per quanto riguarda La P2, numerose sentenze hanno accertato come Gelli godesse di un potere enorme ed avesse creato una rete di potere caratterizzata da favoritismi, finanziamenti concessi ai privati dalle banche vicine alla P2, da rapporti anche con poteri criminali, e come avesse un ruolo rilevante nel favorire le nomine anche di personaggi delle istituzioni; ma se aveva il potere di fare nominare una determinata persona, aveva anche il potere di asservirla a sé. E’ appena il caso di ricordare come Gelli raggiunse l’apice del proprio potere con l’appoggio di banchieri iscritti alla P2 quali Michele Sindona e Roberto Calvi. Va poi ricordato, a proposito degli intrecci tra massoneria e servizi segreti, come Gelli dal 1941 al 1945 sembra sia stato al servizio del Counter Intelligence Corp, cioè il controspionaggio militare americano. E che il potere di Gelli permanesse immutato anche dopo le indagini aperte sulla P2, a seguito della scoperta della lista degli iscritti, è testimoniato da una lettera inviata da Gelli al gran Maestro del Grande Oriente, nella quale lo stesso si dichiara certo dell’esito favorevole dell’indagine. (Non è un mistero per alcuno-scrive Gelli- che queste conclusioni saranno interamente assolutorie). E in effetti le indagini, non concluse dal Procuratore di Palmi Agostino Cordova, vennero trasferite per competenza alla Procura di Roma dove il procedimento, dopo essere rimasto fermo per circa sei anni, nel dicembre del 2002 venne archiviato dal giudice Augusta Iannini.  Sempre De Bernardo evidenzia come il trasferimento della inchiesta Cordova alla Procura di Roma coincise con la pax mafiosa seguita all’assassinio di Falcone e Borsellino del 1992, anno in cui ebbe inizio l’inchiesta di Cordova. Analogie inquietanti. Lo stesso Cossiga, in una intervista, affermò che la P2 era stata una creazione degli americani, una “operazione “Filoamericana e atlantica…la P2 era perciò un baluardo anticomunista, un caposaldo di un certo tipo di politica estera e di pensiero”. Se le sentenze hanno escluso che la P2 cospirasse contro lo Stato, tuttavia “le ragioni atlantiche” che secondo la P2 dovevano cambiare l’Italia, erano certamente illegali. Si può parlare di poteri forti o poteri occulti anche a proposito dell’Opus Dei? Indubbiamente l’Opus Dei e la massoneria presentano una caratteristica comune che è quella della riservatezza interna. Dichiarò, in proposito, l’ex Gran Maestro Di Bernardo, in una intervista del 23 marzo 1991: “Se si parla di potere occulto, volendo fare riferimento alla massoneria, bisognerebbe considerare anche l’Opus Dei, che svolge una attività particolarmente occulta”. Ed ancora, in una intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del “Corriere della Sera” Di Bernardo non lesina critiche all’Opus Dei. Afferma infatti: “Forse che quello non è un potere occulto? La massoneria (quella ufficiale, n.d.r.) cerca sempre di far conoscere le proprie finalità, si muove sempre sulla strada della trasparenza. Non mi risulta che l’Opus Dei abbia fatto qualcosa di simile. Eppure esiste e si muove ai limiti della riservatezza. Dobbiamo pensare che in Italia esistano due pesi e due misure?” Quanto fin qui scritto porta a ritenere che un gruppo ristretto di persone detiene ed orienta la politica finanziaria e internazionale e che con i suoi meccanismi di globalizzazione impone, in maniera sempre più incisiva, il proprio potere alle masse. Possiamo dire che una ristretta elite, l’uno per cento dell’umanità comanda sul restante 99% definendone il destino e in alcuni casi persino la sopravvivenza. Ma ciò che è più grave è che tale uno per cento detiene il proprio potere in “regime di democrazia rappresentativa”, favorito dalla legislazione e addirittura con il consenso popolare! E ciò è stato possibile, come scrive Rosario Castello nel libro “L’invisibile identità del potere nascosto”, grazie alla finanza mondiale con l’arma della globalizzazione e della moneta privata. E’ pertanto fondato ritenere che durante gli incontri che periodicamente hanno luogo tra i partecipanti del Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili, vengano prese dalla classe dirigente globale, al riparo della privacy armata e della segretezza, le decisioni più rilevanti per il futuro dell’umanità su politica, economia e questioni militari, decisioni che sono e rimangono top secret.” Noi ci illudiamo di essere liberi ma l’illusione viene meno nel momento in cui i nostri diritti entrano in conflitto con quelli che sono gli interessi dei poteri forti e ci rendiamo conto di chi comanda realmente in questa società. Si assiste oggi ad un appiattimento dei partiti politici, delle istituzioni e degli organi di informazione che noi crediamo liberi e indipendenti ma che mai si porranno, salve rare eccezioni, in contrasto con tali poteri. In realtà sono le elite finanziarie di cui ho parlato che in ambito politico, finanziario, economico e dell’informazione, stabiliscono al nostro posto quali sono i limiti di conoscenza e di libertà oltre i quali non è consentito andare. Woodrow Wilson, nel 1913 eletto Presidente degli Stati Uniti, dopo la approvazione del “Federal Reserveact (la legge costitutiva della Federal ReserveBank) e la sua promulgazione da parte dello stesso Wilson, anni dopo dichiarò: “Sono uno degli uomini più infelici. Io ho inconsapevolmente rovinato il mio paese, una grande nazione industriale è ora controllata dal suo sistema creditizio. Non siamo più un governo della libera opinione, non più il governo degli ideali e del voto della maggioranza, ma il governo dell’opinione e della coercizione di un piccolo gruppo di personaggi dominanti”. Considerazione che anche oggi non può non essere condivisa.

Mattei, Kennedy, Moro: quando la mafia decideva i destini del mondo, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 24 ottobre 2017. Il Presidente degli Stai Uniti Donald Trump ha annunciato su Twitter la sua intenzione di divulgare i documenti, a lungo coperti dal segreto di Stato, sull’assassinio di J.F. Kennedy avvenuto a Dallas, nel Texas, il 22 novembre 1963. Sia la Commissione Warren che indagò sull’omicidio del Presidente degli Stati Uniti sia la stessa famiglia Kennedy, avevano optato per l’apposizione del segreto di Stato sui documenti riguardanti l’assassinio. Si trattò di una scelta infelice dato che tale decisione non fece altro che rafforzare le tesi degli scettici e dei complottisti. In realtà, nel corso degli anni, sono stati desecretati più del 90% dei documenti soprattutto a seguito del film JFK di Oliver Stone. I rimanenti documenti avrebbero dovuto essere desecretati nel 2017, come previsto nel “President Jhon F. Kennedy Assassination Records Collectio Act, intenzione che sembra avere, in questi giorni, manifestato il Presidente Trump. Avverso tale intenzione di Trump è stata tuttavia avanzata, da ambienti della Casa Bianca e in particolare dalla CIA la preoccupazione che la pubblicazione dei file più recenti potrebbe mettere in pericolo le operazioni di intelligence. In una dichiarazione giurata, Jefferson Morley, giornalista del Washington post ed esperto di servizi segreti, ha dichiarato che la CIA dispone di circa 1100 documenti riguardanti l’assassinio di Kennedy che dovrebbero esser mantenuti segreti fino al 2017, documenti che non sono mai stati visti dal Congresso degli Stati Uniti. E’ fondato ritenere che vi siano pressioni da parte delle Agenzie federali, CIA ed FBI, per convincere il Presidente Trump a mantenere ancora il segreto sui rimanenti documenti e ciò al fine di evitare di mettere in pericolo i segreti nazionali, relativi ad inchieste collegate che potrebbero divenire di pubblico dominio. Se Il Presidente Trump dovesse cedere alle pressioni dei suddetti organismi, rimarranno negli archivi dei documenti che potrebbero portare alla luce oscure e dubbie attività della CIA come quelle, ad esempio, relative ai programmi di assassinio di leader stranieri. Tra i documenti ancora secretati vi sono ad esempio quelli relativi ad Edward Hunt l’agente della Cia che partecipò allo sbarco fallito nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961 e che divenne famoso nello scandalo del Watergate che costrinse alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon nel 1974. Quello di Kennedy non è stato il primo omicidio di un presidente degli Stati Uniti. Prima di lui vennero assassinati Abram Lincoln, ucciso il 14 aprile 1865, James Garfield, ucciso il 2 luglio del 1881, William McKinley ucciso il 6 settembre 1901. E ciò senza contare i numerosi attentati falliti. L’assassinio di Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre del 1963, fu un evento determinante nella storia degli Stati Uniti per l’impatto che ebbe sulla nazione e sulla politica del Paese. Per l’omicidio venne arrestato Lee Oswald a sua volta ucciso da Jack Ruby che morì a sua volta in carcere di cancro. Numerose sono state le ipotesi sull’uccisione di Kennedy: un complotto di cubani, della mafia, della stessa CIA. La Commissione parlamentare Warren, istituita per indagare sull’assassinio del presidente degli Stati Uniti, chiuse frettolosamente l’inchiesta archiviando il caso come omicidio ad opera di un fanatico e cioè: Lee Oswald. Sulla morte di Kennedy quindi esiste una verità ufficiale, quella della commissione Warren, istituita il 29 novembre 1963 dal Presidente Lyndon B. Johnson che concluse che Lee Oswald fu il solo esecutore materiale dell’omicidio. Le conclusioni della Commissione furono molto contestate e furono formulate molte ipotesi cospirazioniste. Soprattutto dei dubbi, peraltro non privi di un certo fondamento, sorsero sul fatto che soltanto Oswald possa essere stato l’esecutore materiale. Oswald infatti avrebbe sparato tre o quattro colpi a tempo di record – 6,75 secondi – un tempo ritenuto da coloro che contestarono le risultanze della commissione Warren, troppo breve. Un documentario, andato in onda sul canale televisivo CBS, dimostrò che in realtà si trattava di un tempo più che ragionevole per un tiratore scelto (qualità che non risulta avesse Lee Oswald) dato che, undici tiratori, messi alla prova, avevano esploso tre colpi in un tempo medio di 5,6 secondi. Tuttavia, alcuni testimoni affermarono concordemente di avere udito un quarto colpo che sarebbe stato sparato da una collinetta adiacente e quindi non soltanto dal deposito di libri da cui avrebbe sparato Oswald. Il che indurrebbe a ritenere la partecipazione all’assassinio di più persone. Cinque autorevoli storici americani, docenti universitari, hanno pubblicato dei libri nei quali hanno ricostruito l’omicidio di Kennedy. Di essi, quattro hanno sostenuto che Kennedy fu vittima di un complotto e che Oswald non agì da solo e uno ritiene che l’omicidio potrebbe essere avvenuto con il coinvolgimento di alcuni ufficiali dell’intelligence americana. David Kaiser, del Naval War College e Michael kurt, poi, quest’ultimo della Luisiana University, sono concordi nel ritenere che a tirare i fili di tutta la vicenda sia stata la CIA. Fletcher Prouty, capo delle operazioni speciali del Pentagono dal 1960 al 1964 ed ufficiale di collegamento con la CIA, in una intervista rilasciata il 19 marzo del 1992 all’ “Unità”, sostenne che Kennedy venne ucciso in seguito ad una vera e propria cospirazione politica affermando che si trattò di un colpo di Stato in piena regola e che Lee Oswald non era colpevole. L’assassinio, eseguito militarmente con grande professionalità e coperture da “una anonima assassini”, sarebbe stato programmato e realizzato per la tutela degli affari e degli interessi di un strettissima elite di personaggi che da secoli si tramandano il governo del pianeta, interessi che venivano minacciati da Kennedy divenuto incontrollabile e pericoloso. Non soltanto l’uccisione di Kennedy ma tanti altri delitti sarebbero quindi stati eseguiti nell’ottica del dominio del mondo e delle risorse e a tal proposito Fletcher ricorda la guerra del petrolio e il cartello del petrolio nel mondo ed aggiunge: “Il Presidente degli Stati Uniti fu ucciso nello stesso piano strategico in cui fu eliminato. L’anno precedente, Enrico Mattei. Lei ha presente che cosa rappresenta il potere di controllo sulle fonti energetiche? Si tratta del governo mondiale: Mattei come Kennedy e poi come Aldo Moro, sono stati uccisi da mani diverse ma per lo stesso motivo: non si adattavano a discipline superiori. E tanti altri sono stati uccisi come loro”. In altri termini una ristretta elite avrebbe il dominio della gran parte del continente. Ci si troverebbe in presenza di un governo segreto costituito da pochi gruppi di potere che regolano la fame, l’energia, le guerre e che non esitano a ricorrere al crimine ogni qualvolta vedono minacciati i loro affari e i loro interessi. Realizzati i delitti si sono occultate e si continuano a d occultare le prove. Ciò ad esempio è avvenuto più volte in America (ma anche in Italia) nel caso Nixon, nel caso dei bombardamenti segreti in Laos e Cambogia, in Iran, in Nicaragua, con i Contras, con gli ostaggi in Iran e dopo Kennedy con l’uccisione di Martin Luther King e Bob Kennedy. Ma tra coloro che improntarono la loro attività a un forte impegno democratico si possono ancora ricordare Allende, Palme, e Moro. Nell’assassinio di Kennedy non possono trascurarsi alcune strane coincidenze che sembrerebbero avvalorare, nell’omicidio del Presidente americano, un connubio tra politica e strutture criminali quali mafia e massoneria. Ma probabilmente si tratta soltanto di coincidenze che tuttavia qualche dubbio lo suscitano. Il giorno dell’assassinio infatti a Dallas, sulla autovettura in cui si trovavano John Kennedy e la First Lady, vi era il governatore del Texas John Connally, un nome che, curiosamente compare nei verbali delle varie inchieste italiane sulla Loggia massonica P2. Connally, fervente anticomunista e in seguito ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Nixon, era infatti amico e sodale del venerabile Licio Gelli come scrive l’ex giudice Imposimato nel libro “La Repubblica delle stragi impunite”. E non può non evidenziarsi e lasciare perplessi come negli omicidi di Kennedy e di Aldo Moro si trovino gli stessi personaggi legati alla mafia e alla massoneria come appunto il governatore del Texas Jhon Connally e il suo braccio destro Philip Guarino. E a proposito di quest’ultimo, Luigi Cipriani, nel suo intervento in aula del 2 agosto 1990, in occasione dell’anniversario della strage di Bologna, evidenziò come Guarino, che negli Stati Uniti aveva diretto il comitato elettorale di Regan e di Bush, fosse stato grande amico di Sindona e dirigente della Franklin Bank che Sindona aveva acquistato negli Stati Uniti. Matteo Lecs poi, un massone inquisito per la strage di Bologna, ha parlato dei rapporti di Philip Guarino con Gelli e delle riunioni che venivano tenute a Livorno alle quali partecipava un ufficiale della base americana di Camp Derby e nel corso delle quali si discuteva delle operazioni che Gelli e la P2 conducevano in quel periodo. Il Lecs dichiarò anche che gli elenchi veri della P2 sono depositati in codice presso il Pentagono. In un messaggio inviato agli americani, John Kennedy sembra quasi tracciare il profilo di quel coacervo di interessi che poco tempo dopo decreterà la sua morte. Disse infatti Kennedy in quella occasione: “La parola segretezza è ripugnante in una società libera e noi abbiamo avuto storicamente come persone un senso innato di avversione alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Per questo si oppone a noi, in tutto il mondo, una cospirazione monolitica e spietata fondata principalmente sull’uso di mezzi sotterranei per espandere la propria sfera di influenza. Sull’infiltrazione anziché l’intrusione. Sulla sovversione anziché sulle elezioni. Sull’intimidazione anziché sulla libera scelta. E’ un sistema che ha coscritto vaste risorse umane e materiali per la costruzione di una fitta rete, una macchina altamente efficiente che combina operazioni militari, diplomatiche, di intelligence, economiche, scientifiche e politiche. La preparazione di queste operazioni viene nascosta, non resa pubblica. I loro errori sepolti, non sottolineati. Gli oppositori sono messi a tacere, non elogiati. Il costo di queste operazioni non viene messo in discussione; nessun segreto viene rivelato. E’ per questo che il legislatore ateniese Solone decretò che il rifiuto di una vertenza, di un dibattito pubblico, costituiva un reato per ogni cittadino. Sto chiedendo il vostro aiuto nell’arduo compito di informare ed allertare il popolo americano, fiducioso che con il vostro aiuto l’uomo potrà essere quello per cui è nato: libero e indipendente”. In fondo lo stesso concetto avevano espresso lo statista inglese Benjamin Dislaeli e il Presidente Franklin Delano Roosevelt. Disse infatti il primo: “Il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che immaginano coloro che non si trovano dietro le scene”. E in maniera più incisiva disse il secondo: “La verità su questo tema è che elementi della finanza sono proprietari del governo nei suoi cardini principali dai giorni di Andrew Jackson”. Si riuscirà mai a sapere la verità su Dallas? Io credo di no poiché, per quello che ne sappiamo oggi, non vi sarebbe nulla di scritto e documentato che proverebbe, nell’assassinio di Kennedy, un complotto di quelli che oggi si suole definire “poteri forti”. Uno spiraglio tuttavia sembra potersi aprire se, come annunciato dal presidente Trump, saranno definitivamente e completamente aperti gli archivi che contengono i documenti sull’assassinio di Kennedy, fino ad oggi coperti dal segreto di Stato. Soltanto in tal modo, io credo, si potrà riprendere in mano il controllo della democrazia eliminando la parola “segretezza” che, come affermò Kennedy, è una parola ripugnante in una società libera.

Nino Galloni: Come ci hanno deindustrializzato, scrive il 29 luglio 2013 "Inchiesta On Line". Per il Dossier L’Europa verso la catastrofe? pubblichiamo una intervista di Claudio Messora de Il fatto quotidiano a Nino Galloni, economista, ex direttore del Ministero del Lavoro. Nino Galloni è figlio di Giovanni Galloni amico e stretto collaboratore di Aldo Moro.

MESSORA: Nino, buongiorno.

GALLONI: Buongiorno!

MESSORA: Benvenuto su byoblu.com, a queste interviste volute dalla rete. Io ero rimasto molto colpito dalla tua affermazione in un convegno che ripresi e misi su Youtube, intitolando il video “Il funzionario oscuro che fece paura a Kohl”. Nel tuo racconto del processo con il quale siamo entrati nell’euro, tratteggiavi questa decisione assunta dalla politica italiana di un vero e proprio progetto di deindustrializzazione del nostro paese. E mi sono sempre chiesto: ma perché mai, alla fine, la politica avrebbe dovuto decidere questo strangolamento, questo inaridimento, la morte del nostro tessuto produttivo? Ho cercato, via via, delle risposte nel tempo, ma oggi che sei qua forse queste risposte ce le puoi dare tu. È un processo, quello di deindustrializzazione, che parte da molto lontano. Riesci a farci una carrellata di eventi e poi arriviamo al focus?

GALLONI: Credo che la data dalla quale dobbiamo necessariamente partire sia il 1947, quando al Trattato di Parigi De Gasperi cede una parte della nostra sovranità, ma in cambio ottiene il riassetto di certi equilibri. La componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà una grande influenza nel campo creditizio e questo, vedremo, sarà un fattore decisivo una trentina di anni dopo.

MESSORA: gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo in questa decisione.

GALLONI: Gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo perché chiaramente gli aiuti del Piano Marshall erano condizionati all’uscita dei comunisti dal governo. In realtà Togliatti, giustamente, si lamentava del fatto che ci fosse questo ricatto, ma era perfettamente consapevole di doverlo fare di uscire dal governo, anche perché tutto sommato alla Russia stalinista non faceva comodo un Partito Comunista al governo, come poi trent’anni dopo non farà scomodo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che tutto sommato era stato additato come interessato a fare avvicinare i comunisti all’area di governo, cosa che poi potrebbe essere sfatata.

Ma torniamo all’industria. Quindi nel 1947 la produzione industriale, per non parlare della produzione agricola italiana, è a livelli del 1938. Il paese è semidistrutto. Tuttavia inizia una ricostruzione. Ad un certo punto di questa ricostruzione, in cui hanno un ruolo le industrie energetiche, quindi Mattei, ma si comincia a sviluppare in modo sorprendente anche il nucleare, ci si trova già negli anni ’60 nel miracolo. Cioè piccole industrie, grandi industrie, industrie a partecipazione statale, soprattutto, e anche cooperative, trainano l’Italia in una situazione completamente diversa. Negli anni ’70 scopriamo che abbiamo superato l’Inghilterra, scopriamo che ci stiamo avvicinando alla Francia, scopriamo che possiamo, dal punto di vista manifatturiero, andare a dar fastidio alla Germania. Nel ’71 si sgancia la moneta dall’oro e questo rende teoricamente tutto più facile: gli aumenti salariali anche in termini reali, la spartizione dei guadagni di produttività che va in parte ai lavoratori e quindi aumentano i consumi, aumentano le vendite, aumenta il valore delle imprese. Questo è un concetto fondamentale che oggi è stato completamente dimenticato. Oggi la consapevolezza e l’orizzonte delle imprese – e di questo ha grave responsabilità la Confindustria – è ridotto all’immediato, al profitto annuale. Le imprese dovrebbero traguardare obiettivi di crescita del valore delle imprese stesse, in modo di contrattare poi con le banche tassi di interesse buoni e invece manca completamente questa consapevolezza.

MESSORA: Negli anni ’70 eravamo all’apice.

GALLONI: All’apice. Diciamo che forse l’anno di maggior crescita è proprio il ’78, che è l’anno, non a caso, del rapimento di Moro.

MESSORA: Cioè noi stavamo raggiungendo e superando le altre economie avanzate.

GALLONI: C’erano stati altri segnali gravissimi di attacco al sistema italiano, come appunto l’omicidio di Mattei, ordinato perché aveva pestato i piedi alle “Sette Sorelle” in Medio Oriente, trovando una formula che ci aveva dato una posizione nel Mediterraneo veramente ragguardevole dal punto di vista della politica estera. E non ci dimentichiamo che Moro era amico degli arabi moderati, quindi aveva contro Israele e aveva contro gli arabi estremisti. Poi abbiamo visto che aveva contro la Russia, che non voleva un avvicinamento del Partito Comunista Italiano al governo e anzi mal sopportava l’importanza in Europa di questo grande partito, e gli americani che temevano – questa è la versione non dico ufficiale, ma su cui concordano molti osservatori, che dobbiamo (va citato in questo caso) alla ricostruzione di mio padre, che era principale collaboratore di Moro a quei tempi – che  l’avvicinamento del Partito Comunista all’area di governo,  secondo i loro centri studi, i loro servizi, avrebbe potuto vanificare il principale piano strategico di difesa dell’Occidente nei confronti della Russia sovietica, che aveva una supremazia evidente di terra. Quindi un’avanzata dei carri armati sovietici attraverso la Germania orientale, poteva essere fermata prima che i carri arrivassero nella Germania occidentale solo con degli ordigni atomici tattici che erano necessariamente e solo piazzabili e piazzati nel Nord-Est dell’Italia. Quindi se non si poteva fermare con armi atomiche nucleari tattiche l’avanzata dell’esercito sovietico verso occidente, l’Europa era persa e quindi gli americani se ne sarebbero dovuti andare dall’Europa, conseguentemente dal Mediterraneo che – teniamolo sempre presente – è l’ombelico del mondo. Ma questo è un quadro teorico.

MESSORA: Spieghiamolo bene. Cosa c’entra Moro in questo quadro? Cosa c’entra Moro con le bombe nucleari?

GALLONI: c’entra! Perché se Moro faceva riavvicinare i comunisti al governo, si pensava che i comunisti avrebbero posto un veto all’uso di ordigni nucleari, anche nel caso di un’avanzata dei carri armati sovietici verso occidente. Ma erano scenari che gli americani fanno continuamente, non è detto che le politiche si debbano ispirare a quello. Però c’è un fatto di cui ci sono testimonianze certe, anche della famiglia di Moro: Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima, Moro lo aveva riferito alla famiglia e la famiglia aveva detto “ritirati dalla politica”, cosa che poi lui non aveva fatto, ma non si sa poi che cosa avesse in mente di fare dopo quel fatidico marzo 1978.

MESSORA: Quindi le Brigate Rosse in realtà avevano avuto un ruolo…

GALLONI: Dobbiamo distinguere le prime Brigate Rosse, per capirci quelle di Curcio, che erano un fenomeno promanante dall’incontro tra l’estremismo, un certo tipo di estremismo marxista-leninista, che bene o male aveva un legame col Partito Comunista, anche se lontano, e forze che tutto sommato, partigiani ed ex partigiani che avevano conservato le armi, anche perché si sapeva che dall’altra parte c’era la minaccia; tutti gli anni ’70, e forse anche prima, sono stati vissuti con l’idea che potesse esserci un golpe di destra, quindi partigiani ed ex partigiani avevano conservato armi, soprattutto nel nord. Quindi una certa continuità col terrorismo si può anche vedere. Le seconde Brigate Rosse, quelle che – per capirci – rapirono Moro, eccetera, invece sono fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani, israeliani; ci sono evidenze ormai incontrovertibili su questa lettura. Torniamo all’industria. Il problema qual è? Il problema è che in pratica il gioco è: quanto e come ci avviciniamo all’Europa, quanto e come sviluppiamo l’economia italiana, che già appunto era arrivata a livelli, come abbiamo detto, di eccellenza. Allora ci sono due strategie, fondamentalmente. C’è la strategia più moderata che vuole l’Europa e che faceva capo anche a Moro, ma che faceva capo anche a Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, e ad altri personaggi del mondo economico e finanziario italiano, e poi invece emerge una posizione più estremista, pro Europa, che praticamente fa propria l’idea che si debba combattere la classe politica corrotta e clientelare e tutte le sue espressioni facenti capo fondamentalmente alla Democrazia Cristiana e ai suoi partiti alleati, compreso il Partito Socialista, e che per questo si debbano anche cedere porzioni di sovranità, e si comincia con la sovranità monetaria.

MESSORA: Ma chi si faceva propugnatore di questa tesi?

GALLONI: Intanto era cambiata la dirigenza della Banca d’Italia ed era passata la linea, diciamo, più estremista sull’Europa, facente capo a Carlo Azeglio Ciampi. Poi la sinistra democristiana era divisa tra la sinistra sociale, che faceva capo a Donat-Cattin, che era su posizioni euromoderate, e la sinistra politica, che faceva capo a De Mita e soprattutto a Beniamino Andreatta, che invece era su posizioni euroestremiste e giustificavano questa rinuncia alla sovranità monetaria, cioè alla possibilità dello Stato di fare investimenti pubblici produttivi, per impedire alla classe politica stessa, corrotta e clientelare, di avere potere. Quindi per sottrarre potere alla classe politica, si cominciò a rinunciare alla sovranità monetaria, quindi agli investimenti pubblici. Quindi la classe politica poi si trovò ad occuparsi solo di nomine, di poltrone, eccetera, perché non c’era più da discutere gli investimenti pubblici che ormai dovevano minimizzarsi. Degli investimenti pubblici la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia, i trasporti e via dicendo, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale.

MESSORA: Mario Monti era molto vicino a De Mita, quindi potremmo dire che già da allora era un euroestremista.

GALLONI: Di Monti mi ricordo la posizione sulla scala mobile, che era stata considerata interessante da Donat-Cattin, però poi, per il resto, era sicuramente un rappresentante della scuola monetarista, non era un keynesiano. I keynesiani si stavano abbandonando. Anche Andreatta, pur essendo stato un keynesiano, era entrato in quella che noi chiamiamo “la corrente neo-keynesiana”, li chiamiamo anche “keynesiani bastardi”, di cui il maggior rappresentante era il premio Nobel Modigliani, i quali proponevano appunto questo passaggio rispetto alla moneta che impedisse alla classe politica di decidere investimenti in infrastrutture per lo sviluppo industriale, per lo sviluppo del paese. Ecco, questo è stato un errore cruciale che ha determinato poi l’esplosione dei tassi di interesse e quindi del debito pubblico, ma soprattutto l’accorciamento di orizzonte delle imprese industriali che assumevano sempre di meno perché dovevano valutare il profitto immediato e non potevano stare a fare grandi progetti industriali. Quindi quello che accadde per gli investimenti pubblici, accadde anche per gli investimenti privati, a causa degli alti tassi di interesse. Io negli anni ’80 feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione. Il passaggio successivo però è molto più grave e riguarda appunto il periodo che va dalla fine degli anni ’80 all’inizio delle privatizzazioni.

MESSORA: Ci arriviamo. Ci spieghi però, a noi che non siamo economisti, come si lega questa nuova politica monetarista con l’esplosione dei tassi di interesse? Questo passaggio tecnico ce lo spieghi un po’?

GALLONI: Fino al 1981 la Banca d’Italia, se un’emissione di obbligazioni pubbliche che servivano per ottenere moneta da parte dello Stato non veniva completamente coperta, comprava lei il restante, quindi era la compratrice di ultima istanza, come diceva il mio maestro Federico Caffè. Questo faceva sì che se l’emissione avveniva a un tasso di interesse basso, mettiamo del 3%, e una parte non veniva comprata proprio perché il rendimento era basso, la Banca d’Italia comprava quello che avanzava e quindi emetteva moneta. Con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, era data alla Banca d’Italia la facoltà di non essere obbligata… Sembra un po’ un gioco di parole però, in fondo, lo stesso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, di cui stiamo parlando, non è che obbligava la Banca d’Italia a non comprare titoli, le dava la facoltà di non farlo e la pratica, voluta da Carlo Azeglio Ciampi, fu di applicare questo divorzio in modo letterale. Per la cronaca, ricordo che l’Inghilterra aveva le stesse regole, perché noi copiammo quelle, ma non le praticava. Cioè la Banca d’Inghilterra, quando serviva, stampava sterline a gogò, mentre la Banca d’Italia si irrigidì su quella facoltà che le era stata riconosciuta attraverso una semplice lettera del Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, e quindi la parte di emissione obbligazionaria che non veniva coperta, causava un aumento del tasso di interesse finché non si piazzava questo residuo, ma poi questo tasso di interesse andava ad essere applicato su tutta l’emissione della mattinata. Quindi in questo modo c’è stata una rincorsa dei tassi di interesse verso l’alto. In effetti io feci un appunto e ci fu una discussione col Ministro del Tesoro, in cui dimostrai oltre ogni ragionevole dubbio, applicando semplicissimi tassi di capitalizzazione – come sanno tutti gli economisti – che il debito pubblico sarebbe raddoppiato e avrebbe superato il Pil. Addirittura mi dissero che il debito pubblico non poteva superare il Pil, se no il sistema saltava, al che io gli feci presente che non era così, perché il debito è uno stock e il Pil è un flusso. Ma avevano deciso una cosa e non volevano più cambiarla, non accettavano né le critiche di Federico Caffè né quelle di Paolo Leon, figuriamoci le mie! Per cui poi litigammo e io andai via da quella amministrazione. E siamo a metà degli anni ’80. Il peggio deve ancora arrivare.

MESSORA: Lo scopo era soltanto quello nobile di sottrarre alla politica la gestione dei soldi e quindi andare verso un’Europa che avrebbe potuto salvarli in qualche maniera, o c’era anche sotto una strategia che poi avrebbe portato al nostro processo non solo di deindustrializzazione ma anche di privatizzazione? Qual è stata la road map successiva?

GALLONI: Nel mio ultimo libro “Chi ha tradito l’economia italiana”, infatti, affronto questo problema e identifico due tipi di personaggi, cioè quelli che in buona fede volevano fare i salvatori della patria, come hai ricordato tu, ma anche quelli che traguardavano nella possibilità di una svendita delle partecipazioni statali, nelle privatizzazioni – allora si chiamavano dismissioni – la possibilità di fare immensi profitti, come fu. Quindi c’è stata anche una parte di questa componente, diciamo così, anti-statalista, anti-italiana, anti-sviluppista, che ha fatto affari strepitosi e su cui qualcuno, infatti, ha proposto una commissione di indagine parlamentare.

MESSORA: arriviamo quindi, con questo ragionamento, all’inizio degli anni ’90.

GALLONI: Sì. Diciamo che c’è il passaggio successivo. È prima dell’inizio degli anni ’90, perché all’inizio degli anni ’90 avviene il crollo del sistema monetario europeo, perché non era sostenibile per la semplice ragione che produceva tassi di interesse più alti per i paesi deboli, che quindi si indebolivano di più, e tassi di interesse più bassi per i paesi forti, che quindi si rafforzavano di più. Ad un certo punto il sistema è saltato, ma era prevedibile. Ma noi ci dobbiamo rapportare, raccontando gli eventi, al tempo in cui accadevano, perché col senno del poi siamo tutti bravi.  Nell’89 è emerso, qualcuno aveva detto – lì entra in gioco l’oscuro funzionario, probabilmente-, l’apice della classe politica italiana, che tutto sommato faceva capo in quel momento a Giulio Andreotti, capisce che bisogna trovare una strada un po’ diversa, perché se no si compromettono gli interessi nazionali. Tra le altre cose, quindi, mi manda un biglietto, mi scrive Giulio Andreotti e mi dice “caro dottore, vuole collaborare con noi per cambiare l’economia di questo paese?”. Al che io entusiasticamente aderisco. Per farla breve io mi trovo al vertice del Ministero del Bilancio, che era il ministero cruciale, alla fine dell’estate del 1989. Quindi in quel momento Andreotti era più vicino alle posizioni americane e più lontano dalle posizioni europeistiche estreme. Passano poche settimane, perché dalla fine di agosto dell’89, quando io ho ripreso servizio al mio ex ministero, fino a quando praticamente vengo di nuovo estromesso, che è novembre, passano due mesi praticamente. In questi due mesi io metto mano, e si sa in giro che io sto mettendo mano, ci fu anche un mio incontro molto in tensione con Mario Monti alla Bocconi. Io stavo appunto col mio Ministro e ci fu questo scontro piuttosto forte sul problema della moneta e del debito pubblico; avevamo posizioni completamente diverse.

MESSORA: La tua qual era?

GALLONI: La mia era che praticamente si dovesse operare per abbassare i tassi di interesse in qualunque modo e dimostrai appunto che la Banca d’Inghilterra aveva lo stesso regime nostro, cioè il divorzio, ma non lo praticava, quindi quando serviva al paese stampava sterline. Questo era il problema.

MESSORA: E la sua?

GALLONI: La sua, che si dovesse andare avanti su una politica di forte europeizzazione e quindi si dovesse continuare con questo forte debito pubblico. Dopo questo incontro alla Bocconi in effetti si scatena l’inferno, perché arrivano pressioni dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dalla Confindustria e vengo a sapere che persino un certo Helmut Kohl aveva telefonato al Ministro del Tesoro Guido Carli per dire “c’è qualcuno che rema contro il nostro progetto”, adesso le parole le ho ricostruite in base a delle testimonianze dirette, però vengono fatte pressioni sul mio Ministro affinché io venga messo da parte, cosa che avviene nel giro di un pomeriggio, nel senso che io ottengo dal Ministro la verità, mi rivela la verità, la scriviamo su un pezzo di carta perché lui temeva ci fossero dei microfoni, gli faccio vedere questo pezzetto di carta, dico “ci sono state pressioni anche dalla Germania sul Ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?” e lui mi fece di sì con la testa. Per cui ho mantenuto rispetto per questa persona, però me ne sono andato. Che cosa era successo? Che fino all’estate del 1989 Andreotti era contrario alla riunificazione tedesca e questo fatto impediva qualunque progresso, ovviamente, perché la Germania voleva fare la riunificazione.

MESSORA: e ci fu quella famosa battuta.

GALLONI: sì, sì. Infatti in quei tempi ad Andreotti chiesero “ma lei ce l’ha tanto con la Germania?”, dice “no, io amo la Germania. Anzi, la amo talmente tanto che mi piace che ce ne siano addirittura due!”. Questa era la frase. Passano appunto pochi mesi e invece la Germania, pur di ottenere la riunificazione, si mette d’accordo con la Francia per rinunciare al marco, che era quello che faceva paura alla Francia. Però perché questo accordo tra Kohl e Mitterand regga, occorre deindustrializzare l’Italia e indebolire l’Italia. Perché se no che fanno? Si passa a una moneta unica e l’Italia poi…

MESSORA: che stava fiorendo.

GALLONI: stava già perdendo colpi l’industria italiana, da vari punti di vista, però era una situazione ancora di dominio del panorama manifatturiero internazionale. Eravamo la quarta potenza che esportava. Voglio dire, eravamo qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero. Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici e cose del genere. Dopodiché, ovviamente, si entra nella stagione delle privatizzazioni spinte, negli anni ’90, in cui praticamente quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale.

MESSORA: Quindi decidono la deindustrializzazione. Dopodiché c’è qualcuno che si attiva.

GALLONI: Sì. La deindustrializzazione significa che non si fanno più politiche industriali. Non ci dimentichiamo che poi c’è stato un periodo in cui Bersani era Ministro dell’Industria, in cui, diciamolo, teorizzò che non servivano le strategie industriali. Adesso sta dicendo il contrario, ma poteva pensarci pure prima. Per dirne una. Non si fanno politiche per le infrastrutture. Questo è importante, perché è un paese che è molto lungo, quindi è costoso trasportare le merci da sud a nord, mentre il nord è già in Europa dal punto di vista geografico e infrastrutturale, il centro e il sud sono lontani, quindi potenziare le infrastrutture sarebbe stato strategico.

Poi, alla fine degli anni ’90, si introduce la banca universale, quindi la possibilità per la banca di occuparsi di meno del credito all’economia e di occuparsi di più di andare a fare attività finanziarie e speculative che poi avrebbero prodotto solo dei disastri, come sappiamo.

MESSORA: La fine del Glass-Steagall Act.

GALLONI: Sì, esatto. Poi la mancanza di strategie efficaci della stessa FIAT, dell’industria privata. Ripeto, in quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti – che poi avrebbero prodotto la precarizzazione – aumentare i profitti, quindi una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale, quindi perdita di valore delle imprese, perché le imprese guadagnano di valore se hanno prospettive di profitto che dipendono dalle prospettive di vendita. Questo è l’ABC. Se invece difendono il profitto oggi perché devono realizzare e devono portare ai proprietari una certa redditività ma poi, voglio dire, compromettono il futuro di un’azienda, questa perde di valore.

MESSORA: Si narra di questo incontro sul Britannia. Qual è stato il ruolo anche dell’Inghilterra, secondo te?

GALLONI: L’Inghilterra non è che avesse un interesse diretto all’indebolimento dell’Italia nel Mediterraneo, ma ha una strategia complessiva in Africa e in Medio Oriente, che ha sempre teso ad aumentare i conflitti, il disordine, e c’è la componente che fa capo alla corona, di cui sono espressione anche alcuni movimenti ambientalisti, che poi si debba puntare a una riduzione drastica della popolazione del pianeta; quindi è contraria ad ogni politica che invece favorisca lo sviluppo così come lo intendiamo comunemente.

MESSORA: Quindi è vero che sul Britannia si presero delle decisioni?

GALLONI: Qui dobbiamo capirci. Allora, Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli Illuminati di Baviera, sono tutte cose vere. Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decidono delle cose. Ma non è che le decidono perché veramente le possono decidere, è perché non trovano resistenza da parte degli Stati. L’obiettivo è quello di togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale in questo senso. Dopodiché è ovvio che se gli Stati sono stati indeboliti o addirittura nei governi ci sono rappresentanti di questi gruppi, che siano il Britannia, il Bilderberg, gli Illuminati di Baviera, eccetera, negli Stati Uniti d’America c’era la Confraternita dei Teschi, di cui facevano parte padre e figlio Bush, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti. E’ chiaro che dopo questa gente risponde a questi gruppi che li hanno, bene o male, agevolati nelle loro ascese.

MESSORA: Quindi alla fine decidono.

GALLONI: Ma perché dall’altra parte è mancata, da parte dei cittadini e degli Stati, una seria resistenza. Quindi praticamente questi dominano la scena.

MESSORA: Quindi non è colpa di questi ma è colpa di chi non si oppone abbastanza.

GALLONI: Questi si riuniscono, decidono delle cose, però rimangono lì. Ci sono sempre stati i circoli dei notabili che hanno deciso delle cose. Mica è detto che siano riusciti sempre a farle!

MESSORA: Però in questo caso ci sono riusciti.

GALLONI: In questo caso ci sono riusciti perché non hanno trovato resistenza.

MESSORA: Quindi è colpa nostra.

GALLONI: Beh, sì, un po’ sì, secondo me.

MESSORA: L’ignavia del cittadino che non rivendica il potere.

GALLONI: Sì. Ad esempio l’idea montiana che l’aumento della base monetaria produca inflazione è stato ciò che ha consentito di attrarre anche i sindacati in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981, quando invece si è dimostrato, anche in tempi recenti, che l’emissione e l’autorizzazione di mezzi monetari per migliaia, decine di migliaia di dollari e di euro non ha prodotto l’iper inflazione. Quindi evidentemente è qualcos’altro che genera l’inflazione, non è la quantità di moneta. La quantità di moneta può influire sui tassi di interesse attraverso le tensioni della domanda di essa, ma non è che influiscano direttamente sull’inflazione. Certo, paradossalmente potrebbe essere il contrario: se la moneta è poca e i tassi di interesse aumentano, quelli hanno effetti sui livelli dell’inflazione.

MESSORA: Quindi l’ignoranza degli attori sociali è stata o anche un certo tornaconto?

GALLONI: Una cosa non esclude l’altra. Diciamo che quelli che volevano avere un certo tornaconto facevano leva sull’ignoranza dei fatti monetari, dei partiti, dei sindacati, della classe dirigente e anche una certa scomparsa della scuola keynesiana dovuta a vari fattori anche oscuri.

MESSORA: Quindi privatizzazioni. Anni ’90. Cosa succede poi?

GALLONI: Dopo gli anni ’90 la situazione praticamente comincia a precipitare quando inizia questa crisi, che è il 2001. Quando gli operatori di borsa si accorgono che anche i titoli che avevano tirato fino a quel punto, e-commerce, e-economy, prodotti avanzati, eccetera, non danno più rendimenti crescenti, allora cominciano a svendere e comincia la speculazione al ribasso. In quelle condizioni le banche, che avevano preso grandi impegni coi sottoscrittori dei loro titoli, perché erano diventate, come ho ricordato prima, universali, per garantire questi rendimenti fanno operazioni di derivazione. Le operazioni di derivazione sono tipo catene di Sant’Antonio: tu acquisisci denaro per dare i rendimenti e quindi posticipi la possibilità di dare i rendimenti agli ultimi che ti hanno affidato delle somme. Questa cosa, si è fatta nel giro di due o tre mesi, perché dopo c’era la ripresa, era sempre stata fatta dalle banche, è un’operazione tecnica, diciamo così. Quindi di tre mesi in tre mesi si diceva che arrivava la ripresa. Centri studi, economisti, osservatori, studiosi, ricercatori, tutti sui loro libri paga, prevedevano di lì a tre mesi, di lì a sei mesi, la ripresa. Non si sa perché. Perché le politiche economiche volute per esempio da Bush, tipo la riduzione delle tasse, erano chiaramente politiche che non avrebbero risolto il problema della crescita. Poi tutte queste guerre americane, speculazioni, vanificavano la potenza di un dollaro che se fosse stato destinato a investimenti produttivi, alla ricerca, alle infrastrutture, eccetera, probabilmente avrebbe creato una situazione accettabile. Invece non si faceva niente di tutto questo, non si avviavano gli investimenti produttivi pubblici, perché i privati non investono se non c’è prospettiva di profitto; come avviene in borsa così avviene nell’economia reale. Quindi siamo andati avanti anni e anni con queste operazioni di derivazione, emissione di altri titoli tossici. Finché si è scoperto, intorno al 2007, che il sistema bancario era saltato, nel senso che nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose che faceva lei stessa, cioè speculazioni in perdita. La massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava, per la prima volta, la massa di quello che le famiglie, le imprese e la stessa economia criminale mettevano dentro il sistema bancario. Di qui la crisi di liquidità che deriva da questo, cioè che le perdite superavano i depositi e i conti correnti. A questo punto è intervenuta la FED e ha cominciato a finanziare le banche, anche europee, nelle loro esigenze di liquidità. La FED ha emesso, dal 2008 al 2011, 17 mila miliardi di dollari, cioè più del Pil americano, più di tutto il debito pubblico americano, ha autorizzato o immesso mezzi monetari in qualche modo e poi ha chiesto all’Europa di fare altrettanto. L’Europa alla fine del 2011 ha offerto qualche resistenza e poi, anche con la gestione di Mario Draghi, ha fatto il “quantitative easing”, cioè dare moneta illimitatamente per consentire alle banche di non soffrire di questa crisi di liquidità derivante dalle perdite che superano nettamente le entrate. Ovviamente l’economia è sempre più in crisi, quindi i depositi che seguono gli investimenti produttivi sono sempre di meno e le perdite, invece, sono sempre di più. Allora il problema qual è? Perché continua questo sistema? Questo sistema continua per due ragioni. La prima è che chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite. Perché non guadagna su quello che sono le performance, come sarebbe logico, ma guadagna sul numero delle operazioni finanziarie che si compiono, attraverso algoritmi matematici, sono tantissime nell’unità di tempo. Quindi questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo. Non vanno a ramengo perché poi le banche centrali, che sono controllate dalle stesse banche che dovrebbero andare a ramengo, le riforniscono di liquidità.

MESSORA: Non solo le banche centrali, anche i governi.

GALLONI: Sì, ma sono le banche centrali che autorizzano i mezzi monetari.

MESSORA: Ma i Monti bond? Chi ce li ha messi i soldi?

GALLONI: Sì, però i debiti pubblici sono bruscolini. Nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di decine di trilioni di dollari e di euro.

MESSORA: Sì, questo non lo discuto. Però quello che abbiamo dato di Monti bond, alla fine si sarebbe risparmiata forse l’IMU agli italiani. Per cui sulle singole famiglie questo discorso ha valore.

GALLONI: sì, sicuramente sulle singole famiglie. Certo, avremmo potuto risparmiarci l’IMU invece che darli al Monte dei Paschi. Però è una piccola cosa rispetto ai 3-4 quadrilioni di titoli tossici che oggi sono in giro per il mondo.  Sono tremila, quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi. Quindi stiamo parlando di grandezze stratosferiche. Siccome le perdite si aggirano sul 10%, mediamente, che è quello che ovviamente questi titoli non rendono, avremmo bisogno a regime non di qualche decina di trilioni, come hanno dato oggi le banche centrali alle banche, ma praticamente dai 300 ai 400 trilioni di dollari. Cioè in pratica stiamo parlando di 6 volte il Pil mondiale. Sono cose spaventose.

MESSORA: Quindi come se ne esce adesso?

GALLONI: Se ne esce con un accordo tra gli Stati, Cina, India, Stati Uniti d’America, possibilmente Europa e qualcun altro, che congelano tutta questa massa, la garantiscono, la trasformano invece in mezzi monetari che servano per lo sviluppo. Quindi a quel punto poi il problema diventerebbe la capacità di progettare infrastrutture, voli su Marte, acchiappare gli asteroidi per farne delle miniere, voglio dire, se ci vogliamo allargare. Se ci sono queste capacità progettuali, industriali, produttive, forze disoccupate, eccetera, noi ne usciamo. Diversamente la teoria ci porta a pensare che potrà esserci una grande botta iperinflattiva che cancellerà tutti i debiti.

MESSORA: Traduci per i non capenti.

GALLONI: Allora, dai debiti si esce in vari modi. Primo, perché si hanno dei redditi che consentono di ripagare in qualche modo i debiti, e questa è la via maestra, quindi non ci si dovrebbe mai indebitare per somme che si sa che non si possono ripagare attraverso i nostri redditi; e questa sarebbe la regola numero uno. Quindi il debito non è un male, il debito è un bene se tu hai il reddito (nel caso degli Stati il Pil) sufficiente per poi fronteggiare la situazione. C’è la remissione del debito, che è una possibilità anche parziale che io ho sollevato in una mia ricerca sulle banche italiane anni fa, quando ci fu la crisi del 2007-2008, che tutto sommato agevolerebbe anche le banche e ci metterebbe tutti in condizione di avere fondamentalmente, per 8 anni, un 5% in più di reddito, riducendo del 40% i crediti delle banche; questa è un’altra possibilità. E poi c’è l’inflazione che praticamente, se non ci sono indicizzazioni, si mangia il debito, perché decresce il valore della moneta e conseguentemente decresce l’importanza del debito. Queste sono le strade che si possono aprire a livello operativo nei confronti della gestione del debito.

MESSORA: A livello nazionale? Per esempio andrebbe bene per l’Italia o parli a livello europeo?

GALLONI: A livello nazionale c’è appunto chi parla di varie misure riguardanti il debito pubblico. In realtà la cosa migliore sarebbe riprendere il percorso della crescita e quindi minimizzare l’importanza del debito rispetto alla ricchezza nazionale. Non ci dimentichiamo che le ricchezze pubbliche e private in Italia sono 10 volte il Pil, quindi ovviamente ce n’è, non è che non riusciremmo a ripagare il debito. Però il debito non è che si deve ripagare, come credono alcuni, il debito sta lì. L’importante è ridurre i tassi di interesse e che i tassi di interesse siano più bassi dei tassi di crescita, allora non è un problema. Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico. Diversamente può succedere, come è successo in Grecia, che per 300 miseri miliardi di euro poi se ne perdano a livello europeo 3.000 nelle borse. Allora ci si interroga: ma questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Ma chi comanda effettivamente in questa Europa si rende conto? Oppure vogliono obiettivi di questo tipo per poi raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati per obiettivi poi fondamentalmente, come è stato in Italia con le privatizzazioni, di depredazione, di conquista di guadagni senza lavoro?

MESSORA: Adesso c’è un altro ciclo di privatizzazioni. Sembra che ci stiamo avvicinando a quello.

GALLONI: Il problema delle privatizzazioni è anche quello dei prezzi di vendita. Perché se ovviamente, come è successo negli anni ’90, ci si aggirava intorno ai valori di magazzino, voi capite di che truffa stiamo parlando. È chiaro che se poi i prezzi di vendita fossero troppo alti, nessuno comprerebbe. Bisogna trovare una via di mezzo. Ma in realtà bisognerebbe cercare di ragionare sulle capacità strategiche e sul mantenimento di poli pubblici di eccellenza che servissero per rilanciare la ricerca, il campo dell’acquisizione delle migliori tecnologie per il trattamento dei rifiuti, che per esempio in Italia avrebbe delle prospettive enormi. Non ci dimentichiamo che in Italia siamo depositari di due brevetti fondamentali, uno è dell’Italgas e l’altro dell’Ansaldo, per produrre degli apparati relativamente piccoli che consentono al chiuso, quindi senza emissioni, di trasformare i rifiuti in energia elettrica e in altri sottoprodotti utili per l’agricoltura e per l’edilizia.

MESSORA: E dove stiamo andando in Europa, in questo momento?

GALLONI: Io avevo identificato una spaccatura di impostazione, anche al momento in cui Monti era diventato Presidente del Consiglio dei Ministri, tra le posizioni americane e le posizioni europee. In Europa si diceva “lacrime e sangue. Prima il risanamento dei conti pubblici e poi lo sviluppo”. Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa. In condizioni di ripresa è facile ridurre la spesa pubblica, ma in condizioni recessive ridurre la spesa pubblica significa far aumentare la recessione con conseguenze sulle entrate e sulle uscite.

MESSORA: ma è possibile, secondo te, che questi non lo sanno?

GALLONI: Ma bisogna vedere quali sono i loro obiettivi.

MESSORA: Quali sono?

GALLONI: E che ne so quali sono i loro obiettivi?

MESSORA: Si possono immaginare?

GALLONI: Sono obiettivi anche di asservimento dei popoli, chiaramente. Mentre la posizione americana era una posizione di sviluppo, cercando di non peggiorare i conti pubblici, che già è una versione possibilista. Ma non è la concezione né di Monti né della Merkel né del polo europeo, chiaramente. Quindi al momento le uniche speranze sono quelle di una politica nuova che reintroduca la Glass-Steagall, che riproponga la sovranità monetaria a livello europeo o se no si torni alle valute nazionali o al limite alla doppia circolazione, che sarebbe assolutamente sostenibile.

MESSORA: Valuta nazionale più euro?

GALLONI: Sì. Terza cosa da fare è un gestione diversa dei debiti pubblici, tranquillizzante, perché ci sono tanti altri modi per gestire i debiti pubblici. In parte qualcosa, addirittura, è stato anticipato da Draghi che è intervenuto sul mercato secondario raffreddando gli spread. Quindi praticamente forse Draghi ha fatto una retromarcia rispetto alle decisioni dell’inizio degli anni ’80 dei cosiddetti divorzi tra governi e banche centrali. Poi in Italia dobbiamo assolutamente riposizionare la pubblica amministrazione. Oggi è piazzata in modo di creare un’alleanza tra irregolari e criminali. Questo ci porta a una sconfitta. La pubblica amministrazione si deve piazzare in un altro modo, si deve piazzare tra gli irregolari e i criminali. I criminali li deve trattare come meritano, con gli irregolari, invece, deve avere tutto un altro atteggiamento, cioè deve essere la stessa pubblica amministrazione che deve realizzare gli adempimenti previsti dalle normative e quando c’è scontro, perché spesso c’è scontro tra norma e diritto, tra norma e buonsenso, tra norma ed equità, il funzionario pubblico deve essere messo in condizioni di scegliere il diritto, l’equità e il buonsenso e vedere di tutelarsi rispetto alla arida applicazione della norma. Se non si fa questo non si va da nessuna parte. E poi, quello che è forse più importante e che riassume un po’ tutto, dobbiamo acquisire quelle strepitose tecnologie oggi a disposizione dell’umanità, che rimetteranno in gioco tutti gli equilibri geopolitici a livello internazionale e a livello locale, ma che sono la nostra più grande speranza per l’ambiente e per lo sviluppo, per esempio tutte le tecnologie di trasformazione e di trattamento dei rifiuti solidi urbani. Ci sono, ripeto, delle tecnologie, alcune sono già applicate, ad esempio a Berlino si stanno applicando. Tu vai a conferire i tuoi rifiuti e ti danno dei soldi, poi ricevi energia gratis, non inquini, non ci sono i cassonetti per strada, non ci sono i mezzi comunali o municipali che intralciano il traffico per trasportare l’immondizia, non ci sono cattivi odori, non ci sono emissioni nocive. Questo è fondamentale. L’azzeramento delle emissioni genotossiche e la limitazione di quelle tossiche nell’ambito dei parametri internazionali.

MESSORA: Facciamo un ragionamento sullo scenario geopolitico globale. Spiegaci come si bilanciano gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa con quelli della Cina, se questi Stati Uniti d’Europa convengono oppure no agli Stati Uniti, se c’è una pressione, secondo te, da parte loro e in che modo la Cina può influire in questo processo, se è un influsso positivo o negativo. Lanciamoci in queste speculazioni.

GALLONI: Diciamo che dopo Kennedy gli Stati Uniti sono sempre più risultati preda dei britannici. È lì che c’è un nodo fondamentale da sciogliere. Peraltro gli Stati Uniti hanno drammaticamente cercato, in determinate situazioni regionali, come può essere la più importante il Mediterraneo, dei partner adeguati. L’Italia questa partita non se l’è saputa giocare dopo la caduta del muro di Berlino, per le ragioni che dicevamo all’inizio. La Cina si sta avvicinando agli Stati Uniti d’America sotto certi profili, ma è ancora lontanissima sotto altri profili. Non dobbiamo neanche sopravvalutare certi comparti manifatturieri, che se anche fossero totalmente ceduti alla Cina e all’India – ma c’è anche il Brasile, c’è anche il Sud Africa, ci sono tante altre realtà emergenti nel pianeta – non sarebbe un dramma. Il problema è che noi abbiamo un futuro, ad esempio nei nostri rapporti con la Cina, se capiamo che non dobbiamo andare lì in Cina per fare un business qualunque, ma se capiamo che cedendo anche parti delle nostre produzioni industriali e manifatturiere, otteniamo però una maggiore penetrazione rispetto ai nostri prodotti di qualità, di eccellenza, perché non ci dimentichiamo che stiamo confrontando un mercato di 60 milioni di persone con un mercato che è 20 volte più grande. Quindi è chiaro che se noi rinunciamo a qualche cosa, ma riusciamo anche ad esportare un po’, quel po’ moltiplicato per la domanda che in questo momento sta crescendo, ci dà tutto un altro risultato. Però della Cina parlerei da un altro punto di vista. All’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese è stato deciso un grande cambiamento di rotta, cioè di puntare di più sulla crescita della domanda interna e di meno sulle esportazioni. Questo potrebbe essere l’inizio della fine della cosiddetta globalizzazione. Non ci dimentichiamo che la globalizzazione è il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente, quello che non rispetta la salute. Questa è la causa principale delle crisi che stiamo vivendo: che invece di premiare il produttore migliore, abbiamo premiato il produttore peggiore. Questo ha danneggiato le industrie europee e soprattutto l’industria italiana, chiaramente. E non solo l’industria, anche l’agricoltura.

MESSORA: Perché si demanda la questione della tutela dei diritti oltre il confine, dove non c’è un controllo.

GALLONI: Si deve rimettere in piedi l’economia, nel senso che deve avere tutta la sua importanza l’economia reale. L’economia reale deve avere una finanza che la aiuta. Poi se c’è un’altra finanza che va a fare disastri da qualche altra parte, che non influiscano sull’economia reale, sulla vita dei cittadini. Questo deve essere il primo punto che corrisponde alla reintroduzione della legge Glass-Steagall in pratica. Per questo possono essere utili le doppie e le triple circolazioni monetarie, le monete complementari e addirittura la reintroduzione di monete nazionali, pure in presenza di una moneta internazionale.

MESSORA: Ma per scontrarsi o per far fronte alla Cina è necessario avere gli Stati Uniti d’Europa o basta anche il piccolo guscio di noce italiano, come alcuni dicono?

GALLONI: Io non penso che ci si debba scontrare o frenare la Cina. Bisogna avere delle strategie industriali, e non solo industriali, in grado di difendere i nostri interessi, i nostri valori, i nostri principi, le nostre vocazioni. Dopodiché ci si confronta con i cinesi e si vede quali sono le sinergie che possono essere messe in campo. Si deve fare un discorso di carattere strategico, secondo me.

MESSORA: Ma la politica di Nino Galloni quale sarebbe? Uscire dall’euro e recuperare sovranità monetaria o puntare sul “più Europa”?

GALLONI: A me interessa che ci siano spese in disavanzo, perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione è un crimine puntare al pareggio di bilancio. Ovviamente se gli Stati hanno pareggio di bilancio, è possibile che l’Europa faccia gli investimenti in disavanzo, e allora mi sta benissimo l’euro.

MESSORA: Cosa che non c’è.

GALLONI: Cosa che non c’è, ma è il terzo passaggio che potrebbe essere favorito dalla gestione Draghi. Io non lo escludo. Perché chi immaginava che avrebbero dato mezzi monetari illimitatamente alle banche? Chi immaginava che sarebbero intervenuti per raffreddare gli spread acquistando i titoli pubblici sui mercati? Adesso il terzo e ultimo passaggio è quello di accettare di autorizzare mezzi monetari per la ripresa, per lo sviluppo, per gli investimenti produttivi. L’importante però è che questo non avvenga in una logica di quantitative easing. Cioè la politica monetaria sbagliata può impedire lo sviluppo, ma la politica monetaria giusta non produce lo sviluppo. Cioè la moneta è una condizione necessaria, ma non sufficiente dello sviluppo. Quindi non basta approntare mezzi monetari a gogò e allora si acchiappa lo sviluppo. Questa è una visione di tipo liberista riguardante le emissioni monetarie. In realtà bisogna fare dei progetti di infrastrutture, di ricerca, di ripresa industriale, di salvaguardia della salute e degli interessi dei cittadini e soprattutto dell’ambiente, e sulla base di queste grandi strategie approntare i mezzi monetari che certamente non sarebbero scarsi. Quindi se io dovessi ripetere i miei punti fondamentali, immediati: una legge che ripristini la netta separazione tra i soggetti che fanno speculazioni finanziarie sui mercati internazionali dai soggetti che devono fare credito all’economia. Perché la prima cosa è il credito, la più grande componente della moneta, il 94% della moneta è credito. Poi il discorso della sovranità monetaria, come ho detto prima. O gli Stati o l’Unione Europea devono fare spese in disavanzo per acchiappare la ripresa. Una diversa gestione dei debiti pubblici, che è possibile, un diverso posizionamento della pubblica amministrazione, perché il cittadino deve vedere un amico nello Stato, nella pubblica amministrazione, quindi fermare anche questo progetto di polizia europea senza controlli che potrebbe compiere qualunque azione senza dover rispondere a nessuna autorità.

MESSORA: Eurogendorf con base in Italia a Vicenza.

GALLONI: Quinto: acquisizione di tutte quelle grandi tecnologie che oggi sono a disposizione dell’umanità per migliorare veramente le condizioni di vita di tutti.

MESSORA: L’ultima domanda. Tedeschi cattivi? Amici o buoni?

GALLONI: I tedeschi sono posizionati nella storia e nella geografia in modo di doversi in qualche modo espandere. Se devono assumere una posizione di leader, devono anche accettare di rivedere le proprie politiche estere. Quindi un paese che voglia essere leader, come sono stati gli Stati Uniti d’America, importano più di quello che esportano. Se i tedeschi non accettano di importare più di quello che esportano, non possono neanche pretendere di essere leader.

La mappa dei poteri, ‘ndrangheta, massoneria e mafia dalla “premonizione” Cordova alla commissione antimafia, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 25 dicembre 2017. Nel depositare la relazione della Commissione parlamentare antimafia sui rapporti tra mafia, ‘Ndrangheta, massoneria, la presidente della Commissione ha dichiarato: “Dentro la massoneria 193 soggetti con procedimenti penali per fatti di mafia. L’agire massonico si è pericolosamente atteggiato ad ordinamento separato dello Stato”. E si legge nella relazione: “Cosa Nostra siciliana e la ‘Ndrangheta calabrese da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria”. In effetti I rapporti tra ‘ndrangheta, politica e massoneria non sono un fatto nuovo. Questa triangolazione esistente in Calabria era stata già accertata da Agostino Cordova, allora Procuratore delle Repubblica di Palmi, che sulla base di documenti ed intercettazioni telefoniche ed ambientali aveva tracciato con nomi e dati, la mappa dei tre poteri. Lo stesso, nell’ambito della indagine sulla massoneria italiana deviata aveva ipotizzato l’esistenza di una “super loggia segreta” che portava a Licio Gelli e ad una serie di personaggi legati a logge massoniche coperte. Promosso Cordova a Procuratore di Napoli, l’inchiesta venne archiviata. Alcuni anni dopo il pool antimafia di Reggio Calabria accertò le connessioni tra esponenti della famiglia dei “casati” e la massoneria coperta, connessioni esistenti soprattutto nel reggino. Nel1995 i magistrati di Reggio scrivevano: “(….) Sulle risultanze probatorie emergenti dal capitolo dedicato alla cosiddetta “Cosa Nuova”, l’apparato che attualmente è chiamato a guidare la ‘ndrangheta calabrese, ci si accorge anche che i gruppi mafiosi rappresentati in tale organismo verticistico possono contare, tra le loro fila, su esponenti indicati come facenti parte di logge massoniche dai collaboratori di giustizia”. Della convergenza di interessi tra mafia e massoneria aveva parlato Giacomo Lauro uno dei primi pentiti di ‘ndrangheta. Dichiarò in proposito Lauro nell’ambito dell’inchiesta denominata “Saggezza”: “Sino alla prima guerra di mafia la massoneria e la ’ndrangheta erano vicine, ma la ‘ndrangheta era subalterna alla massoneria che fungeva da tramite con le istituzioni… E’ evidente che in questo modo eravamo costretti a delegare la gestione dei nostri interessi con minori guadagni e con un necessario affidamento con personaggi molto spesso inaffidabili. A questo punto capimmo benissimo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire direttamente ed essere rappresentati nelle istituzioni”. Ed ancora “Il nostro ingresso nella massoneria deviata cambiò i rapporti di forza e noi cominciammo a dialogare direttamente con le istituzioni senza più bisogno di mediatori. Fu così che Paolo De Stefano, Santo Araniti, Antonio, Giuseppe e Francesco Nirta, Antonio Mammoliti entrarono a far parte della massoneria”. La ‘ndrangheta quindi fa un salto di qualità che le consentirà, di instaurare, per le sue attività lecite rapporti, su un piano di parità, con esponenti della classe dirigente della città di Reggio, anche essi aderenti alla logge massoniche. In forza di questi collegamenti la ‘ndrangheta entrava nei più importanti circuiti dell’economia locale, dimostrando al tempo stesso una notevole capacità di adattamento ai processi di modernizzazione. Secondo la DIA, infatti le ‘ndrine usano molto internet per riciclare i proventi delle loro lucrose attività. Ed afferma il generale Carlo Alfiero, ex direttore della Direzione Nazionale Antimafia: “La mafia calabrese ha notevolmente ampliato la sua presenza nel territorio nazionale, creando una rete operativa estremamente efficiente per compartimentazione e segretezza, riproducendo in Italia e all’estero le strutture ordinative presenti da decenni in Calabria”. Questa espansione e capacità di adeguamento della ‘ndrangheta ha determinato una maggiore considerazione della stessa da parte delle altre organizzazioni criminali, ivi compresi i gruppi terroristici che, ritenendola una organizzazione affidabile, hanno stretto solidi rapporti finalizzati alla realizzazione di attività illecite anche al di fuori del territorio nazionale. Un esempio di attività illecite della ‘ndrangheta, nel settore finanziario e bancario è dato da quanto riferito da Nicola Gratteri (attuale Procuratore della Repubblica di Catanzaro e da anni impegnato nel contrasto alla ‘ndrangheta) e Antonio Nicasio nel libro “Fratelli di sangue”. Scrivono infatti gli autori: “Nel marzo del 2000, una complessa indagine condotta con l’ausilio di satelliti ed intercettazioni ambientali ha individuato un business di decine di milioni di euro relativo a falsificazioni di garanzie bancarie, clonazione di titoli e altre truffe a istituti di credito, tra i quali Deutsche Bank di Milano”. Ed ancora un esempio di intreccio tra ‘ndrangheta e corruzione politica è dato dalla vicenda della centrale a carbone di Gioia Tauro. Nel 1967 la zona destinata alla costruzione della centrale a carbone era stata dichiarata “territorio di notevole interesse pubblico per la presenza di tradizionali coltivazioni, di entità tale da creare numerosi quadri naturali di suggestiva bellezza panoramica”. Malgrado ciò, il CIPE nel dicembre del 1981, individuò nella piana di Gioia Tauro la zona in cui realizzare una centrale a carbone, stanziando per la realizzazione dell’opera ben 5625 miliardi. L’Enel peraltro, pur in mancanza delle prescritte autorizzazioni di legge, iniziò ugualmente i lavori. Intervenne la Procura di Palmi che avviò una indagine a carico dell’Enel avendo accertato, attraverso una perizia sismologica, che l’area in cui sarebbe dovuta sorgere la centrale era ad alto rischio sismico, il che sconsigliava la realizzazione dell’opera in quel sito. La Procura avviò anche una indagine nella assegnazione dei subappalti. La questione arrivò in Cassazione che accolse il ricorso dell’Enel bocciando l’indagine. Con decreto dell’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti venne autorizzata la realizzazione della centrale. Nella richiesta di rinvio a giudizio dei responsabili dell’Enel, i magistrati della Procura di Palmi così’ avevano scritto: “La presente indagine ha messo a nudo nuovamente ed emblematicamente il punto di intreccio tra mafia e corruzione politica e, più specificamente, il sistema di governo che da sempre ha gestito l’intervento pubblico al sud e il patto di ferro tra Stato e mafia”. Indagini giudiziarie accertarono che i rapporti tra ‘ndrangheta ed estrema destra e tra ‘ndrangheta e massoneria deviata, ebbero inizio in occasione dei moti di Reggio, come risulta dalle dichiarazioni del Lauro che rivelò ai magistrati di patti stretti tra esponenti di vertice della ‘ndrangheta ed alcuni settori della politica nonché della infiltrazione dei primi nella massoneria. In particolare ha riferito di avere ricevuto l’ordine di mettersi a disposizione di esponenti della eversione nera affermando che l’adesione della ‘ndrangheta reggina ai moti era determinata soltanto dallo scopo di soddisfare propri personali e criminali disegni ed interessi economici. Precisò peraltro che contrario a questa partecipazione della ‘ndrangheta alla rivolta era Domenico Tripodi, temuto boss di Sanbattello così come contrario era Antonio Macrì per la considerazione che, avendo la rivolta attirato sulla Calabria l’attenzione di tutta l’Italia, erano aumentati i controlli di polizia e vi era una minore disponibilità dei politici. Lauro ha parlato anche della disponibilità della ‘ndrangheta ad intervenire nel colpo di Stato che nel 1970 avrebbe dovuto essere attuato in Italia. Ha infatti dichiarato, nel corso del processo svoltosi davanti alla Corte di assise di Palmi: “Si preparava in Italia un colpo di Stato che nel dicembre di quell’anno (1970 ndr) avrebbe dovuto sovvertire l’ordine democratico. Il piano prevedeva l’intervento della ‘ndrangheta e mafia siciliana. I padrini delle consorterie criminali avrebbero dovuto fornire manovalanza per neutralizzare eventuali sacche di resistenza”. Dichiarazioni coincidenti, per quanto riguarda la realizzazione del colpo di Stato, con quelle di Buscetta, di Luciano Leggio e di altri pentiti di mafia. La ‘ndrangheta quindi ha instaurato collegamenti con gruppi eversivi, con servizi segreti, con la massoneria e con la politica; il che le ha consentito di gestire impunemente le proprie attività illecite nel settore economico, finanziario e bancario, garantendosi in tal modo, come scrive Nicola Gratteri, una copertura “realizzata in vario modo (depistaggi, vuoti di indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti dei processi) cui fece seguito una sostanziale impunità della ‘ndrangheta ma anche una sua capacità di rendersi invisibile agli occhi delle istituzioni. Persino l’attività del confidente, un tempo simbolo dell’infamia, venne consentita soprattutto quando serviva a stabilire relazioni o scambi utili con rappresentanti dello Stato o per depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori”. (Nicola Gratteri, La Malapianta: la mia lotta contro la ‘ndrangheta). Non vi è dubbio quindi che in Calabria esiste una forte connessione tra politica, ‘ndrangheta, imprenditoria e massoneria deviata. Lo stesso ex procuratore della Direzione nazionale antimafia, Pier Luigi Vigna, in una intervista rilasciata il 16 febbraio 2006 a “News Settimanale” ebbe a dichiarare: “La ‘ndrangheta ha collegamenti con logge massoniche coperte che non appartengono alla massoneria ufficiale: centri di interessi, di incontri, di agevolazioni”.

Massoneria, mafia e ‘ndrangheta così unite e diverse. L’intuizione del procuratore Cordova, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 26 dicembre 2017. Un contributo notevole alla conoscenza dell’intreccio tra ‘ndrangheta, massoneria e poteri dello Stato è venuto dalla collaborazione di due personaggi di rilievo, il notaio Pietro Marrapodi, democristiano e il sindaco di Reggio Calabria Agatino Licandro, entrambi massoni. Il Marrapodi, dopo avere nel 1992 abbandonato la massoneria, denunciò ai magistrati della Procura di Reggio Calabria le attività illecite della ‘ndrangheta in città accusando anche alcuni magistrati di contiguità con elementi della ‘ndrangheta. Il 28 maggio 1996 venne trovato impiccato nella sua abitazione. Qualche dubbio fu avanzato se si fosse trattato di suicidio considerato anche il fatto che a seguito della sua collaborazione aveva subito minacce tanto che aveva richiesto una scorta. Le indagini non fornirono però elementi in contrasto con l’ipotesi del suicidio. Il Marrapodi era considerato dai magistrati della Procura reggina un collaboratore altamente attendibile tantè che dopo la sua morte, nel dibattimento di primo grado davanti la Corte di Assise, il Sostituto procuratore, Salvatore Boemi ebbe a dichiarare: “Pietro Marrapodi e Giacomo Lauro sono due personaggi che con più chiarezza hanno tracciato la perfida alleanza tra il mondo massonico deviato in questa città e le organizzazioni mafiose. E’ un livello dove mafia, politica economia e istituzioni deviate dello Stato si incontrano per stabilire affari, spartizioni, ridisegnare geografie di potere”. Agatino Licandro venne raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare per abuso di potere con vantaggio patrimoniale e, successivamente, da altra ordinanza in carcere, per concussione inseguito alle dichiarazioni di un imprenditore. Condannato per i reati per cui era stato tratto a giudizio decise di collaborare con la giustizia rivelando il meccanismo di potere che gestiva la città di Reggio. Parlò di un vero e proprio comitato di affari di cui facevano parte rappresentanti delle istituzioni, magistrati della Corte dei Conti, cinque sindaci della città, di cui tre democristiani e due socialisti. Tutti respinsero le accuse. A seguito delle propalazioni del Licandro vennero emessi tre mandati di cattura nei confronti di tre politici di primo piano di Reggio, Franco Quattrone, Pietro Battaglia e Giovanni Palamara e un quarto mandato di cattura nei confronti di Giuseppe Nicolò. A tutti venne contestato di avere fatto parte del vertice politico che aveva deciso l’eliminazione di Ludovico Ligato ex presidente delle Ferrovie. Insieme a loro vennero accusati per l’omicidio, quali esecutori materiali alcuni boss della ‘ndrangheta. L’accusa nei confronti dei politici non resse tuttavia in Cassazione. Va infine osservato come, a differenza di quanto è avvenuto nella mafia siciliana, in cui dopo Buscetta e fino ad oggi si è assistito ad un vero e proprio fiorire di collaboratori di giustizia, nella ‘ndrangheta si è avuto un numero esiguo di pentiti. La ragione del numero ridotto di collaboratori si spiega con il fatto che mentre Cosa Nostra uccide i parenti dei pentiti e talvolta gli stessi pentiti, la ‘ndrangheta adotta una strategia più sottile consistente nel ricontattare i pentiti, uno per uno, cercando di riconquistarli. Rocco Lombardo, Procuratore della Repubblica di Lodi, infatti, nella relazione antimafia del2008 ha formulato il convincimento che la ‘ndrangheta dispone di mezzi economici di gran lunga superiori a quelli dello Stato per pagare i pentiti e può in questo modo agire per far ritrattare quanto dichiarato o per impedire le confessioni”. E’ nel contesto sopra delineato che si inserisce la vicenda giudiziaria di Antonio Caridi al quale viene contestato dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria di essere un dirigente ed organizzatore della componente riservata della ‘ndrangheta, nella cui veste, in tutte le consultazioni elettorali dal 1997 sino alle elezioni regionali del 2010, avrebbe goduto dell’appoggio elettorale del clan De Stefano e dei clan Crucitti ed Audino di Reggio Calabria nonché del medico Giuseppe Pansera, genero del boss Giuseppe Morabito di Africo, uno fra i capi assoluti di tutta la ‘ndrangheta. Nell’ordinanza del GIP Caridi viene poi accusato di avere interferito sull’esercizio delle funzioni di organi di rango costituzionale di cui è, oppure è stato, componente e le cui funzioni avrebbe contribuito a piegare verso interessi di parte in grado di provocare vantaggi ed utilità personali, professionali e patrimoniali. A tal proposito il Gip fa riferimento all’assunzione di Savio Leandro Vittorio, dirigente di settore dell’afor – Forestazione di Reggio Calabria nonché di Giuseppe Richichi, direttore operativo di Multiservizi Spa ritenuto ” affiliato di rilievo alla cosca Tegano di Archi di Reggio Calabria”, di Bruno De Caria, direttore operativo di” Leonia spa”, affiliato di rilievo della cosca Fontana di Archi di Reggio Calabria, di Logotea Demetrio, presidente del Consiglio di amministrazione della società Fata Morgana Spa, espressione politica di Giuseppe Scopelliti, di Aiello Salvatore, direttore operativo di Fata Morgana Spa, poi divenuto collaboratore di giustizia. Tutti i suddetti personaggi, secondo l’accusa sarebbero stati favoriti dal Caridi nei periodi in cui aveva ricoperto l’incarico di assessore all’Ambiente del comune di Reggio Calabria (dal 2002 al 2007 e dal 2007 al 2010). Lungo è l’elenco delle assunzioni “favorite” da Caridi elencate nell’ordinanza del GIP e tutte interessanti le società partecipate e soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta o a questa organizzazione criminale vicini. Il Caridi poi, sempre secondo quanto riportato nell’ordinanza del GIP, avrebbe imposto all’Azienda ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli l’assunzione della signora Concetta Santoro, moglie di Nicolazzo Bruno appartenente alla cosca Tegano. Viene ancora contestato a Caridi di avere imposto ai dirigenti delle FF.SS, l’aumento del volume di lavoro della ditta Ferroser per consentire alla cosca Tegano di accrescere l’importo della somma di denaro imposta mensilmente a titolo di tangente. Nel periodo poi in cui ricopriva la carica di Assessore regionale alle attività produttive, Caridi avrebbe canalizzato sul clan Pelle di San Luca i contributi per il settore agricolo di sua competenza previa, scrive il GIP, “predisposizione di procedure pilotate e caratterizzate da false attestazioni”. La vicenda giudiziaria del senatore Caridi costituirebbe una conferma di quanto giudiziariamente accertato in passato cioè di come oggi la ‘ndrangheta abbia raggiunto un notevole livello organizzativo con esponenti delle cosche che hanno acquisito la possibilità di muoversi liberamente tra apparati dello Stato, politica, servizi segreti, massoneria e gruppi eversivi ed altresì una conferma di come fosse fondata l’intuizione del Procuratore Cordova che aveva ipotizzato l’esistenza di una super loggia segreta e ciò ove si consideri che Caridi è accusato di essere un dirigente e un organizzatore di una componente riservata della ‘ndrangheta.

La verità su Capaci e via D’Amelio, l’ombra del Gruppo Bilderberg, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 15 ottobre 2017. Sono state depositate dai giudici della Corte di assise di Caltanissetta le motivazioni della sentenza del processo Capaci bis a conclusione del quale sono stati condannati all’ergastolo quattro boss mafiosi e cioè Salvino Madonia, Lorenzo Tinnirello, Giorgio Pizzo e Cosimo lo Nigro. Nella parte che concerne i moventi che diedero luogo alla strage, i giudici di Caltanissetta non escludono che ambienti esterni a Cosa Nostra abbiano potuto condividere il progetto della strage. Scrivono infatti i magistrati: “In questo processo, è emerso un quadro sia pure non ancora compiutamente delineato, che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui ambienti esterni a Cosa nostra si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti ed incoraggiandone le azioni, come ha sostenuto la procura». Questa convinzione sembra trarre spunto dalle propalazioni di due importanti collaboratori di giustizia Antonio Giuffrè e Gaspare Spatuzza, entrambi ritenuti attendibili da tutte le Corti che si sono occupate di processi di mafia conclusisi con pesanti condanne di esponenti mafiosi. Giuffrè ha infatti riferito che prima della realizzazione della strage, Bernardo Provenzano aveva interpellato ambienti esterni a Cosa Nostra, ambienti della imprenditoria, della politica e della massoneria. E a proposito dell’annullamento del progetto di uccidere Falcone a Roma per ucciderlo poi nell’attentato di Capaci, scrivono ancora i giudici: “Sembra difficile sostenere – scrivono nella sentenza – che il mutamento di programma rispondesse semplicemente a ragioni logistiche. Una simile ipotesi si pone in irrimediabile contrasto con la particolare complessità che contrassegnava l’organizzazione dell’attentato di Capaci. Appare, invece, molto più plausibile che la decisione di Salvatore Riina costituisse una coerente attuazione di quella finalità che Antonino Giuffrè ha sintetizzato con la frase del Capo di Cosa Nostra. “Facciamo la guerra che poi viene la pace” Una strategia, questa, che fallì per effetto della forte reazione dello Stato, ma che, con ogni probabilità, fu alla base della scelta di Salvatore Riina di procedere prima all’eliminazione dell’onorevole Lima e poi alla realizzazione di un attentato che costituiva un vero e proprio atto di guerra contro lo Stato, come la strage di Capaci». Se si vogliono comprendere le ragioni della uccisione di Giovanni Falcone, avvenuta con la strage di Capaci, occorre partire da un dato di fatto già evidenziato nella sentenza. Falcone, che al momento della sua uccisione ricopriva l’incarico di direttore degli Affari penali, presso il Ministero della giustizia, poteva benissimo e facilmente essere eliminato a Roma dove, tra l’altro, era solito spesso muoversi senza scorta. Era stato controllato per mesi da un gruppo di fuoco guidato da Matteo Messina Denaro e quindi costituiva un facile obiettivo. Ma era improvvisamente pervenuto un ordine che aveva sospeso “la missione” romana per cui Falcone non doveva più essere ucciso a Roma ma a Palermo e in modo eclatante. Il pentito Fabio Tranchina infatti, ha riferito che il “gruppo di fuoco” che doveva eliminare Falcone, era partito dalla Sicilia con un corteo di auto guidato dal boss Matteo Messina Denaro, allora non ancora latitante. “Ma all’improvviso, - ha raccontato Tranchina -. Giunse l’ordine di tornare indietro. Bisognava uccidere Falcone a Palermo in modo eclatante. Questa decisione non può essere certo stata determinata, come sostenuto, dalla difficoltà di realizzare l’attentato a Roma dato che la realizzazione dell’attentato a Capaci si presentava (come d’altra parte sostenuto in sentenza) molto più difficoltoso e complesso. L’utilizzo dell’esplosivo per realizzare un attentato di tipo stragistico creando terrore fu dettato non soltanto dalla finalità di fare maggiore pressione perché andasse in porto la “trattativa” che secondo quanto ipotizzato dai magistrati di Palermo e Caltanissetta, era già stata avviata, ma anche dalla finalità di destabilizzare il Paese per individuare nuovi referenti per l’organizzazione mafiosa  dopo che erano venuti i meno i collegamenti con il mondo politico a seguito della disastrosa conclusione, per Cosa Nostra, del maxiprocesso. La domanda che bisogna porsi è tuttavia la seguente: è possibile che Cosa Nostra autonomamente abbia concepito questi attentati di tipo stragista, soprattutto considerato che gli attentati di tipo stragista e terroristico non rientrano normalmente negli obiettivi di questa organizzazione criminale? Io credo che in questo attentato, così come nell’attentato fallito all’Addaura in cui dovevano essere uccisi Falcone e i due magistrati svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, che si erano incontrati con lui nell’ambito di indagini su un riciclaggio di denaro sporco legato all’inchiesta  “pizza connection” , attentati entrambi realizzati con l’impiego  di esplosivo di tipo militare, certamente non reperibile in commercio, siano da intravedere quegli elementi che, come sostenuto nella citata sentenza, sembrano condurre ad elementi esterni a Cosa Nostra in una situazione di convergenza di interessi con tale organizzazione, di cui avrebbero condiviso i progetti ed incoraggiato le azioni. Senza volere formulare tesi complottiste o di fantapolitica, io credo che nelle stragi, sulla base di alcune considerazioni e di alcuni elementi di fatto, possa intravedersi quello che viene indicato come governo mondiale invisibile. L’ex magistrato Ferdinando Imposimato (che si è occupato come giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo tra cui il rapimento di Aldo Moro) sostiene, nel suo libro “Repubblica. Stragi impunite”, che nelle stragi vi sarebbero state complicità dello Stato o di frammenti dello Stato, con la mafia, con la massoneria e con il terrorismo nero, organizzazioni poi fuse nella organizzazione Gladio, cioè in quella organizzazione internazionale che era manovrata dalla CIA. Tale organizzazione, che secondo Imposimato esisterebbe ancora, serviva ad impedire la dinamica politica nel senso di spostare gli equilibri da destra verso il centro sinistra per rafforzare il potere, destabilizzare l’ordine pubblico e quindi stabilizzare il potere politico. Sostiene poi che dietro le stragi vi sarebbe il gruppo Bilderberg che “comanda il mondo e le democrazie invisibili in modo da condizionare lo sviluppo democratico dei Paesi. Lo stesso sarebbe “uno dei responsabili della strategia delle tensione e quindi anche delle stragi” che “vuole gestire la dinamica democratica dei Paesi occidentali tra cui l’Italia ed anche la dinamica economica”. Ciò, in effetti risulta da un documento, allegato alla requisitoria di Emilio Alessandrini, pubblico ministero della strage di Piazza Fontana, ucciso da prima Linea nel 1979. Si tratta di un documento riservato, il rapporto RSD/Zeta n.230 del 5 giugno 1967 che descrive l’esistenza di un governo mondiale invisibile e da cui emergono le connessioni tra terrorismo e gruppo Bilderberg. In questo documento si dice che i tre pilastri del governo mondiale sono il gruppo Bilderberg, la CIA e l’ADA (Association for democraticaction) che all’epoca era diretta da Arthur Schlesinger, braccio destro e consigliere di John Fitzgerald Kennedy. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, si legge in tale documento, che bisogna influire sulla dinamica del governo italiano sia intervenendo nella formazione del governo sia nella scelta dei segretari dei partiti di governo, strategia da attuare anche mediante atti di terrorismo. Questi documenti, che provengono dal sequestro disposto dai magistrati che indagavano sulla strage di Piazza Fontana, erano conservati in una cassetta di sicurezza nella disponibilità di Giovanni Ventura. Da una indagine condotto dalla Commissione parlamentare risulta che Gladio, uno dei pilastri del governo mondiale, altri non è che la CIA che esercita il controllo sui nostri servizi segreti. Pertanto, dice Imposimato nel suo libro e in alcune interviste che “quando parliamo di servizi segreti presenti nella strage di via D’Amelio dobbiamo pensare che ci sono i servizi segreti italiani ma sono a loro volta governati dalla CIA. Ma cosa è il gruppo Bilderberg? Si tratta di un gruppo ristretto che dal 1954 si riunisce una sola volta all’anno per decidere in segreto le sorti dell’umanità. Le riunioni, alle quali nessun giornalista può avere accesso, fino a poco tempo fa avevano luogo presso l’Hotel Bilderberg, in una piccola cittadina olandese. Dalla privacy armata che la protegge, la classe dirigente globale detta legge sulla politica, economia e questioni militari. Questo gruppo afferma che lo scopo di questi incontri è quello di favorire il confronto libero tra personalità influenti del mondo occidentale atlantico. La scrittrice e politica statunitense Phillys Stewart Schlafly, nel suo libro “A Choisenot an Echo”, trattando del gruppo Bidelberg, sostiene che “dal 1936 fino al 1960, i candidati presidenziali repubblicani sono stati selezionati da un piccolo gruppo di Kingmaker che sono i più potenti creatori di opinioni”. La Schlafly, nel suo libro afferma anche, per averlo appreso da un anonimo osservatore, che nella riunione tenutasi nel 1957 nella St. Simon’s Island, non erano presenti i capi di Stato ma coloro che “danno ordini” ai capi di Stato. Un articolo pubblicato sul giornale della JBS ipotizzava poi un legame tra i Bildberghers e l’assassinio di Kennedy. L’American opinion inoltre, segnalava la strana coincidenza che pochi giorni dopo l’incontro avvenuto tra Kruscev e John Mc Cloy, direttore della Chase Manhattan,” profondamente coinvolto” nel Bilderberg, Lee Harvey Oswald, sospettato dell’assassinio di Jhon kennedy, abbia contattato l’ambasciata americana a Mosca per poter tornare negli Stati Uniti. E sempre a proposito del potere del gruppo Bilderberg, Gary Allen, autore del libro “None dare to call itconspiracy”, pubblicato nel 1991, dopo avere detto che il Bilderberg è “un gruppo di sinistra” dal quale nascerebbero importanti scelte di politica estera per gli Stati Uniti, scrive : “Poco dopo l’incontro ( del Bilderberg), di Woodstok( aprile 1971) due eventi sinistri e di cambiamento di ruoli sono avvenuti : Henry Kissinger è andato a Pechino ad accordarsi per l’accettazione della Cina Rossa come membro della famiglia delle nazioni in commercio tra loro, e una crisi monetaria internazionale si è sviluppata, dopo la quale il dollaro è stato svalutato” Non mancano poi coloro che ritengono che il Bilderberg abbia avuto un ruolo nella creazione dell’euro e che, come risulterebbe da numerose prove, le riunioni avrebbero avuto come finalità quella di imporre “il superstato” dell’Unione Europea” ai cittadini europei nonostante la loro contrarietà. A ulteriore riprova della influenza del gruppo Bilderberg sulla economia mondiale il giornalista americano Westbrook Pegler parla di una riunione segreta tenuta a JekillIslands da un gruppo di banchieri statunitensi dalla quale era nata la proposta di costituzione della Federal Reserve, la banca centrale americana. Ma chi sono i componenti del gruppo Bilderberg? Si tratta in molti casi di capi di governo occidentali o banchieri centrali, che prima di assumere tali incarichi, hanno fatto parte del Comitato direttivo o hanno partecipato a un incontro del Gruppo Bilderberg o della Commissione trilaterale (Quest’ultima è un’associazione privata, fondata nel 1973 da un gruppo di cittadini Nord Americani, Europei e Giapponesi con la finalità di offrire ai soci un forum permanente di dibattito per approfondire i grandi temi comuni alle tre aree interessate). Domenico Moro, autore di diversi volumi di carattere economico, politico e militare, nel suo libro “Il Gruppo Bilderberg : “L’elite del potere mondiale”, cita tra costoro” Clinton, Blair, Merkel, Cameron, Mario Monti ed Enrico Letta, ed aggiunge : “Tali strane coincidenze, insieme alla presenza di personalità del gotha economico-politico come Kissinger e Rockfeller e alla segretezza con cui il Bilderberg circonda i suoi incontri, hanno offerto terreno fertile a un’ampia letteratura complottista. (…) Bilderberg e Trilaterale sono oggi organizzazioni dell’elite transnazionale, che comprende e riunisce i vertici delle multinazionali, delle grandi banche e del mondo politico e accademico all’interno dei quali c’è una consistente pattuglia di italiani. Ed osserva sempre Moro: “E’ evidente che l’esistenza di queste organizzazioni pone una questione di non poco conto, ovvero il controllo democratico sui processi decisionali e l’influenza di ristrettissimi gruppi privati sulle decisioni pubbliche”. Fatte queste premesse ritorniamo al quesito iniziale: perché Falcone e Borsellino vennero uccisi? Io credo che uno dei motivi, che non ne esclude altri, quello che può definirsi il motivo scatenante, va ricercato nelle indagini che Falcone aveva avviato e intendeva portare avanti su Gladio, come si è visto uno dei tre pilastri del governo mondiale e che altro non era se non la CIA, indagini che aveva avviato fin dall’agosto del 1990, allorquando rivestiva le funzioni di Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo e che venivano osteggiate dall’allora Procuratore capo. Ciò risulta in maniera evidente dal diario di Falcone, da lui consegnato alla giornalista Liana Milella e pubblicato sul Sole 24 ore”. Scrive infatti Falcone in proposito: “Dopo che, ieri pomeriggio, si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato (al capo della Procura n.d.r.) che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibile col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo”. Il giorno dopo, il 19 dicembre: “Non ha più telefonato a Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma ndr) e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio”. Falcone, che aveva intuito la possibilità che Gladio fosse coinvolta negli omicidi eccellenti verificatisi a Palermo, Reina, Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, era consapevole del rischio che tale indagine comportava tanto da avere detto al pubblico ministero di Trapani che indagava sull’omicidio di Mauro Rostagno, che entrambi stavano indagando su fatti che erano pericolosi per la loro vita. Nell’ambito del processo Rostagno era emerso infatti, che da Trapani, Gladio portava le armi in Libia. Arconte, un ex agente di Gladio riferì che molte volte era stato a Trapani e tutte le operazioni in Africa erano coordinate dalla locale sezione “Skorpio”. L’Arconte testimoniò che arrivava al porto e veniva accompagnato in una base di appoggio che si trovava in una collinetta. Aveva saputo poi che la persona che andava a prenderlo e che gestiva la base di Trapani era Vincenzo Li Muli, un militare italiano, sottufficiale dei servizi segreti italiani, ucciso in Somalia il 12 novembre 1993 durante la missione Ibis, il giorno prima di testimoniare davanti ai giudici su Gladio, l’operazione Stay Behind e il traffico di armi e scorie nucleari in Somalia. L’anno successivo alla morte emerse che Li Muli sarebbe stato un informatore di Ilaria Alpi, sui traffici di armi e scorie. Evidenti pertanto erano i rischi che una indagine su Gladio avrebbe comportato e di ciò era ben consapevole Falcone. Delle indagini su Gladio Falcone certamente parlò con Paolo Borsellino e questi fece l’imprudenza di dichiarare pubblicamente il 25 giugno del 1992 che il diario, pubblicato due giorni prima da Liana Milella sul Sole 24 ore era un diario autentico al cento per cento così avvalorando e rendendo noto il fatto che Falcone indagava su Gladio che riteneva implicata negli omicidi di cui si è detto. E’ anche probabile che Borsellino, nella famosa agenda rossa, misteriosamente scomparsa dal luogo della strage, avesse annotato quanto appreso da Falcone su Gladio e sul coinvolgimento di questa organizzazione nei delitti Reina, Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa ed altri delitti eccellenti. Borsellino inoltre aveva dichiarato pubblicamente che era sua intenzione recarsi dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta per riferire quanto a sua conoscenza sui moventi della strage di Capaci. Questa notizia unitamente a quella delle indagini che Falcone intendeva condurre su Gladio, ben può avere determinato questa organizzazione alla realizzazione della strage di via D’Amelio. Borsellino non sarà mai convocato dalla Procura di Caltanissetta. A riprova della delicatezza delle indagini che Falcone aveva avviato su Gladio non può non ricordarsi che a tutt’oggi non sono stati identificati coloro che dopo la strage di Capaci ispezionarono i file del computer di Falcone riguardanti Gladio e i delitti politico mafiosi e il cui scopo era quello di ricercare documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. Va detto per completezza che secondo quanto dichiarato dal figlio di Vito Ciancimino, Massimo, il padre sarebbe stato un appartenente a Gladio e avrebbe fatto da tramite tra chi dava l’ordine e Totò Riina. Va tuttavia anche detto che circa l’appartenenza di Vito Ciancimino a Gladio si dimostrò scettico, pur non escludendo tale possibilità, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga il quale all’AdnKronos ebbe a dichiarare: “Mai sentito dire prima e guardi che io, modestamente, la storia di Gladio un po’ la conosco. Comunque che io non sapessi, non vuol dire nulla. Ne’ mi pare che il suo nome sia negli elenchi pubblici…ma anche questo dice poco. Nessuno me ne ha mai parlato, neanche in seguito, però era una struttura altamente compartimentata e quindi è possibile che certi segreti fossero davvero segreti. Di sicuro il nome di Ciancimino non è citato neanche nei libri che recentemente hanno raccontato di Gladio. Boh. “Non capisco – aggiunge Cossiga – che cosa avrebbe dovuto fare un gladiatore in Sicilia. Prima che le armate sovietiche fossero arrivate fino a Palermo, sarebbero intervenuti americani e inglesi. Qualcuno dimentica che razza di presidi fossero le loro basi nel Mediterraneo, un tempo”.

Capaci e Via D’Amelio, la mafia eseguì ordini esterni. Ecco le prove, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 17 ottobre 2017. Sembrerebbe aprire scenari che per la strage di Capaci ricondurrebbero non soltanto alla mafia ma anche ad entità esterne quanto dichiarato da Francesco di Carlo, legato ai Servizi, pentito dal 1996 e che per trent’anni ha fatto da ponte tra Stato e mafia. Questi ha riferito ai magistrati che mentre si trovava detenuto in Inghilterra erano venuti a trovarlo più volte, dopo l’attentato all’Addaura, agenti dei servizi segreti che parlavano in inglese insieme ad altri agenti che parlavano italiano e tra questi Arnaldo La Barbera già dirigente della Squadra mobile di Palermo, colui che gestì le indagini per le stragi di Capaci e via D’Amelio e che convinse a collaborare il falso pentito Vincenzo Scarantino, condannato per la strage di via D’amelio e le cui dichiarazioni autoaccusatorie sono state clamorosamente smentite 17 anni dopo dal collaboratore Gaspare Spatuzza, nel processo Borsellino quater. Ebbene il Di Carlo ha riferito che i suddetti personaggi lo avevano contattato per avere indicazioni su un esperto in esplosivi, che lui aveva indicato nella persona di Antonino Gioè (suicidatosi in carcere) che a sua volta gli aveva indicato Pietro Rampulla. Particolare non privo di importanza: Pietro Rampulla, condannato per la strage di Capaci nella quale ebbe il ruolo di artificiere, in passato è stato militante di Ordine Nuovo, legato alla destra eversiva, e a Rosario Cattafi, l’avvocato di Barcellona, anche lui esponente in passato di Ordine Nuovo ed oggi testimone nel processo trattativa Stato- Mafia. Ha in particolare dichiarato Di Carlo: “Quando ero agli arresti in Inghilterra, prima dell’attentato all’Addaura, in carcere mi vennero a trovare tre persone. Uno di questi si presentò come Giovanni e mi disse che mi portava i saluti di Mario (un altro soggetto appartenente ai servizi segreti). Mi hanno chiesto un contatto con i corleonesi di Totò Riina. Mi dissero ‘Ci devi fare avere un contatto a Palermo con i corleonesi. A noi ci interessa il ramo politico di certe situazioni’. Volevano mandare via Falcone da Palermo perché stava facendo la Dia e la Procura nazionale. Mi raccontavano che i politici erano preoccupati, che ne dicevano di tutti i colori perché Falcone voleva indagare su tutto e mettere tutti sotto processo. Loro volevano soltanto mandarlo fuori e per fare qualcosa in Sicilia volevano avere le spalle coperte”. Il collaboratore proseguiva dicendo che aveva messo i suoi interlocutori in contatto con Ignazio Salvo, l’esattore di Salemi condannato per associazione mafiosa ed ucciso a Palermo nel 1992, ricevendo conferma dell’avvenuto incontro. In una intervista rilasciata il 2 ottobre 2015 al “Fatto Quotidiano” parlando di La Babera, Di Carlo afferma: “…Ho accusato Arnaldo la Barbera che non era il solito agente segreto, ma un superpoliziotto in carriera messo dal capo della polizia Vincenzo Parisi alla guida del pool che indagava sulle stragi. Cosa che non ho mai capito. La Barbera stava li per spiarlo, (il pool, n.d.r.), lo considero il più grande depistatore di tutti i tempi. Era nel Sisde fino all “88” ma nell’ “89” è venuto a trovarmi in Inghilterra insieme a Giovannino del Sismi, si era portato a Palermo la squadretta che aveva a Venezia, ha arrestato Scarantino che non sapeva neppure il proprio nome. Ma a Caltanissetta dicono: “Si il depistaggio è tutta colpa di La Barbera, lui è morto chiudiamola qui. Incredibile”. Queste rivelazioni mi inducono a porre i seguenti interrogativi: Ma per ordine o imput di chi agiva La Barbera? E il depistaggio quali responsabilità nella strage mirava a coprire?” Alla domanda poi dell’intervistatore sul perché fossero stati uccisi Falcone e Borsellino così rispondeva Francesco di Carlo: “La mafia da sola non avrebbe avuto il coraggio di uccidere Falcone e Borsellino. Ma i due giudici non colpivano soltanto la mafia. Per scoprire i flussi di denaro sporco hanno introdotto il segreto bancario perfino in Svizzera: bisognava fermarli e lo hanno fatto. Anche dentro Cosa Nostra ci sono uomini di potere in grado di dialogare con il mondo esterno.” Sempre in tale intervista Di Carlo parla di una riunione che molti anni dopo il 1980 sarebbe avvenuta. in una villa del Circeo e dove erano presenti mafiosi ed uomini di Stato per decidere i destini d’Italia. Afferma in proposito: “La riunione si tenne nella villa di Umberto Ortolani a San felice Circeo, lui era già fuggito in Brasile, la P2 non era stata ancora scoperta, ma c’era aria di tempesta. Era inverno, febbraio forse: Piersanti Mattarella era stato ucciso da poco, dio sa se mi sono battuto per salvarlo. Ricordo che accompagnai da Roma un paio di persone, salimmo lungo un sentiero di montagna, ma dal promontorio si vedeva il mare”. Alla domanda poi del giornalista che gli chiedeva se a questa riunione fosse presente Andreotti rispondeva: “Non c’era, però c’erano Nino Salvo, l’avvocato Vito Guarrasi, il capo del Sismi Giuseppe Santovito e un politico, forse un ministro, di cui non ricordo il nome. Di sicuro non si parlò di stragi, semmai di colpo di Stato (parola mai usata però). C’erano gli scandali giudiziari, la sinistra comandava troppo, bisognava intervenire e c’era bisogno di Cosa Nostra che stava li a difendere i suoi interessi. Tutto doveva ancora succedere, la P2 non era stata ancora scoperta e i generali erano tutti al loro posto”. Da quanto dichiarato da Francesco Di Carlo, collaboratore ritenuto dai magistrati altamente attendibile, emerge con tutta evidenza quella convergenza di interessi tra mafia, politica, finanza, servizi segreti che potrebbe avere determinato le stragi fino a quelle di Capaci e via D’Amelio, convergenza finalizzata alla realizzazione e al mantenimento degli interessi propri di ciascuna delle suddette componenti non esitandosi a ricorrere ad azioni delittuose oggi qualvolta tali interessi venissero posti in pericolo. Alla luce di quanto fin qui detto può sostenersi che la mafia soltanto in parte debba ritenersi responsabile delle stragi di Capaci e via D’Amelio, convinzione che troverebbe riscontro in quanto affermato da Tommaso Buscetta nel corso di un colloquio casuale intervenuto tra lo stesso e il giudice Ferdinando Imposimato. Riferisce infatti quest’ultimo in una intervista rilasciata ad una emittente televisiva: “Io stavo andando nell’America latina per incarico delle Nazioni Unite per degli addestrarmenti di giudici boliviani colombiani ed ecuadoregni. Sull’aereo mi sono trovato per caso accanto a Tommaso Buscetta. Siamo stati 12 ore insieme e Buscetta mi ha fatto una serie di rivelazioni ma con molta capacità logica. Mi diceva: scusi parliamo dell’omicidio di Dalla Chiesa, mi ricordo benissimo. Noi mafiosi che interesse avevamo a colpire un generale che non ci aveva fatto proprio niente? Ma scusi lei che cosa vuole dire? Che è stata la mafia ma non per volontà della mafia ma per ordini che venivano dall’esterno? Cioè lui mi ha fatto tutta una serie di casi di delitti di mafia che la mafia aveva interesse a non eseguire comprese le stragi di Capaci e via D’Amelio perché avrebbero portato dei danni alla propria esistenza perché poi da lì è cominciata la fuga da Cosa Nostra. Non c’entra la legge sui pentiti. Il fenomeno del pentitismo si è verificato prima della legge sui pentiti. Loro stavano facendo una cosa che non serviva a Cosa nostra ma serviva ad altre entità.” Anche per ciò che riguarda gli attentati del “93” Buscetta sosteneva che anche questi erano delitti che Cosa Nostra non voleva commettere. Cosa Nostra non sapeva nemmeno che esistevano la galleria degli Uffizi e gli altri monumenti storici. Anche da queste affermazioni di Buscetta, riportate da Imposimato, si intuisce l’esistenza di entità esterne dalle quali sarebbe partito l’imput alla realizzazione delle stragi. Falcone aveva capito tutto ciò come può dedursi dal fatto che dopo il fallito attentato dell’Addaura parlò di “menti raffinatissime” che non potevano certo essere quelle di esponenti di Cosa Nostra e che, dopo l’attentato, tentarono di far apparire quello dell’Addaura un falso attentato organizzato dallo stesso Falcone. D’altra parte, l’allora vicedirettore della Direzione investigativa antimafia, in un appunto riservato del 27 luglio 1992, otto giorni dopo l’eccidio di via D’Amelio, scriveva che dalla strage emergeva “un contesto delinquenziale in cui da un lato trova conferma l’attualità di una strategia destabilizzante nei confronti delle istituzioni e, dall’altro, si intravedono elementi tali da far sospettare che il progetto eversivo non sia di esclusiva gestione dei vertici di Cosa Nostra, ma che allo stesso possano aver contribuito e partecipato altri esponenti del potere criminale, sia a livello nazionale che internazionale” Come dire : le stragi non furono solo un fatto di mafia ma videro coinvolte altre entità a livello nazionale ed internazionale. E sempre De Gennaro esprimeva tale convinzione allorquando, parlando dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia dell’omicidio di Paolo Borsellino affermava che tale omicidio presentava “una chiara anomalia del tradizionale comportamento mafioso, aduso a calibrare le proprie azioni delittuose si da raggiungere il massimo risultato con il minimo danno”. Ciò significa, considerati i notevoli danni che derivarono per Cosa Nostra dalla strage di via D’Amelio (l’immediata applicazione del decreto legge, emanato dopo la strage di Capaci, che prevedeva il carcere duro per i mafiosi) che non Cosa Nostra ma altri rimasti nell’ombra, decisero la realizzazione del nuovo eclatante delitto a così poca distanza di tempo da Capaci. E d’altra parte le indagini hanno accertato che le stragi non possono essere addebitate al solo Riina se è vero che, prima della loro attuazione, questi consultò ed incontrò persone esterne a Cosa Nostra tra cui massoni, neofascisti, esponenti dei servizi segreti. Bisogna evitare tuttavia un equivoco che si verifica quando si parla di mandanti esterni a Cosa Nostra. E’noto che l’organizzazione mafiosa non è adusa a prendere ordini da altri ma agisce quando si verifica una convergenza di interessi alla realizzazione di un delitto, tra la stessa organizzazione e entità esterne ad essa quali possono essere soggetti politici, massoneria, servizi deviati, ambienti imprenditoriali. Questo concetto è stato affermato anche dal collaboratore Antonino Giuffrè il quale appunto ha parlato di “interessi convergenti” alla eliminazione di Falcone provenienti dai suddetti ambienti esterni. Si pensi alla presenza sul luogo delle stragi di soggetti appartenenti ai Servizi deviati. E che la strategia stragista del 1992-93 sia stata caratterizzata da una convergenza di interessi tra mafia ed altre forze criminali trova conferma in una informativa del 1993 della Direzione investigativa antimafia nella quale si legge che dietro le stragi si muoveva una “«aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali». In termini più semplici la informativa del 1993 della DIA vuol dire che accanto ai boss di Cosa Nostra, cioè personaggi come Totò Riina, Messina Denaro, i Graviano che perseguivano gli interessi propri dell’organizzazione mafiosa, vi erano altri elementi che si servirono della mafia per destabilizzare, con le stragi di Capaci, via D’amelio e quelle del “93” l’assetto politico. Alcuni collaboratori di giustizia hanno parlato di un summit di mafia che verso la fine del 1991 ebbe luogo in un casolare delle campagne di Enna e al quale parteciparono tutti i capi mafia della Sicilia convocati da Totò Riina. Nel corso di questa riunione fu fatto credere agli intervenuti che occorreva effettuare le stragi al fine di costringere lo Stato a venire a patti per ottenere l’impunità e benefici penitenziari. Totò Riina disse che bisognava prima fare la guerra per poi fare la pace. In realtà in quella riunione si celava un progetto politico che stava dietro alle stragi e che era a conoscenza soltanto di Totò Riina e di alcuni vertici di Cosa nostra ma che rimase nascosto ad altri capi ed esponenti mafiosi di minore rilievo; il che è significativo di contatti ed incontri che Riina aveva intrattenuto con entità esterne a Cosa nostra, interessate alla realizzazione di quel progetto e che solo lui e pochi altri come i fratelli Graviano, Santapaola , Madonia ed altri capi detenuti conoscevano. Il capomafia Giovanni Ilardo, legato ai servizi segreti e alla destra eversiva che aveva iniziato a collaborare e che era intenzionato a rivelare ai magistrati il coinvolgimento di apparati deviati dello Stato in stragi ed omicidi eseguiti dalla mafia, venne assassinato prima che potesse mettere a verbale le sue propalazioni. E alla presenza di elementi esterni a Cosa nostra riportano le dichiarazioni del collaboratore Gaspare Spatuzza, che ha confessato la sua partecipazione alla strage di via D’Amelio, e che ha riferito di un personaggio, non appartenente a Cosa Nostra, che assistette al collocamento dell’esplosivo all’interno dell’autovettura utilizzata per la strage di via D’Amelio, personaggio che non è stato possibile identificare. Come è stato osservato in proposito dal Procuratore Generale di Palermo “Chi conosce le regole della mafia sa bene che tenere segreta a uomini d’onore l’identità degli altri compartecipi alla fase esecutiva di una strage è un’anomalia evidentissima: la prova dell’esistenza di un livello superiore che deve restare noto solo a pochi capi”. E la presenza di elementi esterni a Cosa Nostra emerge anche da una intercettazione telefonica del 14 dicembre 1993 relativa ad una conversazione intervenuta tra il collaboratore Santino Di Matteo e la moglie Francesca Castellese, dopo il rapimento del figlio e nella quale quest’ultima scongiura il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati” intervenuti nella strage di Via D’Amelio. Infiltrati che purtroppo non è stato possibile identificare. Ancora oggi sussistono numerose ombre su quelle che possono essere state le responsabilità nelle stragi di Capaci e via D’amelio e sul ruolo che hanno avuto in questi gravi delitti apparati investigativi e organismi nazionali ed internazionali nonché pezzi dello Stato che potrebbero avere fornito copertura alla organizzazione mafiosa anche istaurando con questa, in cambio di una sospensione della strategia stragista, un dialogo; ipotesi questa la cui fondatezza attualmente è al vaglio dei giudici di Palermo e che costituisce oggetto del processo noto come trattativa Stato-Mafia. Soltanto un collaboratore del peso di Totò Riina o un pentito all’interno delle istituzioni potrebbe fare luce sulle motivazioni reali che determinarono la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma anche sui cosiddetti “omicidi politici” quali quelli di Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si tratta di omicidi che sono stati commessi non solo per fare fronte ad interessi di Cosa Nostra ma per attuare una strategia che era perseguita da altre entità politiche, finanziarie, imprenditoriali non soltanto nazionali ma anche internazionali. E d’altra parte, come sostenuto da Buscettama anche da altri pentiti, si tratta di delitti che la mafia era sotto un certo aspetto restia ad eseguire ma che ha eseguito anche per esigenze estranee a Cosa Nostra, nell’interesse cioè di entità esterne con le quali i contatti venivano tenuti soltanto dai vertici di Cosa Nostra e di cui venivano tenuti all’oscuro gli appartenenti di rango inferiore.

“Falcone seguiva la pista di Gladio”: le indagini top secret di Borsellino. Le audizioni al Csm dei magistrati di Palermo all’indomani di Capaci e via D’Amelio: “Allarmi inascoltati”, scrive Antonella Mascali il 22 maggio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Ci sono testimonianze inedite dei magistrati di Palermo che hanno lavorato fianco a fianco con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sulle settimane precedenti alle stragi di Capaci e via D’Amelio a Palermo, avvenute il 23 maggio e il 19 luglio 1992. Sono racconti drammatici sulla strada sbarrata a Falcone che voleva la verità sugli omicidi politico-mafiosi e i possibili legami con Gladio; sulla diffidenza di Borsellino nei confronti di alcuni colleghi, a cominciare dall’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Borsellino stava conducendo indagini in gran segreto sulla morte di Falcone, ma anche su vicende indicate dallo stesso magistrato nei suoi diari pubblicati dopo Capaci. Sugli allarmi ignorati che, forse, avrebbero potuto salvare le vittime delle due stragi. Alfredo Morvillo, Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Ignazio De Francisci, Antonio Ingroia sono alcuni dei pm di allora alla Procura di Palermo che sono stati ascoltati dal comitato antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura tra il 28 e il 30 luglio 1992, una decina di giorni dopo la strage di via D’Amelio. Sono i pubblici ministeri che avevano firmato assieme a Teresa Principato, Antonio Napoli e Giovanni Ilarda (tra i contrari Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli) un documento in cui presentavano polemicamente le dimissioni per l’assoluta mancanza di sicurezza e per la gestione della Procura da parte di Giammanco. Il procuratore, com’è noto, su sua richiesta sarà trasferito nell’agosto successivo, i pm ritireranno le loro dimissioni e alla guida della Procura arriverà Gian Carlo Caselli. Le deposizioni dei magistrati non sono mai state rese pubbliche. Stranamente, il Csm non le ha incluse negli atti desecretati su Falcone e Borsellino in occasione del venticinquesimo anniversario della strage, l’anno scorso. Al Fatto risulta che queste testimonianze, di recente, siano state acquisite dalla Procura di Caltanissetta che è tornata a scandagliare i buchi neri delle indagini su chi ha voluto la morte di Falcone e Borsellino.

Roberto Scarpinato (Ex pm e ora procuratore generale di Palermo – audizione del 29 luglio 1992). Dinanzi alla bara di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino disse: ‘Ciascuno di noi deve avere la consapevolezza che se resta, il suo futuro è quello’ e indicò la bara di Falcone. Paolo Borsellino sapeva che doveva morire. I carabinieri avevano segnalato che si stava organizzando un attentato, sapevamo che era arrivato il tritolo, sapevamo che il prossimo della lista era Paolo Borsellino. Ecco perché è una strage in diretta. Borsellino è morto per il tritolo e per l’incapacità di questo Stato di proteggere i servitori dello Stato. Mi è venuto in mente che era stato abolito il servizio di elicotteri per sorvegliare le autostrade di Punta Raisi perché ogni volo costava 4 milioni, e che Giovanni era addolorato di questo fatto. (…). C’è una riunione alla quale partecipa il Procuratore Giammanco, Falcone dice in tono acceso a Giammanco: ‘Io non condivido il tuo modo di gestire l’ufficio’ (con riferimento al processo per gli omicidi politici di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre, ndr) . I problemi con Giammanco si ponevano quando si passava in materia di mafia a livelli superiori. Per esempio il caso Gladio. Accade in particolare che un estremista di destra, di Palermo, dichiara alla televisione che lui faceva parte di un’organizzazione clandestina che era simile a quella di Gladio, che aveva avuto il compito di seguire alcuni personaggi politici siciliani (tra cui Mattarella, ndr). ( …) La posizione di Falcone e mia era quella di acquisire tutti gli atti di Gladio (…). Le resistenze erano talmente avvertite da Falcone che disse: ‘A questo punto io vi rimetto la delega, occupatevene voi’. Alla fine si decide che Falcone sarebbe andato nella sede dei servizi segreti a guardare gli atti e a verificare se per caso c’era qualcosa che ci poteva interessare. Si decise di affiancarlo con il collega Pignatone (l’attuale procuratore di Roma, ndr) fatto che lui visse come una specie di mancanza di fiducia e ricordo che io rimasi insoddisfatto perché dissi: ‘Come si fa nell’arco di pochi giorni a visionare tutti questi atti, a memorizzarli e a prendere in considerazione tutti i fatti che ci possono essere utili in questo processo. Può darsi ché un nome che in quel momento non dice assolutamente niente, tra 15 giorni può essere rilevante (…). C’è un fatto che mi ha molto inquietato e cioè che Paolo Borsellino conducesse delle indagini su fatti di grande rilevanza all’insaputa del Procuratore (Giammanco, ndr). Mi chiedo, ma cosa sta succedendo in questa Procura? Mi inquieto perché Paolo Borsellino è una persona che gode della mia assoluta stima e fiducia. Perché se fosse stato qualsiasi altro magistrato avrei potuto pensare a qualche cosa di deteriore. Paolo Borsellino si comporta così. Mi vincolò al segreto. E su queste indagini, naturalmente, non posso dir niente per motivi di ufficio. Diciamo che questa situazione, credo di non sbagliare, almeno, io l’avevo conosciuta un mese prima (della strage di via D’Amelio, ndr). Ecco, il fatto che lui l’abbia confidato a me è stato un gesto di grande fiducia. Però di grande responsabilità (…). Questa circostanza è nota soltanto a me, al sostituto Ingroia, e forse a uno o due altri sostituti, le persone che godevano dell’assoluta fiducia di Paolo Borsellino. Paolo riferiva tutto e sempre (a Giammanco, ndr) ecco perché io vengo colpito (…) proprio perché la normalità era quella, se così non fosse stato non sarei rimasto colpito. Ma quei fatti, fatti che non vi posso riferire, ma che sono di grandissima rilevanza e che riguardano determinati livelli, su quei fatti Paolo Borsellino raccomandò la segretezza.

Antonio Ingroia (Avvocato. Ex pm di Palermo, ex coordinatore dell’inchiesta sulla trattativa – audizione del 31 luglio 1992). Borsellino una volta, eravamo a casa sua a Marsala una sera, quindi prima ancora che arrivasse a Palermo, lo ricordo con esattezza anche se non mi diede spiegazioni precise in merito, mi disse testualmente: ‘Giammanco è un uomo di Lima’ (Salvo Lima, ex ‘proconsole’ di Giulio Andreotti in Sicilia, ndr), affermazione per la quale io evidentemente rimasi turbato. Dopo la morte di Giovanni Falcone, oltre a occuparsi delle sue indagini, oltre ad avere interesse per l’indagine Mutolo (il pentito Gaspare Mutolo, ex pupillo di Riina, ndr) oltre ad avere interesse per l’indagine Falcone, faceva numerose indagini per conto suo. Chiamiamole approfondimenti sulle questioni indicate nei diari di Falcone. Chiese un colloquio con Scarpinato per quanto riguarda la questione Gladio, la questione del rapporto dei carabinieri sugli appalti. Il discorso è che non si fidava del dott. Giammanco. (Non approfondii, ndr) Paolo era per me quasi Vangelo.

Vittorio Teresi (Pm di Palermo, coordinatore dell’inchiesta sulla trattativa – audizione del 28 luglio 1992). In un’indagine che conduco io e che conducevo assieme a Paolo Borsellino a un certo punto Paolo mi comunicò una notizia molto riservata che aveva appreso da un organo di polizia e riguardava un politico, riguardava un grosso mafioso eccetera, era una notizia ovviamente tutta da controllare, da verificare ma comunque era una delle tante ipotesi di lavoro. Paolo disse espressamente di non parlarne in giro perché temeva che finisse all’orecchio di Giammanco. Qual è l’indagine non lo posso dire, questa non era affatto notizia confermata, era semplicemente una pur fondata confidenza di un organismo di polizia, però era molto scottante, era molto delicata.

Alfredo Morvillo (Ex pm di Palermo, oggi procuratore di Trapani. Fratello di Francesca Morvillo Falcone – audizione del 28 luglio 1992). Quello che è successo a Borsellino, quello che è successo a Falcone, credetemi, non è una qualche cosa di imprevedibile e di inevitabile, perché io vorrei sapere per quale motivo si dica che Falcone era l’uomo più scortato del mondo, il che non è affatto vero e vi dico perché: a Falcone, negli ultimi tempi, avevano diminuito le misure di protezione. Lo sapevano tutti a Palermo che Falcone ormai non aveva più l’auto di staffetta e l’elicottero. Ma non gliene frega niente a nessuno! I ragazzi della scorta, che sono venuti a trovarmi, mi hanno detto che avevano chiesto anche la possibilità di avere a disposizione, a Punta Raisi che è sul mare, di una pilotina per eventualmente utilizzarla per ritornare via mare, una pilotina, una barca della polizia per tornare via mare. La verità è questa, che persino nei confronti di Giovanni Falcone si adopera la mentalità del rilassamento burocratico! Falcone, signori miei, diciamolo, siamo chiari, in certe situazioni, contava molto poco. Falcone, al di là delle parole che tutti noi possiamo essere bravissimi a dire (…) Falcone non coordinava niente! (…). Dopo la strage del 23 maggio arriva un anonimo con chiare minacce per alcuni colleghi, con le fotografie di Borsellino, De Francisci, Teresa Principato… nonostante sia successo quello che è successo il 23 maggio, in questa riunione mi dicono i colleghi (io non c’ero per i noti fatti) ancora una volta sottovalutazione. Giammanco: “È una stupidaggine, che fa, la stracciamo?”. La stracciamo? Arriva l’anonimo, dopo quello che è successo a Palermo, per i colleghi del tuo ufficio che sono come, a volte, lui stesso ha detto, “tuoi figli” e tu che fai? “Lo stracciamo!”. E allora lo mandiamo, per competenza, a Caltanissetta. Al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, mi dicono i colleghi, che, fra l’altro, non hanno avuto nessuna protezione dopo questo fatto (fino alla strage di via D’Amelio, ndr).

Ignazio De Francisci (Ex pm di Palermo, procuratore generale di Bologna – audizione del 29 luglio 1992). Questa lettera era un collage fotografico: c’era la foto di Paolo, c’era quella mia e quella della collega Principato. Tra l’altro era una strana fotografia perché io non ricordavo di averla vista mai, non è che io spunti molto su i giornali, quindi la cosa mi colpì… Sono andata da Giammanco e io gli ho detto: ‘Senti Procuratore, io non me la terrei né la cestinerei’. Ricordo che il Procuratore mi disse: “Mah!”, Cioè era dubbioso sull’opportunità o meno di inviarla (agli organi preposti, ndr). Dopo ne parlai con Borsellino e ricordo che lui era già un po’ incupito anche se dal punto di vista personale mi disse una frase del genere: ‘Noi non ci dobbiamo far spaventare per una lettera’. (…) Ora mi hanno dato una specie di scorta composta dalla macchina blu con le insegne dei carabinieri. L’Arma ha fatto levare in volo l’elicottero che ha seguito la mia autovettura da casa sino all’aeroporto di Punta Raisi. La polizia prima l’aveva dato a Giovanni Falcone per anni e poi gli era stato tolto. Quando sentivo questo elicottero non potevo non ricordare l’amarezza di Giovanni Falcone quando glielo tolsero. Voi lo conoscevate, non è che parlasse molto di queste cose; non ne parlava in maniera enfatica, però, mi ricordo che una volta che io partii con lui notai l’assenza dell’elicottero, glielo dissi e lui mi rispose: “Che ci vuoi fare?”, insomma con una frase un po’ fatalista. (…). Io ho avuto la netta sensazione che il Procuratore, nella gestione dell’ufficio, avesse una corsia differenziale sulla quale passavano o potevano passare soltanto alcuni colleghi. Quello che io sinceramente non ho mai capito è perché lui si fidasse soltanto di due, tre persone e passasse con loro le grosse decisioni dell’ufficio: Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone, in prima istanza Giustino Sciacchitano. Ecco, il fatto che specialmente Lo Forte e Pignatone siano tecnicamente bravissimi e abbiano una innata dote di prudenza, anche abilità nel gestire tutte le seccature che un grosso ufficio comporta, questo secondo me, in assoluta serenità di spirito, non consentiva (a Giammanco, ndr) di accentrare attorno a queste persone tutte le decisioni, se vogliamo anche strategiche o comunque le pre-decisioni dell’ufficio, per poi venire alle riunioni con una sensazione che almeno io avevo di minestra già fatta (…) . L’arrivo di Borsellino aveva ridato impulso alle indagini (…) Ebbi la sensazione che nei confronti di Paolo si riproponessero le stesse difficoltà di cui mi aveva parlato Giovanni.

ALTRO CHE STATO-MAFIA. MAFIA-APPALTI. QUELL'INCHIESTA NON S'HA DA FARE.

Mafia & appalti, una verità scomoda. Cosa c'è dietro e cosa c'è stato dopo l'inchiesta condotta dai Ros, scrive Luciano Tirinnanzi il 12 luglio 2013 su "Panorama". Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS. Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico - stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere - si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico. In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: “la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti”. Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come “Mani Pulite” nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.

- Falcone e l’importanza di depositare “Mafia e Appalti”. Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: “la mafia è entrata in borsa” disse due mesi prima di saltare in aria. Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: “Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché - su esplicita richiesta - rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino. - Borsellino e le confidenze a Ingroia. Borsellino, il 25 giugno del ‘92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie. Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano “preoccupati delle indagini sugli appalti”.

- L’archiviazione di “Mafia e Appalti”. Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto. Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.

- Vito Ciancimino e la trattativa. Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche”, Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari. Ma non il famigerato “papello”, bensì il libro “Le Mafie” redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente - ma senza esito - di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante. Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro “Le Mafie” che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti. Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Piero Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.

- Conclusioni. I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafia-politica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni. Davvero, nel 2013, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?

La Trattativa secondo Di Pietro. Un lapsus dell'ex magistrato e il dossier “mafia-appalti” archiviato subito dopo la morte di Borsellino, scrive Massimo Bordin l'1 Maggio 2018 su “Il Foglio”. Dopo Violante, Antonio Di Pietro dice la sua sul processo trattativa, con pieno diritto visto che, con i suoi interventi in Commissione antimafia, a suo tempo ne fu uno degli artefici. Naturalmente Di Pietro proclama in prima battuta la sua solidale consonanza coi pm palermitani, poi parla di un suo colloquio con Paolo Borsellino poco prima della strage di via D’Amelio in cui Borsellino ipotizza un raccordo fra le indagini palermitane e quelle milanesi. Emerge una verità possibile, diversa dalla tesi accusatoria. Borsellino, poco prima di essere ucciso, non si occupava della famosa trattativa ma del più corposo dossier “mafia-appalti” preparato dal Ros di Mori. Singolare un apparente lapsus di Di Pietro, quando, a proposito delle stragi e di quelle indagini sugli appalti ha detto: “Hanno fermato le indagini e armato pistole”. Che c’entrano le pistole con Borsellino? Ben altro fu usato in via D’Amelio, ma l’ex pm sa bene di che parla. Parla di Raul Gardini, che un anno dopo via D’Amelio fu ucciso da un colpo di pistola che molti dubitano sia partito dalla sua mano. Parla dell’indagine mafia-appalti che svelò intrecci fra la Ferruzzi e la “calcestruzzi Palermo spa”. “Hanno fermato le indagini” dice l’ex pm e aggiunge che “chi lo ha fatto va individuato”. E’ facile, non ci vuole Sherlock Holmes. Due giorni dopo la morte di Borsellino, la procura di Palermo chiese di archiviare l’indagine. Nasce da lì la polemica fra procura e Ros, sfociata nei processi a Mori e poi in quello sulla trattativa, nel quale la difesa di Mori aveva chiesto che Di Pietro venisse citato come teste. La corte ha rifiutato di sentirlo.

La svolta di Gratteri: «Basta giornalisti innamorati dei pm Abbiamo bisogno di fatti e verità». Il magistrato calabrese scopre la stampa indipendente, scrive Davide Varì il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I giornalisti non devono fare i piacioni, né tantomeno innamorarsi dei magistrati: abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino con coraggio la verità, i fatti. In quanto a noi magistrati, vogliamo essere valutati e giudicati per quel che facciamo». Parole e musica di Nicola Gratteri. Quel Nicola Gratteri: il magistrato simbolo dell’antimafia; lo stesso Gratteri che avrebbe dovuto prendere la poltrona di guardasigilli e che, di fronte al gran rifiuto dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, si scagliò contro i poteri forti del Palazzo, evidentemente impauriti dalla forza “eversiva” e “antisistema” del magistrato calabrese: «Io sono troppo indipendente e il potere vero vuole che ci sia sempre qualcuno sopra di te, che garantisca per te». Lo stesso Gratteri che non disdegna chiacchierate televisive, un tantino celebrative, con Fabio Fazio e Riccardo Iacona; né premi in giro per il belpaese. Premi meritatissimi, s’intende. Insomma, quel Gratteri lì oggi ci fa sapere che il giornalismo che copia e incolla le ordinanze dei magistrati e cha passa ore nelle di loro sale d’attesa non va (più) bene. E del resto che i giornalisti dovessero fare da “cane da guardia del potere”, di tutti i poteri, magistratura inclusa, era un dubbio che in questi anni aveva attraversato qualche temerario. Ma c’è di più, Il procuratore Gratteri ha criticato anche un altro cavallo di battaglia dell’antimafia militante: il sistema dello scioglimento dei comuni. «I Comuni – ha infatti dichiarato Gratteri – vengono sciolti per mafia nel 99% dei casi quando la procura, a conclusione delle indagini, invia gli atti alla prefettura e quindi, dopo l’istruttoria, si procede e viene nominato un ufficiale prefettizio. Il problema, in alcuni casi, è che il commissario si reca in Comune poche volte a settimana. Quindi sostanzialmente l’amministrazione viene congelata per due anni. La popolazione mediamente pensa che era meglio quando c’era il sindaco, che riuscita almeno a dare risposte» E dunque: «Occorre modificare la norma, il Commissario prefettizio deve stare al Comune sciolto per mafia sette giorni su sette», ha aggiunto Gratteri.

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Qualcuno dovrà rispondere, scrive Piero Sansonetti il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". A scartabellare le carte, e le vecchie sentenze, appare sempre più surreale lo scenario disegnato dal processo di Palermo. Certo, bisognerà aspettare le motivazioni. Però qualcosa, intanto, la si può dire. E la prima cosa che si può dire è che l’ipotesi dell’accusa – e di alcuni giornali – secondo la quale Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva opporsi alla trattativa stato- mafia, appare sempre più fantasiosa. Mentre, purtroppo, non appare per niente fantasiosa l’ipotesi che Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva portare avanti le indagini avviate dai Ros di Mori, De Donno e Subranni su mafia e appalti. E se questa ipotesi viene confermata, cambia tutto nella ricostruzione di quello che successe in quegli anni e del ruolo avuto dai vari apparati dello Stato. Perché il processo di Palermo si fonda sull’ipotesi che si fronteggiarono una magistratura “limpida” ed “efficiente” e pezzi dei carabinieri e forse dei servizi segreti che invece erano coinvolti in oscure trattative con la mafia. L’ipotesi invece che emergerebbe dai fatti come li ricostruisce nell’articolo che pubblichiamo in prima pagina (e a pagina 3) Damiano Aliprandi, è opposta. Dice che i Ros erano arrivati a un passo dallo sgominare un gigantesco giro di potere che coinvolgeva mafia, imprenditoria, e politica, e che furono fermati per la negligenza della magistratura. I Ros, lavorando con Falcone, avevano raccolto indizi e prove molto pesanti, e se l’inchiesta fosse andata avanti avrebbe fatto saltare un bel pezzo del sistema di potere mafioso. Paolo Borsellino era ben deciso ad impegnarsi lui in questa inchiesta e stava solo aspettando la delega che doveva venirgli dalla Procura. La Procura di Palermo, e in particolare i sostituti Lo Forte e Scarpinato, invece, sottovalutarono clamorosamente la forza di questa inchiesta dei Ros, proseguita e sostenuta da Flacone, e la affossarono. Oggi Roberto Scarpinato è procuratore generale di Palermo. E’ un magistrato colto, molto preparato, dalle idee forti. Sicuramente è una persona onesta. Ma è giusto chiedere a lui e al suo collega: perché quella inchiesta fu affossata proprio pochissimi giorni prima dell’uccisione di Borsellino, visto che, oltretutto, si sapeva che lo stesso Borsellino era interessato a quella inchiesta e avrebbe voluto occuparsene personalmente? Naturalmente nessuno sa il perché. Si può solo supporlo: per scarsa esperienza. (Così come probabilmente per scarsa esperienza Di Matteo e gli altri Pm che si occuparono dell’inchiesta sull’uccisione di Borsellino presero per buone le dichiarazioni false del pentito Scarantino, che mandò su un binario morto tutte le indagini). La Procura di Palermo in quella tragica estate del ‘ 92 sottovalutò il lavoro dei Ros. E probabilmente, soprattutto dopo la morte di Borsellino, entrò in conflitto coi Ros, e forse anche con pezzi dei servizi segreti (penso all’affare- Contrada) proprio per via del “complesso di colpa”, diciamo così, dovuto all’errore commesso sul dossier mafia- appalti. Ora però bisogna fare un po’ di luce su tutto questo. Anche perché al processo di Palermo non si è tenuto conto in nessun modo di questo scenario. E così il processo ha finito per condannare da una parte proprio i carabinieri che si erano impegnati di più nella battaglia contro Cosa Nostra, dall’altro i “berlusconiani” (mi riferisco a Dell’Utri) forse solo perchè, si sa, se dai addosso ai “berluscones” ti conquisti qualche merito e qualche popolarità, a prescindere. E trovi l’appoggio della stampa. Le questioni da affrontare sono tre. La prima è: sono stati condannati, ingiustamente, proprio quelli che avevano dato di più nella lotta alla mafia? La seconda è: il dossier mafia appalti è stato la vera ragione dell’uccisione di Borsellino? La terza è: insabbiando quel dossier si è impedito di dare alla mafia (dopo il maxiprocesso) il colpo mortale? Sono domande impegnative. Qualcuno dovrebbe rispondere.

Mafia anni 90. I “buoni” erano “cattivi” e viceversa? Scrive Piero Sansonetti il 5 Maggio 2018 su "Il Dubbio". La ricostruzione fornita dal Dubbio rovescia i teoremi: i Ros avevano attaccato frontalmente la mafia, la magistratura, persi Falcone e Borsellino, mollò la presa. Da qualche giorno stiamo pubblicando sul “Dubbio” una ricostruzione dei fatti tragici che all’inizio degli anni 90 insanguinarono la Sicilia. Continueremo la settimana prossima. Damiano Aliprandi sta realizzando questa ricostruzione, lavorando su documenti, sentenze, requisitorie, testimonianze, carte, atti giudiziari. Senza violare nessun segreto, senza fidarsi di nessun “uccellino”, senza fonti riservate e coperte, senza basarsi su supposizioni prive di prove. Generalmente l’informazione giudiziaria funziona in un altro modo: non perde tempo a seguire i processi e a verificare le carte, ma “suppone”; e di solito più che supporre prende per buone le supposizioni delle Procure. Qual è la novità che emerge dalla nostra ricostruzione? E’ abbastanza sconvolgente. Ci fa capire che probabilmente la verità è più o meno l’opposto di quello che sin qui si è fatto credere. Vediamo. Recentemente il processo di Palermo (quello sulla presunta trattativa stato- mafia) ha stabilito che un gruppo di carabinieri dei Ros tradì lo Stato e lavorò, insieme alla mafia, per minacciarlo e ricattarlo. Con l’aiuto di Dell’Utri. Se le cose davvero stessero così, sarebbe una cosa gravissima. Un vero e proprio tradimento da parte di un settore molto prestigioso dei carabinieri. Finora, però, non è stata mostrata una sola prova che avvalori questa ipotesi, tranne la testimonianza di un mafioso pentito (Brusca) che in cambio della sua testimonianza ha ottenuto le attenuanti, e quindi la prescrizione, e quindi l’assoluzione. C’è da fidarsi di Brusca, senza un riscontro, senza una carta, un fatto, un documento? Aspettiamo le motivazioni della sentenza e vediamo se esce fuori qualcosa. Per ora, zero. La nostra ricostruzione però giunge a una conclusione del tutto opposta: i carabinieri “traditori” non erano affatto traditori, ma erano investigatori molto competenti che avevano scoperchiato (tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90) un gigantesco giro di reati, compiuti per assegnare in modo illegittimo a mafiosi e imprenditori una quantità mostruosa di appalti. La descrizione di questi delitti, e le prove, erano contenute in un dossier chiamato “mafia appalti”, che fu consegnato dai Ros alla magistratura. E precisamente al sostituto procuratore Falcone che iniziò le indagini e giudicò clamorose le scoperte dei carabinieri. Poi Falcone fu chiamato a Roma e il dossier passò ad altri sostituti procuratori. Lo stesso Falcone chiese a Borsellino di occuparsi lui personalmente di quel dossier, perché solo di lui si fidava e perché il dossier conteneva verità scioccanti. Ma prima che il Procuratore Giammanco si decidesse a consegnare il dossier a Borsellino, successero tre cose: fu ucciso Falcone, fu ucciso Borsellino e, nel frattempo, i sostituti procuratori che avevano in mano il dossier chiesero ( e rapidissimamente ottennero) che fosse archiviato. In una parola sola: insabbiarono. Questi sostituti procuratori erano Roberto Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo e Guido Lo Forte. E visto che nel frattempo Borsellino e Falcone erano morti, nessuno più mise le mani su quei documenti (che noi abbiamo potuto leggere) i quali contenevano nomi, circostanze, collegamenti, con una tale precisione (e di una tale gravità) che probabilmente avrebbero creato un vero e proprio cataclisma. Sulla mafia, ma anche sulla politica. Non solo su quella siciliana, perché le imprese coinvolte operavano su tutto il territorio nazionale e anche gli appalti non erano solo siciliani ma erano sparsi in ogni regione italiana. Ora le questioni aperte sono tre.

La prima riguarda l’uccisione di Borsellino. In questi anni spesso si è detto che la sua morte è avvenuta perché si opponeva alla trattativa stato mafia. Poi si è detto che stava indagando su Berlusconi. Ora si capisce con una certa sicurezza che non era così. Borsellino non stava indagando su nessuna trattativa né su Berlusconi, ma voleva occuparsi di questo dossier, e negli scandali contenuti in questo dossier non c’era trattativa né c’era ombra di Berlusconi o di Dell’Utri. Dunque tutta la ricostruzione, soprattutto giornalistica (ma presente massicciamente anche nelle requisitorie dei Pm al processo di Palermo) è infondata.

La seconda questione riguarda i Ros. È chiaro che i Ros del generale Mori non solo non trattarono con la mafia, ma avevano una strategia del tutto opposta: quella di andare a scontrarsi frontalmente sia con la mafia sia con quei settori della politica e dell’imprenditoria che con la mafia facevano affari.

La terza questione è la più inquietante. Cosa successe in alcuni settori della magistratura di Palermo? Perché insabbiarono una inchiesta che era una vera bomba atomica e che conteneva i presupposti per annientare Cosa Nostra? C’è un collegamento tra questa decisione di insabbiare e di disinnescare quella inchiesta e il clamoroso depistaggio, seguito dalla magistratura, innescato dal falso pentito Scarantino (primo processo Borsellino)? E ancora: il processo Stato mafia è in qualche modo figlio di questi clamorosi abbagli? Come vedete, la terza questione è formata da domande. Chi può rispondere a queste domande? La magistratura è in grado di fornirci almeno qualche lume?

Perché Scarpinato affossò l’inchiesta mafia- appalti? Era clamorosa e forse Borsellino fu ucciso perché quel fascicolo era finito sulla scrivania, scrive Damiano Aliprandi il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Non esiste nessuna sentenza che collega la morte dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con la presunta trattativa Stato- mafia, mentre in alcune sentenze emerge un movente ben chiaro e che fu anche l’inizio della guerra dei cent’anni tra alcuni magistrati e i carabinieri dei Ros guidata da Mario Mori: l’indagine su mafia appalti condotta da quest’ultimi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, in cui si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio, «la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti». A questa si aggiunge un’altra sentenza, quella della Corte d’Assise di Caltanissetta relativa al processo Borsellino- ter, in cui viene riportata la testimonianza di Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, il quale disse che la mafia era preoccupata circa l’interesse di Falcone e Borsellino per l’indagine mafia- appalti. Un particolare non da poco è stato il suo riferimento a Falcone quando disse che la «mafia era stata quotata in borsa». Sì, perché il magistrato lo disse all’indomani della quotazione di una delle società appaltatrici che erano sotto la lente di ingrandimento dei Ros. La sentenza in questione aveva tratto anche una riflessione. « Appare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto all’epoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Cosa nostra, tuttavia si legge nel dispositivo della sentenza – l’interesse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini unitamente all’incarico che egli ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta ed ancor più la prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone ». Come se non bastasse, si aggiunge la testimonianza di Antonio Di Pietro, all’epoca dei fatti componente del pool Mani Pulite. L’ex magistrato ha dichiarato più volte, sia durante il processo Borsellino- ter e sia recentemente, che Borsellino – lo incontrò poco prima della strage di via D’Amelio – era interessato a mafia- appalti e che avrebbe voluto collegare l’indagine palermitana a quella milanese. Il punto è importante, perché gli elementi di collegamento spuntarono fuori durante l’inchiesta Mani Pulite. Parliamo di attività imprenditoriali sospette relative a imprese del nord come la Calcestruzzi di Gardini, impresa capofila del gruppo Ferruzzi Spa che compariva nell’indagine mafia- appalti dei Ros. L’inchiesta mafia- appalti, quindi, era potenzialmente una bomba potentissima visto che scoperchiava legami tra mafia, personalità politiche di rilievo e società appaltatrici in mano a persone vicine ad alcuni magi- strati. Ma non solo. Parliamo di una bomba che non sarebbe deflagrata solamente in Sicilia, ma anche in tutta la penisola (la testimonianza di Di Pietro docet) e le schegge avrebbero sconfinato oltre le Alpi visto che l’inchiesta avrebbe potuto toccare il sistema di riciclaggio internazionale. In merito a quest’ultimo punto, in realtà, Falcone aveva già fiutato qualcosa qualche anno prima che ricevesse il fascicolo dell’indagine mafia- appalti. Nel giugno 1989, infatti, si era incontrato con la sua collega svizzera Carla Del Ponte nella villa che aveva preso in affitto all’Addaura, vicino Palermo, per discutere di riciclaggio del denaro sporco tramite aziende all’estero e, coincidenza vuole, fu in quel momento che la mafia collocò una bomba sullo scivolo di accesso al mare della villa, dentro un borsone da sub. Per fortuna venne notata da uno degli agenti della scorta di Falcone e disinnescata dagli artificieri. Nel 1991 Falcone prese in mano l’informativa dei Ros e un anno dopo fu ucciso. Sembra ragionevole pensare che Falcone e Borsellino siano stati uccisi per il loro interesse all’inchiesta dei Ros sui grandi appalti pubblici che la Procura di Palermo, però, archiviò appena qualche giorno dopo la morte di Borsellino. La richiesta di archiviazione – esattamente il 13, quando Borsellino era ancora in vita e interessato a prenderla in mano – fu avanzata dagli allora sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, vistata dal procuratore Giammanco tre giorni dopo l’uccisione di Borsellino e archiviata definitivamente il 14 agosto dal gip di Palermo Sergio La Commare. Parliamo dell’archiviazione più breve della storia, avvenuta il giorno prima di ferragosto, quando solitamente gli uffici dei tribunali sono semideserti. Il gip La Commare è lo stesso che, qualche mese dopo – esattamente il 23 dicembre, altra data particolare, antivigilia di Natale – convaliderà l’arresto di Bruno Contrada (ex capo della Mobile di Palermo, ex vicedirettore del Sisde, ex capo della criminalpol di Palermo) richiesto sempre da Lo Forte e Scarpinato. Nello stesso anno, gli stessi magistrati archiviano l’indagine sui mafiosi e arrestano chi per anni è stato in prima linea contro la mafia. A quel punto, mafia- appalti, che doveva essere una bomba che avrebbe fatto tremare l’Italia intera, era stata quindi disinnescata. In realtà, precedentemente, aveva già subito un depotenziamento. Come? Ricordiamo che l’informativa mafia- appalti dei Ros era di 890 pagine ed era stata ricostruita la mappa del malaffare siciliano dove erano elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di quasi tutti i partiti e aziende. Il dossier passò nelle mani di ben otto sostituti procuratori di Palermo. Furono indagate soltanto cinque persone. Ma accadde qualcosa di grave. Tutti i coinvolti nell’informativa dei Ros – gli imprenditori, i politici e i mafiosi -, ricevettero l’elenco degli appalti e dei nomi citati nel dossier. Da chi? Dalle risultanze processuali, risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafiaappalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi. I Ros accusarono i magistrati della procura di Palermo e viceversa. Alla fine tutto fu archiviato. Si legge nell’ordinanza di archiviazione: « Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati ». Qualunque sia la verità, con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino dei Ros e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di mafia- appalti e, ricordiamolo nuovamente, ritenuto dai Ros “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio morì Paolo Borsellino.

Mafia e Appalti: Falcone lavorò su quel dossier sparito. Lo aveva ricevuto nel febbraio del 1991 e lo considerava importantissimo, scrive Damiano Aliprandi il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Nel corso dei processi per le stragi siciliane del 1992, dalle persone informate sui fatti (come l’ex generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno dei Ros, e poi pentiti come Angelo Siino e Giovanni Brusca), era emerso che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia era stato il movente principale dell’attacco mafioso. Cioè era la ragione che aveva indotto “Cosa nostra” a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane che portarono all’uccisione di Falcone, Borsellino e molte altre persone. Emerse, in sostanza, l’interesse che alcuni ambienti politico– imprenditoriali e mafiosi avevano ad evitare l’approfondimento dell’informativa dei Ros mafia- appalti, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici. Le indagini, le quali avevano aperto già nel 1991 scenari inquietanti, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese di “Tangentopoli”. L’interesse della mafia a neutralizzare le indagini eliminando fisicamente i magistrati ai quali venivano notoriamente riconosciute la capacità professionale e la volontà per svolgerle, si era rafforzato quando Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, si era fortemente determinato a sviluppare le indagini in questione, riprendendole e indirizzandole nel solco originariamente tracciato da Giovani Falcone. Tutto ha avuto inizio la mattina del 20 febbraio del 1991 quando il capitano Giuseppe De Donno consegnò, all’allora sostituto procuratore Giovanni Falcone, le conclusioni dell’indagine sulla mafia- appalti sottoscritta dal generale Mori. De Donno, che Falcone chiamava affettuosamente Peppino e che era uno dei pochi investigatori che si permetteva di dare al giudice del ‘ tu’, valendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera (nell’indagine dei Ros ci sono le sue intercettazioni), che lavorava in Sicilia per una grossa azienda del Nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare siciliano, ed aveva elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di rilievo e aziende di primaria importanza. In questo elenco c’erano anche nomi legati a magistrati siciliani. Falcone si interessò molto dell’indagine dei Ros. Infatti, a distanza di un mese dalla consegna dell’informativa, in un importante convegno organizzato a marzo del ’ 91 dall’Alto Commissario Antimafia, dopo avere riconosciuto che il condizionamento mafioso esisteva sia al momento della scelta delle imprese, sia nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti ( senza escludere, quindi, le imprese del Nord), e dopo aver fatto cenno ad alcune intercettazioni telefoniche da cui risultavano varie modalità operative, aveva testualmente affermato: « Ormai emerge l’imprescindibile necessità di impostare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto finora », alludendo non solo a un salto di qualità investigativa, ma all’utilizzazione nelle indagini su mafia- appalti dell’apparato dell’Alto Commissario e, cioè, teorizzando la messa a disposizione delle informazioni raccolte nel circuito dei servizi al pubblico ministero e, comunque, la sinergia tra l’intelligence e le investigazioni sul territorio. In pratica aveva non solo intuito l’importanza di mafia- appalti, ma aveva fatto capire la sua intenzione di creare un nuovo ed efficace metodo di investigazione. Fu un campanello d’allarme per quanti, mafiosi e contigui, noti e non ancora noti, avrebbero potuto essere attratti nel cono di luce di questo programma. C’è una testimonianza che conferma il timore di Cosa nostra. Riportiamo un brano tratto dalla sentenza della Corte di assise di appello di Caltanissetta del 2000: «A dire del Siino (considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) , le indagini promosse dal giudice Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”, avevano portato alla sua eliminazione. Difatti, in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che il dr. Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare”». A distanza di qualche mese dal suo intervento, Giovanni Falcone, dopo essere stato isolato dai suoi colleghi e scansato dal Csm, accetterà dal ministro Martelli la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il ministero della Giustizia. Il dossier dei Ros rimase nelle mani dei sostituti procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, in seguito il Procuratore Giammanco affiancherà altri sostituti, tra i quali Roberto Scarpinato, cioè l’attuale Procuratore generale di Palermo. Nonostante ciò, Falcone non recise i suoi collegamenti con le articolazioni operative delle indagini a Palermo. Si fidava però di uno solo collega, ovvero Paolo Borsellino. In quel frangente si verificò una circostanza molto significativa e che turbò molto Falcone. L’intero rapporto mafia appalti fu consegnato dal procuratore Giammanco al ministro Martelli, che tuttavia lo restituì alla Procura di Palermo, senza aprire il plico, avendo riscontrato in Giovanni Falcone una sorta di lamentela sulla condotta del magistrato, il quale nel consegnare il rapporto aveva inteso delegare alla politica l’intera questione anziché promuovere le dovute indagini di riscontro. E addirittura, la lettera di restituzione fu inviata al Csm per conoscenza, per rimarcare l’anomalo comportamento del procuratore Giammanco. Falcone era interessato a mafiaappalti collegandolo perfino con le indagini milanesi. Di questo si trova riscontro nella testimonianza di Antonio Di Pietro nell’ambito del processo Borsellino ter. Si parla sempre di imprese e casualmente – come raccontò l’ex giudice di Mani Pulite – cominciavano ad emergere nomi che rientravano anche nell’informativa dei Ros. Di Pietro durante il processo nominò ad esempio la Ferruzzi Spa (quella di Gardini) o la De Eccher, tutte imprese del nord coinvolte in mafia- appalti. Di Pietro disse di averne parlato con Falcone. «Quella era l’essenza della mia inchiesta – raccontò Di Pietro durante il processo – cioè la scoperta che le imprese nazionali dovunque andavano si associavano con imprese locali, si realizzavano questi appalti e producevano delle dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali. Ne parlai dapprima con Falcone e poi anche con Borsellino. Ma attenzione – sottolineò Di Pietro-, anche quando Falcone era ancora vivo». Falcone, ribadiamolo, non perdeva di vista quell’indagine, anche se formalmente non era di sua competenza. La conosceva così bene che, durante un convegno pubblico, aveva lanciato un appello esclamando che «la mafia è entrata in borsa», per dire che società quotate in borsa erano state attratte nell’alveo delle relazioni con “Cosa nostra”. Il grumo di interessi che riguarda gli appalti, fa maturare la decisione della mafia di punire i vecchi referenti politici come Salvo Lima, accusati di non essere più in grado di svolgere utili mediazioni. Mancavano solo 11 giorni all’attentato, il tritolo per Capaci era già partito quando in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva che stava arrivando la sua ora. Quel pizzino di morte fu l’ultimo avvertimento prima di quel boato che il 23 maggio 1992 sventrò l’autostrada uccidendo con Giovanni Falcone anche sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Solo Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, voleva risalire a quella inchiesta e a quel dossier dei Ros per scoprire gli assassini di Falcone. Alla prossima puntata parleremo di questo.

Mafia- appalti, quel giorno che Paolo Borsellino fu convocato in Procura…Era la mattina del 19 luglio 1992, il pomeriggio ci fu la strage, scrive Damiano Aliprandi l'8 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  Esattamente quattro giorni prima che venisse brutalmente ucciso, Paolo Borsellino era a casa con la moglie, sconvolto e molto preoccupato. Perché? La spiegazione è in una deposizione della signora Agnese Borsellino rilasciata il 18 agosto 2009 di fronte ai Procuratori di Caltanissetta: «Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992; ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrarono…» «Il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19.00, e, conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu” (affiliato a Cosa nostra, ndr) ». L’italiano non si interpreta, è la nostra lingua madre, eppure i teorici della presunta Trattativa hanno inteso che Borsellino, dicendo di aver visto la “mafia in diretta”, si riferisse all’ex generale dei Ros Subranni. Sappiamo che Borsellino si fidava ciecamente dei carabinieri del Reparto Operativo Speciale e non a caso, come vedremo in seguito, fece un incontro segreto con loro per discutere dell’inchiesta mafia- appalti presso la caserma e non negli uffici della Procura, visto che più di una volta aveva espresso di non fidarsi dei suoi colleghi. Quindi, ritornando alla testimonianza della moglie Agnese, Borsellino era rimasto turbato perché qualcuno gli aveva detto che Subranni era un mafioso. Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino infatti si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Con chi si era visto? Non è dato saperlo. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; a seguire avveniva l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Con chi si era visto in Procura? La “mafia in diretta” era riferito a un suo collega? Non lo sapremo forse mai. Quello che sappiamo, però, è che Borsellino stava seguendo la pista dell’inchiesta mafia- appalti anche per risalire agli assassini di Falcone. Diverse sono le testimonianze di primaria importanza. Una è dei Ros. Paolo Borsellino, subito dopo l’omicidio di Falcone – secondo la testimonianza del generale Mori –, chiese un incontro riservato a Mori stesso e De Donno per parlare di mafia- appalti, dove ribadì la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – racconta sempre Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». L’altra testimonianza è di Antonio Ingroia. Lui stesso, durante l’udienza del 12 novembre 1997 – parliamo del processo Borsellino bis della Procura di Caltanissetta -, ha raccontato che Borsellino era convinto che partendo dagli appunti contenuti nell’agenda elettronica di Falcone su mafia- appalti si potevano individuare i moventi della strage di Capaci. Probabilmente Ingroia ha poi rimosso questo ricordo ed ha imbastito l’inchiesta giudiziaria sulla presunta Trattativa. L’altra testimonianza è quella della dottoressa Liliana Ferraro resa al Tribunale di Palermo nell’udienza del 28 settembre 2010. Disse che si incontrò con Borsellino, che le espresse la necessità di fare di tutto per scoprire gli autori della strage di Capaci. Oltre a riferirle i difficili rapporti che aveva con la Procura di Palermo, Borsellino le chiese informazioni su mafia- appalti, visto che lui non aveva nessuna delega dalla Procura di Palermo. Poi c’è la testimonianza di Antonio Di Pietro. Oltre a Falcone, l’ex pm di Mani pulite disse che Borsellino voleva approfondire lui stesso l’inchiesta mafia- appalti e collegarla all’indagine milanese. Di Pietro racconta che Borsellino lo incontrò al funerale di Falcone e gli disse: «Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo». Ma se fin qui parliamo di intenzioni da parte di Borsellino, c’è un evento che cristallizza i suoi primi passi concreti su mafia- appalti, nonostante non avesse ancora la delega. Poco prima della sua uccisione – esattamente il 29 giugno del 1992Borsellino aveva svolto a casa sua un incontro riservato con il suo collega Fabio Salomone. Non è uno qualunque: parliamo del fratello di Filippo Salomone, l’imprenditore coinvolto nell’informativa mafia- appalti dei Ros. Cosa si dissero? Lo riferisce lo stesso magistrato Salomone in un verbale: «Lo andai a trovare a casa sua. Era un primo pomeriggio. C’erano altre persone, oltre alla moglie, Agnese. C’era Antonio Ingroia. Io e Paolo ci siamo chiusi nello studio con una porta a soffietto. Il colloquio sarà durato un’oretta circa. Ricordo che parlammo ancora una volta del fatto che Martelli e Scotti, avendolo indicato come probabile Procuratore Nazionale Antimafia, avevano sovraesposto la sua posizione. Lui si sentiva più protetto a Palermo. Parlammo ancora della mia situazione, che lui riteneva a rischio e mi invitò a venire a Palermo. Io obiettai che l’attività imprenditoriale di mio fratello rendeva inopportuno questo trasferimento, con Tangentopoli che era scoppiata. Borsellino mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello ed in ogni caso riteneva sufficiente che io non mi occupassi delle tematiche, in cui poteva essere coinvolto lo stesso mio fratello, data la dimensione della Procura di Palermo. Borsellino comunque insistette perché io andassi via da Agrigento. All’epoca della visita a Borsellino, io stesso stavo maturando la decisione di allontanarmi da Agrigento». Il colloquio fin qui riportato dimostra chiaramente che per Borsellino l’inchiesta mafia- appalti era di primaria importanza. Le ragioni sono molteplici: perché si svolge qualche settimana prima dell’esecuzione della strage e dopo soli 4 giorni dall’incontro che Borsellino aveva tenuto con i Ros alla caserma di Piazza Verdi; perché non vi era stata, in precedenza, un’assidua consuetudine di frequentazioni fra i due magistrati e, non per ultimo, perché il fratello del magistrato era tra gli imprenditori implicati nel filone mafia- appalti. Tutto questo fa pensare che Borsellino, se solo avesse preso in mano la delega per Palermo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta su mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Non doveva far altro che farsi dare la delega dal procuratore Giammanco. Giungiamo quindi ai suoi ultimi istanti di vita. Verso le 7 e 30 della mattina di quel maledetto 19 luglio 1992, Borsellino ricevette una telefonata dal procuratore Giammanco. Lo aveva testimoniato la moglie Agnese. A quell’ora i tre figli di Borsellino dormivano e il giudice s’affrettò ad afferrare il telefono al primo squillo. La moglie, turbata dalla chiamata mattutina, sentì cosa rispondeva, freddo, all’interlocutore: «La partita è aperta». Il tono allarmò la signora. E fu il marito, rimettendo giù la cornetta, a spiegarle che era stato Giammanco a chiamarlo per assegnargli la delega sull’inchiesta palermitana. Borsellino però non poteva sapere che qualche giorno prima – esattamente il 13 luglio – c’era stata la richiesta di archiviazione da parte di Lo Forte e Scarpinato. E forse nemmeno Giammanco, visto che l’avrebbe vistata tre giorni dopo il tragico evento. Il pomeriggio stesso una Fiat rubata, piena di tritolo, esplose sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Morì lui e i suoi agenti di scorta.

«Tenete quei dossier lontani da Falcone e Borsellino». L’informativa “Caronte” dei Ros sulle collusioni Mafia-imprese, scrive Damiano Aliprandi il 9 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo tratteggiato l’interesse di Falcone e Borsellino per l’informativa dei Ros dedicata a mafia- appalti. L’interesse era quello di approfondire l’inchiesta, ma sappiamo che non avevano la delega e così l’inchiesta fu dapprima depotenziata, indagando solo cinque persone, poi fu diffuso – non si sa da chi – il contenuto del rapporto che arrivò a tutti i soggetti coinvolti; infine fu tutto archiviato, quando il corpo senza vita di Borsellino era ancora caldo. La richiesta di archiviazione – firmata dai sostituti Lo Forte e Scarpinato – fu avanzata pochissimi giorni prima dell’attentato. In seguito ci sono state diverse inchieste giudiziarie “spezzettate” ma che non portarono a nulla visto che c’è stata una sorta di scompenso tra le intuizioni investigative elaborate da Giovanni Falcone (in qualche modo anticipate al Convegno di Castel Utveggio) puntualmente tracciate dai Ros e le utilizzazioni processuali conseguenti, da parte della procura di Palermo dell’epoca. Il che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di Via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, Cosa nostra avesse raggiunto i suoi obiettivi attraverso le stragi del 1992. Ma perché la mafia aveva paura che quell’indagine venisse approfondita? Perché – secondo la testimonianza di Angelo Siino, considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra -, la mafia riferendosi a Falcone avrebbe detto «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»? L’indagine dei Ros che dettero vita all’informativa mafia- appalti è nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che i Ros lo informavano delle indagini ben prima che redigessero il dossier. Infatti due sono le informative dei Ros consegnate a Falcone (e anche a Lo Forte che era sostituto procuratore a Palermo): una datata il 2 luglio 1990 e l’altra il 5 agosto del 1990. Falcone aveva capito che non bastava arrestare gli esponenti dei clan, ma bisognava colpire la ricchezza di Cosa Nostra, frutto di vere e proprie attività imprenditoriali. Del resto già Leonardo Sciascia aveva tratteggiato la figura dell’imprenditore mafioso, Colasberna, ne Il giorno della Civetta. Tuttavia, fino al momento in cui i Ros non misero il becco nel reimpiego dei capitali mafiosi nella gestione degli appalti, la linea investigativa era concentrata essenzialmente sulle indagini bancarie ai fini dell’individuazione delle somme di denaro e dei molteplici prestanomi che ne favorivano l’occultamento. Il meccanismo della gestione degli appalti in mano alla mafia è ben sintetizzato in un passaggio dell’informativa dei Ros dove si dice che i mafiosi “disponevano di una capacità operativa sorprendente, abbinata, tra l’altro, ad una pressoché illimitata forza condizionante la pubblica amministrazione che permetteva loro di aggirare e superare qualsiasi vincolo legislativo e non”, e che non aveva solo la capacità di indirizzare la volontà degli Enti Pubblici, “ma di coartarla in tutti i suoi aspetti, riuscendo in alcuni casi, a programmare essi stessi l’attività economica d’intervento pubblico”. Come accade spesso nelle indagini investigative, le collusioni vengono scoperchiate quasi per caso. Tutto cominciò quando, a settembre del 1989, avvenne l’omicidio di un imprenditore di Baucina, piccolo comune vicino Palermo. Nel corso delle relative indagini era emerso che l’impresa gestita dalla vittima legata alla mafia si era associata, in relazione ad un pubblico appalto di modesta entità, con la società Tor Di Valle Spa, di ben più imponenti dimensioni ed avente sede in Roma: all’epoca gestiva enormi appalti come la costruzione della nuova Casa circondariale di Civitavecchia, il prolungamento della linea ‘ B’ della metropolitana di Roma e altro ancora. È da quel momento che l’indagine si era concentrata su diverse società importanti della Sicilia che sarebbero entrate nel circuito mafioso. Sono società di modeste dimensioni che però erano collegate con le grandi imprese operanti al livello nazionale. Oltre alla Tor Di Valle, tra le tante, compare anche la società del nord Calcestruzzi s. p. a. del Gruppo Ferruzzi- Gardini che si era accordata con l’imprenditore mafioso Buscemi. Sul progressivo cambiamento del ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti dopo la metà degli anni 80, è necessario prendere in considerazione le conclusioni argomentate dai giudici della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta tratte dalla testimonianza di Siino. I giudici nisseni hanno spiegato che la mafia, da un ruolo prettamente parassitario incentrato sulle “messe a posto”, sui subappalti, sulle gestioni dei lavori per conto terzi, era passata a uno imprenditoriale, nel senso che la mafia aveva cominciato “a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti ad imprese a lei vicine”. Cosa nostra, si era inserita “a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti”, applicando “il pizzo sul pizzo”, cioè decurtando una parte delle tangenti dirette ai politici. Dall’informativa dei Ros mafia e appalti, infatti, si evince che l’obiettivo della mafia era quello di utilizzare il denaro del finanziamento al Mezzogiorno per i lavori da aggiudicare alle imprese dell’organizzazione. E a gestire i soldi del Mezzogiorno era la Sirap. Tale ente verrà poi esaminato dai Ros in un momento successivo tramite l’informativa “Caronte”, solo perché aveva una sua complessità rispetto alle vicende comprese nella informativa del febbraio del 1991 e perché, anche su sollecitazione dello stesso Falcone, si era preferito depositare, prima, una informativa di carattere generale. L’informativa “Caronte” venne tramessa alla Procura di Catania che, al termine delle indagini, formulò una richiesta di misure cautelari verso numerosi esponenti politici. L’allora procuratore Gabriele Alicata, non ritendendo competente il suo ufficio, trasmise le carte alla Procura di Palermo. Tutti gli esponenti politici e amministrativi per i quali la procura di Catania aveva richiesto misure cautelare, non vennero in quella sede perseguiti. La Sirap era incaricata dalla Regione Sicilia – il cui Presidente dell’epoca era l’onorevole Rino Nicolosi – di gestire finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno e dell’allora Comunità europea (la ex Cee) per circa mille miliardi, per la realizzazione di venti aree attrezzate da destinare alle piccole e medie imprese artigianali ed industriali. Si trattava, quindi, della gestione di venti gare di appalto dell’importo di circa cinquanta miliardi ciascuna. Erano tanti soldi, miliardi e miliardi delle vecchie lire, che potevano dare potere alla mafia, quello di condizionare la politica e l’economia legale. La Procura di Palermo aveva, come già detto, la delega per le indagini. Ma poteva farlo serenamente? Alcuni magistrati titolari dell’inchiesta avevano parenti di primo grado e anche padri e fratelli legati a quelle imprese ed enti sotto la lente d’ingrandimento dei Ros: uno dei sostituti procuratori aveva il padre presidente dell’Espi, ente economico che aveva il controllo della Sirap, società coinvolta nelle indagini. Sappiamo che Paolo Borsellino, ad esempio, aveva già chiesto al magistrato Salomone – fratello di uno degli imprenditori coinvolti nell’informativa dei Ros – di operare alla procura di Palermo, ma di non occuparsi di mafia- appalti per questioni di opportunità. Era solo un’informativa e quindi sono tutti innocenti fino a prova contraria, ma per questioni di evidenti “conflitti di interesse” forse sarebbe stato opportuno dare la delega ad altri magistrati, magari proprio a Falcone e Borsellino. Entrambi – come diverse testimonianze e documento lo certificano – informalmente seguivano mafia- appalti, ma furono dilaniati dal tritolo. Il movente che ha concausato la loro morte è stato sepolto con loro, in compenso sono stati condannati, in primo grado, coloro che dettero vita a quello scottante dossier.

Borsellino lavorava sul dossier Mori… Poi fu ammazzato. La corte smonta il luogo comune di uno stato inerme e piegato agli interessi di Cosa nostra nel periodo delle stragi, scrive Damiano Aliprandi il 3 luglio 2018 su "Il Dubbio". Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, depositata sabato a chiusura del processo Borsellino quater e rassegnate nelle 1865 pagine, non vengono dimenticate le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore». Le considerazioni della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonio Balsamo, conducono il collegio a disporre nella sentenza anche la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state, quindi, al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio. Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte»: furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto di tumore il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

L’irritualità della vicenda processuale. Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è quello delle «anomalie» e delle «irritualità» che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Questa è in sintesi la conclusione della motivazione. È la vicenda processuale dell’acquisizione probatoria degli interrogatori di Scarantino, una di quelle più aspramente contestate dalla Corte. Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui che la Corte non tarda a richiamare l’’ attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti. Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero». Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura» ; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo, ma per nulla meno importante, balza all’occhio un richiamo, quello alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio disporrà la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello.

Mafia Appalti, concausa della strage di via D’Amelio? Nelle motivazioni emerge anche un altro elemento non trascurabile. Ovvero il fattore scatenante per il quale la mafia avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché il dottore Borsellino, sì sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanata dal generale Mario Mori e voluta da Giovanni Falcone. Giuffrè, nel confermare le precedenti dichiarazioni secondo cui «il Dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti», ha chiarito che gli esponenti di ‘ Cosa Nostra’ «avevano avuto notizia di un «rapporto che era stato presentato alla Procura di Palermo da parte dei Ros all’allora Procuratore Giammanco». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due Magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso questo Tribunale, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco». Borsellino non si fidava dei suoi colleghi e riferendosi alla Procura di Palermo, parlò di «Covo di vipere». D’altronde, come riportò Il Dubbio, lo stesso Borsellino, dopo la morte di Falcone, si interessò di mafia appalti e ne parlò con i Ros tramite un incontro riservato in caserma, non in Procura. Altro aspetto fondamentale è che la Corte indirettamente sconfessa il teorema giudiziario sulla presunta trattativa Stato Mafia. «Va, altresì, rilevato – viene evidenziato nelle motivazioni – che l’attentato contro Paolo Borsellino costituiva un attacco terroristico diretto a piegare lo Stato. L’obiettivo perseguito con questo e con analoghi delitti era quello di destabilizzare le Istituzioni e favorire nuovi equilibri con il potere politico, strumentali alla tutela degli interessi di Cosa Nostra, ma nulla escludeva che, nella fase successiva, lo Stato avrebbe potuto reagire, come effettivamente avvenne, mediante misure dirette ad assicurare una più forte repressione del fenomeno mafioso». Viene confermato che lo Stato agì duramente per reprimere la mafia. Quindi nessun patto con Cosa Nostra.

La prima versione sulla strage. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone- Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse l’allora Pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni». A questo si aggiunse la requisitoria della Pm Anna Maria Palma: «dietro questa ritrattazione c’è la mafia». Il resto della storia, la conosciamo.

Quando il “Corvo” cominciò a volare su chi combatteva Cosa nostra. La prima lettera anonima del “Corvo” contro le istituzioni spuntò nel 1989 e fu ingiustamente accusato il pm Alberto Di Pisa, scrive Damiano Aliprandi il 16 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo raccontato come l’indagine dei Ros su mafia- appalti è stata seguita fin dall’inizio da Falcone e poi portata avanti da Borsellino. Per completare il quadro, però non si può tener conto delle lettere anonime definite giornalisticamente del “Corvo”. Come un uccello del malaugurio hanno svolazzato sempre quando ci sono stati gli attentati. La prima lettera arrivò a ridosso dell’attentato fallito a Falcone, l’altra invece a cavallo tra la strage di Capaci del 23 maggio 1992 e quella in via D’Amelio del 19 luglio 1992. La prima missiva anonima spunta in un anno spartiacque: il 1989. Il mondo cambia letteralmente volto. La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre, produce conseguenze politiche, economiche e sociali in tutto il pianeta. Mentre le manifestazioni studentesche in Cina vengono represse nel sangue, in Ungheria si apre la frontiera con l’Austria, creando il primo varco della Cortina di ferro e permettendo la fuga dalla Ddr (Repubblica Democratica Tedesca, comunemente chiamata Germania Est) di molti suoi abitanti. A novembre, una escalation di pochi giorni, cominciata con la concessione ai rifugiati nelle ambasciate della Germania Ovest di Praga e Varsavia di trasferirsi nella Repubblica Federale, porta alla caduta del Muro di Berlino, festeggiata l’anno seguente con un grande concerto dei Pink Floyd. Il 1989 è un anno rilevante anche nello scacchiere italiano, sotto il profilo politico, criminale e giudiziario. ll 20 febbraio, a Catanzaro, si conclude il terzo processo per la strage di Piazza Fontana: assolti gli imputati ( Stefano Delle Chiaie e Massimiliano Fachini) per non aver commesso il fatto. La storia si ripete un mese più tardi con l’assoluzione di tutti gli imputati per un’altra strage, quella di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974. I fatti più eclatanti si verificano tra le dimissioni del governo De Mita (19 maggio) e il giuramento del sesto governo Andreotti (23 luglio), pentapartito composto da Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Ma l’anno 1989 è anche quello dove per la prima volta in Parlamento arriva un relazione sulla sicurezza dove viene denunciato che mafia, camorra e ‘ ndrangheta hanno superato il terrorismo nella graduatoria delle minacce nella sicurezza nazionale. Il 12 giugno, Angela Casella, madre di Cesare Casella, ragazzo pavese rapito da diciassette mesi dall’Anonima sequestri calabrese, si incatena nella piazza di Locri per denunciare l’incapacità dello Stato nel combattere la criminalità organizzata. La ‘ ndrangheta, infatti, in quel periodo getta le basi della sua trasformazione e notevole espansione, approfittando soprattutto del cono d’ombra generato dal maxi processo palermitano contro Cosa nostra. Mentre gli esponenti di spicco della mafia siciliana sono ad un passo dall’essere condannati definitivamente dallo Stato italiano, le ‘ndrine calabresi controllano i territori, gestiscono in modo monopolistico il traffico di cocaina e riciclano il denaro acquistando beni immobili e attività commerciali, cominciando progressivamente a scalare le gerarchie criminali nazionali e internazionali. Ma l’anno 1989 è anche quello del fallito attentato a Giovanni Falcone e l’inizio di alcune missive inquietanti sempre ai danni del giudice palermitano. Già da un anno i Ros si stanno interessando di mafia- appalti, in seguito a una “soffiata” ricevuta dai carabinieri che indagano sull’omicidio di un allevatore in un comune delle Madonie. Le successive indagini svelano – come già descritto dettagliatamente nelle puntate precedenti de Il Dubbio ( edizioni del 3, 4, 8 e 9 maggio) – che Cosa nostra non ha più un atteggiamento parassitario ( imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali) ma, come spiega Giovanni Falcone, durante un convegno organizzato dall’Alto commissario antimafia, nella primavera del 1990, «indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici». Ma ritorniamo al 1989. È il 21 giugno quando cinquantotto candelotti di dinamite vengono rinvenuti sulla scogliera ai piedi della villa all’Addaura: assieme a Falcone avrebbero potuto eliminare anche Carla Del Ponte, allora procuratrice a Lugano, e il collega giudice istruttore Claudio Lehmann, che indagavano sul sistema di riciclaggio internazionale di Cosa nostra. Poche settimane prima giunsero continue lettere diffamatorie nei confronti soprattutto di Falcone e inviate a vari rappresentanti delle istituzioni. Verso la fine di maggio del 1989, Salvatore Contorno, noto collaboratore di giustizia, trasferitosi da tempo negli Usa dopo la celebrazione del primo maxiprocesso, veniva arrestato in Sicilia in una operazione finalizzata alla cattura del latitante Gaetano Grado in una villetta di S. Nicola l’Arena. Pochi giorni dopo venivano indirizzate a varie autorità una serie di missive anonime scritte a macchina, note come le lettere del “Corvo”, che contenevano gravissime accuse nei confronti di vari magistrati e appartenenti alla polizia, tra cui innanzitutto Falcone e Giovanni De Gennaro, poi diventato vicedirettore della Dia, accusati di avere ordito un diabolico piano per contrastare la fazione corleonese di Cosa nostra attraverso il ritorno in Sicilia di Salvatore Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano e per guidare la vendetta delle cosche perdenti con una serie di omicidi. Si mette in diretta correlazione il rientro di Contorno con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati nel territorio di Bagheria, tra il marzo ed il maggio del 1989, ai danni di persone legate alle cosche mafiose vincenti dei corleonesi. Le accuse, ovviamente, si sono rivelate assolutamente calunniose anche nel contesto delle indagini svolte per individuare l’autore delle lettere e che le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia successivamente acquisite hanno concordemente attribuito la responsabilità degli omicidi indicati negli anonimi al gruppo corleonese escludendo la responsabilità di Salvatore Contorno. Verrà accusato ingiustamente il magistrato Alberto Di Pisa, all’epoca sostituto procuratore a Palermo, che ha subito un travagliato processo a seguito delle indagini avviate dall’Ufficio dell’Alto Commissario che lo avevano indicato come autore delle lettere e che, comunque, dopo essere stato condannato dal Tribunale di Caltanissetta, è stato poi definitivamente assolto dalla Corte di Appello di Caltanissetta. Dalla sentenza però emerge chiaramente come le calunniose accuse rivolte a Falcone provengano da un ambito istituzionale e come si pongano in strettissima correlazione logica e cronologica con l’attentato fallito dell’Addaura. Al riguardo, lo stesso generale Mario Mori ha riferito nel suo esame dibattimentale ( udienza del 7 febbraio 2000) che aveva concordato con Falcone nel ritenere che le lettere del “Corvo”, rappresentassero un “atto di delegittimazione di personaggi delle Istituzioni particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata” e che nella prassi mafiosa le manovre di isolamento e delegittimazione fossero spesso il primo passo per giungere, “all’annientamento” di chi si contrapponeva ai programmi della organizzazione mafiosa. Tutti questi elementi fanno pensare, a detta di chi scrive, che le lettere del “Corvo” siano state scritte nel consapevole intento di preparare il terreno per l’imminente tentativo di eliminazione fisica di Falcone. Piano poi purtroppo riuscito quel maledetto 23 maggio del 1992. Un altro anno particolare, altro spartiacque della storia del nostro Paese dove spuntò fuori l’ennesima lettera anonima. 

E la lettera del “Corvo 2” spuntò tra le stragi di Capaci e via D’Amelio. Una lettera di otto pagine dattiloscritte fu indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino, scrive Damiano Aliprandi il 17 Maggio 2018, su "Il Dubbio". L’anno 1992, come il 1989, è stato l’ennesimo spartiacque nel mondo intero. Negli Stati Uniti inizia l’era – poi finita tra pepate polemiche – del democratico Bill Clinton. È uno spartiacque in Europa, dove entra tragicamente nel vivo il conflitto che dilanierà la Penisola Balcanica e che si concluderà nel 1995. Perfino il cinema non sarà più lo stesso. Nel 1992 verrà presentato prima al Sundance poi a Cannes, l’opera d’esordio di uno stralunato cinefilo di Knoxville – ex impiegato di una videoteca – chiamato Quentin Tarantino. Reservoir Dogs, nell’ottobre dello stesso anno, viene rilasciato anche da noi col titolo Cani da rapina: non lo vedrà praticamente nessuno. Quando poi la distribuzione opta per il titolo che oggi tutti conosciamo – Le iene – anche il nostro pubblico si desta e comprende che da lì in poi il cinema non sarà più lo stesso. Ma il 1992 è stato l’annus horribilis della Repubblica italiana. Un vero e proprio terremoto si abbatte nel nostro Paese, dove sotto le bombe della mafia esplode Tangentopoli. Crolla l’impero delle luci e del benessere dalle mille contraddizioni della Prima Repubblica, si dimette il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e si apre la strada per la discesa in campo di un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, che due anni dopo sarà eletto. Ma è l’anno, appunto, della mafia corleonese che teme di essere annientata, e cioè teme che sia intaccata la sua potenza economica, che si fonda non solo sul traffico di droga, ma sulla gestione degli appalti con la connivenza di alcuni imprenditori e politici anche di rilievo nazionale. Un mafia che compie le stragi con il tritolo, uccidendo prima Falcone e dopo Borsellino. Ma ci fu anche l’omicidio di Salvo Lima (capo degli andreottiani in Sicilia), e non fu un caso isolato: il giorno prima a Castellammare di Stabia viene ucciso Sebastiano Corrado, un consigliere comunale del Pds e qualche giorno dopo cinque pallottole calibro 45 uccidono Salvatore Gaglio, 50 anni, segretario della Federazione del Psi di Bruxelles. La seconda lettera anonima, giornalisticamente chiamata “Corvo 2” apparve al cavallo tra la strage di Capaci e via D’Amelio. I Ros, in quel convulso periodo, cercavano chi gli consentisse di lavorare efficacemente, mentre l’organismo di punta della magistratura nella lotta contro l’organizzazione mafiosa, la procura della Repubblica di Palermo, era quasi all’impotenza operativa, preda al suo interno di forti contrasti: un “covo di vipere” secondo il parere espresso da Borsellino, nel giugno 1992, ai colleghi Camassa e Russo. Affermazione che non costituiva solo lo sfogo isolato di una persona delusa, visto che in quell’estate, tra i magistrati della Procura di Palermo, si manifestarono aspre polemiche culminate in un documento, reso pubblico e sottoscritto da un numero significativo di sostituti, che evidenziava una forte contestazione nei confronti dell’allora procuratore capo Giammanco in relazione alla gestione dell’Ufficio. Una lettera anonima che spunta in questo periodo particolare, quando Borsellino riteneva che potesse esserci un legame diretto tra l’attentato di Capaci e la più recente attività di Falcone; e pensava che la continuazione dell’indagine mafia- appalti, che i Ros avevano iniziato con Falcone, avrebbe comunque rappresentato un salto di qualità nel contrasto a Cosa nostra. Parliamo di una lettera di otto pagine dattiloscritte indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino. Otto pagine che ricostruiscono uno scenario siciliano, che indicano piste investigative, che invitano a seguire con più attenzione certi indizi, che gettano ombre su alcuni uomini importanti. Una lettera che fa tremare Palermo e i palazzi romani. Questa volta si firma con un “noi”. L’hanno messa in circuito fra il 22 e il 23 di giugno, per una decina di giorni solo sussurri e bisbigli. Poi, improvvisamente, un giornale, La Sicilia di Catania, decide di pubblicare ampi stralci di quell’anonimo. Le otto pagine sono diventate un ‘ caso’, tanto da far scaturire un’interrogazione parlamentare da parte del senatore Lucio Libertini di Rifondazione Comunista. Gli anonimi del “Corvo 2” riportano il tentativo della Dc di rinnovare il partito liberandosi di Andreotti. In particolare facevano riferimento esplicito all’attività degli onorevoli Sergio Mattarella e Calogero Mannino volta a scalzare il potentato politico detenuto in Sicilia da Giulio Andreotti, attraverso l’onorevole Salvo Lima, in vista delle elezioni politiche del 5 e 6 di aprile di quell’anno. Entrando nei particolari l’anonimo descriveva, tra gli altri, anche di un incontro, facilitato dal professionista palermitano Pietro Di Miceli, che sarebbe avvenuto in una chiesa di San Giuseppe Iato, tra Mannino e Salvatore Riina nel corso del quale gli accordi raggiunti avrebbero anche previsto l’eliminazione fisica dell’onorevole Lima. I conseguenti sviluppi dell’intesa avrebbero poi determinato, in successione di tempo, anche l’assassinio di Falcone. Una lettera, insomma, che – come fu per quella precedente che infangò Falcone e persone dello Stato a lui vicine -, fa accuse pesantissime, a tratti deliranti. Tanto da sostenere che Totò Riina si sarebbe messo d’accordo per farsi arrestare in cambio di alcuni punti da rispettare. Ricorda qualcosa? Sì, sembra il prototipo del teorema giudiziario sulla presunta trattativa stato- mafia che si basa, appunto, su un papello (inattendibile quanto la lettera anonima) con diversi punti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare. Ma come accade in tutte quelle lettere dove dietro c’è la mano di qualcuno che vuole depistare, c’è un mix di qualche notizia vera, di pubblico dominio, insieme ad altre verosimili e ad altre visibilmente surreali. Ad esempio – noti- zia vera – viene citato mafia- appalti, comprese alcune aziende coinvolte, facendo riferimento ai magistrati di Palermo che, di fronte a un informativa di 900 pagine, si sono limitati ad arrestare persone di basso profilo. Ma – c’è da dire – questa era roba nota visto che montò una polemica pubblica su quell’episodio. Chi è stato l’autore della lettera? La serie di considerazioni e notizie di dettaglio riportate nel testo attribuito al “Corvo 2”, vennero esaminate dagli organismi delegati alle indagini che, in data 2 febbraio 1993, trasmisero, a firma del questore Achille Serra e del generale Antonio Subranni, l’informativa n. 123G/ 628271/ 100B protocollo del Servizio centrale operativo e n. 10102/ 14 protocollo Ros. Il documento prendeva in esame dettagliatamente gli sviluppi della vicenda, nel cui ambito anche il generale Mario Mori fece una personale attività d’indagine, ricostruendone gli antefatti e individuando l’estensore dell’anonimo, ma solo come dato probabilistico, in tale Angelo Sciortino, le cui affermazioni avevano trovato “elementi di notevole somiglianza” nel contenuto dell’anonimo stesso, con quello riferito da una fonte informativa del Sisde, denominata “Spada“, e da altre risultanze testimoniali acquisite. Il Sisde però non comunicò mai il nome della sua fonte. Quello che sappiamo è che le inchieste delle procure di Caltanissetta e Palermo non portarono all’accertamento e all’attribuzione di specifiche responsabilità. Le rivelazioni anonime, però, hanno avuto il potere di distogliere per un po’ di tempo le energie giudiziarie e di polizia dalla caccia agli autori della strage di Capaci. Il dato certo, come documentato da questa inchiesta de Il Dubbio, è che negli ultimi giorni di vita, Borsellino era impegnato con tutte le sue forze a individuare mandanti ed esecutori della strage di Capaci e la sua attenzione particolare era rivolta all’inchiesta mafiaappalti, a suo tempo avviata da Giovanni Falcone, che lui riteneva l’indagine da sviluppare prioritariamente. A differenza di quanto sostenuto dai titolari dell’inchiesta sulla trattativa Stato– mafia, l’attività professionale di Borsellino era concentrata su quello, e nessun cenno, anche indiretto, egli aveva fatto a ipotesi di trattative o contatti tra istituzioni dello Stato e “Cosa nostra”.

Un pentito accusa la Procura di Palermo: «Così favorì la mafia». Il pentito Giuseppe Li Pera racconta perché la procura di Palermo non volle ascoltare la sua versione sull’inchiesta mafia-appalti, scrive Damiano Aliprandi il 23 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I magistrati della Procura di Palermo non mi hanno voluto ascoltare sui fatti». A denunciarlo è Giuseppe Li Pera, allora capo area per la regione Sicilia della società Rizzani de Eccher, anch’essa coinvolta nell’inchiesta mafia- appalti, condotta dai Ros capitanati dal generale Mario Mori e seguita fin dall’inizio dal magistrato Giovanni Falcone, che la coordinò sino al giorno della sua morte. A distanza di 26 anni, ancora rimane un mistero la ragione per cui Giovanni Falcone fu ucciso. Così come il mistero rimane per le sorti di Paolo Borsellino che, prima di essere dilaniato dal tritolo, attendeva di avere in mano la delega per Palermo: in tale modo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Diverse sono le testimonianze che attestano il suo interessamento, a partire da quando, nell’incontro riservato con Mori e De Donno per parlare dell’inchiesta, ribadiva la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – testimoniò Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». Ma ritorniamo a mafia- appalti. L’indagine dei Ros era nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che veniva informato delle indagini ancora prima che fosse redatto il dossier. Esattamente due furono le informative dei Ros che vennero consegnate a Falcone, ma anche a Lo Forte che era allora Sostituto Procuratore a Palermo: l’una datata 2 luglio 1990 e l’altra 5 agosto del 1990. Informative, soprattutto quella del 2 luglio, nelle quali erano contenuti espliciti riferimenti ad asserite cointeressenze, di natura illecita, di interi gruppi politici oltre che riferimenti a singoli esponenti di rilievo nazionale. Quindi non solo Falcone, ma anche Borsellino e i successivi altri suoi colleghi che si sarebbero occupati delle sorti dell’inchiesta mafia- appalti, erano a conoscenza del contenuto della prima informativa di carattere generale, che fu depositata proprio dietro volere di Falcone, in attesa di altri approfondimenti soprattutto in merito alla posizione dell’ente regionale Sirap che gestiva i soldi per gli appalti. Fu infatti in un momento successivo che i Ros, solo nell’informativa “Caronte”, approfondirono la posizione della Sirap nell’ambito dei fatti dell’inchiesta. In seguito alla prima informativa, vennero emessi solamente cinque mandati di cattura rispetto ai 44 personaggi coinvolti. Ed è in questo momento che si inserisce il geometra Li Pera, uno dei coinvolti nei fatti dell’indagine, che decise di collaborare con la giustizia. Ma, a detta sua, non venne ascoltato dai magistrati di Palermo. In effetti, noi de Il Dubbio abbiamo potuto verificare la circostanza nel provvedimento di archiviazione del Gip Gilda Loforti del Tribunale di Caltanissetta, dove viene confermata la denuncia che Li Pera espose al Sostituto Procuratore Felice Lima. Tra le denunce, anche il fatto che i magistrati di Palermo avrebbero fatto pervenire il rapporto dei carabinieri del Ros su mafia- appalti nelle mani degli avvocati, ancora prima che scattasse il blitz. Accusa che anche lo stesso carabiniere dei Ros De Donno fece nei confronti dei magistrati. Scaturirono querele vicendevoli e nell’ordinanza del Gip Loforti, dove entrambe furono riunite e finirono per essere archiviate, si legge: «Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati». Un’ordinanza che getta ombre, addirittura sull’ipotesi che gli inquirenti possano essere stati coinvolti per denaro o ragioni d’amicizia. Ora Giuseppe Li Pera vuole rinnovare le sue obiezioni e ha scelto di rispondere alle nostre domande: occorre rammentare a questo proposito che egli già altre volte, davanti agli inquirenti, aveva lamentato che la Procura di Palermo avesse usato con lui una mano più pesante rispetto a quella adottata nei confronti del suo titolare e dei suoi dirigenti, seppur a fronte del fatto che la maggior parte dell’impianto accusatorio fosse composto da intercettazioni telefoniche. No, ma solo dopo alcuni mesi, quando ebbi la certezza che la Procura non voleva sentirmi. Dopo il mio arresto avevo studiato le carte in mio possesso ed avevo deciso di mettere alla prova la buona fede dei Pm. Io partivo dall’assunto che era assurdo che i Pm avessero potuto separare la mia posizione da quello del mio titolare e dei miei dirigenti, e al primo interrogatorio di garanzia avevo predisposto una trappola. In quell’interrogatorio avevo citato la parola chiave “PASS”, che è il meccanismo della illecita spartizione degli appalti, e dissi a me stesso, se mi chiedono che cosa vuol dire il sistema dei PASS, chi e perché si usa, vuol dire che non hanno capito di cosa parla il Dossier dei Ros e quindi mi sarei messo a disposizione per chiarire tutto, se invece non mi chiedono cosa vuol dire PASS, significa che hanno fatto una scelta politica di proteggere i potenti sia essi imprenditori che politici e far volare solo gli stracci. Quando poi per due volte si rifiutarono di sentirmi ebbi la certezza che la loro decisione era irrevocabile.

Nel 1992 venne sentito dal Pm Felice Lima di Catania? Perché? Aveva fatto già qualche denuncia in quell’occasione?

«No. Feci mandare un esposto anonimo. Ricordo che di primo acchito il Pm Lima non era convinto della bontà delle mie affermazioni, cosicché io gli dissi “dottor Lima non si preoccupi, se lei non trova le prove di quanto io dico, ed io le dico quali prove cercare e dove cercarle, amici come prima”. Il dottor. Lima, ovviamente trovò tutte le prove necessarie, non solo, chiese anche l’arresto di 22/ 23 persone tra cui, se la memoria non mi inganna, anche di due Pm di Palermo, solo che l’allora Procuratore Capo di Catania gli levò la delega e lo mandò, da brillante Pm antimafia ad occuparsi di divorzi».

Lei fece una denuncia per corruzione in atti giudiziari nei confronti di quattro magistrati, uno tra i quali fu il Procuratore Giammanco. Ne scaturì un’indagine? È a conoscenza di quanto emerse in seguito?

«Certo, io ho sempre sostenuto e ne sono sempre più convinto che i Pm di Palermo decisero a tavolino chi processare e chi salvare. Per me neanche un chirurgo avrebbe potuto separare la mia posizione da quella del mio titolare e dei miei dirigenti. Ovviamente quando si ufficializzò la mia collaborazione con la Procura di Catania, i Pm di Palermo si scatenarono contro. Le potrei fare decine di esempi, ma gliene cito uno solo. I Pm di Palermo avevano chiesto in dodici diversi interrogatori a Leonardo Messina, dell’operazione “LEOPARDO”, se mi conosceva, e lui per ben dodici interrogatori affermò di non avermi mai visto, finchè qualche giorno dopo l’ufficializzazione della mia collaborazione con il dottor Lima, improvvisamente il Messina è folgorato sulla via di Damasco e dice testualmente: “Lo conosco e sono andato con lui a portare una tangente di 100 milioni di lire al capo mafia di Pietraperzia, ( ovviamente morto), per il lotto dell’autostrada per Pietraperzia, vinto dalla Rizzani de Eccher”. Va innanzitutto detto che non esiste un’autostrada per Pietraperzia, ma uno scorrimento veloce Caltanissetta – Gela ed era previsto uno svincolo per Pietraperzia. Ricordo che all’epoca dei fatti io ero il capocommessa più anziano in Sicilia della Rizzani de Eccher. Bene il signor Messina alla domanda del mio legale, il compianto avvocato Pietro Milio, che gli chiese in che anno avvenne questa dazione di denaro rispose a dicembre 1991. “Ma a dicembre 1991 il geometra Li Pera era già arrestato”, ribatté Milio. Rispose che allora è stato nel 1990. Ma quella gara non venne esperita che a giugno/ luglio 1991, quindi a che titolo si andava a pagare una tangente per un lavoro non ancora aggiudicato? Ma la cosa più umoristica è che la Rizzani de Eccher a giugno/ luglio si aggiudicò un lotto della Caltanissetta – Gela a 60 Km dallo svicolo di Pietraperzia. Chiaro che il tutto era stato imboccato al Messina con molta superficialità. Per rispondere, infine, alla sua domanda, sì in effetti ci furono due indagini, la prima fu archiviata e poi fu riaperta a seguito della denuncia dell’allora Capitano De Donno. La Gip dottoressa Gilda Loforti archiviò l’indagine dopo alcuni anni, ma la frase più gentile che usò nei riguardi dei suoi colleghi di Palermo fu “hanno indagato su se stessi e si sono autoassolti”».

In questi giorni ricorre l’anniversario della strage di Capaci. Una ventina di anni fa lei fu ascoltato dagli inquirenti e in un’occasione manifestò delle perplessità sulla dinamica, relativamente alla preparazione della strage, così come era stata riferita da Giovanni Brusca. A che titolo venne sentito dagli inquirenti?

«Volevano sapere se durante il periodo della mia detenzione avevo sentito notizie relative all’attentato, la mia risposta fu negativa».

Cosa non la convinceva nella dinamica della strage di Capaci, al punto da manifestare le sue perplessità pur a fronte alle ricostruzioni di Giovanni Brusca?

«Premetto che sono un discreto esperto di dinamite, avendo lavorato per tanti anni in Italia ed all’estero in cantieri in cui si utilizzava la dinamite per lo scavo di gallerie, di trincee, per l’apertura di cave etc., per cui posso tecnicamente affermare che quanto dichiarato da Brusca Giovanni, circa la preparazione dell’attentato, a mio modesto avviso, non è convincente».

Alla luce del suo coinvolgimento nella vicenda e sulla base delle sue conoscenze dei fatti e dello sviluppo dell’inchiesta mafia- appalti, conosce un qualche legame tra l’uccisione di Giovanni Falcone e la circostanza che stesse conducendo l’inchiesta e che volesse portarla in fondo?

«Io sono convinto che l’indagine su mafia- appalti non sia il vero motivo della strage “Falcone”, ci deve essere qualcosa di più grave e di più devastante per la vita della Repubblica Italiana. Le rivelo un particolare che pochi sanno. Il compianto avvocato. Pietro Milio stava scrivendo un libro, che purtroppo fu pubblicato dopo la sua morte con il titolo “Giustizia Assistita”. Bene, io ebbi l’occasione di visionare le prime bozze ed io collaborai anche alla stesura di un capitolo, quello relativo alla strage di Capaci, dove contestai pezzo per pezzo le affermazioni di Giovanni Brusca, grande fu la mia sorpresa nel vedere che nel libro pubblicato questo capitolo era sparito. Come era sparito il capitolo dove Milio si chiedeva cosa era venuta a fare l’Fbi, le sue testuali parole erano “l’Fbi è venuta a cercare le prove o è venuta a cancellarle?”»

Che lei sappia, con riguardo alla strage di Capaci, qualche potere, politico o giudiziario, poteva sapere o aver agito in favore della Mafia, anche inconsapevolmente, considerati gli interessi economici e politici in gioco?

«Io sono sempre stato convinto, e lo era anche il compianto avvocato Pietro Milio, che il ruolo della mafia in questa strage sia stata solo quella di esecutore, ma i mandanti sono altri. Lui parlava spesso di un collegamento tra la strage di Capaci, l’attentato al giudice Palermo, che trent’anni fa costò la vita ad una mamma ed ai suoi due gemellini, ed al fallito attentato dell’Addaura».

Scarpinato: «Non ci diranno mai cosa c’è dietro le stragi». Le parole del procuratore generale di Palermo, scrive Damiano Aliprandi il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  «È inquietante che ci sono tante, troppe cose, e quello che ancora più inquietante è che ci sono tante persone che sanno e che continuano a tacere. Perché?», ha detto il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato durante un incontro organizzato in occasione delle commemorazioni per ricordare i magistrati uccisi dalla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi fa i nomi. «I Graviano, ad esempio, hanno ancora 50 anni e potrebbero rifarsi una vita, eppure stanno in silenzio. C’è una storia inquietante anche da questo punto di vista». Eppure, non è del tutto vero. Anzi, adesso il silenzio è stato imposto dai pm antimafia. Il caso vuole che lo scorso 12 dicembre, Fiammetta Borsellino – figlia minore del giudice assassinato nell’eccidio di via D’Amelio, il 19 luglio ’ 92 – è andata a fare un colloquio con i fratelli Graviano al 41 bis, nei due penitenziari di massima sicurezza. Qualcosa le hanno detto. Giuseppe Graviano ha fatto un piccolo accenno a Berlusconi è di quando faceva la bella vita a Milano. «Lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi – ha lanciato lì a sorpresa – più che io era mio cugino che lo frequentava». Ma finisce lì, nessun riferimento alle stragi come forse altri ben speravano. Infatti la stessa Fiammetta non era minimamente interessata e ha cambiato discorso, perché quello che le premeva è la verità sull’omicidio di suo padre. A quel punto – grazie a un articolo del Corriere della Sera a firma di Giovanni Bianconi – veniamo a sapere cosa le rispose: «Lei ha fiducia della magistratura attuale? Come mai non hanno scoperto ancora chi ha ucciso la buonanima di suo papà?». Fino a diventare quasi aggressivo: «A nessuno interessa far emergere la verità della morte di suo padre, sono due cose distinte con la morte di Giovanni Falcone… A lei non interessa sapere chi ha ucciso suo papà… se qualcuno non era amico di suo papà… meglio morire e non far emergere la verità». Ma non solo, il fratello più grande, Filippo, dopo averle detto di essere estraneo alle stragi, dopo varie insistenze a dire la verità, le ha detto: «Io una volta ho detto ai magistrati “se dovessi dire la verità sulla mia vita passata… voi mi rimandereste in cella come per dire ci sta facendo perdere tempo”». I Graviano, quindi, hanno cominciato a parlare, dicendo qualcosa di diverso rispetto alla narrazione vigente. Cosa è accaduto? Le Procure antimafia di Palermo, Caltanissetta e Firenze, hanno detto «no» alla possibilità di un nuovo incontro tra Fiammetta Borsellino e Filippo Graviano, perché potrebbero essere possibili depistaggi. Ritornando alle affermazioni di Scarpinato, quindi no, i Graviano si stavano piano piano confidando con la figlia di Borsellino e i magistrati antimafia stessi hanno deciso che si tratta di depistaggio. Eppure, non si spiega come mai sono state usate per il processo sulla presunta trattativa Stato- mafia le intercettazioni ambientali fatte a Graviano, quando sapeva benissimo – anche in quel caso – di essere ascoltato. Fiammetta Borsellino, che ha appreso in via ufficiosa del no delle procure antimafia, ha lasciato questa dichiarazione: «Hanno ignorato la mia richiesta di un altro incontro e questa è la cosa peggiore che si possa fare». Sempre Scarpinato, durante il suo intervento, ripercorre anche altre tappe dolorose della storia d’Italia citando la strage di Portella della Ginestra del 1947 e di quella di Bologna, parlando, appunto, dei vari depistaggi messi in atto. Da lì, cita dei possibili documenti spariti e della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino e di possibili infiltrati nella Polizia. Da notare che, questa volta, non cita i Ros che pure li ha inquisiti, ma soltanto la polizia. Ma non cita nemmeno le preoccupazioni di Borsellino nei confronti di alcuni suoi colleghi e il suo interessamento su mafia- appalti, tanto da discuterne riservatamente con i Ros in una caserma, anziché in procura. Poi Scarpinato parla di Falcone e il fatto che sia stato ostacolato tanto da andarsene via da Palermo – a causa del suo interessamento dell’omicidio dell’allora presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, fratello del Capo dello Stato, Sergio. Vero, era interessato, anche perché Falcone era Procuratore aggiunto. Però Scarpinato si è dimenticato di dire che quelli erano gli stessi anni in cui Falcone seguiva attentamente l’inchiesta dei Ros su mafia- appalti che avrebbe colpito il cuore di Cosa nostra: ovvero i soldi derivati dalla gestione degli appalti, anche di rilievo nazionale, con l’ausilio anche di politici importanti. Inchiesta giudiziaria che come sappiamo fu poi archiviata definitivamente il 14 agosto del 1992, meno di un mese dalla morte di Borsellino. Quando quest’ultimo era ancora in vita, a chiederne l’archiviazione è stato lo stesso Scarpinato assieme al collega Lo Forte.

Lei però dica perché ha archiviato mafia- appalti (Se non è vero, smentisca). Scarpinato ha firmato la richiesta? Scrive Piero Sansonetti il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Il Procuratore generale Scarpinato, come sempre, pone dei problemi molto seri, che sarebbe sbagliato nascondere. Nella storia d’Italia ci sono dei buchi neri che riguardano le stragi rimaste senza colpevoli, e riguardano anche i rapporti che organizzazioni criminali come la mafia hanno avuto con l’economia. Sappiamo poco di questi argomenti. Naturalmente la storia d’Italia non è solo questo. Come spiega molto bene il dottor Peppino Di Lello nel suo intervento che raccontiamo ampiamente su questo numero del giornale, la storia d’Italia è fatta soprattutto di lotte, di movimenti, di conflitti, di battaglie parlamentari, di impegni dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari. Servono nuove indagini per capire cosa c’è dentro i buchi neri? Può darsi. Purché si facciano seriamente e sulla base di fatti reali e accertati, non di fantasie, di ipotesi letterarie e illogiche. Oppure di tesi politiche confezionate a tavolino per colpire qualche avversario. Cosa è successo davvero nel ’ 92 e nel ’ 93 quando furono uccisi Falcone e Borsellino e quando poi la mafia organizzò varie stragi nella Penisola? E perché furono uccisi Falcone e Borsellino? In questi giorni noi abbiamo pubblicato una ricostruzione di ciò che successe in quei mesi insanguinati. E soprattutto ci siamo occupati del dossier “mafia e appalti”, preparato dal generale Mori, sul quale lavorò Falcone e avrebbe poi voluto lavorare Borsellino. Che non fece in tempo. Perché fu ucciso. Quel dossier, fu archiviato pochi giorni dopo la morte di Borsellino. La sua archiviazione era stata chiesta pochi giorni prima della morte di Borsellino dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato. Perché? Fu un errore molto grave. Archiviando quelle indagini, alle quali Falcone teneva moltissimo, fu buttato a mare un pezzo molto importante dell’impegno antimafia dello Stato italiano. Oggi il dottor Scarpinato può dirci perché chiese quella archiviazione? Può spiegarci se ricevette pressioni? E perché il dossier non arrivò mai a Borsellino? Nessuno dubita della buonafede di Scarpinato, neppure lontanamente, ma se lui stesso sollecita trasparenza sarebbe giusto innanzitutto che fosse lui stesso a offrire trasparenza, no? Se invece non è stato lui a firmare la richiesta di archiviazione, allora temo che mi prenderò una querela. Ma a me risulta che fu lui a firmare.

Il “metodo Falcone”, scrive il 15 maggio 2018 su "La Repubblica" Attilio Bolzoni. Hanno lavorato con lui, fianco a fianco fin da quando ha iniziato ad ideare quel capolavoro d'ingegneria giudiziaria che è stato il maxi processo a Cosa Nostra. Con loro ce n'erano altri che non ci sono più - come Rocco Chinnici e i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà, o come Antonino Caponnetto e Antonio Manganelli - ma quelli che ritroverete qui lo possono raccontare ancora oggi. L'hanno incontrato tutti nel piccolo bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo, hanno visto nascere sulla sua scrivania le prime e più rilevanti indagini antimafia, hanno accompagnato per almeno un decennio la straordinaria avventura di un magistrato italiano. Dopo le celebrazioni fastose del venticinquesimo anniversario del 2017 per commemorare le vittime di Capaci e di via D'Amelio, un anno dopo vogliamo ricordare Giovanni Falcone attraverso voci che portano memoria diretta del giudice, del suo talento investigativo, della sua passione civile, della forza delle sue idee e - per riprendere le parole di Giuseppe D'Avanzo - dell'«eccentricità rivoluzionaria del suo riformismo». In questa pagina annunciamo il contenuto della serie del blog Mafie che ogni mattina è su Repubblica.it e che, da oggi e per quasi due settimane, è riservato a quello che tutti indicano come il "metodo Falcone”. Fuori dalla retorica e fuori da quell'enfasi che ha snervato e a volte anche sfregiato la figura di quello che è stato un "italiano fuori posto in Italia" (come lo sono stati Paolo Borsellino, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri caduti in Sicilia), queste sono testimonianze che ci ripropongono il Giovanni Falcone magistrato e la sua sapienza giuridica. Cosa era quello che poi è stato definito il suo "metodo”? Cosa ha inventato dalla fine degli anni '70 di tanto fondamentale in quella piccola stanzetta del tribunale siciliano? Come è cambiata - grazie a lui - la storia della lotta alla mafia nel nostro Paese nonostante le umiliazioni che ha dovuto subire da vivo e poi anche da morto? Ce lo spiegano una dozzina di personaggi, tutti rappresentanti delle istituzioni che nelle fasi più significative della sua esistenza gli sono stati molto vicini. Giudici, poliziotti, carabinieri, finanzieri, impiegati civili del ministero della Giustizia. Alcuni ci hanno offerto un contributo inedito, altri hanno preferito ripescare nei loro archivi un testo già dedicato al ricordo di Falcone e della sua attività. Ciascuno di loro ha raccontato un "pezzo” di una vicenda siciliana iniziata nei primi mesi del 1980 e in parte chiusa con le stragi del '92. Tante analisi per spiegare la “rivoluzione” avvenuta a Palermo. Nel piccolo bunker hanno avuto anche origine i reparti speciali investigativi italiani come lo Sco della Polizia di Gianni De Gennaro e il Gico della Finanza. E anche il Ros dei carabinieri. Proprio dalla visione ampia degli scenari mafiosi che aveva quel giudice e dalla necessità di oltrepassare con le indagini i confini provinciali, Falcone ha avuto l'idea di creare gruppi super-specializzati che potessero operare con grande libertà di manovra su tutto il territorio nazionale. Suo interlocutore principale nell'Arma, al tempo era il capitano Mario Parente, che poi del Raggruppamento operativo speciale ne è diventato il comandante. Una stanza di Tribunale che è stato un “laboratorio” della lotta alla mafia in Italia e che ha formato funzionari dello Stato che hanno dato grande prova di sé nei decenni successivi. Tra gli autori di queste testimonianze i magistrati del famoso pool (Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli), l'ex presidente del Senato Pietro Grasso che il maxi processo l'ha "visto” come giudice a latere della Corte di Assise, Giuseppe Ayala che ha sostenuto l'accusa. E il capitano della Guardia di Finanza Ignazio Gibilaro, oggi comandante delle Fiamme Gialle in Sicilia, l'ufficiale dei carabinieri Angiolo Pellegrini che insieme a Ninni Cassarà e Beppe Montana firmò il rapporto "Michele Greco+161” che diede origine al maxi processo, il giovane funzionario della Criminalpol Alessandro Pansa che negli anni a seguire sarà nominato prefetto e diventerà il capo della polizia italiana. C'è anche la preziosa testimonianza di Guglielmo Incalza, il dirigente dell'"Investigativa” della squadra mobile di Palermo, il primo poliziotto che ha collaborato con Falcone nell'indagine sugli Spatola e gli Inzerillo. Un articolo è firmato da Vincenzina Massa, giudice palermitana che ha iniziato la sua carriera come uditore proprio nella stanza di Falcone. Un altro ricordo è di Giovanni Paparcuri, il fidato collaboratore informatico del giudice che ha voluto un museo in onore di Falcone e Borsellino nei locali dove i due lavoravano. E' stato Paparcuri, qualche mese fa, a suggerirci di dedicare una puntata del blog al "metodo Falcone”. Una buona idea.

Quella “squadra speciale” nel bunker delle indagini, scrive il 16 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio Gibilaro - Generale della Guardia di Finanza. Nella tarda serata del 9 novembre 1983, il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo fece il suo ingresso in quella che sarebbe stata la sua casa per i successivi quattro anni, la “Caserma Cangialosi” della Guardia di Finanza. La scelta di alloggiare Antonino Caponnetto in un'austera foresteria militare era stata imposta dalla terribile eco dell’autobomba che pochi mesi prima aveva ucciso Rocco Chinnici, suo predecessore al vertice dell’Ufficio giudiziario palermitano. Ebbene, il destino (o forse la Provvidenza) volle che proprio tra le sicure mura dell’ex convento accadesse un episodio determinante per il futuro sviluppo di quello che diverrà “il metodo Falcone”. Infatti, nel dicembre di quell’anno, passeggiando nel chiostro dell’antico complesso domenicano, Caponnetto ed il colonnello Gaetano Nanula concordarono di dare concreta attuazione ad un’idea di Giovanni Falcone: distaccare presso i locali dell’appena costituito “pool antimafia” un piccolo nucleo di investigatori del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria che fossero in grado di procedere all’esame dell’enorme quantità di documenti bancari sequestrati nell’ambito di tutte le principali inchieste su Cosa Nostra. La richiesta di Falcone traeva origine dall’esperienza che il giudice aveva maturato allorchè, sul finire degli anni ’70, Rocco Chinnici gli aveva affidato l’istruttoria contro Rosario Spatola. Lo stesso magistrato ha più volte ricordato che proprio durante tale inchiesta, mentre ricostruiva il traffico di eroina gestito dalle famiglie mafiose tra la Sicilia e gli Usa, si era convinto che nelle banche dovevano pur essere rimaste delle tracce contabili delle ingenti somme scambiate e così, per “seguire il denaro”, diede inizio alle prime indagini bancarie nei confronti dei clan. Ma ben presto Falcone giunse all’ulteriore consapevolezza che gli esiti dell’incrocio dei flussi bancari con le risultanze delle tradizionali indagini di polizia e con le dichiarazioni dei “pentiti”, dovevano essere ulteriormente integrati con delle approfondite investigazioni sui reticoli patrimoniali e societari riconducibili ai criminali ed ai loro insospettabili prestanomi. Da qui la consapevolezza che, per essere efficaci, le attività di acquisizione, analisi e rielaborazione di tali enormi masse di dati dovevano essere condotte in modo sistematico ed organico, avvalendosi di personale altamente qualificato. Fu proprio in tale prospettiva che, nei primi giorni del gennaio 1984, i marescialli Angelo Crispino e Paolo Scimemi si insediarono a pochi metri dall’ufficio di Falcone, nello stanzone in cui era stata accatastata un’impressionante montagna di documenti contabili, verbali di interrogatori e rapporti di polizia. Nel giro di poche settimane i due sottufficiali furono raggiunti da altri finanzieri, finendo con il costituire una vera e propria “squadra speciale” che, da quel momento in poi, lavorò fianco a fianco dei giudici istruttori dello storico pool sino al suo definitivo scioglimento. Questi militari vennero inizialmente selezionati tra gli esperti della “Sezione Economia e Valuta” del Nucleo di Palermo ed operarono sotto la direzione di un vero segugio dell’antiriciclaggio, il capitano Carmine Petrosino. Successivamente la responsabilità della squadra fu attribuita a me, giovane capitano che avevo già collaborato con diversi autorevoli magistrati di Torino, Milano e Palermo in una serie di indagini concernenti un imponente traffico di eroina proveniente dalla Turchia e destinata all’Europa ed agli USA. Ebbene, proprio in concomitanza del cambio di comandante, la squadra del pool divenne parte integrante di quella “Sezione Indagini Economico-Fiscali Criminalità Organizzata” che è stata la prima unità specializzata creata dalla Guardia di Finanza per il contrasto alla criminalità mafiosa, nonché la storica progenitrice degli attuali G.I.C.O. e S.C.I.C.O.. In breve tempo il team investigativo assunse il ruolo di propulsore delle attività di polizia svolte sul campo dagli altri componenti della Sezione, trasformandosi anche in una sorta di cinghia di trasmissione tra i giudici istruttori palermitani e tutti i reparti del Corpo progressivamente lanciati sulle tracce del black money, in Italia ed all’estero. Fu così realizzato un immane lavoro di ricostruzione della multiforme ragnatela di rapporti patrimoniali e societari che avviluppava coloro che venivano progressivamente individuati come “soldati” o “capi militari” dell’organizzazione mafiosa; i magistrati furono pertanto in grado di “cementare” con immodificabili prove documentali le ben più volubili dichiarazioni testimoniali, giungendo anche all’individuazione di nuove filiere di soggetti (talora del tutto insospettabili) legati agli “uomini d’onore” da non più negabili interessi affaristici. Un mero dato numerico può forse esemplificare la straordinaria rilevanza delle indagini economico-finanziarie svolte: ben 4 dei 40 volumi dell’ordinanza di rinvio a giudizio del “I° Maxi processo” sono costituiti dagli esiti delle indagini bancarie e 19 degli ulteriori 22 volumi di allegati sono composti dalla relativa documentazione. Concludendo questo personale ricordo della “squadra silenziosa” di giovani Fiamme Gialle che ho avuto il privilegio di comandare, mi permetto di riportare alcune frasi tratte da una lettera scritta da Giovanni Falcone il 6 novembre 1989: “Nel lasciare il mio incarico di Giudice Istruttore sento di esprimere il mio più vivo apprezzamento per la preziosa collaborazione svolta in questi anni dai militari del Nucleo Regionale P.T. di Palermo distaccati presso questo Ufficio. Senza l’apporto della Guardia di Finanza non sarebbe stato possibile effettuare complesse e numerose indagini bancarie e patrimoniali che hanno contribuito a far ottenere notevoli risultati giudiziari. Tali indagini, svolte nell’ambito di importanti procedimenti contro la criminalità organizzata, hanno posto in evidenza l’elevata professionalità dei militari operanti e, tenuto conto della notevole pericolosità sociale dei soggetti nei confronti dei quali sono state effettuate, il loro alto senso del dovere e spirito di sacrificio”.

Un uomo e un cambiamento epocale, scrive il 17 maggio 2018 su "La Repubblica" Alessandro Pansa - Prefetto della Repubblica. L’arricchimento del mio bagaglio professionale grazie all’esperienza che mi ha visto collaborare con Giovanni Falcone in molte inchieste di particolare rilievo, specie sul piano internazionale, è stato enorme. L’esperienza umana forse lo è stata anche di più, ma questa resta nella sfera personale che conservo come mio ricordo. Le inchieste del giudice Falcone, pur avendo come campo di analisi il mondo del crimine, coinvolgevano direttamente anche quello della criminalità economica. In tale contesto venivano alla luce costantemente intrecci, sovrapposizioni o identificazioni di interessi occulti, che facevano capo a centrali d’intermediazione tra realtà politica o economica con quella criminale. Appariva evidente come la presenza della criminalità organizzata in settori economici ed in ambienti politico-istituzionali determinasse, come conseguenza indotta, un inquinamento progressivo non solo del tessuto economico locale, ma anche del contesto sociale e della vita pubblica. In quegli scenari tre erano gli attori principali che comparivano: personaggi della politica locale e non, esponenti del mondo economico e di quello criminale. Alcune volte i tre insiemi cooperavano tra loro, altre volte solo alcuni di essi agivano congiuntamente. La storia della criminalità di questo Paese, in aggiunta a quella di alcune vicende del mondo dell’imprenditoria nazionale, ha portato alla luce una realtà che consente di individuare il collegamento tra mondi diversi nella presenza di agenti che facilitano o rendono possibile l’incontro tra le parti. Come già dalle prime inchieste degli anni '80 sul mercato della droga, che vedeva Palermo al centro del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti, il ruolo di quegli agenti emergeva nella duplice veste sia di supplenza alla carenza di quella professionalità di cui Cosa Nostra aveva bisogno per muoversi nei mercati internazionali, sia di riduzione dell’asimmetria informativa che grava sulla criminalità organizzata. Complessi e profondi, e per certi versi sorprendenti, emersero gli intrecci che in quegli anni il crimine organizzato era riuscito a tessere nell’ambito del sistema economico e finanziario, rendendo la distinzione tra il legale e l’illegale sempre più difficile e sfumata. Tutto questo Giovanni Falcone lo aveva prima intuito, attraverso l’attenta lettura di fascicoli processuali, e poi lo aveva dedotto dagli eventi ricostruiti nel corso delle indagini. Lo aveva documentato in diverse occasioni con atti processuali ed alla fine il tutto era stato cristallizzato in giudicati, a cui si era giunti partendo proprie dalle sue istruttorie. Oggi si discute con facilità di indagini patrimoniali, del sequestro dei beni, delle misure antiriciclaggio. Bene: credo che tutto questo insieme di strumenti, fondamentali nella lotta alla mafia e basilari per gran parte dei successi più importanti conseguiti sino ad oggi in questo campo, sono frutto dell’esperienza operativa di Giovanni Falcone e di coloro che hanno da lui appreso e con lui sperimentato quelle vie dell’investigazione. Seguiva le piste dell’inchieste passo passo, anche all’estero, studiando prima di partire gli ordinamenti penali e civili di quei paesi per poter nel modo giusto chiedere informazioni, dati e documenti utili alle istruttorie italiane. Nel lavoro d’indagine di Giovanni Falcone, l’esigenza di confrontarsi di continuo con una realtà multiforme e sommersa, insieme all’esigenza di preservare l’attitudine a comprendere le dinamiche criminali ed a seguirle, anche per tempi lunghi, nel loro evolversi, ha portato a sviluppare competenze che sono divenute parte integrante delle metodologie investigative più moderne. L’insegnamento che è venuto dal lavoro svolto da Giovanni Falcone e l’esperienza maturata nell’averlo affiancato in diverse inchieste rappresentano quello che viene definito il “metodo Falcone”. Seguire le tracce, specie quelle dei soldi, collegarle tra loro attraverso documenti, testimonianze, accertamenti bancari o altre acquisizioni probatorie. Ma questo non bastava, bisognava interpretare ognuno dei passaggi individuati: attraverso le regole comportamentali che caratterizzavano l’ambiente in cui si collocavano, attraverso la mentalità ed il codice non scritto dei mafiosi quando essi operavano direttamente oppure attraverso la prassi che caratterizzava le operazioni e gli operatori che la mafia utilizzava consapevolmente e non. Anche quando l’accertamento o quanto accertato diventavano ripetitivi nel tempo non bisognava mai dimenticare che tutto ciò consentiva di affrontare, per analogia o per esclusione, quegli scenari criminali che stavano cambiando e che facevano riferimento a regole comportamentali nuove e mai prima individuate. I confini tradizionali delle indagini sulla criminalità, in tempi rapidi, si dissolsero, aprendosi ad orizzonti nuovi in varie parti del mondo ed a livelli impensati. Da un lato, la criminalità italiana estendeva i propri tradizionali confini di attività utilizzando strategie eterogenee, stringendo alleanze nuove e cimentandosi in ambiti operativi di norma non di loro interesse. Dall’altro le organizzazioni criminali di altri paesi ampliavano il loro raggio d’azione e soprattutto intrecciavano i loro interessi con quelli delle cosche dell’Italia meridionale. I fenomeni emergenti potevano spiazzare l’investigatore tradizionale, ma non Giovanni Falcone e chi seguiva le sue metodologie di lavoro. L’analisi economica del crimine, sulla scorta dell’esperienza di Giovanni Falcone, produceva, infatti, una serie di risultati che permetteva di comprendere la natura e la meccanica delle relazioni pericolose che possono instaurarsi tra crimine organizzato, da un lato, e dinamiche della produzione e degli scambi, reali e finanziari, dall’altro lato. Grazie a questo metodo, che non va confuso con la mera indagine di tipo finanziario, si poteva scoprire che il crimine organizzato non inquina solo il versante bancario e finanziario, ma anche il versante reale del sistema economico, e forse con danni ancora più gravi, misurabili non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi: impoverimento e imbarbarimento del sistema. Con grande agilità e pervasività, i membri delle organizzazioni criminali si muovevano nell’ambito dell’economica legale, reale e finanziaria, proponendosi non solo per la loro capacità di violare l’ordine costituito, ma come fonte autonoma di norme e regole alternative a quelle democratiche. Il mafioso non si accontentava di infrangere la legge, ma provava sempre a proporsi come soggetto regolatore, che produce fiducia in alternativa a quella legale che assicura il sistema attraverso gli strumenti democratici. Forse una riflessione tardiva, quando ormai non mi occupo più di attività investigativa, mi consente meglio che in passato di comprendere quando quel periodo di collaborazione sia stato fecondo. Si è trattato di un periodo di grandi cambiamenti nell’approccio alle inchieste contro le associazioni mafiose che, a seguito della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e grazie a loro è divenuto un vero e proprio cambiamento epocale. Sintesi tratta da Il profumo della libertà Edizione 2011 Ministero della Gioventù

Le geniali intuizioni di un giudice, scrive il 18 maggio 2018 su "La Repubblica" Giuseppe Ayala - Magistrato, negli anni '80 sostituto procuratore della Repubblica di Palermo e pm al maxi processo a Cosa Nostra. Per comprendere meglio il significato e l’importanza del cosiddetto “metodo Falcone” è opportuno riflettere brevemente sui significativi mutamenti intervenuti, a partire della seconda metà degli Anni Settanta, nell’universo del crimine mafioso. I principali sono tre: l’ingresso massiccio dell’organizzazione nel traffico, anche internazionale, di stupefacenti; l’inedito attacco diretto alle Istituzioni, concretizzato dalle uccisioni di suoi esponenti vittime dell’adempimento del dovere in contrasto con gli interessi mafiosi e lo scoppio della cosiddetta “guerra di mafia” nel 1981. Cosa nostra, rompendo una lunga tradizione, usciva dalla clandestinità e accendeva i riflettori rendendosi drammaticamente visibile. A nessuno era più consentito riproporre il vecchio interrogativo: “Ma siamo sicuri che la Mafia esiste?”. A quel tempo, peraltro, neanche nel codice penale italiano era rinvenibile la parola “mafia” Per trovarla bisognerà attendere il 29 settembre 1982, data dell’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre con il suo inedito art. 416-bis (associazione di tipo mafioso). Incredibile, ma vero, si dice in questi casi. Giovanni Falcone prese servizio all’ Ufficio Istruzione di Palermo sul finire degli Anni Settanta. Nel 1980 il capo di quell’ Ufficio, Rocco Chinnici, gli affidò un processo che riguardava un traffico di stupefacenti gestito da esponenti dell’organizzazione mafiosa. Nell’istruirlo Falcone maturò il primo pezzo della sua visione innovativa. Inutile inseguire la droga che spesso non lascia tracce. Quello che, invece, le lascia di sicuro è il denaro collegato a quel traffico. Così nacque il famosissimo “follow the money,” destinato ad assicurare successi giudiziari sino ad allora impensabili. Ne offro una testimonianza. Lavorammo assieme alla cosiddetta “Pizza connection”, un enorme traffico di eroina tra la Sicilia e gli USA che coinvolgeva esponenti mafiosi di entrambe le sponde dell’Atlantico. Sostenni l’accusa e ottenni pesantissime condanne senza che nemmeno un grammo di eroina fosse mai stato sequestrato. La documentazione bancaria certosinamente raccolta da Falcone si risolse in un impianto probatorio inespugnabile per la difesa. Come ho già accennato, l’aumento assai significativo dei delitti di matrice mafiosa comportò un pari incremento dei fascicoli processuali che li riguardavano. La loro “veicolazione” all’ interno dei vari uffici giudiziari continuava, però, a seguire l’ordinaria prassi, per cui, per esempio, era del tutto normale che un giudice istruttore lavorasse ad uno di questi senza sapere nulla di quanto stesse facendo il collega della porta accanto impegnato nella trattazione di un fascicolo riguardante un altro delitto di analoga matrice. Falcone si rese conto che, così stando le cose, non si andava da nessuna parte per la semplice ragione che ciascuno dei delitti mafiosi altro non rappresentava che la manifestazione criminale di una logica associativa. C’era, insomma, qualcosa che, pur nella loro diversità, li accomunava. Una sorta di “fil rouge” che li legava e che, di conseguenza, li rendeva diversi da tutti gli altri, ma tra loro omogenei. Ritenne, insomma, necessario compiere un salto di qualità verso quella che definì la necessità di procedere verso una “visione unitaria del fenomeno mafioso”. L’unico modo possibile per realizzarla fu quello di procedere alla riunione di tutti i fascicoli processuali che riguardavano i delitti di mafia. Un accentramento delle conoscenze orientato verso l’individuazione dell’immanente “fil rouge.” Col senno di poi può sembrare una svolta ovvia e scontata. Col senno di prima, però, nessuno ci aveva mai pensato. Fu una vera e propria rivoluzione destinata ad assicurare successi giudiziari sino ad allora inimmaginabili. La riunione di tutti i fascicoli processuali concernenti i delitti mafiosi comportò la nascita di una sorta di enorme monolite giudiziario che nessun giudice istruttore da solo avrebbe mai potuto portare avanti. Neanche se possedeva la straordinaria capacità di lavoro di Falcone. Solo una squadra capace e ben affiatata poteva farcela. Nacque così il mitico “pool antimafia.” Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello, con la sapiente guida di Antonino Caponnetto, successore di Rocco Chinnici, ne furono i primi protagonisti. L’ ultimo “tocco” voluto da Falcone, per rendere ancora più efficace il suo “metodo,” fu quello di coinvolgere, sin dalla fase istruttoria, almeno un pubblico ministero per metterlo, così, nelle migliori condizioni di sostenere l’accusa davanti ai Giudici del dibattimento. Il fatto che la scelta sia caduta sul sottoscritto poco importa. La circolazione informativa di ogni risultato acquisito divenne la regola. Si scoprì, così, per esempio, che ciò che appariva non rilevante nell’ambito di un determinato fascicolo, lo era invece in relazione ad altra e diversa, ma pur sempre collegata, vicenda processuale. I risultati delle indagini di un’eccellente polizia giudiziaria e gli ulteriori approfondimenti istruttori possiamo paragonarli alle tessere di un mosaico. Il problema era che, sino ad allora, mancando la configurazione dei contorni di ciò che nel loro complesso quelle tessere avrebbero dovuto rappresentare, non si capiva dove e come collocarle. La “visione unitaria” voluta da Falcone, e il successivo inedito contributo dei collaboratori di giustizia, consenti di superare quel limite. Ogni tessera trovò la sua precisa collocazione. Il “quadro” che ne conseguì risultò, finalmente, chiaro e completo. Così nacque una grandiosa opera d’arte giudiziaria: il maxiprocesso. La prima vera vittoria dello Stato e la prima vera sconfitta di Cosa Nostra. Per quella definitiva restiamo, purtroppo, ancora in attesa.

Le prime indagini sui grandi misteri di Palermo, scrive il 19 maggio 2018 su "La Repubblica" Guglielmo Incalza - Dirigente della sezione "Investigativa” della Squadra Mobile di Palermo nel 1980 e nel 1981. Il 7 gennaio 1980, il giorno successivo al brutale assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella – si erano già evidenziati nel corso dell'anno precedente segnali di una forte e violenta recrudescenza mafiosa con gli omicidi del giornalista Mario Francese, del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina, del vice questore di polizia e capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, del Consigliere Istruttore del Tribunale Cesare Terranova e del maresciallo di pubblica sicurezza. Lenin Mancuso –, sono stato designato a capo della Sezione Investigativa ed Antimafia della Squadra Mobile palermitana. Ebbi così modo non solo di conoscere, ma di frequentare con assiduità il compianto Giovanni Falcone al quale, nel maggio dello stesso anno, era stato assegnato dal Conigliere Istruttore del Tribunale Rocco Chinnici, il procedimento penale sulla prima grande inchiesta degli anni '80, più nota come processo su “Mafia e Droga”, originata dal rapporto di denunzia della Squadra Mobile di Palermo contro Spatola Rosario + 54, tutti ritenuti essere responsabili di associazione per delinquere mafiosa e dedita al traffico internazionale di stupefacenti. Su tale rapporto giudiziario molto è stato già scritto ed è ampiamente noto, in particolare sulla ferma e decisa determinazione del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, barbaramente poi ucciso dalla vile mano mafiosa nell'agosto dello stesso anno 1980, a pochissimi mesi dall'essersi assunto, in perfetta solitudine ed in evidente e plateale disaccordo dei suoi sostituti, la responsabilità di firmare “da solo" i relativi provvedimenti di cattura nei confronti di tutti i denunziati, noti esponenti di una delle più influenti “famiglie “ mafiose italo-americane, quella dei Gambino, Spatola ed Inzerillo, la maggior parte dei quali  legati tra loro da stretti vincoli di parentela ed implicata, tra le altre svariate attività delittuose, principalmente in un imponente traffico di eroina che, partendo dalla Sicilia, aveva gli Stati Uniti d'America come destinazione finale. All'incirca alla fine del maggio dell'80 dunque, fui convocato dal questore pro-tempore ed invitato, mi si disse, su specifica richiesta del dottor Chinnici, a mettermi a disposizione, con tutti i componenti della mia sezione investigativa, del dottor Falcone, che da poco tempo ricopriva l'incarico di giudice istruttore della VI Sezione penale e cui intanto era stato assegnato il fascicolo del processo “Spatola” dopo che la Procura della Repubblica ne aveva richiesto la formalizzazione. E' opportuno evidenziare che il rapporto giudiziario all'origine di tale inchiesta, costituiva la risultanza di due filoni investigativi, quello come sopra detto del traffico di droga, individuato attraverso alcune mirate intercettazioni telefoniche sui componenti della consorteria mafiosa dei succitati Spatola/Inzerillo/Gambino con le sue diramazioni americane (ma anche di  appartenenti ad altre “famiglie” palermitane come ad esempio Vittorio Mangano della “famiglia di Porta Nuova”, più noto poi come lo “stalliere” di Arcore ) e quello messo in luce dalle indagini svolte dal Centro Criminalpol di Palermo sul rapimento simulato del finanziere siculo-americano Michele Sindona, gestito e condotto sin dalla sua prima fase in territorio americano, fino alla sua permanenza in clandestinità a Palermo e la sua successiva riapparizione sul suolo americano, ad opera di componenti dello stesso clan mafioso che contava negli USA sugli strettissimi collegamenti con una delle più potenti ed agguerrite tra le 5 “famiglie” americane, quella capeggiata per l'appunto dal Capo dei Capi Charles Gambino. Imponente ed arduo apparve certamente il compito di portare avanti una istruttoria così vasta e frammentata tant'è che lo stesso Falcone, successivamente alla emissione della sua sentenza-ordinanza del 25 gennaio 1982 di rinvio a giudizio di Spatola Rosario +119 per associazione aggravata di tipo mafioso e per traffico internazionale di stupefacenti, ebbe a dichiarare ad alcuni giornalisti della carta stampata: “... La mafia, vista attraverso il processo Spatola, mi apparve un mondo enorme , smisurato , inesplorato...”. Ed anche per questo, ritengo, che il Consigliere Chinnici, nell'assegnare a suo tempo a Falcone il relativo fascicolo processuale, avesse formulato al Questore una cortese ma ferma richiesta di fornire una collaborazione investigativa più corposa del solito, per la complessità dell'istruttoria stessa. Quest'ultima, dunque, portata avanti con la ferma, caparbia ed assai innovativa guida di Giovanni Falcone, non solo confermò le responsabilità dei soggetti denunziati, ma mise in luce numerose altre complicità, sia nel traffico della droga, ma anche nella partecipazione e nella conduzione del finto sequestro di Michele Sindona, oltre che a porre le basi di successive grandi operazioni di polizia sul territorio nazionale, come quella nota col nome di “ San Valentino”, condotta a  Milano sul riciclaggio dei narcodollari ad opera di noti imprenditori locali (immobiliaristi, ma anche finanzieri e liberi professionisti ) e personaggi mafiosi collegati al gruppo Spatola. La frequentazione di  tutti costoro ( tra i quali anche un noto latitante mafioso palermitano come poi verrà accertato) in un  ufficio milanese di via Larga 13, cui facevano capo numerose società ombra riconducibili ai predetti personaggi, era  stata evidenziata dal traffico telefonico delle intercettazioni condotte dal mio ufficio ( in specie alcune conversazioni del Mangano Vittorio con uno tra gli Spatola inquisiti ), e lasciato chiaramente sottintendere alla consumazione di losche attività. A seguito dell'emissione di un decreto di perquisizione di Falcone e dell'esito della relativa operazione di polizia giudiziaria effettuata da personale della mia sezione investigativa, vennero quindi acquisiti importanti indizi di un imponente riciclaggio dei proventi criminali del traffico di narcotici che, confermati da una breve ma intensa rogatoria dello stesso Falcone a Milano,  divennero la base per la prosecuzione delle indagini  meneghine poi  culminate per l'appunto col blitz di San Valentino del 14 febbraio 1983. Relativamente al cosiddetto “metodo Falcone”, cui spesso si fa riferimento, per il modo di condurre le sue attività istruttorie sulle organizzazioni mafiose, ritengo che quel metodo si sostanzi semplicisticamente nel suo essere perseverante e dotato di una grande ed infaticabile capacità lavorativa oltre che di un eccezionale intuito. Tali sue doti lo portavano a considerare che solo assumendo la effettiva direzione delle indagini, cosa inconsueta al tempo della vigenza del vecchio codice di procedura penale, ed a confrontarsi direttamente con i responsabili degli uffici e comandi operativi delle tre principali forze di polizia (delegando di volta in volta le attività di indagine in un rapporto di effettiva e costruttiva sinergia), si potessero raggiungere risultati apprezzabili. Il giudice Falcone era, ancora, convinto, proprio tenuto conto degli scarsi risultati giudiziari sin allora raggiunti nell'individuazione degli autori dei singoli delitti di mafia, soprattutto a causa del senso diffuso di una persistente omertà, che bisognasse capovolgere il metodo d'indagine sin allora seguito, cercando prima di mettere in luce e far emergere il vincolo associativo con le sue varie sinapsi, per poi ricollegarvi i singoli e specifici delitti  che sarebbero altrimenti apparsi scollegati. La percezione, poi, dell'esistenza in Sicilia di laboratori per la raffinazione della morfina base in eroina (peraltro poi avvalorata dall'individuazione di uno di essi nell'agosto dello stesso anno in una villa di Villagrazia di Carini), lo portò ad una grande intuizione e, cioè, che all'enorme flusso della droga verso gli Stati Uniti dovesse necessariamente corrispondere un altrettanto enorme flusso di valuta americana a compensazione. In pratica ...la scoperta dell'uovo di Colombo, solo che nessuno ci aveva pensato prima. La sua precedente esperienza di giudice fallimentare gli venne certamente d'aiuto e pertanto dispose una serie di accertamenti bancari mediante ordinanze di esibizioni di distinte di versamento per cambio di valuta USA, libretti di risparmio, documentazione di conti correnti e di assegni con la individuazione del nominativo dei firmatari e beneficiari degli stessi. Alle iniziali reticenze nella esecuzione dei provvedimenti da parte di alcuni istituti bancari, come nel caso di una Cassa Rurale ed Artigiana dell'hinterland palermitano, fu necessario procedere direttamente, facendovi irruzione, Falcone stesso in testa, allo scopo di costringere alla collaborazione ed alla esibizione immediata della documentazione richiesta. Come dimenticare la sua incessante e meticolosa ricostruzione dei collegamenti che riusciva ad individuare attraverso la visione della gran mole delle distinte di cambio di dollari e degli assegni che, numerosi, inondavano la sua scrivania? Armato di santa pazienza, registrava a penna all'epoca i computer erano oggetti pressocchè sconosciuti) singole schede dei personaggi coinvolti, su cui annotava sia gli estremi dell'operazione effettuata che il nominativo dei soggetti comunque implicati nel rapporto bancario, per poter poi procedere alle verbalizzazioni delle dichiarazioni ed alle contestazioni di quanto riscontrato. Ricordo al riguardo un episodio altamente significativo della pericolosità di tale consorteria criminale. Una mattina, regolarmente convocato in Tribunale, si presentò nell'ufficio di Falcone il noto Michele Greco detto il “Papa” per rendere conto, me presente, della natura dei suoi rapporti con il capo mafia Stefano Bontate, il “principe” del quartiere palermitano d Villagrazia, rapporti rilevati dallo scambio tra di loro di alcuni assegni per rilevanti importi. Alle domande sempre più incalzanti del giudice, il Greco (indicato poi dal noto collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta come il capo della “Cupola” mafiosa siciliana, anche se sottomesso ai diktat del sanguinario boss corleonese Totò Riina) ebbe improvvisamente ad inalberarsi e, con fare oltremodo stizzito ebbe a fare un vero e proprio sermone, quasi pontificando con fare ieratico e lanciando velate minacce. Alla fine dell'interrogatorio, licenziato il teste, con Falcone ci guardammo sgomenti negli occhi, concordando sul fatto che l'atteggiamento e le parole del Greco sottintendevano un vero e proprio classico avvertimento mafioso. Il giudice, tuttavia, alla mia osservazione sul perchè mai non avesse provveduto a richiedere nell'immediatezza l'intervento del Pubblico Ministero per la contestazione di reato, mi fece rilevare l'inutilità di tale iniziativa, giacchè non si sarebbe mai potuto riscontrare in giudizio alcun chiaro elemento di colpevolezza, essendo state le minacce mai palesemente esplicitate. Gli feci comunque presente che di quanto accaduto avrei immediatamente riferito al Questore con relazione scritta per le opportune valutazioni della vicenda e, provveduto in tal senso, fui incaricato di assicurare temporaneamente la sua sicurezza, in attesa della costituzione di un ufficio scorte, all'epoca inesistente, con gli stessi uomini della mia Sezione investigativa, che già si occupavano a tempo pieno dell'attività di supporto alla indagine istruttoria. E come non porre in risalto la sua capacità di dialogare con i suoi colleghi di altre sedi giudiziarie, interessate anch'esse da attività delittuose di tipo mafioso, nel tentativo di convincerli a riconoscere la unicità di tale fenomeno criminale e la centralità di Palermo come sede dei vertici mafiosi, al fine di concentrare nel capoluogo siciliano anche le indagini che avevano riferimento alle sue propaggini al di fuori della Sicilia? Non sempre fu ascoltato ed anzi, fu anche da taluni aspramente criticato. Molti di loro, però, credo che nel tempo si siano ravveduti. La sua passione ed il suo impegno personale, non disgiunto dalla sua ferrea determinazione a portare avanti la sua attività di qualificato contrasto al crimine organizzato, lo portò anche a richiedere ( ed ottenere ) non solo la collaborazione degli organismi centrali operativi delle tre principale forze di Polizia, ma anche quella preziosissima della Drug Enforcement Administration e del Federal Bureau of Investigation, rispettivamente l'agenzia federale antidroga e  la polizia federale investigativa, entrambe americane. L'aver mantenuto con i suoi rappresentanti di vertice un'attiva e duratura collaborazione in costanza di rapporti di vera stima e considerazione, gli valsero, post mortem, un tributo di riconoscenza e di onore al suo valore senza eguali, costituito dal collocamento di una statua col suo busto nel cortile principale del quartier generale della F.B.I. a Washington. Concludo questo ricordo di Giovanni Falcone, della sua figura di grande magistrato e dell'uomo da me conosciuto e frequentato nel corso del mio affiancamento alla sua attività istruttoria nel primo grande processo contro Cosa Nostra, affermando di aver tanto imparato da lui e non solo dal punto di vista professionale. Abbiamo via via, approfondito la nostra conoscenza, particolarmente in occasione delle poche ore lasciate libere dagli impegni delle varie rogatorie effettuate insieme, anche al di fuori della Sicilia, quando talvolta, prima o poco dopo cena, ci si lasciava andare a liberi pensieri ed egli appariva nello splendore del suo gran sorriso, a volte anche canzonatorio e di gradevole sarcasmo con le sue battute al fulmicotone. La continua frequentazione tra di noi, soprattutto in ambito lavorativo, mi valse persino l'epiteto di “Falconetto” con cui all'epoca mi indicava a mo' di sfottò l'amico e collega Ninni Cassarà, che era a capo della sezione Omicidi della squadra mobile e poi succedutomi all'Investigativa a seguito del mio trasferimento da Palermo. Non potrò mai dimenticare di una sera dell'inverno 1980/81. Insieme ad un mio collega della Criminalpol e ad alcuni Ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza - lo avevamo accompagnato a Milano per procedere ad una importante rogatoria con l'assunzione a verbale delle dichiarazioni testimoniali di alcuni noti personaggi, tra i quali il noto banchiere Enrico Cuccia, ognuno di essi legato per alcuni versi alla vicenda del rapimento simulato del faccendiere Sindona. A sera, eravamo in un albergo di Milano e, mentre dopo cena e prima di ritirarci nelle rispettive camere eravamo sprofondati in alcune poltrone della hall, Falcone, sorseggiando un whisky, a conclusione di alcune valutazioni sull'andamento della istruttoria del processo, ebbe a dire chiaramente di essere cosciente del fatto che la mafia lo avrebbe ucciso, ma che bisognava comunque andare avanti continuando a fare il proprio dovere. Che dire di più? Dico solo che sento ancora i brividi al ricordo di queste sue parole che manifestavano chiaramente la sua consapevolezza del grande rischio cui andava incontro. E' inutile dire che il pomeriggio del 23 maggio 1992 la drammatica notizia, appresa a Roma telefonicamente, mi provocò una intensa emozione e non riuscii a frenare le mie lacrime e la mia disperazione.

Io, uditore nella stanza del dottor Falcone, scrive il 20 maggio 2018 su "La Repubblica" Vincenzina Massa - Magistrato di Palermo, nel 1980 uditore nell'ufficio del giudice istruttore Giovanni Falcone. Accompagno mia nipote di dieci anni a visitare il Museo Falcone e incontro Giovanni Paparcuri (che si occupa con grande passione della gestione del Museo e di organizzarne le visite guidate), il quale nel percepire una mia conversazione con la bambina apprende che ero stata uditore del giudice Giovanni Falcone e mi chiede di entrare in contatto con Attilio Bolzoni, che cura un blog, nel quale a breve si dibatterà sul “metodo Falcone”, per offrire un mio contributo conoscitivo. Perplessa, tentenno non avendo mai dismesso in tanti anni quell’atteggiamento di assoluto e quasi religioso riserbo col quale ho ritenuto di dover custodire le mie preziose memorie del periodo nel quale ebbi il privilegio di incontrare il Giudice Giovanni Falcone, ma alla fine, trovandomi in un momento particolare della mia vita professionale, sulla soglia del pensionamento anticipato (compirò a breve 63 anni), mi lascio tentare dal bisogno di rivisitarle proprio nel momento conclusivo della mia carriera. Già prima di giurare (sono stata nominata con Decreto Ministeriale del 13. 5.1980), ero stata presentata fuori dal Palazzo, e gli avevo fatto poi una visita deferente in ufficio, al Procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, che nell’agosto di quello stesso anno sarebbe stato vittima di un vile agguato mafioso. Lo “zio Tano”, com’era affettuosamente chiamato dai parenti di un mio ex fidanzato dell’epoca, che gli erano particolarmente vicini e che me lo avevano fatto incontrare, era un gentiluomo di vecchio stampo, piccoletto, ma dalla personalità forte e dal ferreo credo nelle istituzioni del quale non aveva mancato di rendermi partecipe. Il Procuratore, proprio nei giorni a seguire, avrebbe dato prova di quella fermezza e del suo grande coraggio, così segnando irreparabilmente il proprio destino, coll’assumersi a titolo quasi esclusivo (perché isolato da quasi tutti gli altri suoi sostituti dissenzienti, eccettuato il sostituto procuratore Vincenzo Geraci) la responsabilità di firmare la convalida di oltre 50 ordini di arresto di pericolosissimi mafiosi, fra i quali i noti Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo. Questo il mio primo contatto con la realtà giudiziaria palermitana. Era la calda estate del 1980 ed a Palermo si erano già perpetrati numerosi e gravissimi fatti di sangue (il 4 maggio precedente l’omicidio del Capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile) che preconizzavano quella che sarebbe stata un lunga e sanguinosa vera e propria guerra di mafia. Nell’allora Ufficio Istruzione di Palermo, diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, compagno di scuola del fratello di mia madre, in ragione del privilegiato familiare rapporto di conoscenza col capo dell’Ufficio venni accolta personalmente da lui che ci affidò - me e l’altro mio collega uditore giudiziario – al magistrato affidatario “prescelto”: il Giudice Giovanni Falcone. Appena entrata in magistratura, avevo ottenuto, infatti, dal mio magistrato coordinatore del piano di tirocinio, rinunziando appositamente al godimento delle ferie estive (condicio sine qua non perché non era possibile in alcun altro periodo - adesso non ricordo per quale ragione), di essere affidata al collega Dott. Giovanni Falcone, giudice istruttore, per svolgere sotto la sua direzione il mio periodo di uditorato. Quell’assegnazione (senza precedenti che io sappia) era stata il frutto di mie vivaci pressioni presso il magistrato coordinatore, previo un contatto e l’assenso del giudice Falcone, che avevano vinto ogni resistenza del primo. Già allora, infatti, fra i giovani magistrati si era diffusa la fama di Giovanni Falcone, come quella di un magistrato non soltanto competente e tecnicamente ben attrezzato, ma soprattutto era già ampiamente conosciuta la forte motivazione e una spinta ideale senza precedenti nella lotta al fenomeno mafioso. Come ho accennato, la mia richiesta di essere assegnata al dottor Falcone non era stata accolta con grande favore dal magistrato coordinatore. A quell’epoca non me ne era stato subito evidente il motivo, ma oggi so bene - ed anche allora mi fu più chiaro in breve torno di tempo - che fra i magistrati dell’epoca (la maggior parte degli anziani, comunque) si era già diffuso un grande pregiudizio circa le così decantate capacità e professionalità di Giovanni Falcone. Tuttavia, alla fine, l’insistenza della postulante e l’entusiasmo con cui la richiesta era stata caldeggiata, avevano avuto la meglio su quelle evidenti remore ascrivibili a non troppo sotterranea malevolente invidia nei confronti di quel collega che, così giovane, riscuoteva già tanta ammirazione fra i giovanissimi che guardavano a lui come un faro. Fu, dunque, lo stesso consigliere istruttore Rocco Chinnici che ci affidò (me e il mio collega Filippo Gullotta) al Giudice Falcone. Io già avevo avuto il privilegio di farne la conoscenza perché la moglie, Dottoressa Francesca Morvillo, aveva frequentato in precedenza la casa dei miei genitori, essendone anche gradita commensale e perché un professore di università comune amico, molto vicino al vice questore Ninni Cassarà, mi aveva procurato un informale abboccamento con il Giudice Giovanni Falcone perché potessi chiedergli la sua generica disponibilità ad accogliere uditori giudiziari. Allora, le cose si facevano più alla buona rispetto ad oggi, molta meno burocrazia; non esistevano rigidi criteri per la formazione dei piani di tirocinio e questo aveva giocato un punto a mio favore, rendendo possibile il soddisfacimento della mia aspirazione.

E la fortuna volle che quando si concretizzò la mia assegnazione (insieme al collega Filippo Gullotta) al Dottor Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo erano appena (all’incirca nel maggio precedente) transitati dalla procura per essere istruiti, con la formale, i famosi processi a carico di “Spatola Rosario + 120” e a carico di “Mafara Francesco ed altri”, che erano stati per l’appunto assegnati entrambi dal consigliere istruttore Chinnici al Giudice Falcone. Fu proprio istruendo questi processi che Falcone prese a testare il suo nuovo metodo di indagine, ricusando il ruolo attendista della vecchia figura di giudice istruttore disegnata dall’allora vigente codice di rito (che in sostanza aspettava il rapporto redatto dalla Polizia giudiziaria per esaminarlo) ed assumendo in prima persona il controllo e la direzione delle investigazioni, compiendo anche personalmente alcuni atti, o delegandone singoli altri, ma non mai più genericamente, come per il passato, tutta l’attività di investigazione. Quelle indagini vennero portate avanti con criteri del tutto innovativi. Giovanni Falcone, infatti, facendo tesoro delle sue competenze nel ramo civile e del diritto bancario, essendo stato giudice fallimentare, aveva sviluppato una tecnica di investigazione che partiva dal presupposto che per colpire la mafia ed i suoi affari illeciti, occorreva seguire i flussi di denaro, nella consapevolezza che in qualunque attività lucrosa sul territorio controllato l’organizzazione criminale si insinuava con sapienza, con i suoi metodi, ora violenti, ora sotterranei, a seconda della bisogna. Fu così che noi uditori trovammo la scrivania del Giudice Falcone (che allora naturalmente chiamavo, come si fa fra colleghi, familiarmente, Giovanni, dandogli del tu, ed oggi mi guardo bene, come ritengo doveroso, dal continuare a chiamare così) diuturnamente “affollata” - quel che colpiva particolarmente - da numerosissimi assegni, vere e proprie mazzette di assegni, lì pronti per essere meticolosamente passati al setaccio ed esaminati nelle loro girate per individuare i destinatari finali dei crediti portati da quei titoli. E fu quindi proprio in quei giorni per l’innalzarsi della soglia di rischio dei magistrati in dipendenza della qualità degli imputati, e, quindi, dei processi da istruire che venivano fatti i sopralluoghi tecnici per il montaggio dei vetri blindati nell’Ufficio d’Istruzione e Processi Penali (così si chiamava). Fino ad allora, nessuna sofisticata misura di protezione era stata ancora adottata a tutela di quelli che sarebbero diventati i paladini della lotta a Cosa Nostra (e recentissimi erano l’uso da parte del Giudice Falcone e dei suoi colleghi di auto blindate e l’assegnazione di scorte). Ricorderò solo per inciso che quei vetri ben presto si sarebbero rivelati non sufficienti a fermare le armi letali di Cosa Nostra, che aveva utilizzato, con soddisfacenti risultati, proprio i vetri blindati della gioielleria Contino di via Libertà per provare i suoi kalashnikov poi serviti nell’agguato in cui trovò la morte nel maggio 1981 Salvatore Inzerillo. Tornando agli assegni, il giudice Falcone ci mise al corrente della necessità di una verifica capillare dei diversi passaggi di mano dei titoli di credito e ci insegnò a porre attenzione alla lettura delle “girate”. Al di là di quelle indicazioni di metodo del tutto anodine (nessun riferimento all’identità dei primi prenditori e dei giratari e all’eventuale loro inserimento nell’organizzazione mafiosa) necessarie ad illustrarci nelle linee generali la sua nuova metodologia di indagine, però, con mia grande incosciente delusione, Falcone ci tenne sempre ben lontani dalle notizie e dai fatti potenzialmente pericolosi, quelli cioè emergenti dalle indagini su Cosa Nostra, spiegandoci con grande delicatezza che non era certo per mancanza di fiducia sulla nostra serietà e riservatezza, ma che si trattava di tutelare la nostra sicurezza. A noi venne affidata, quindi, la stesura di ordinanze o di ordinanze-sentenze riguardanti i fascicoli “ordinari”. Ma Giovanni Falcone, nonostante oberato da una mole di lavoro veramente spaventosa (la quantità di fascicoli che affollavano la sua stanza e i diversi armadi la diceva lunga al riguardo) che lo costringeva ad orari veramente stressanti, trovava, comunque, il tempo di indirizzarci nella lettura delle carte processuali e nella redazione dei provvedimenti a noi assegnati; le minute che gli sottoponevamo venivano da lui attentamente corrette e le correzioni antecedentemente discusse e concordate con noi. Anche nello svolgere il compito di “magistrato affidatario”, quindi, il giudice Falcone non mancava di essere, come sempre nello svolgimento della sua attività professionale, attento, infaticabile, preciso, puntuale; ma il suo essere in tutto eccellente non gli faceva perdere di vista l’indulgenza. Potrei dire, con quasi assoluta certezza (anche se, estremamente riservato nell’esternazione dei suoi sentimenti, nulla avrebbe mai verbalizzato al riguardo) che dietro alcuni dei suoi indimenticabili sorrisi sornioni, che non ci faceva mancare mai, si nascondesse anche una tenera benevolenza e comprensione per i nostri primi incerti passi. Sono ancora in possesso - e le custodisco gelosamente - di quelle bozze di provvedimenti che recano le correzioni vergate a mano da Giovanni Falcone. Una di queste mi è particolarmente cara, perché rammento ancora l’interesse e l’impegno che prodigò per aiutarmi ad addivenire alla decisione più giusta di quella vicenda giudiziaria così delicata, riguardante un caso umano veramente pietoso. Si trattava di un processo penale per tentato omicidio plurimo e pluriaggravato a carico di tale C. F., della quale non ho mai potuto dimenticare il nome. Il 29 novembre 1979, a Palermo, la donna, madre di due figli adolescenti (di 17 e 14 anni), entrambi portatori di handicap, perchè gravemente cerebrospatici, dopo aver messo a letto i ragazzi nel letto matrimoniale della propria stanza nella quale aveva collocato una bombola di gas liquido da 15 Kg, aprendone la valvola, si era distesa, a sua volta su un lettino vicino. L’odore di gas proveniente dalla casa aveva allarmato una vicina che aveva chiamato il 113 e provocato l’intervento di un altro vicino che entrato nella casa aveva tratto in salvo i ragazzi e la mamma ancora vivi e coscienti, apprestando loro i primi soccorsi in attesa dell’intervento dell’autoambulanza. Si era, dunque, proceduto con la formale istruzione, nel corso della quale era stata disposta perizia tecnica “per accertare la possibilità di esito letale dell’avvelenamento da gas” (sic la correzione del dottor Falcone riportata nella mia minuta, come sempre rigorosamente con la sua inseparabile stilografica). Il PM aveva concluso chiedendo il proscioglimento dell’imputata con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ho molto apprezzato il fatto che il Giudice Falcone mi avesse assegnato proprio quel processo così delicato e spinoso, per lo studio degli atti e la stesura del provvedimento conclusivo, perché avevo avuto modo di comprendere come Egli avesse preso molto a cuore quel caso umano veramente straziante; infatti, dimentico delle migliaia di carte sul suo tavolo (assegni e quant’altro) in attesa di essere studiate meticolosamente, posponendo anche i mille abboccamenti quotidiani con la PG (i cui dirigenti – alcuni dei quali oggi tristemente noti, vuoi perché caduti per mano mafiosa, vuoi perché condannati per collusioni con Cosa Nostra - quotidianamente facevano la fila nel corridoio antistante la sua stanza per relazionargli gli ultimi esiti delle attività di indagine), si era messo a spiegarmi qual’era la via migliore per giungere alla “giusta” conclusione della vicenda processuale, facendo ricorso all’istituto, ben poco usato, del reato impossibile. Ricordo bene che infervorandosi, a dispetto dell’ostentata sempiterna imperturbabilità, si era raccomandato di redigere una motivazione molto accurata perché la sentenza di proscioglimento non fosse passibile di impugnazione. Quella sfortunata donna andava prosciolta e messa al riparo da conseguenze giudiziarie negative del suo gesto disperato. Il mio "Affidatario", noncurante e dimentico degli altri impegni, si era prodigato, quindi, in ogni possibile chiarimento soffermandosi a rammentarmi quali fossero i criteri per ritenere applicabile l’istituto, sostanzialmente facendomi una dotta disquisizione sul reato impossibile, argomento che mostrava di avere “fresco” nella memoria come lo avesse studiato il giorno prima. Questi era il giudice istruttore Falcone, una persona profonda con doti umane non comuni e grande sensibilità come deve essere un Giudice, prima ancora che un raffinatissimo giurista, un eccellente investigatore ed un tecnico espertissimo dotato di una memoria degna di Pico della Mirandola. Da quest’uomo di dirittura morale inimitabile, di mentalità moderna, dallo straordinario coraggio e dalla prorompente personalità, dalle doti umane superiori, dall’intelligenza poliedrica (o piuttosto genio) ed eclettica, all’humor pungente e salace, che faceva capolino in battutine buttate lì a fare da contrappunto ed alleggerire le non dissimulate, né dissimulabili atmosfere pesanti e spesso grevi di quell’Ufficio, e dalla volontà ferrea nel perseguire la sua missione, con energia inconsumabile, ho appreso il fortissimo senso delle istituzioni e del dovere ed è questo “metodo Falcone” (l’unico che ho potuto apprendere) che ha guidato ogni passo della mia carriera, nella quale con i miei limiti e nel mio piccolo, ho cercato di non dimenticare mai gli insegnamenti ricevuti, con l’opera, ed in ogni gesto quotidiano, da un uomo dalla statura morale superiore quale era il giudice istruttore dottor Giovanni Falcone.

Uno “scienziato” dell'investigazione, scrive il 21 maggio 2018 su "La Repubblica" Angiolo Pellegrini - Generale dell'Arma in pensione, nei primi anni '80 capitano della “sezione Anticrimine” dei carabinieri di Palermo. Il 23 maggio 1992 si verificava l’attentato più grave nella storia della giovane Repubblica italiana: l’esplosione di 500 chilogrammi di tritolo, posti all’altezza di Capaci e, di conseguenza, la morte del magistrato Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta. Perdeva la vita quel “giudice” che mi piace definire ”lo scienziato dell’attività istruttoria ed investigativa” mente e coordinatore del pool antimafia che, in soli 4 anni (1980 – 1984), era riuscito a dimostrare che la mafia esisteva come organizzazione unitaria e gerarchicamente strutturata, e, nello spazio di poco più di dieci anni, al termine del più grande processo mai celebrato al mondo, ad ottenere la condanna per i capi a 19 ergastoli e per gli appartenenti all’organizzazione a 2665 anni di reclusione. La mafia, nata come associazione segreta, radicata in una subcultura ben definita era riuscita per lungo tempo a far pesare sulla società la sua forza intimidatrice e, nel contempo, a fare sorgere nei suoi confronti il consenso, adattandosi apparentemente ai canoni di giustizia propri della società delle aree meridionali. Ma, come si sarebbe potuto e dovuto prevedere, i settori d’intervento della mafia all’inizio degli anni 70 non erano più limitati a quelli tradizionali della Sicilia agricola: in pochi anni si sarebbe assistito a sempre più stretti collegamenti delle organizzazioni mafiose siciliane con quelle della Calabria e della Campania, prima nel settore del contrabbando dei T.L.E. e, poi, nel traffico degli stupefacenti, gradualmente esteso in tutto il mondo. La mafia, con l’aumento vorticoso del consumo delle droghe, ha sentito la necessità di disporre di grossi capitali con conseguenti enormi utili che attrassero nel “gioco” anche coloro che potremo definire di “terzo livello”. Quando la mafia – divenuta ricchissima - tanto da ritenersi più forte dello “Stato legale” – esce allo scoperto, la lotta si radicalizza ed, in conseguenza, della più decisa azione di contrasto degli organi investigativi dello Stato, si assiste ad una reazione quanto mai violenta, sfociata negli omicidi del T.C. Russo, dei Capitani Basile D’Aleo, del Maresciallo Ievolella, del V. Questore Boris Giuliano, dell’agente Zucchetto, dei Magistrati Terranova, Costa, Chinnici e del Prefetto dalla Chiesa. Ma, nello stesso tempo si verificano alcuni fatti importanti: la perdita progressiva del consenso da parte della popolazione, l’affermarsi di nuovi metodi d’indagine, la convergenza degli sforzi della magistratura e delle forze di Polizia, l’approvazione della c. d. “legge Antimafia”. E’ vero che il traffico internazionale di stupefacenti coinvolge una vera e propria multinazionale del crimine: i produttori di oppio del Medio Oriente, i contrabbandieri italiani, francesi e greci, addetti al trasporto della morfina, i gestori dei laboratori di produzione dell’eroina in Sicilia, i corrieri siciliani e italo – americani per la distribuzione degli stupefacenti in USA ed in Canada e per il ritorno in Sicilia di ingentissime quantità di dollari e le collusioni politiche per il riciclaggio del denaro. Ma, se è vero che la complessità degli accertamenti comporta grandi difficoltà per gli investigatori e per i magistrati, sono proprio tali difficoltà ad introdurre metodi d’indagine nuovi: in particolare si prende coscienza che il punto debole del fronte della mafia è costituito dalle tracce che lasciano i grandi movimenti di denaro. Falcone, proseguendo su questa strada, riesce a dimostrare dopo ben 18 secoli la mancata attualità dell’assunto, tramandatoci dallo storico latino Svetonio, “Pecunia non olet”. E’ nato quello che sarebbe divenuto il famoso “metodo Falcone”. Falcone, infatti, capovolse il metodo d’indagine: il Giudice Istruttore anziché lavorare, come era stato sempre fatto, su quanto riferito dalle forze di Polizia, assunse in prima persona lo svolgimento delle indagini, compiendo direttamente atti istruttori e delegando una serie impressionante di accertamenti, approfondimenti, indagini, riuscendo così a pervenire ad una visione unitaria del fenomeno mafioso. Riunì vari processi, pur se sembravano non riconducibili a gruppi criminali tra loro collegati (Spatola  più 119, Gerlando Alberti, Mafara Francesco, sequestro Sindona, arresto del belga Gillet e poi Greco Michele  più 161, Riccobono Rosario più 39, Provenzano Bernardo più 29 ), evidenziando che avevano tutti numerosi dati in comune e, soprattutto, il coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e nel riciclaggio del denaro. In sostanza, la capacità di sintesi, la memoria eccezionale, la visione strategica del problema consentì a Falcone di realizzare una sorta di enorme mosaico, sul quale riuscì a porre, ciascuno al posto giusto, migliaia di tessere, fornendo così una rappresentazione attuale ed aggiornata di “Cosa Nostra”, un’organizzazione unitaria, verticistica, con i propri organi di comando a livello provinciale e regionale, con collegamenti in tutta Italia e nel mondo intero. Lo stesso Falcone in un suo intervento alla tavola rotonda, organizzata a Palermo nel 1984 da Unicost, ha affermato: “Negli ultimi anni, uno sparuto drappello di magistrati e di appartenenti alle FF.PP. ha cominciato in più parti d’Italia ad impostare le indagini in modo finalmente adeguato alla complessità del fenomeno ed i risultati non si sono fatti attendere. E’ cominciata ad emergere una realtà di enormi dimensioni ed inquietante, solo intuita nel passato”……… “Non ci si è lasciati scoraggiare dalle difficoltà e, fra l’indifferenza e lo scetticismo generale, si è proseguita la via intrapresa cominciandosi ad ottenere i primi risultati: la positiva verifica dibattimentale di istruttorie particolarmente complesse riguardanti organizzazioni mafiosi ed efferati delitti di stampo mafioso”……. “Dall’iniziale separatezza fra i diversi organismi preposti alla repressione del fenomeno mafioso, si è passati in pochissimi anni, superando ostacoli ed incomprensioni di ogni genere, ad un clima di collaborazione di reciproca fiducia, impensabile fino a poco tempo addietro”.

La mossa vincente di seguire il denaro, scrive il 22 maggio 2018 su "La Repubblica" Leonardo Guarnotta - Già Presidente del Tribunale di Palermo, nei primi anni '80 componente del pool antimafia dell'ufficio istruzione. La lotta dello Stato alla mafia ha origini che risalgono, quanto meno, agli ultimi anni dell'800 e, verosimilmente, al 1° febbraio 1893, giorno in cui venne assassinato per mano mafiosa il marchese Emanuele Notarbartolo, persona incline all'etica e al rispetto della legge, già sindaco di Palermo per alcuni anni e direttore del Banco di Sicilia, storico istituto di credito dell'isola. E' stato considerato il primo eccellente delitto di mafia che, all'epoca, accese un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, anche se inizialmente nessuno osò fare nomi. Da allora e, per moltissimi anni, la lotta alla mafia è stata quasi sempre emergenziale consistendo in provvedimenti susseguenti a singoli fatti delittuosi, come la commissione antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Poi gli anni settanta con la Palermo dei delitti eccellenti ad opera dei corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano quando, in proditori agguati mafiosi, vennero uccisi, tra gli altri, il Procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice questore Boris Giuliano, il giornalista di inchiesta Mario Francese, il dottore Paolo Giaccone, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il Procuratore Gaetano Costa, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era questo il fosco, nebuloso contesto temporale in cui approdarono all'Ufficio di Istruzione del Tribunale di Palermo, alla fine degli Anni Settanta, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e, dopo l'uccisione di Rocco Chinnici per mano mafiosa, il dottor Antonino Caponnetto che gli subentrò nelle funzioni di consigliere istruttore. Con il loro avvento e con la creazione del pool antimafia, nel quale era stato nel frattempo cooptato il giudice Leonardo Guarnotta - io - i rapporti di forza tra Stato e mafia cambiarono e venne sferrato un attacco senza precedenti a “cosa nostra” grazie  all'impegno quotidiano profuso da quei magistrati, alla inaspettata collaborazione di Tommaso Buscetta il cui “esempio” venne seguito da Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Marino Mannoia, passati dalla parte dello Stato, le cui propalazioni, accuratamente riscontrate, hanno consentito di infrangere il  muro dell' omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri sui si basa la stessa esistenza di Cosa nostra, ma grazie anche e soprattutto alla professionalità, alla competenza, alla preparazione ed all'intuito investigativo di Giovanni Falcone. In una stagione giudiziaria in cui le conoscenze dell'apparato strutturale e funzionale di Cosa Nostra erano frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l'azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni '60 e '70 si erano chiusi i processi di Catanzaro e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), Giovanni Falcone seppe cogliere la struttura unitaria, verticistica, piramidale di Cosa Nostra, intuì che il fenomeno mafioso andava affrontato con una strategia diversa da quella posta in essere sino ad allora (e che si era dimostrata inefficace) ed elaborò un metodo investigativo del tutto innovativo e straordinariamente incisivo che, a ragione, è stato definito “rivoluzionario”. Nei primissimi mesi del 1980, il consigliere Rocco Chinnici aveva incaricato Giovanni Falcone di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano su cui gravava l'accusa di gestire un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano ben cinque “famiglie” mafiose dedite al commercio di armi e allo spaccio della droga. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a cosa nostra, consentì a Falcone di comprendere che la potenza economica della mafia aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Perchè, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di colore i quali l'assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l'acquista.

Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all'estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni. Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro. Venivano svolte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed ora anche all'estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all'altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni bancari e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto e mirabilmente guidato dal consigliere Antonino Caponnetto,  un organo giudiziario non previsto dall'allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo ( era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile uno scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi. Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della polizia, dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con la intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell'incipit dell'ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985. Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all'estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Il “metodo Falcone” era lui stesso, uomo e giudice, scrive il 23 maggio 2018 su "La Repubblica" Pietro Grasso - Giudice a latere della Corte di Assise del maxi processo, Procuratore nazionale antimafia, ex Presidente del Senato della Repubblica. Le mie conoscenze ed esperienze personali, professionali ed istituzionali mi inducono ad affermare che l’espressione “metodo Falcone” è una approssimazione generica e superficiale, usata spesso per riferirsi ad ambiti diversi e che riesce a dare l’immagine, di volta in volta parziale, solo di talune peculiarità dell'azione di Falcone, senza riuscire a coglierne per intero la complessità e l’importanza. Ricordo che lui stesso non amava quell'espressione, ritenendola quasi alla stregua di quell’altra dispregiativa qualificazione dei risultati delle sue indagini come “teorema Falcone”. In realtà il “metodo Falcone” era Falcone medesimo, la sua stessa personalità, il suo modo di essere e di concepire in maniera rivoluzionaria la funzione del giudice istruttore del vecchio codice di procedura penale. Anziché, come in passato, limitarsi a verificare gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria nei rapporti presentati, Falcone iniziò a dirigere direttamente le indagini, compiendo personalmente tanti atti, come interrogatori di imputati e assunzioni di testimoni, o delegandone altri specificatamente volti a trovare riscontri obiettivi. Io stesso potei rendermi conto personalmente di questa sua nuova concezione del ruolo di giudice istruttore.

ERA DIVERSO, ERA UN FUORICLASSE. Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera in magistratura dapprima come Pretore a Lentini, poi come giudice a Trapani, finché nell’estate del 1978 chiese e ottenne il trasferimento presso il Tribunale di Palermo. Dopo una prima esperienza alla sezione fallimentare, nell’autunno del 1979 e dopo l’omicidio del giudice Terranova e la nomina a capo dell’ufficio istruzione di Rocco Chimici, venne accolta la sua domanda di essere assegnato a quest’ultimo ufficio. Io in quel periodo, giovane sostituto procuratore presso la Procura di Palermo, mi trovai a seguire da P.M. il caso di rinvenimento di una carcassa di un ciclomotore rubato, con numero di matricola abraso. Un fatto assolutamente insignificante destinato a concludersi, come tanti altri, con una richiesta di archiviazione contro gli ignoti autori del furto. Grande fu la mia sorpresa quando mi resi conto che Falcone, nel restituirmi il fascicolo per le mie ulteriori richieste, trattò questa istruttoria con lo steso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Affidò una perizia al medico legale Paolo Giaccone (ucciso da Cosa Nostra l’11 agosto 1982), che aveva frattanto sperimentato un sistema per ricostruire il numero di matricola; attraverso questo risalì al derubato, cui restituì il motorino; trovò dei testimoni e fece arrestare i ladri, individuandoli in ragazzi del quartiere. Scoprii così che Falcone era un magistrato che non trascurava nulla, neanche le cose minime, che prendeva a cura i diritti delle vittime, che manifestava una tenacia investigativa ed un impegno eccezionali. Mi resi subito conto che era diverso da tutti noi: era un fuoriclasse. Anche Rocco Chimici intuì subito le sue qualità e gli affidò sin dal maggio 1980 alcuni rilevanti indagini sulla mafia e sul fiorente traffico di stupefacenti fra Italia e USA, come quelle contro Spatola Rosario + 120 imputati e contro Mafara Francesco ed altri. Il primo processo riguardava i rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense nel traffico di eroina fra i due continenti, l’affare Sindona e il reinvestimento dei profitti; il secondo aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto di Roma Fiumicino di un belga con 8 kg di eroina destinata ad una famiglia mafiosa palermitana. Frattanto al quadro generale investigativo Falcone collegò altri fatti: il sequestro da parte del Capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 19 luglio 1979) di 4 kg di eroina nel covo di via Pecori Giraldi, frequentato da Leoluca Bagarella; il sequestro di una valigia all’aeroporto di Palermo contenente 500.000 dollari e magliette di pizzerie di New York (da qui nasce il nome dell’indagine “Pizza Connection”), cui seguì dopo pochi giorni il sequestro a New York di valigie piene di eroina purissima. Infine la scoperta presso una villetta di Trabia (nei pressi di Palermo) di un laboratorio per la produzione di eroina gestito da Gerlando Alberti, a cui si arrivò seguendo tre chimici francesi inviati a Palermo dal “clan dei marsigliesi” per far apprendere ai mafiosi il procedimento di raffinazione e trasformazione della morfina base in eroina purissima.

LA SCOPERTA DELLE RAFFINERIE DI EROINA. Nel prosieguo dell’indagine sul sequestro all’aeroporto di Roma di 8kg di eroina, Falcone ottenne dal belga arrestato (Gillet) e da altri due corrieri (un altro belga, Barbé, e uno svizzero, Charlier) delle sensazionali dichiarazioni che aprirono degli scenari assolutamente inaspettati. Rivelarono infatti di essere stati, tra l’altro, incaricati di reperire in Medio Oriente, ed in particolare in Turchia e in Libano, morfina base da portare a Palermo, che, una volta trasformata in eroina con alto grado di purezza, provvedevano essi stessi a consegnare in Usa da dove, di ritorno, portavano a Palermo e in Svizzera ingenti quantità di dollari, provento della droga. Si ebbe così l’importante riscontro che la mafia non importava più l’eroina, ma la produceva direttamente. E sull’onda di tale svolta investigativa si accertò che per il traffico di stupefacenti si era riproposta una struttura analoga a quella del contrabbando di tabacchi, con partecipazione per quote e con utilizzazione, da parte dei mafiosi Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e Giuseppe Savona, dei canali del “Triangolo d’oro” del sud est asiatico (Thailandia, Laos, Birmania), per l’approvvigionamento della morfina. Falcone si trovava proprio a Bangkok a seguire le tracce di tali traffici in collaborazione con la polizia thailandese il 29 luglio 1983, giorno della strage del suo capo, Rocco Chinnici. Aveva compreso che la mafia siciliana operava non solo in Sicilia, ma anche in altre zone d’Italia e all’estero, per cui attraverso la cooperazione internazionale, basata soprattutto sui rapporti personali, bisognava viaggiare e cercare contatti e prove al di fuori degli uffici. I primi contatti furono stabiliti con i magistrati di Milano nell’ambito del processo Spatola, perché in quella città era stato sequestrato il più grosso quantitativo di eroina (40kg), che, provenendo da Palermo, avrebbe dovuto raggiungere gli U.S.A., eludendo i pervasivi controlli agli aeroporti di Palermo e di Roma. Falcone convinse il collega milanese a trasmettere per competenza l’indagine a Palermo, istaurando un clima di fiducia e di collaborazione, che si rivelò particolarmente fruttuoso, anche coi magistrati della Procura milanese Colombo e Turone nel corso delle indagini sul caso Sindona, riuscendo a ricostruire tutti i suoi movimenti ed il ferimento compiacente da parte del medico Miceli Crimi.

I SUOI RAPPORTI CON L'FBI E CON RUDOLPH GIULIANI. Identica e feconda attività di cooperazione internazionale venne svolta da Falcone con l’ufficio del Procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani e coi suoi collaboratori Louis Free e Richard Martin. Al di là dei trattati internazionali e di precedenti significativi, gli strettissimi e amichevoli rapporti personali instaurati gli consentirono di muoversi con concretezza e speditezza, al di fuori delle formalità delle rogatorie internazionali, nello scambio di informazioni sui rapporti tra le famiglie mafiose siciliane ed i componenti di cosa nostra americana. Falcone fece tesoro anche degli strumenti investigativi usati in maniera pragmatica dai colleghi statunitensi, come i collaboratori di giustizia e gli infiltrati, figure che sarebbero state dopo molti anni (1991), introdotte anche nel nostro ordinamento. Si gettarono anche le basi per un accordo Italia-Usa su collaborazione giudiziaria ed estradizioni che venne sottoscritto nel 1984. Poiché molti indagati nelle intercettazioni telefoniche disposte sia dalla DEA e poi dall’FBI parlavano in dialetto siciliano stretto, per accorciare i tempi delle trascrizioni in inglese e in italiano, di comune accordo, squadre della polizia italiana si trasferirono da Palermo in Usa, per procedere direttamente all’ascolto delle conversazioni. L’idea di squadre investigative comuni era per quei tempi assolutamente innovativa, realizzabile soltanto per la fiducia e il rispetto dei ruoli e delle regole che Falcone aveva il pregio di saper infondere. Frattanto erano stati scoperti, a Palermo, altri laboratori per la raffinazione dell’eroina. Un’altra importante indagine, che poi confluì formalmente nella “pizza connection” e nel Maxiprocesso, venne generata dall’attività di un infiltrato dagli agenti americani, tale Amendolito, reclutato dalla mafia siculo-americana per trasferire valigie piene di dollari in piccolo taglio dapprima a Nassau, nelle Bahamas, e poi in Svizzera in banche di Lugano e Zurigo. Parte di quei soldi venivano reinvestiti nel traffico, una parte tornava a Palermo e veniva depositata in banche con false attestazioni di vendita di prodotti agroalimentari e parte ancora finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola. Falcone, per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia. Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Falcone non tralasciava nulla e si precipitava ovunque in Italia e all’estero avesse notizia dell’arresto di un trafficante di droga, di esperti in materie specialistiche, avulse dalla diretta competenza dell’organizzazione, come chimici, riciclatori, professionisti o imprenditori, per cercare connessioni con cosa nostra. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso. Inoltre, aveva inaugurato la prassi di essere presente con attenti sopralluoghi dove erano stati commessi omicidi o stragi. Tutti questi comportamenti innovativi per il ruolo del giudice istruttore gli avevano fatto affibbiare la denigrante nomea di “giudice sceriffo” e “giudice planetario”. A tutti i soggetti con cui veniva in contatto, Falcone garantiva rispetto delle loro funzioni, reciprocità nello scambio delle informazioni, rigorosa difesa del segreto istruttorio: ciò gli conferiva un patrimonio di credibilità, di imparzialità e di fiducia che convincerà anche tanti mafiosi a collaborare, e solo con lui. Tutto ciò faceva parte del suo “metodo “? Certamente sì, ma non si può liquidare solo con questo. Falcone credeva anche nell’importanza del lavoro di gruppo, del coordinamento delle indagini, e nella necessità di non disperdere, attraverso nuove tecnologie, la memoria dei singoli fatti d’indagine.

UNA NUOVA STRADA FINO AL MAXI PROCESSO. Ad aprire questa strada giuridico-organizzativa fu Chinnici. Quando, dopo l’omicidio del collega Cesare Terranova divenne capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, del quale già faceva parte come giudice anziano, diede nuovo impulso all’ufficio, dirigendo personalmente tutte le indagini più importanti come quelle sui cosiddetti omicidi eccellenti (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa) e affidando a magistrati di indubbio valore, come Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, le altre inchieste più rilevanti come quelle sul costruttore Rosario Spatola, sull’omicidio del Capitano dei carabinieri Emanuele Basile, e su Michele Greco + 161, così creando i presupposti per quel pool antimafia, che avrebbe sviluppato al massimo la sua potenzialità con il successore, Antonino Caponnetto. Questi, infatti, col pieno accordo dei citati magistrati, validissimi sotto il profilo delle tecniche investigative e dotati di ineguagliabile tensione morale, formò attraverso la co-assegnazione di tutte le istruttorie pendenti, un gruppo coeso, capace di una particolare efficienza e laboriosità, l’unico idoneo a indagare sui mille rivoli dell’attività della mafia. Superando i problemi procedurali e sostanziali del vecchio codice, che prevedeva la monocraticità del giudice istruttore, e adottando soluzioni già sperimentate, anche per la condivisione dei rischi, dai giudici di altri uffici del nord nel contrasto al terrorismo, fu possibile coordinare e ricondurre ad un’unica centrale investigativa, diretta nel quotidiano da Giovanni Falcone, una massa innumerevole di episodi delittuosi, di documenti e di pregresse indagini. Così inaugurando un nuovo metodo di indagine, che collegava i tanti filoni legati unicamente, più che da connessioni soggettive o oggettive, dalla riferibilità dei reati all’organizzazione mafiosa cosa nostra, di cui era intuita quella struttura unitaria, verticistica, che sarà svelata successivamente da Buscetta e avallata da altri collaboratori di giustizia. Per la prima volta, attraverso le risultanze degli ultimi dieci anni di indagine, si potè tracciare un’immagine più aderente alla realtà criminale di Cosa Nostra, già tracciata, in passato, ed in ultimo col rapporto Michele Greco +161, dalla polizia giudiziaria attraverso fonti confidenziali, che, in mancanza di riscontri documentali e testimoniali, avevano portato sempre all’assoluzione dei mafiosi. Fu un lavoro di gruppo, ma che si fondava sulla capacità strategica di Giovanni Falcone, sulla capacità di trovare rimedi e soluzioni a problemi che apparivano insuperabili, che andavano dall’ottenere dal Ministero risorse materiali e addirittura di costruire un’aula bunker ad hoc per il Maxiprocesso sino all’interpretazione inedita di una norma. L’enorme quantità di lavoro, la sua singolare abilità nel prevedere gli sviluppi delle indagini e nell’organizzare il lavoro degli altri componenti del pool, il necessario coordinamento di tutto il materiale raccolto, anche tramite precise e puntuali deleghe alla polizia giudiziaria, trovarono poi, il prezioso, determinante e valido contributo di Buscetta che, a partire dal luglio del 1984, svelò regole, strutture e storie delle famiglie di cosa nostra, avallate da una miriade impressionante di riscontri. A questo apporto, seguì quello di numerosi altri collaboratori, che mostrarono anche il volto violento della mafia, descrivendo nei minimi dettagli decine e decine di omicidi, strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido. E si deve allo scrupolo investigativo di Giovanni Falcone, se, seppur, dopo tanti anni dai fatti, a seguito di ispezioni, sequestri, rilievi e perizie anche su una vecchia corda, rinvenuta nella cosiddetta “camera della morte”, vennero trovate tracce di sangue e di cellule umane, inequivocabile riscontri che resero credibili i racconti dei pentiti e rafforzarono l’impianto probatorio del maxiprocesso. Così come fatti apparentemente non conducenti, come le minacce epistolari ad una famiglia non gradita sul territorio per costringerla a sloggiare, furono utilizzati per dimostrare in maniera inequivocabile la condizione di assoggettamento, intimidazione e di omertà in cui vivevano i cittadini, a riprova dell’elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso. L’arresto poi di Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani, il rinvio a giudizio di questi ultimi tra gli imputati del maxiprocesso (fu processato solo il secondo, essendo Nino deceduto in Svizzera prima della fase processuale), furono utilizzati da Falcone per dimostrare che cosa nostra, come dichiarato da Buscetta, non era una comune organizzazione criminale, da contrastare soltanto con operazioni di polizia, ma un potere con ramificazioni nascoste nell’imprenditoria, nella pubblica amministrazione, nella politica, tra i professionisti e nella società, dato che i cugini Salvo, appartenenti a cosa nostra ed in particolare alla famiglia di Salemi (Trapani), erano stati per anni il fulcro tra affari, mafia e politica regionale e nazionale. Infine, a maggiori riprova dei rapporti di cosa nostra con entità eversive esterne, di notevole interesse si rivelò il coinvolgimento, riferito da Buscetta in istruttoria e confermato in aula dallo stesso Luciano Liggio, dell’organizzazione, attraverso i suoi vertici del tempo, nella fase preparatoria del Golpe Borghese del 1970. Liggio voleva delegittimare il pentito, attribuendogli delle interessate omissioni e si ritrovò in aula come un boomerang le puntuali dichiarazioni di Buscetta nei verbali precedentemente rese a Falcone, trattenute per approfondimenti istruttori. Anche in questo consisteva il “metodo Falcone”: saper prevedere e disinnescare preventivamente le trappole. Sapeva perfettamente che un processo poteva essere distrutto da un solo errore, bastava un nonnulla per poter incrinare irrimediabilmente la credibilità di un pentito o di un perfetto impianto accusatorio. Per questo era maniacale nella revisione e nel controllo di ogni singola carta, di ogni atto, di ogni riscontro. Cercava di evitare al massimo gli incidenti di percorso provocati da leggerezza, superficialità e sciatteria.

LA "GESTIONE” DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA. Con questo metodo, con queste qualità, potè impostare una istruttoria, prima ed un processo, poi, come il maxiprocesso di Palermo, con 475 imputati, 438 capi di imputazione che comprendevano non solo l'associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti o a criminali collegati a cosa nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e 120 omicidi, che comprovassero le attività anche a livello internazionale dell'organizzazione. E questa fu una ben precisa scelta di Giovanni Falcone, dato che qualcuno aveva prospettato la possibilità di portare a giudizio solo gli imputati detenuti, proprio per accelerare i tempi ed evitarne la scarcerazione, ma Falcone giustamente ritenne che solo una visione complessiva di tutti i fatti ed i soggetti collegati a cosa nostra potesse fornire ai giudici di una corte di assise, composta anche da cittadini non togati, l'inequivocabile contesto probatorio sull'esistenza dell’organizzazione, fino ad allora sempre negata. Sarebbero, peraltro, rimasti fuori dal processo tanti capi allora latitanti, come Riina e Provenzano e difficile da comprendere il loro contributo alla commissione provinciale di Palermo, organo propulsivo dell'associazione che ne testimoniava la struttura unitaria e verticistica. Il metodo Falcone, avuto riguardo al maxiprocesso, fu quindi quello di ripercorrere i fatti e i delitti di mafia a partire dalla prima fase successiva alla strage Ciaculli e di viale Lazio, cui partecipò anche Provenzano, sino alla cosiddetta seconda guerra di mafia, caratterizzata dalla supremazia delle famiglie appartenenti alla fazione dei “corleonesi”, che si impadronirono di tutti traffici, anche quello lucroso degli stupefacenti, mettendo insieme tutte le pregresse indagini bancarie, cementate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, nonchè le relazioni esterne di cosa nostra con le realtà imprenditoriali e politiche, rappresentate dei cugini Salvo e da Ciancimino. Cioè con quell'area che riusciva a far realizzare investimenti produttivi e grandi profitti, a persone che allora non avevano la competenza e la professionalità per farlo. Il “metodo” comprendeva anche magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, che mettessero insieme tutti quegli indizi provenienti dalla captazione delle intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e soprattutto dai collaboratori di giustizia. La gestione di questo piccolo esercito di coloro che via via uscivano dall'organizzazione fu estremamente difficile per il pool antimafia, per l'assenza di norme che ne regolassero i rapporti con i requirenti e con gli addetti alla loro tutela. Per tanti anni la loro protezione fu affidata al volontarismo, all'improvvisazione e alla genialità dei singoli uffici investigativi. Falcone per Buscetta, prima, e per Contorno e Marino Mannoia, in un secondo momento, si dovette “inventare” un accordo con le autorità statunitensi, che prevedesse “il prestito” temporaneo dei pentiti per farli testimoniare nel processo americano della “Pizza connection”, in cambio di un'adeguata protezione. Si dovettero attendere ben sette lunghi anni dalle prime dichiarazioni di Buscetta (luglio 1984) per ottenere nel 1991 la prima legge che stabilisse i requisiti della collaborazione, i diritti e i doveri dello status di collaboratore, oltre che misure di protezione e di copertura dell'identità, compatibili con il nuovo processo penale, anche sotto il profilo dei benefici. A Falcone non mancò mai la piena consapevolezza (tant'è che ne incriminò qualcuno per calunnia come il catanese Pellegriti) delle insidie che, in una procedura assolutamente garantista dei diritti della difesa, comportasse l'uso di tale strumento di indagine. Il suo metodo, che era solito suggerire ai giovani magistrati, era quello che, in senso figurato, si doveva sempre mettere un tavolo tra l'inquirente e il pentito, senza confidenziali incontri al caminetto, per rendere manifestamente visibile all'interlocutore che davanti aveva un rappresentante di quello Stato, che fino a poco prima aveva considerato un nemico da battere, e a cui doveva dare contezza della sua assoluta credibilità. Il metodo Falcone applicato ai pentiti suggeriva di acquisire il maggior numero possibile di dettagli, particolari, circostanze, anche apparentemente insignificanti, circa i fatti caduti sotto la loro diretta percezione, per potere trovare più agevolmente i relativi riscontri. Per dare il giusto rilievo alle motivazioni che avevano portato alla determinazione di rompere il vincolo di sangue acquisito col giuramento di appartenenza a cosa nostra, bisognava approfondire ed esemplificare con fatti concreti quelle espressioni gergali spesso usate dai dichiaranti, come, ad esempio, “Tizio è nelle mani di…”, “Caio è un uomo di…”, “Sempronio è collegato con..., Mevio è coinvolto in…”, così come valutazioni e opinioni assertive e spesso immotivate. Naturalmente, in applicazione del rigore metodologico di Falcone, bisognava evitare di mostrare particolare interesse per un argomento o per taluno degli indagati; accertare se il pentito avesse eventuali ragioni personali di vendetta o di ritorsioni nei confronti degli accusati; impedire qualsiasi possibilità di incontro dei collaboratori, in modo da poterli utilizzare, senza sospetti di preventivi accordi, come riscontri reciproci; ed, infine, mantenere un atteggiamento critico, non supinamente acquiescente, attento ad approfondire ogni elemento utile per un giudizio di piena attendibilità, come, ad esempio, la spontanea ammissione di responsabilità per reati non contestati. Il rigore metodologico di Falcone era un giusto equilibrio tra l'estrema cautela nel raccogliere dichiarazioni da soggetti che si erano macchiati di gravissimi delitti e l’ovvia considerazione che in una organizzazione criminale, che aveva fatto del segreto e dell'omertà uno dei suoi fattori di sopravvivenza, solo dalla viva voce dei protagonisti era possibile trarre elementi di conoscenza, altrimenti non acquisibili, di gravissimi episodi delittuosi.

SEMPRE ALLA RICERCA DI VERITA'. Sono queste le ragioni per cui il maxiprocesso di Palermo riuscì a resistere a 1000 eccezioni di nullità, impugnazioni, critiche anche da parte della politica, dell'informazione e soprattutto di una folta schiera di grandi avvocati di tutta Italia. Fu così che il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente (cui aveva ceduto il posto il collega Carnevale per ragioni di opportunità, stante l'infuriare di aspre polemiche per la mancata rotazione nelle cariche) pronunciò la sentenza definitiva che sanciva l'esistenza di cosa nostra e della sua struttura unitaria e verticistica, accogliendo in pieno l'impianto accusatorio della sentenza di primo grado. Un colpo durissimo per un’organizzazione che per la prima volta, dalla sua ultracentenaria esistenza, vide i suoi vertici condannati all'ergastolo, col vantaggio, per gli altri giudici che si sarebbero occupati di cosa nostra, di potersi limitare a provarne l'appartenenza. Si infranse così il mito dell'invincibilità e dell'impunità della mafia e si realizzò la concreta azione di uno Stato che in tutte le sue componenti, magistratura, forze di polizia, governo e Parlamento, si mostrò finalmente deciso a interrompere il rapporto di connivenza, di sudditanza e di indifferenza di cittadini e istituzioni. Del “metodo Falcone” non bisognerebbe trascurare un particolare e cioè che Falcone, nonostante tutte le accuse rivoltegli in vita: di essere dapprima comunista, poi andreottiano, infine socialista (quando fu chiamato al ministero della giustizia da Martelli), non si fece mai influenzare da idee o motivazioni che non rientrassero nella sua strategia di politica giudiziaria. Seguendo la sua visione della lotta alla mafia, cercava di volta in volta di ottenere l'aiuto e la collaborazione di chi poteva dargli l'opportunità di realizzare il suo obiettivo: l’ostinata ricerca di verità e di giustizia nel solo interesse di liberare i cittadini e le istituzioni dalla pesante oppressione della mafia.

IL "METODO FALCONE” COME MATERIA DI STUDIO. In conclusione, tutti i successi ed i risultati ottenuti sino ad oggi nel contrasto a cosa nostra e alle altre organizzazioni di tipo mafioso, non ho remore ad affermarlo con convinzione, costituiscono il frutto diretto del “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, o meglio della estrema capacità personale e professionale di Giovanni Falcone. Infatti, le fondamenta della legislazione antimafia furono edificate proprio da lui, quando, dopo gli ostacoli che lo avevano convinto a lasciare la procura di Palermo, si trasferì, come direttore generale degli affari penali presso il ministero della giustizia. In quell’anno (era il 1991), oltre la già citata legge sui pentiti e sui sequestri di persona, videro la luce norme per obbligare le banche e gli istituti finanziari a segnalare le operazioni sospette ai fini di riciclaggio di proventi illeciti; furono istituiti i servizi centrali (ROS, SCO, GICO) e interprovinciali di polizia giudiziaria, costituiti rispettivamente da carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza, per assicurare il collegamento investigativo. Fu creata, per accentrare tutte le indagini sulla mafia, la direzione investigativa antimafia, organo interforze accostato dei giornali ad una sorta di FBI italiana, la procura nazionale antimafia (DNA) e le direzioni distrettuali antimafia DDA), strutture indispensabili per coordinare tutte le indagini svolte dalle procure distrettuali sulla criminalità organizzata nazionale e transnazionale e sui traffici collegati. Questo modello, questo metodo di lavoro condiviso era, per Giovanni Falcone, null’altro che la trasposizione sul piano nazionale dell'esperienza del pool antimafia maturata negli anni del suo eccezionale impegno a Palermo. È difficile oggi spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni eroici, quali forze, quale coraggio, quale capacità di resistenza siano state necessarie per superare migliaia di ostacoli personali, materiali e giuridici. È difficile oggi raccontare come Falcone portasse avanti il suo lavoro nonostante le invidie, le calunnie, i veleni e gli schizzi di fango lanciati contro di lui. Così come far comprendere con quale spirito di servizio e rispetto dei ruoli istituzionali, dopo il trasferimento di Caponnetto e la nomina di Antonino Meli come nuovo capo dell'ufficio istruzione, pur preferito dal consiglio superiore della magistratura a lui, che più di tutti la meritava, collaborò, suo malgrado, a smantellare e a smembrare tutte le indagini, trasferendole ad altri uffici giudiziari, dal suo capo ritenuti, con ottuso formalismo, competenti per territorio, secondo una logica e una strategia giudiziaria completamente opposta rispetto a quella da lui precedentemente seguita. Ritengo che oggi sia giusto che tutti gli operatori di giustizia e tutti i cittadini sappiano quanto dobbiamo a Falcone e a quello che, genericamente, è stato più volte definito come il “metodo Falcone”. Se proprio vogliamo accettare questa definizione con tutto quello però che la contraddistingue, ritengo che il miglior riconoscimento a tutta la sua vita fatta di dedizione, di sacrifici e di professionalità sia quello di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura, per meglio formare i giovani magistrati, che si apprestano a svolgere funzioni così importanti per i cittadini e per la società, una nuova materia: il “metodo Falcone”.

Quello che ha rappresentato per lo Stato, scrive il 24 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio De Francisci - Giudice del pool antimafia dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo nei primi anni '80, oggi è procuratore generale della Repubblica di Bologna. Dopo ventisei anni dall’assassinio di Giovanni Falcone mi viene chiesto di raccontare cosa fosse il “metodo Falcone”. Ho esitato a lungo prima di accogliere la richiesta di Attilio Bolzoni perché mi sembrava di dire sempre le stesse cose e quindi essere poco utile o, peggio, inutilmente ripetitivo. Poi ci ho ripensato, e ciò sia per la cortese insistenza di Bolzoni sia perché sempre più spesso, incontrando giovani colleghi o studenti, specie qui in Emilia Romagna, mi rendo conto quanto la figura e le opere di Giovanni Falcone siano poco conosciute e quindi non siano diventate memoria collettiva. Troppo poco si sa di lui e quindi torno a parlare di lui, di quello che ha rappresentato per l'azione dello Stato italiano contro la mafia. Troppe volte, quando dico che il 23 maggio devo essere a Palermo, mi si chiede il perché; questa data non è entrata nella comune memoria e invece dovrebbe essere scolpita nella coscienza di ogni italiano. Il segreto del metodo Falcone non aveva nulla di segreto; era tutto nella persona di Falcone, nelle sue qualità umane prima ancora che professionali. La sua assoluta serietà nel lavoro, impegno totalizzante di tutta la sua vita. Lavorare con lui, che per me fu un grande privilegio, significava adottare i suoi ritmi di lavoro o almeno cercare di avvicinarsi a quelli. Falcone non aveva hobby, passatempi, non giocava a calcetto, non scalava montagne, lui stava in ufficio. Le trasferte di lavoro, anche all'estero, con Falcone sono state per me una scuola di elevato livello, con esami continui, con lui sempre in prima fila e tu dietro a seguire, a imparare, a stare zitto, a fare domande dopo, nelle pause. Si imparava a interrogare i detenuti, con calma, a volte col sorriso, sempre con serenità e rispetto. Mi tornano in mente mille episodi, alcuni anche divertenti, che per me hanno significato apprendimento di tecniche, di stile, di vita professionale. La prima trasferta a Milano con lui, interrogatori nella sede della Criminalpol. Gli chiedo il permesso, a fine pomeriggio, di andare in piazza Duomo, non ci andavo dagli anni dell'infanzia. Gli chiedo di andare insieme, mi risponde di no: vai tu, io devo finire di leggere qualche carta. Lui non mollava mai. E poi ancora a Marsiglia, seconda metà degli Anni Ottanta, indagine per un traffico di stupefacenti tra Italia, Francia e Stati Uniti. La polizia francese ci invita a pranzo prima degli interrogatori fissati nel pomeriggio; era una splendida giornata di sole, ristorante sul mare, mi ricordo ancora quasi tutto il menu. Lui mangia come tutti, ma finito il pranzo è pronto per iniziare a lavorare, io molto meno, cerco di stare al passo, ma con esiti molto modesti. Quel giorno ho imparato che quando si lavora, meno si mangia e meglio è. Lui capì la mia difficoltà, non mi disse nulla, ma io sapevo che aveva capito e, almeno quella volta, perdonato. E poi la sua lealtà nei confronti di tutti i colleghi, specie quelli giovani, che trattava con rispetto e con grande umanità. Mi correggeva qualche mio scritto sempre in punta di piedi, senza commenti sgradevoli, con brevi tratti di penna stilografica. Non sopportava i superficiali, gli spregiudicati, gli arruffoni. Era coraggioso come sanno esserlo le persone serie che hanno consapevolezza dei rischi che corrono, ma credono di avere gli strumenti per superarli. Ricordo perfettamente, durante un interrogatorio di alcuni mafiosi americani negli Stati Uniti, le minacce che uno di questi gli rivolse; in tono untuoso e con la faccia che dice più delle parole, in perfetto stile mafioso. Io percepii la serietà della situazione, ma non lo vidi particolarmente preoccupato, ma conscio che quella inchiesta aveva smosso acque stagnanti. Aveva una fiducia illimitata nel rapporto con gli organi investigativi degli Stati Uniti, preparava con precisione ogni viaggio oltre Atlantico tutte le carte, le domande pronte, l’elenco degli atti da chiedere ai colleghi americani. Si entusiasmava financo del caffè americano che ci veniva offerto ovunque con generosità. Apprezzava quel sistema giudiziario, ma senza le approssimazioni utilizzate da chi vuole importarlo da noi solo nei limiti della convenienza del momento. Sognava un pubblico ministero nuovo, non poliziotto ma che guidava la polizia giudiziaria, che partecipava attivamente alle indagini, delegando solo l’indispensabile, interrogando imputati e testi, e soprattutto conoscendo ogni carta del processo. Sono passati 26 anni. Che ne è dell'insegnamento di Falcone? Quanto è stato realizzato della sua visione del mondo giudiziario? Non sono il più indicato per rispondere a queste domande. Certamente il Ministero della Giustizia (dove egli dette il meglio di sé), negli anni, ha portato avanti molte delle sue idee e i metodi di indagine da lui inventati e sperimentati sono stati diffusi in tutte le Direzioni Distrettuali Antimafia, organismo che lui ideò e che ha consentito di accentrare in sede distrettuale le indagini di mafia, obiettivo che oggi sembra facile aver raggiunto, ma che, allora, fu una rivoluzione e che ha impiegato anni per funzionare a regime. La Direzione Nazionale Antimafia, altro frutto delle sue idee, anche se diversa da quella da lui pensata, si muove comunque nel solco del metodo Falcone e del suo esempio. E non è poco.

Mafia: Fico, meglio mano in tasca che su cuore di traditori Stato, scrive Adnkronos riportato il 23 Maggio 2018 da "Il Dubbio". “Il rispetto per il Paese - scrive Fico - passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle […] “Il rispetto per il Paese -scrive Fico- passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle emozioni, piuttosto che tutto quanto detto e fatto in questa meravigliosa giornata. Preferisco una mano in tasca per qualche secondo alla mano sul cuore di chi poi tradisce lo Stato”. Poi il presidente della Camera prosegue sulla strage di Capaci: “Ciò che avvenne quel 23 maggio del 1992 ha smosso l’anima del nostro Paese, come ha smosso la mia. Ricordo perfettamente quel pomeriggio, quando si diffuse la notizia della strage di Capaci e della morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta”. “Il percorso che ho intrapreso in questi anni deriva anche da quella giornata, da quella sensazione e da quella presa di coscienza che non avrei più dimenticato: bisogna decidere da che parte stare, ogni giorno. Perché ogni giorno possiamo lottare contro la mafia attraverso il nostro lavoro e le nostre azioni”.

Memoria d'accusa: quando Giovanni Falcone denunciava il caso Palermo. Ecco l'intervento del giudice ucciso che L'Espresso ha pubblicato in esclusiva il 18 settembre 1988. «C'è un senso di scoraggiamento. Ci hanno messo nella condizione di non muoverci», scrive Pietro Calderoni il 23 maggio 2018 su "L'Espresso". Ecco l'atto d'accusa che il giudice palermitano Giovanni Falcone ha fatto domenica 31 luglio (1988 ndr) davanti al Comitato antimafia del Consiglio superiore della magistratura. È una testimonianza eccezionale (l'audizione era segreta) e sconvolgente con la quale il magistrato più esposto nella guerra contro “Cosa nostra”, per la prima volta, ha parlato esplicitamente degli intralci nel suo lavoro, dei contrasti insanabili col suo capo, il consigliere istruttore Antonino Meli, del tentativo di smembrare e di fatto disinnescare il “pool” antimafia, dell'impossibilità - visto il clima che tira nell'Ufficio istruzione di Palermo - di continuare a istruire i processi. Insomma, dice Falcone, qualcosa si è inceppato nella lotta alla mafia. E spiega il perché. Falcone denuncia che, al Palazzo di giustizia di Palermo, è in corso uno scontro, decisivo, tra due modi d'intendere la lotta alla mafia. Da una parte, il consigliere Meli, reo di voler gestire il delicatissimo momento giudiziario in forma esclusivamente burocratica, rallentando l'iter dei processi più importanti e svilendo il lavoro del pool; dall'altra parte, appunto, i giudici del pool antimafia, con Falcone in testa, preoccupati per questo calo di tensione negli uffici giudiziari palermitani. È una polemica che nasce, in realtà, il 20 luglio dopo una intervista, a “Repubblica”, del giudice Paolo Borsellino, fino a qualche tempo prima nel gruppo dei giudici antimafia di Palermo e poi passato a dirigere la procura della Repubblica di Marsala. Borsellino fa pesanti accuse: «Stiamo tornando indietro come vent'anni fa», dice. E aggiunge: «Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata come prima, più di prima». Non solo: Borsellino sostiene che Meli ha cominciato a smantellare, con i pretesti più diversi, il pool anti mafia. Meli replica stizzito che non è vero. Le gravi parole del giudice Borsellino, però, non cadono nel vuoto. Nemmeno 24 ore dopo l'intervista, infatti, è addirittura il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, a intervenire chiedendo che sia fatta piena luce su quello che sta accadendo all'interno del Palazzo di giustizia di Palermo. Lo scontro fra Meli e Falcone, fino a quel momento covato sotto la brace, emerge in tutta la sua crudezza. Uno scontro che, il 19 di gennaio (1988 ndr), aveva avuto il suo prologo, quando il Consiglio superiore, premiando l'anzianità rispetto alla professionalità e alla competenza specifica, aveva deciso di nominare, a strettissima maggioranza, dopo lunghe discussioni e spaccature, consigliere istruttore di Palermo proprio Meli invece di Falcone. Alla fine di luglio, dunque, in una Roma oppressa da un caldo africano, le porte del palazzo dei Marescialli, dove ha sede il Csm, si aprono per ascoltare le ragioni dei protagonisti. È un'indagine il cui epilogo è destinato a emergere dalla riunione del Consiglio fissata a partire da martedì 13 settembre. A luglio, il giudice Borsellino conferma le sue parole. Subito dopo, davanti agli 11 membri del Comitato antimafia del Csm, si siede Giovanni Falcone. Ha appena consegnato una lettera in cui chiede di essere trasferito in un altro ufficio; lui, l'uomo che ha istruito il maxiprocesso, che per primo ha raccolto le confessioni di Tommaso Buscetta, che ha incriminato il sindaco democristiano Vito Ciancimino, che ha indagato per scoprire gli assassini dei grandi delitti eccellenti, da quello di Piersanti Mattarella a quello di Pio La Torre, dice che così non ha più senso andare avanti. E ricorda, accusa, elenca, davanti agli altri giudici del Consiglio superiore della magistratura, portando esempi, rievocando fatti, rivelando episodi rimasti fino a quel momento segreti. Il lungo intervento di Falcone è introdotto dal consigliere Carlo Smuraglia: «Falcone, la ringraziamo per essere qui. Lei conosce le ragioni... la preghiamo di parlare». E il giudice parla.

Parole di Falcone. «Si è verificata purtroppo una situazione di stallo che ci sta portando verso quella gestione burocratica dei processi di mafia che è stata la causa non secondaria dei fallimenti degli anni, dei decenni trascorsi. Cosi vengono a confronto due filosofie del fare il giudice: quella che prevede una gestione burocratica-amministrativa-verticistica dell'Ufficio e quella che tende ad ottenere i risultati dell'istruttoria. Il consigliere Meli spesso, molto spesso, mi sollecita a chiudere le istruttorie, ma certi processi hanno bisogno del loro sfogo, certi processi politici, come l'omicidio Mattarella [era il presidente democristiano della Regione, dc, ndr.], quello La Torre [era il segretario regionale del Pci siciliano, ndr.] o quello Parisi [Roberto Parisi, presidente del Palermo calcio, ndr.] non si possono chiudere, a meno che non si voglia fare il solito fonogramma al Commissariato chiedendo l'esito di ulteriori indagini e, alla risposta che l'esito è negativo, chiudere la solita bellissima sentenza contro ignoti. «Il problema è cominciato a diventare più pressante con l'insediamento del consigliere Meli. Ci saremmo aspettati quanto meno di essere convocati per uno scambio di idee, per discutere dei problemi enormi, materiali e di gestione di tutti questi processi, ma nulla di tutto questo è avvenuto... Se c'è una filosofia del pool, del lavorare insieme in materie così intimamente connesse come quelle che riguardano le attività mafìose, era proprio quella di cercare di seguire sempre l'evolversi delle varie indagini per vedere attraverso un esame globale del fenomeno di poter incidere in maniera più efficace; senonché ci siamo accorti che mano mano le cose cambiavano. I processi venivano assegnati con un criterio da noi non conoscibile e in contrasto coi criteri predisposti e approvati dal Consiglio superiore della magistratura, criteri che prevedevano che a quel gruppo di sezioni dovessero essere affidati tutti i processi di mafia... Tutto questo invece non veniva osservato: non soltanto non veniva osservato, ma noi non ne conoscevamo il perché».

IL SEQUESTRO MISTERIOSO. «Faccio un esempio, il processo per l'omicidio di Tommaso Marsala [industriale, ucciso nel 1987, titolare dell'appartamento-base dei killer del vicequestore Ninni Cassarà, ndr.]: Marsala era imputato dell'omicidio Cassarà, era stato scarcerato per mancanza d'indizi ma permanevano sul suo conto pesanti sospetti. A un certo punto Marsala viene ammazzato: dopo l'inchiesta sommaria il processo contro ignoti viene formalizzato e assegnato al giudice Lacommare. Egli prospetta dci motivi di opportunità [poiché evidentemente non fa parte del pool antimafia, ndr.], ma gli viene risposto che un po' tutti si devono occupare d'indagini di mafia. «Lo stesso avviene col processo per il sequestro di Claudio Fiorentino [il maggior gioielliere palermitano, rapito il 10 ottobre 1985, ndr.], che è uno dei fatti più gravi e più significativi su cui occorre, a mio avviso, approfondire le indagini. I Fiorentino erano già venuti fuori nel 1980, ai tempi del processo Spatola [il clan mafioso in contatto anche con Michele Sindona, ndr.] per una sorta di attività di riciclaggio di denaro, dollari statunitensi di provenienza illecita, Il sequestro appariva abbastanza anomalo e soprattutto in contrasto con un divieto di compiere sequestri di persona stabilito da Cosa Nostra in Sicilia. Quindi delle due l'una: o il sequestro era finto o erano cambiate le regole di Cosa Nostra; fra l'altro il sequestro era avvenuto in territorio Partanna-Mandello, cioè in una zona molto vicina ai Corleonesi e quindi si trattava di cercare di fare luce sull'episodio. Bene, questo processo il Consigliere istruttore se lo assegna a se stesso senza dare nessuna spiegazione in merito. A questo punto prendiamo atto di questa realtà e gli chiediamo copia degli atti, una richiesta che ci consentiva di vedere se e quali agganci potessero esserci con altri processi in corso. Tra l'altro segnaliamo al Consigliere, nella nostra richiesta, l'esigenza indifferibile del potenziamento del pool; gli abbiamo detto, nei modi più garbati, che in questa maniera si smembra tutto, gli abbiamo spiegato i motivi per cui noi ritenevamo che quei processi avessero attinenza al gruppo antimafia; infine gli abbiamo ricordato che all'Ufficio istruzione esiste uno strumento informatico molto importante, creato da noi giorno dopo giorno, per cui la conoscenza di quel processo ci serviva anche per inserire gli atti nell'elaboratore elettronico...«Succede che, di fronte a queste nostre richieste, il consigliere avoca la titolarità del processo contro Cosa Nostra... E poi si rifiuta di trasmetterei copia degli atti richiesti affermando che dovevamo chiedere atti determinati e non tutti gli atti. Io mi chiedo com'é che potevamo chiedere atti determinati se non li conoscevamo! «Poi sono cominciati ulteriori problemi, da ultimo questo processo per l'omicidio di Antonio Casella (grosso imputato, chi si occupa di queste indagini sa bene che significa questo nome: Edilferro eccetera), fatto di gravità inaudita, perché significa una spaccatura all'interno della maggioranza egemone [di Cosa Nostra, ndr.]. Naturalmente chiedo ai colleghi della Procura: "Quando lo formalizzate, me lo fate sapere". Il processo viene assegnato al collega Grillo, il quale, appena lo legge, va da Meli e gli dice: "Ma guardi, cosa c'entro io?". Risponde Meli: "Ah, non me ne ero accorto''. Allora io dico, come si fa a non accorgersi di un fatto del genere, significa non aver letto nemmeno il rapporto, cioè fare l'assegnazione solo sulla copertina. Allora, per rimediare, è un po' maligna la cosa, il Consigliere Meli assegna il processo per l'istruttoria di questo omicidio a otto persone! Ora io chiedo, come si fa a istruire così, un processo del genere? La risposta la lascio alla vostra intelligenza. «E poi in queste assegnazioni, stranamente, alcuni colleghi del gruppo antimafia non vengono presi in considerazione, nel senso che non vengono loro assegnati questi processi, ma processi ordinari, processi per rapine... Tutta una serie di processi del carico ordinario li abbiamo istruiti sempre; ma, se si aumenta indiscriminatamente il carico ordinario, ci fermiamo tutti e difatti quando io parlo di situazione di stalla, intendo dire che adesso le indagini, gli interrogatori, gli esami testimoniali, li posso fare soltanto io perché gli altri sono occupati a gestirsi l'ordinario. E a questo punto ci blocchiamo tutti. «Ecco io non lamento altro; però una cosa è molto seria, questa mancanza di comprensione dei problemi. Il Consigliere non ha letto ancora una pagina del processo di cui è formalmente assegnatario, ma ha determinato tutta questa serie di reazioni a catena per cui ci siamo inevitabilmente fermati tutti. E io personalmente non intendo avallare una gestione di processi di questa gravità in una visione burocratico amministrativa».

IL BLOCCO TOTALE. «Io non intendo assolutamente sovraccaricare nulla e ho sempre ispirato la mia condotta alla volontà di sdrammatizzare tutti i problemi, ma le condizioni obiettive sono queste: noi ci troviamo bloccati da fatti che, presi uno per uno, sembrano delle miserie, ma presi globalmente bloccano tutto. Tutta questa situazione all'interno dell'Ufficio in realtà ha prodotto il blocco totale. Ci trastulliamo con vicende che non meriterebbero nessuna attenzione, mentre sui nostri problemi non riusciamo a concentrarci».

Domanda il consigliere Guido Ziccone, del Sindacato magistrati: «Da come lei ha riferito i fatti, mi sembra di aver capito che c'è una serie di difficoltà che mano a mano sono emerse, evidenziate dal modo in cui questo pool ha ragionato e operato. È un modo che il Consigliere istruttore avrebbe voluto o vorrebbe modificare?»

Falcone: «Io non so nemmeno se vuole che ci sia un pool, e con quali persone, perché non ce ne ha informato ancora!».

Ziccone: «La cosa che mi colpisce, che colpisce tutto il Paese... è come si arrivi a questa diagnosi d'impossibilità di andare avanti... ».

Falcone: «C'è un senso di scoraggiamento da parte dei colleghi... Le faccio un altro esempio (ma ne potrei fare centinaia di questo esempi): processo per truffa di miliardi alla Sicilsud Leasing, processo molto importante sorto fra l'altro da indagini che avevamo fatto noi (io in particolare) e che poi sono state sviluppate dalla Procura della Repubblica e dalla Guardia di finanza; processo in cui ancora una volta viene a trovarsi coinvolto, come perno, Tommaso Marsala.

IL PROCESSO NEGATO. «Essendo un processo molto importante, aspettiamo che arrivi all'ufficio istruzione; finalmente un giorno telefono alla cancelleria c mi dicono che è arrivato da una decina di giorni; chiedo a chi è assegnato c mi rispondono che è assegnato anche a me. Pensando di dover lavorare anch'io, chiamo il collega assegnatario e gli chiedo quando ci riuniamo per parlarne. Risponde di no, che è inutile riunirsi, che io posso richiedere la sola copia degli atti. Pensando che ci fosse l'assegnazione congiunta, vado a vedere e l'assegnazione è in questi termini: il processo è assegnato al giudice istruttore Barrile e, limitatamente agli atti che potrebbero essere importanti nelle indagini su Marsala, anche ai giudici Falcone e Lacommare; s'inserisce una terza persona ed ecco che siamo in quattro. Ora io vi chiedo: sulla base di questa delega, come ci possiamo muovere noi?... Cosi mi si mette in condizioni di non muovermi, non posso fare nulla. Giorno dopo giorno c'è un problema, poi quando cerchiamo di far capire queste cose, ti spunta sul “Giornale di Sicilia” un comunicato: basta coi miti, queste beghe fra magistrati, queste sono beghe fra cordate di magistrati, tutti sono in grado di fare tutto. Voglio dire che è tutta una serie di colpi di spillo che ti mette in condizione di non muoverti. Certo, se scomponiamo e rianalizziamo queste vicende, sono tutte risolvibili, però, poi, in concreto ti accerchiano c non ti muovi. Tutto questo ti delegittima, tutto questo t'impedisce di andare avanti; diceva Dalla Chiesa che Palermo era una città dove il “prestigio” conta...».

Domanda il consigliere Smuraglia: «Rispetto a quando è venuto a Palermo il Comitato antimafia del Consiglio, cioè a fine gennaio, la situazione complessiva è migliorata, è rimasta uguale o è peggiorata?».

Falcone: «io direi che al peggio non c'è mai fine, ma certo migliorata non è... Recentemente mi è capilato di dover rivivere quegli stessi errori che abbiamo censurato per il passato. Agli inizi degli anni '60 certe frasi come “rappresentante”, “famiglia mafiosa”, “reggente” (tutto un insieme di notizie che poi ci sarebbero state dette anche da Tommaso Buscctta) c'erano già scritte nei rapporti. Poi, dagli anni '70 in poi, tutto questo sparisce, perché? Per la mancanza di memoria storica, per la mancanza di professionalità specifiche per questi problemi. Cosi noi ci troviamo adesso in una situazione identica a quella di prima che iniziassimo le indagini istruttorie... Adesso constatiamo scarsezza di collaborazione e di entusiasmo, io non vedo funzionari di Polizia nel mio ufficio da mesi, mesi e mesi...».

L'AUTISTA AL COMPUTER. Smuraglia: «Il Procuratore Borsellino ci ha detto che adesso dei computer, dell'impiego degli elaboratori elettronici si occupa il collega De Francisci».

Falcone: «Se ne occupava! Perché Dc Francisci, occupato anche lui nell'ordinario, è costretto a diradare il suo impegno nell'informatica ed il laboratorio viene gestito da un commesso, l'ex autista di Chinnici...»

Smuraglia: «Non è arrivato un tecnico?»

Falcone: «No, no, no. Queste elaborazioni vengono affidate a questa persona dotata di sensibilità, che però può omettere dei dati che per noi sono significativi e per lui non lo sono».

Domanda il consigliere Pietro Calogero: «Il ricorso al carteggio che si è dispiegato in questi mesi fra i componenti del pool e il consigliere Meli a cosa è dovuto? Qual è la ragione del ricorso allo scritto tra componenti dello stesso ufficio?».

Falcone: «Noi abbiamo fatto ricorso allo scritto solo dopo che ci siamo resi conto che non c'era alcun dialogo. Io stesso più d'una volta l'ho detto al Consigliere: incontrati con noi, non vogliamo altro che lavorare in piena armonia. Non è stato possibile».

Calogero: «Quindi anche la richiesta di copia degli atti in ordine al sequestro Fiorentino, era stata preceduta da richieste verbali di conoscere gli atti del processo?».

Falcone: «Erano andati a parlare con Meli sia Natoli che Trizzino... Insomma nel concreto: ci siamo resi conto che se l'è assegnato lui, ritenendo che fosse un qualcosa di ordinario e credo che forse tuttora non sia convinto che sia importante questo processo, ma in realtà è molto importante».

Calogero: «In relazione ai processi che si è autoassegnato, processi di mafia s'intende, risulta che Meli abbia svolto atti istruttori?».

Falcone: «No...».

Il consigliere Massimo Brutti: «Vorrei che Falcone ci desse tutte le indicazioni possibili sulla base della buona volontà per uscire dall'impasse, perché si possa risolvere tutto questo problema nella chiarezza».

Falcone: «La buona volontà da parte nostra c'è tutta. Io penso che il punto focale è che il Consigliere Meli dovrebbe comprendere che non c'è nessun complotto di nessun genere. Meli, a mio avviso, è stato male informato. Io credo che non abbia compreso un fatto fondamentale: che noi non abbiamo altri interessi che non siano quelli istituzionali. Ma, vivaddio, tutte le responsabilità, tutte le colpe saranno perseguite, a qualsiasi partito appartengano coloro che abbiano commesso determinati reati. Solo a queste condizioni io sono disponibile per continuare. Ripeto, purché tutti quanti ci si renda conto che bisogna lavorare serenamente, in buona fede e senza fini di altro genere».

"Ho tollerato le accuse in silenzio". Le parole di Giovanni Falcone, tratte da lettere e libri del giudice ucciso, scrive il 23 maggio 2012 "L'Espresso".

Lettera di Giovanni Falcone al CSM, Palermo, 30 luglio 1988, ora in G. Monti, Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia, Editori Riuniti/L’Unità, Roma, 2007, pp. 88-90. Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto, ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità dell’ufficio. È certo però che esulava completamente dalla mia mente l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo svolgimento della mia attività. Il ben noto esito di questa vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale. Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere. Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti. Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia. […] Mi auguro che queste mie istanze, profondamente sentite, non vengano interpretate come gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio di chi è costretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio pensiero senza condizionamenti di sorta. 

Da "Cose di Cosa nostra", in collaborazione con Marcelle Padovani, 1991, edizione del maggio 2004, p.8'2-83 e p.170-171. Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. […] Sono uomini come noi. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia […] Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcuni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente innocue, certi comportamenti, che nel resto d’Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito […] Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. 

Da "Interventi e proposte" (1982-1992), Sansoni editore, pp.304-305. Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di "emergenza", in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali […].

Dopo le inchieste della magistratura, ora la politica ritrovi le responsabilità di quegli anni. La nuova Commissione antimafia deve continuare il lavoro interrotto. E svolgere nuovi approfondimenti per fare luce sui lati oscuri di quel periodo, scrive Lirio Abbate il 22 maggio 2018 su "L'Espresso". Le indagini su gravi episodi di omissione e depistaggio hanno portato negli ultimi anni a nuovi processi per le stragi del 1992, aperti a Caltanissetta. Processi rifatti e nuovi imputati alla sbarra. E nuove sentenze di condanna sono arrivate. Per l'attentato di Capaci si sta ancora processando il latitante Matteo Messina Denaro, considerato uno dei mandanti. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, alla partenza della nave della Legalità che porta gli studenti di tutta Italia a Palermo ha detto: «Il 23 maggio è una data che non si può dimenticare, viene ricordata ogni anno la data del vile attentato di Capaci. Da allora si è sviluppato un movimento di reazione civile prezioso e importante, contro la mafia che ha ottenuto risultati importanti ma che richiede ulteriori impegni». Del periodo stragista di ventisei anni fa e si è occupata la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi che ha affrontato il carattere politico-mafioso di quelle stragi. Sono stati sentiti i magistrati di Palermo e Caltanissetta, i componenti della famiglia Borsellino, dalla sorella Rita, al fratello Salvatore, alle figlie Fiammetta e Lucia. È stato audito anche il magistrato Gianfranco Donadio, per il suo ruolo di procuratore aggiunto della direzione nazionale antimafia, e per i peculiari compiti che gli erano stati affidati, per il quale è stato un protagonista delle indagini sulle stragi «con un inevitabile strascico di polemiche e di ulteriori vicende anche giudiziarie». I commissari hanno svolto un grande lavoro che però non si è potuto allargare, per mancanza di tempo, e di fine legislatura. È adesso compito della prossima Commissione antimafia a svolgere ulteriori approfondimenti, tentando – sempre che ci sarà la volontà politica - di far luce su alcuni aspetti di queste oscure vicende. Le inchieste giudiziarie faranno il loro corso, ma è opportuno dare maggiore spazio all’inchiesta politica e all’analisi storica sulle responsabilità – politiche? - di quegli anni.

Perché Giovanni Falcone vive ancora oggi. Dal giorno dell'attentato il giudice ha cominciato a rinascere, a diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Sino a essere, con Paolo Borsellino, punto di riferimento di chi crede in una giustizia capace di schiacciare la sopraffazione e la mentalità mafiosa. Per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2016. Giovanni Falcone ha iniziato a rinascere proprio su quel cratere dell'autostrada squarciata 24 anni fa da cinquecento chili di tritolo fatti esplodere dai mafiosi. C'è voluta questa strage, con il pesante sacrificio umano che si è trascinata, per scuotere le coscienze. E far cambiare idea non tanto ai mafiosi ma a quella pletora di nemici, pubblici e privati, che il dottor Falcone ha avuto durante la sua carriera. E a quei siciliani che continuavano a ripetere fino a quel momento: tanto si uccidono fra di loro i mafiosi. Magistrati e professionisti, politici e borghesi, che hanno attaccato il dottor Falcone in vita, dopo la sua morte come per un incantesimo hanno iniziato a dire che erano tutti amici di "Giovanni", che stimavano "Giovanni" e che gran magistrato era "Giovanni". Dopo la sua uccisione il dottor Falcone sembrava di colpo aver conquistato più amici. Anche e soprattutto fra i nemici. Che strana è la vita di questo uomo-magistrato che durante la sua carriera si è dovuto confrontare prima contro i mafiosi, che hanno cercato in più occasioni di ucciderlo, poi contro una maggioranza di suoi colleghi che proprio perché erano maggioranza lo mettevano in minoranza quando Falcone chiedeva di poter andare a ricoprire altri incarichi dove avrebbe potuto mettere a frutto l'esperienza nella lotta alla criminalità organizzata. Poi contro i politici che difendevano gli interessi dei mafiosi. E poi contro i veleni di "palazzo". Non si è fatto mancare nulla. La gente, che però non era una maggioranza, lo sosteneva. Ma i corvi avevano sempre la meglio. Ma una giustizia arriva sempre. Per tutti. Sono però tutte storie dimenticate. La strage ha fatto dimenticare - non a tutti - queste cose. Ma il dottor Falcone proprio da quell'attentato di Capaci ha iniziato a rinascere. A diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Oggi Giovanni Falcone è il punto di riferimento, come lo è anche Paolo Borsellino, di chi crede in una giustizia che può schiacciare la sopraffazione mafiosa con i loro clan e i loro affiliati. Ma anche la mentalità. Per questo Giovanni Falcone ancora oggi vive. E per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto. I magistrati di Caltanissetta dopo aver istruito diversi processi ai mandanti ed esecutori della strage, ancora oggi si trovano a puntare il dito su altri responsabili che fino adesso erano rimasti fuori dalle indagini e grazie alle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia è stato possibile individuare. Come pure il latitante Matteo Messina Denaro che per 24 anni è rimasto lontano dalle indagini e adesso i pm nisseni hanno provato il suo coinvolgimento, insieme a Totò Riina, come mandante dell'attentato. Il lavoro di Falcone dava fastidio a Cosa nostra, e per questo è stato ucciso. I pm di Caltanissetta escludono l'intervento di soggetti esterni alla mafia nell'esecuzione della strage di Capaci. Lo ha voluto ribadire poche settimane fa il pm Stefano Luciani durante la requisitoria del nuovo processo per la strage. "Abbiamo diverse dichiarazioni generiche sull'intervento di soggetti esterni, in particolare componenti dei servizi. Dichiarazioni che arrivano da persone estranee a Cosa nostra o da chi era ai piani bassi dell'organizzazione, ma nessuno di coloro che stava ai piani alti della mafia e che poi ha deciso di collaborare con la giustizia, come ad esempio Giovanni Brusca, ha mai parlato dell'intervento di esterni nell'esecuzione della strage. E allora cosa dovremmo fare? Teorizzare un enorme complotto che mirava a tappare la bocca a questi collaboratori?", ha detto il magistrato Luciani. "Ci stiamo occupando di un fatto che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese, a livello di ipotesi si può dire tutto, ma quando dobbiamo andare sul concreto dobbiamo agire sulla base degli elementi raccolti. Sono stufo di sentire dire che questo ufficio tiene la polvere nascosta sotto il tappeto. Si è parlato anche del coinvolgimento di Giovanni Aiello (ex agente di polizia reclutato dai Servizi indicato come "faccia di mostro" ndr). Abbiamo sentito molti testi, ma riscontri sicuri non ne sono arrivati. I suoi familiari hanno detto di non sapere che collaborasse con i servizi e quando ad alcuni testi è stato chiesto di descriverlo sono stati commessi errori". La Procura di Caltanissetta, che dal 2008, dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza, sta cercando di riscrivere la verità sui due attentati di Capaci e di via D'Amelio, ha messo insieme gli elementi raccolti individuando mandanti ed esecutori materiali rimasti per lungo tempo impuniti. Falcone intanto risorge.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti: "Quel giorno ho visto l'asfalto salire in cielo". Il racconto dell'attentato costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta nelle parole degli agenti sopravvissuti al tritolo, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2017 su "L'Espresso". Una delle tappe della strategia attuata dai mafiosi di Cosa nostra nel 1992 - attaccare frontalmente lo Stato - è l’attentato di Capaci al magistrato Giovanni Falcone. È una strategia funzionale alla ricerca di nuovi referenti politici. E anche per questo l’attentato viene eseguito in fretta. Totò Riina aveva premura di portare a termine il progetto di uccidere il magistrato che era il principale nemico di Cosa nostra. Perché aveva premura? Perché aveva perso il potere, non era più credibile agli occhi di alcuni boss e quindi doveva essere un attentato eclatante. Riina si era impegnato con i suoi picciotti affinché la sentenza della Cassazione ribaltasse le condanne all’ergastolo per gli imputati del maxi processo a Cosa nostra. Ma questo non era successo. Accanto all’azione dei mafiosi gli inquirenti oggi cercano di capire se possono esserci delle mani esterne ad aver agito insieme a Cosa nostra. Ciò che è avvenuto il 23 maggio 1992 lo spiegano i sismografi siciliani che registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Un’esplosione che è come una scossa di terremoto. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell’autostrada in direzione di Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. L’esplosione prende in pieno la prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggiano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Nella prima auto ci sono i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani mentre in quella che segue ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede nel sedile posteriore. Il magistrato aveva preferito mettersi alla guida con accanto la moglie. La deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l’auto del magistrato. Appena dietro c’è la terza blindata del corteo, con gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono. I tre poliziotti scendono dall’auto e cercano di dare aiuto al giudice, alla moglie e all’autista. Nonostante le lesioni riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere. Per lui è necessario aspettare i Vigili del Fuoco. Come raccontano agli inquirenti Corbo, Capuzza e Cervello, il giudice Falcone, sua moglie Francesca e l’autista Costanza dopo l’esplosione sono ancora vivi. La donna respira ma è priva di conoscenza, mentre Falcone mostra con gli occhi di recepire le sollecitazioni dei soccorritori. La corsa in ospedale in ambulanza e gli sforzi dei medici non riescono però a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione. L’autista Costanza invece, ricoverato in prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apre il corteo, nell’immediatezza dell’arrivo dei soccorsi non c’è traccia. Le prime persone arrivate sul posto pensano in un primo momento che sia riuscita a sfuggire alla deflagrazione. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma verrà ritrovata accartocciata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri di distanza, con i corpi dei tre poliziotti dentro. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l’attentato vengono ricostruiti dai tre agenti sopravvissuti alla strage. E sono loro che offrono agli inquirenti le “immagini” dell’attentato attraverso la loro descrizione di ciò che hanno visto.

Macerie dappertutto. «C’è stato un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione. Mi sono sentito catapultare in avanti», racconta Angelo Corbo. «Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dall’auto, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Uscendo si è capito della gravità della situazione, la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare nessuno. L’auto era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante. Non riuscivamo a estrarre né Falcone né la dottoressa Morvillo, altre persone sono venute in aiuto. Ricordo che non riuscivamo ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era il vetro sradicato, e con l’aiuto di volontari l’abbiamo tirata fuori dall’abitacolo. Intanto l’auto di Falcone stava prendendo fuoco, allora ci siamo attivati per spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, non so dire se era cosciente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva nulla, comunque era vivo. Si era pure rivolto verso di noi guardandoci. L’autista Costanza era sul sedile posteriore ed era sdraiato su un fianco».

Uno sguardo ormai chiuso. «Nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, ho sentito una grande deflagrazione, un’esplosione. Non ho visto più niente e non so che cosa ha fatto in quel momento l’auto», racconta Gaspare Cervello. «Non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Ho ripreso i sensi dentro l’auto, lo sportello era bloccato e solo con forza riesco ad aprirlo. Non ho fatto caso ai colleghi, se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa che mi ha dettato l’istinto è stata di uscire dall’auto e andare direttamente verso quella del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla blindata ho visto una scena straziante. L’auto era coperta da terriccio e asfalto, e c’era ancora il vetro, ma non riuscivamo a dare aiuto. Nulla. L’unica cosa che ho fatto è stata quella di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni...”, e lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti che lo schiacciava. Aveva soltanto la testa libera di muoversi. Ha mosso la testa solo per quegli attimi in cui l’ho chiamato. La dottoressa Morvillo era chinata in avanti come l’autista Giuseppe Costanza, e la prima sensazione è stata: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”. Mentre la macchina degli altri colleghi che stava davanti, non l’ho vista... Ho pensato che ce l’avevano fatta, che fossero andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo fare più niente perché la nostra auto era distrutta».

L’ultima parola: “Scusi”. «L’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è quando gli ho chiesto quando dovevo riprenderlo. Mi ha detto: “Lunedì mattina”. Io gli ho risposto: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi dia le chiavi dell’auto in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina», racconta Giuseppe Costanza. «Probabilmente era sovrappensiero perché lui allora sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendo: “Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. E lui allora mi disse: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c’è più nulla. Potevamo andare a una media di 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità».

Le mani che tremavano. «Guardavo a destra dell’auto e ho sentito un’esplosione, seguita subito da un’ondata di caldo. Mi sono girato verso la parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva», ricorda Paolo Capuzza. «Ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato e siamo andati a finire sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’auto del dottor Falcone. Sul tettuccio sentivamo ricadere tutti i massi e una nube nera. Non vedevamo niente, polvere e nube nera. Poi siamo usciti dall’auto con le armi in pugno, ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prendere il mitra, perché la mano non riusciva a tenerlo, non riuscivo a stringerlo. Ho preso la mia pistola e siamo usciti dalla blindata e ci guardavamo intorno, perché ci aspettavamo che arrivasse il colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’auto del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore. C’era un principio di incendio ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra auto, abbiamo spento le fiamme. L’incendio era proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era sul limite del precipizio, dove si era creata la voragine. Ci siamo guardati intorno per proteggere ancora il magistrato mentre il collega Gaspare Cervello chiamava per nome il dottor Falcone, che non ha risposto. Però si è girato con la testa... Abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». Era il 23 maggio 1992, 25 anni fa.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti. La drammatica testimonianza di Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, i tre agenti che si trovavano sulla terza auto blindata che seguiva quella del giudice Falcone e della scorta, scrive Lirio Abbate il 20 maggio 2016 su "L'Espresso". Il 23 maggio 1992 i sismografi siciliani dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell'autostrada in direzione di Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci. L’esplosione impatta sulla prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggia il magistrato Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Nella prima auto ci sono gli agenti della Polizia di Stato Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani mentre in quella che segue immediatamente dopo ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede però nel sedile posteriore. Falcone aveva preferito mettersi lui alal guida con accanto la moglie. La potente deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l'auto del magistrato. Appena dietro c'è la terza blindata del corteo in cui c'erano i poliziotti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono all'attentato. I tre poliziotti dopo l'esplosione scendono dall'auto e cercano di dare aiuto al magistrato, alla moglie e all'autista. Nonostante le ferite riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere e per questo è necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. Come racconteranno Corbo, Capuzza e Cervello, Falcone, Morvillo e Costanza erano vivi. La giudice Morvillo respirava, ma priva di conoscenza, mentre il dottor Falcone mostra di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli chiedono i soccorritori. Dal luogo dell'attentato dunque, Giovanni Falcone e la moglie escono vivi. La corsa in ospedale in ambulanza e poi gli sforzi dei medici non riescono a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione, mentre Costanza ricoverato con la prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apriva il corteo, nell’immediatezza dell'esplosione non c'era nessuna traccia sull'autostrada, tanto che i primi soccorritori pensano in un primo momento che fosse riuscita a sfuggire alla deflagrazione e che sarebbe corsa avanti a chiedere soccorsi. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma viene ritrovata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri completamente distrutta. È in un terreno adiacente il tratto autostradale, con i corpi dei tre poliziotti morti. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l'attentato vengono così ricostruiti dai tre poliziotti che sono sopravvissuti alla strage di Capaci. Sono queste le prime “immagini” della strage descritte grazie al racconto dei sopravvissuti.

Angelo Corbo: «Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d'aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l'esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficoltà ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far si' che c'era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all'autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dottor Falcone e della dottoressa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dottor Falcone e la dottoressa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c'era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dottoressa Morvillo e uscita dall'abitacolo della macchina. Invece il dottor Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l'altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c'era stato anche un cercare di spegnere questo principio d'incendio. Il dottor Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, però, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L'autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell'abitacolo della macchina».

Gaspare Cervello: «Dopo il rettilineo, diciamo, all'inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un'esplosione che neanche il tempo di finire un'espressione tipica che non ho visto più niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioé se erano vivi; l'unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perché poi c'era il terriccio dell'asfalto che proprio copriva la macchina; c'era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l'unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: "Giovanni, Giovanni", però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l'ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l'autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: "Ormai tutti e tre non ce l'hanno fatta", mentre la macchina davanti, non l'ho vista... Ho pensato che ce l'avevano fatta, ce l'avevano fatta, che erano andati via... ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo dare più niente perché la macchina nostra era anche distruttissima».

Giuseppe Costanza: «Io l'ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è, appunto, nel chiedergli quando dovevo venire a riprenderlo; mi ha detto: "Lunedì mattina", io gli dissi: "Allora, arrivato a casa cortesemente mi dà le mie chiavi in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina, ma probabilmente era soprappensiero perché una cosa del genere non riesco a giustificarla soprattutto da lui. Sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendoci: "Cosa fa? Così ci andiamo a ammazzare". Questo è l'ultimo ricordo che lui girandosi verso la moglie e incrociandosi lo sguardo e girandosi ancora verso di me fa: "Scusi, scusi". Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c'è più nulla. Potevamo andare a una media di 120, 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità perché la marcia era rimasta inserita era la quarta».

Paolo Capuzza: «Io ero rivolto, diciamo, un po' nella sedia della parte destra e guardavo un po' sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un'esplosione ed un'ondata di caldo è arrivata, ed in quell'attimo mi sono girato nella parte anteriore dell'autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l'asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l'autista abbia sterzato l'autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all'autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l'autovettura del magistrato. Mentre eravamo all'interno dell'autovettura, si sentivano ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioé non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiché siamo usciti dall'autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l'M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perché appunto la mano non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall'autovettura e per guardarci intorno, perché ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c'era davanti all'autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c'erano delle fiamme ed abbiamo preso l'estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l'autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c'era più il vano motore e... ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, sì Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto però si è girato con la testa come... poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». 

Queste dunque le prime immagini della strage tratte dal racconto dei sopravvissuti.

 ‘NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

Ci sono più pentiti che boss: la vera follia dell’antimafia. Costano 100 milioni l’anno ma non fanno nomi nuovi. Che dirà Salvini nella relazione? Scrive Errico Novi il 10 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Sarà interessante sentire Matteo Salvini alla sua prima relazione sui pentiti. Tecnicamente, la “Relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione”. L’ultima l’ha presentata Marco Minniti. Il nuovo ministro dell’Interno non ha ancora esordito su tale terreno. Sappiamo solo che vuole «togliere anche le mutande, ai bastardi mafiosi». Ma come? Attraverso le confessioni dei collaboratori di giustizia? Non che tocchi a lui, certo, la prima linea della lotta alla mafia, presidiata da magistrati e forze di polizia. Eppure spetta al Capo del Viminale riflettere sulle decisioni della Commissione centrale, che decide se e a chi applicare i programmi di protezione. È al ministro dell’Interno che è giusto chiedere conto dell’efficacia del sistema. Ed eventualmente, di predisporre modifiche alle norme. A oggi le collaborazioni sono regolate dalla legge 82 del 91 così come modificata dalla legge Amato, la 45 del 2001. Naturalmente sono decisive le azioni e le valutazioni dei magistrati, compresi quelli della Direzione nazionale Antimafia, che presentano relazioni e pareri su ciascun aspirante pentito. Ma sarà Salvini a dover riflettere su due dati: il numero totale dei collaboratori di giustizia, che secondo l’ultima statistica disponibile, quella presentata appunto dal predecessore Minniti nel giugno 2017, è di 1.277 unità; l’altro dato è il numero dei boss in carcere, che si può desumere semplicemente dai detenuti in regime di 41 bis: in tutto, 730 persone. I secondi, cioè i capimafia, sono poco più della metà di chi è “beneficiato” e protetto affinché aiuti a scovare nuovi boss. Ha senso tutto questo?

Il regime speciale di detenzione resta uno dei vulnus giuridici più gravi, in Italia, ed è stato scientificamente liquidato come incostituzionale dall’ultima commissione Diritti umani del Senato. Ma qui interessa ragionare sul meccanismo che consente di decapitare le cosche. E chiedersi se i collaboratori di giustizia siano davvero ancora utili allo scopo. La domanda, peraltro, viene suggerita da una fonte riservata dello stesso ministero dell’Interno: «I programmi di protezione sono costosi. Sono anche una scelta giudiziaria. Negli ultimi anni l’impegno complessivo dello Stato su questo fronte non è mai sceso al di sotto degli 80 milioni di euro. E se si considera il costo degli immobili messi a disposizione dei pentiti, si arriva sicuramente ai 100 milioni annui. Adesso», continua la fonte, «i collaboratori di giustizia propriamente detti dovrebbero aver superato quota 1.300. Ma se un magistrato riconosce il valore delle dichiarazioni di un mafioso, o di un camorrista, e se riferisce alla Commissione centrale che quel soggetto va ammesso al programma, ritiene che l’aspirante pentito possa servire ad accertare la verità. Ecco, per esempio, dovrebbe consentire di portare al 41 bis almeno un paio di soggetti di spessore. Non può limitarsi ad additare qualche gregario, né ad attribuire il novantesimo omicidio a Riina, cioè a chi tanto è già al 41 bis o è morto». È chiaro che se al 41 bis c’è un numero di criminali pari a poco più della metà di chi si pente, i conti non tornano. «E forse le direzioni distrettuali antimafia su questo dovrebbero riflettere», chiosa l’interlocutore del Viminale. Da una delle Dda più impegnate quanto a collaboratori di giustizia, quella di Napoli, viene poi fatto notare l’altro aspetto del problema: «Molti di coloro che sono ammessi al programma di protezione sono ormai figure di bassissimo spessore. Piccoli criminali che non hanno capacità di direzione strategica. Vanno protetti, ma non sono in grado di dare informazioni di peso. Ciononostante portano dietro costi enormi». Quello di Napoli è il distretto di Corte d’appello che produce più pentiti. Sui 1.277 totali, quasi 800 vengono da lì. I “collaboratori” dell’area che fa capo al capoluogo campano hanno famiglie numerosissime. Da proteggere a loro volta. Non solo mogli (le donne pentite restano pochissime, 63 in tutta Italia conto 1.214 uomini). Spesso si aggiungono le nuove compagne, magari con rispettivi figli nati da precedenti relazioni. Delle comunità complesse, diciamo così, che fanno lievitare in modo impressionante l’altro dato significativo dell’affare “collaboratori”: i congiunti a cui si estende il programma. A livello nazionale sfiorano l’astronomica cifra delle 5.000 unità: sono, precisamente, 4.915. C’è solo un’annata, nella cronologia del pentitismo, in cui si è andati oltre: il 1996. L’apice di una fase del tutto particolare, descritta dal libro di Paolo Cirino Pomicino, "La Repubblica delle giovani marmotte" di cui diamo ampia “rilettura” in queste pagine. Ventidue anni fa si registrò il picco delle persone protette: se nell’ultimo score disponibile se ne contano 6.525, nel ’ 96 si arrivò a 7.020 persone. Grazie soprattutto al record dei familiari dei pentiti, 5.747, mentre i collaboratori veri e propri restarono comunque di poco al di sotto del primato recente: se ne contarono 1.214 (alla somma vanno aggiunti i testimoni di giustizia, poche decine). Ma si era nel pieno della rivincita da parte dello Stato nei confronti della criminalità organizzata, in particolare siciliana. Parliamo degli anni in cui furono acquisite collaborazioni come quella di Giovanni Brusca. Oggi non si riesce a individuare più pentiti di quel “calibro”. Ed ecco perché nella lotta alla mafia, il governo, prima di ogni altra ambizione, dovrebbe coltivare quella di riconsiderare il sistema della protezione.

Pentiti di mafia, logge deviate e pezzi di Stato. Quegli strani intrecci dietro l'omicidio Scopelliti. Il ritrovamento dell'arma del delitto apre scenari inediti. C'è qualcuno che parla con i magistrati? Analisi di un assassinio che coinvolge ben più delle strutture militari del crimine, scrive Consolato Minniti, giovedì 9 agosto 2018, su lacnews24.it. Ha scelto una giornata simbolica il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri. Aveva la notizia già da un po', ma ha preferito attendere perché il giorno del ricordo non fosse solo tale, ma diventasse anche quello della speranza. Così come avvenne qualche anno fa, per i carabinieri Fava e Garofalo, i cui congiunti ascoltarono dalla viva voce dell'allora capo della Procura, Federico Cafiero de Raho, una frase sibillina: «Presto arriveremo alla verità». Fu una promessa, mantenuta solo pochi mesi dopo, quando il gip di Reggio Calabria emise un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per i presunti mandanti di quel duplice omicidio. Una verità ancora da scrivere con una sentenza, certo, ma che dimostrò il grande lavoro svolto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.

La novità investigativa. Oggi Bombardieri fa di più e annuncia il ritrovamento di un fucile calibro 12, ritenuta l'arma utilizzata per uccidere il giudice Antonino Scopelliti. Non è un'ipotesi campata in aria. Prima di pronunciarsi, il procuratore ha atteso i primi accertamenti della Squadra mobile di Reggio Calabria, ossia un gruppo di investigatori di primissimo livello che raramente sbagliano un colpo. E gli esiti dicono che ci sono altissime probabilità che quel fucile sia quello da cui partirono i colpi all'indirizzo del magistrato Antonino Scopelliti. Non staremo certo qui a ricordare chi fosse il giudice “solo”: dalle inchieste sul terrorismo e mafia, passando per quelle riguardanti l'omicidio di Aldo moro, Scopelliti rappresentò un punto fermo per la Corte di Cassazione della quale era sostituto procuratore generale.

Il maxi processo e l'omicidio. La sua vita cambiò decisamente nel momento in cui sulla sua scrivania arrivò un fascicolo con su scritto “Maxi processo a Cosa nostra”. Quello istruito dai giudici Falcone e Borsellino. Alla sbarra c'erano tutti i più grandi boss che rischiavano di essere sommersi da centinaia di ergastoli. Scopelliti non fece una piega. Per lui quelle carte erano lavoro. Come sempre, come ogni processo. Così, con la meticolosità che gli era propria, se le portò persino in vacanza, nella sua amata Campo Calabro. Era solito girare sempre senza scorta, accadde anche il pomeriggio del 9 agosto del 1991. Pochi chilometri più a sud, sulle strade di Reggio Calabria i cadaveri si contavano a centinaia. Circa 700 morti ammazzati con la seconda guerra di mafia. Il clima era rovente fra i due casati più importanti. Scopelliti, però, aveva in testa solo i boss siciliani. Ignorava che nel tragitto che l'avrebbe ricondotto a casa, lo stavano attendendo due sicari. L'auto finì in un dirupo. Si pensò ad un incidente. Poco dopo la scoperta: il giudice era stato ucciso con più colpi di fucile. Ma da chi e perché?

Il processo a Reggio. Iniziò a circolare con sempre maggiore insistenza la voce che a volerlo morto sarebbe stata Cosa nostra con la complicità della 'ndrangheta. Una voce che divenne presto ipotesi processuale che vide alla sbarra i maggiori boss siciliani ed anche un presunto killer. Era Gino Molinetti “la belva”. Lui, che in diverse indagini emerse come sicario senza scrupoli, finì sotto processo per poi essere definitivamente assolto così come tutti i grandi nomi della mafia siciliana. Non si riuscì a provare la loro colpevolezza e l'omicidio del giudice rimase di fatto senza responsabili. Quale mandante del delitto, fu condannato in primo grado Pietro Aglieri, boss palermitano implicato anche nell'omicidio di Salvo Lima. Poi, però, pure per lui giunse l'assoluzione. Ma è un particolare che oggi torna di particolare attualità.

Le parole dei pentiti. La ragione? Va ricercata nelle dichiarazioni vecchie e nuove dei collaboratori di giustizia. Sono stati tanti, tantissimi quelli che hanno parlato di un continuo scambio di favori fra 'ndrangheta e cosa nostra. Scambio di killer, di omicidi, di affari. Ed il delitto Scopelliti rientrerebbe proprio in questa logica: la 'ndrangheta – hanno riferito numerosi collaboratori di giustizia – uccide il giudice su mandato dei siciliani, in cambio questi ultimi intervengono per far cessare le ostilità a Reggio, dove il business è fortemente in crisi a causa di quella guerra iniziata nel 1985. Sta di fatto che, proprio l'omicidio del magistrato segna la fine delle ostilità. Di recente, nel processo “'Ndrangheta stragista”, che sta facendo luce sui presunti mandanti dell'omicidio Fava-Garofalo e sugli attacchi ai carabinieri, ha deposto il pentito Francesco Onorato, killer siciliano ed esecutore materiale dell'omicidio di Salvo Lima. Stesso delitto per il quale fu chiamato a rispondere Aglieri. E cosa ha raccontato Orlando al pm Lombardo? Che l'omicidio Scopelliti fu un favore fatto dalla 'ndrangheta a Cosa nostra e nello specifico una questione di cui si fecero carico i Piromalli ed i Mancuso. Parole che sembrano segnare qualcosa più di una mera novità. Perché se è vero che da sempre sono stati ritenuti gli arcoti coloro che hanno organizzato l'esecuzione del delitto, è altrettanto vero che una decisione del genere non poteva essere presa – in costanza di conflitto interno di tale portata – senza l'avallo delle famiglie più rappresentative della 'ndrangheta. Ed allora ecco che le parole di Onorato acquistano ancor più vigore. La ragione risiede in una indissolubilità delle inchieste. Non si può pensare di comprendere la genesi dell'omicidio Scopelliti se non si analizza bene il contenuto dell'inchiesta “'Ndrangheta stragista” che ne rappresenta una naturale evoluzione con i suoi fitti legami fra Sicilia e Calabria.

Mafia, 'ndrine e massoneria. Ecco allora che se ciò è vero, non può sfuggire come il contesto nel quale maturò l'omicidio del giudice “solo” è qualcosa più di un humus meramente mafioso. Chiama in causa anche quei grumi di potere, al cui interno vi sono pezzi deviati dello Stato, senza i quali le mafie oggi non sarebbero quelle potenti organizzazioni che abbiamo imparato a conoscere. Sono processi come “Gotha” a rivelare l'esistenza di una componente riservata della 'ndrangheta, quella in grado di dettare le linee guida della strategia criminale, poi messa in atto dalla componente militare. Risulta evidente come un simile delitto non possa essere stato deciso solo da coloro che avevano il potere di sparare. Del resto, la storia dei legami fra Sicilia e Calabria è ben più risalente nel tempo. Non si dimentichi quanto hanno riferito gli storici pentiti calabresi Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca in ordine ad una super loggia segreta costituita a Reggio Calabria dal terrorista nero Franco Freda, nel periodo in cui la città dello Stretto divenne il laboratorio prediletto dell'eversione. Un capitolo che il giudice Scopelliti conobbe anche piuttosto bene. E cosa dissero i pentiti? Che una loggia gemella fu costituita anche a Catania. Sì, nella stessa città dove oggi il Procuratore Bombardieri ritiene di aver individuato l'arma che sparò a Scopelliti. Una pura coincidenza? Può darsi. O forse no. Forse, invece, quei legami inconfessabili fra lo Stretto e la città dell'Etna sono qualcosa di più profondo. Forse quegli scambi, continui e costanti, nascondevano una compenetrazione criminali ben più strutturata. Sta di fatto che aver individuato oggi un'arma, sotterrata e rimasta segreta per ben 27 anni fornisce un preciso messaggio.

Cosa c'è dietro il ritrovamento? Che ci sia qualcuno che finalmente abbia iniziato una collaborazione seria sulla morte del giudice Scopelliti? Non siamo in grado di dirlo, ma, se così fosse, l'arma potrebbe rappresentare un formidabile riscontro. Del resto, si dice sempre che un pentito, per essere credibile, debba dimostrare ciò che dice. E chi poteva sapere dove era tenuta l'arma del delitto? Solo chi ne ha avuto piena conoscenza. Ecco allora che questa notizia è molto più che un fatto tecnico. Il riserbo del procuratore potrebbe celare qualcosa di simile. La capacità tecnica degli operatori di polizia, peraltro, è nota: da una mera arma potrebbero risalire a molto di più. Per esempio capire se la stessa fu utilizzata per altri delitti eccellenti, magari con imputati condannati in via definitiva. Bisognerà attendere e non sarà certo questione di poco tempo. Ma la sensazione è che, anche in questo caso, non bisogna certo andare troppo lontano per cercare la verità. Chissà che, una volta per tutte, non si riesca a scrivere una parola di verità su uno fra i delitti più indecifrabili della storia recente. La Procura di Reggio Calabria ci ha già dimostrato di essere perfettamente in grado di farlo.

Chi infanga la massoneria, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 10/08/2018, su "Il Giornale". Non avendo problemi, in Sicilia, se li creano. Non bastassero la mafia e l'antimafia, la disoccupazione e lo sconvolgimento del paesaggio, gli sfaccendati parlamentari dell'Assemblea regionale si trastullano con disegni di legge come quello che impone l'obbligo di dichiarare l'affiliazione dei deputati e degli assessori regionali a logge massoniche e similari. Il proponente è Claudio Fava, che si compiace di sovrapporre associazione a delinquere con le libertà di associazione religiosa, culturale, politica previste dall'articolo 18 della Carta Costituzionale. Un simile arbitrio era stato tentato nelle Marche e prontamente dichiarato illegittimo dal Consiglio di Stato. Infatti la norma discrimina l'appartenenza alla Massoneria da ogni altra per cui non è richiesta alcuna declaratoria. Le leggi speciali odorano di stato di polizia e di dittatura. E umiliano un'appartenenza come se essa stessa fosse un crimine. Il crimine presuppone una responsabilità individuale. La massoneria ha una storia gloriosa che non può essere infangata dai disturbi persecutori di un Fava, seguito da parlamentari distratti e opportunisti, privi di rispetto per la storia e per la libertà di idee, senza nulla fare di penalmente rilevante. Essere massoni non significa essere criminali. Gli iscritti al Grande Oriente d'Italia, anche per statuto interno, devono avere i medesimi obblighi di rispetto delle leggi dello Stato, con la «dovuta obbedienza e la scrupolosa osservanza alla Costituzione dello Stato democratico e alle Leggi che ad essa s'ispirino». La vera colpa è ignorarlo.

Il pentito della super loggia massonica segreta: "C'erano anche capi di Stato ed esponenti di governo", scrive Ignazio Dessì il 26 settembre 2017 su "Tiscali". Che rapporto esiste tra le mafie e la Massoneria? Ha tentato di chiarirlo la Commissione Parlamentare Antimafia presieduta dall'onorevole Rosy Bindi che, dopo aver impattato contro il diniego delle organizzazioni massoniche italiane a consegnarli, ha deliberato il sequestro degli elenchi degli iscritti. Così a inizio marzo scorso gli uomini dello S.C.I.C.O., il Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata, hanno sequestrato le liste degli affiliati alle quattro principali associazioni massoniche italiane: il Grande Oriente d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia, la Serenissima Gran Loggia d’Italia e la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori. La reazione delle obbedienze massoniche non si è fatta attendere. Il Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, ha dichiarato: “Noi cerchiamo di utilizzare tutti gli strumenti che la legge consente per respingere l’atto (secondo noi illegale) che la commissione parlamentare antimafia ha fatto. La nostra non è lotta contro lo Stato”. Ma Rosy Bindi ha risposto spiegando che “la mancanza di collaborazione con le Istituzioni parlamentari, arrivata al diniego di consegnare i nominativi alla Commissione, ha portato al sequestro perché è stata lanciata una sorta di sfida. Ha fatto nascere alcuni dubbi sull’organizzazione massonica, assolutamente legittima nella sua esistenza, che non può tuttavia presentarsi come un ordinamento separato rispetto allo Stato rifiutando la collaborazione per proteggere i propri iscritti e il buon nome dell’organizzazione. Eppure non stiamo facendo una inchiesta sulla Massoneria, stiamo facendo una inchiesta sui mafiosi massoni”.

Il Gran Maestro del Goi Stefano Bisi e Rosy Bindi. Si tratta insomma di gettare un fascio di luce sulla nuova organizzazione delle mafie. Per la commissione presieduta dalla Bindi la questione è fondamentale. E’ importante cercare di far chiarezza su una realtà che vede “insieme pezzi delle mafie con pezzi delle massonerie, dello Stato e delle classi dirigenti del nostro Paese”, precisa la presidente della commissione.

"Indizi concreti". La esigenza di chiarezza del resto non è ingiustificata, si basa su indizi concreti. “Le conclusioni cui siamo giunti non sono definitive – spiega la Bindi nella puntata di PreasaDiretta intitolata I Mammasantissima mandata in onda lunedì su Rai3 - ma i primi risultati del nostro lavoro dimostrano che fra i nominativi degli iscritti di alcune logge della Calabria e della Sicilia vi sono alcuni condannati in via definitiva per 416 bis, quindi per associazione mafiosa, e un numero considerevole di situazioni giudiziarie in itinere di imputati rinviati a giudizio sia per reati di mafia, sia per quelli che comunemente chiamiamo reati spia, ovvero comportamenti mafiosi o comunque di collusione con la mafia”. Sono stati scoperti effettivamente dei mafiosi all’interno di logge regolari? Alla domanda della giornalista di PresaDiretta la presidente dell’Antimafia risponde di sì. Ma i Gran Maestri hanno detto seccamente no alla consegna degli elenchi. Anche se la Bindi precisa che “nessun nome è circolato e circolerà proprio perché non vogliamo rivelare un dato riservato che è quello dell’iscrizione alla massoneria”. La situazione sembra ormai a tinte fosche. “I dati quantitativi che stanno emergendo – afferma la Bindi - sono obbiettivamente ed effettivamente preoccupanti, si dimostra che alcune teorie sulle nuove organizzazioni della mafia, per cui questa starebbe assumendo nuove connotazioni che passano anche attraverso le organizzazioni massoniche sono in qualche modo convalidate”.

"Quali i nuovi varchi delle mafie". E' allora fondamentale comprendere bene e fino in fondo “quali sono i nuovi varchi delle mafie oggi”, quelle che “sparano meno ma corrompono di più, condizionano l’economia legale, la politica, la Pubblica Amministrazione e riescono a piegare ai loro voleri e interessi le classi dirigenti del Paese”. Per l’onorevole Bindi è indubitabile, “dopo i primi risultati, poter dire che anche le associazioni massoniche rischiano di essere un varco o addirittura una nuova forma di organizzazione attraverso cui le mafie creano relazioni con il potere”.

L'aderente alla massoneria pentito e la super loggia segreta. Particolarmente istruttiva l’intervista fatta da Raffaella Pusceddu di PresaDiretta ad un aderente pentito della massoneria, Cosimo Virgilio, imprenditore calabrese legato alla ‘ndrangheta e massone d’alto livello. Virgilio inizia col ricordare il suo ingresso in Massoneria, nel Goi (Grande Oriente d’Italia), negli anni ’90, a Messina. Poi il trampolino di lancio per arrivare a Roma: “L’ordine dei Templari, dove si ambiva ad essere riconosciuti dalla Santa Sede, dal Vaticano”, racconta. La loggia dove approdò dopo però non era una loggia delle obbedienze ufficiali. “Era una massoneria diversa”. In sostanza, sintetizza Virgilio, si trattava “dell’accorpamento del vero potere. C’erano Capi di Stato, esponenti del governo, alcuni dei quali ancora in carica”. Descrive anche il suo rito di iniziazione alla loggia segreta. “Un rito molto crudo – afferma – teso a significare la morte della vita terrena, in cui si doveva stare per ore a fianco di quella che rappresentava la morte del profano, ovvero lo scheletro”. Una Super Loggia in definitiva, “al di sopra di leggi e governi che decideva le sorti del Paese e non solo”. Il fine ultimo era sempre il solito: “Il denaro e il potere”. Per questo si arrivava alla “costituzione di banche per raccattare i capitali”. E altro. “Per fare un esempio, all’epoca era in ballo la fornitura in Turchia di elicotteri Agusta, mi sembra, e si andava a decidere lì” il da farsi.

"Anche esponenti della criminalità organizzata". E nella Super Loggia segreta c’erano “anche – a detta del massone e imprenditore – esponenti della criminalità organizzata. Ad esempio, per la ‘ndrangheta si gestivano proventi illeciti, si faceva riciclaggio insomma. Una nostra missione era inoltre quella di accorpare sempre più avvocati, perché gli avvocati avevano i rapporti con i magistrati, e se un ‘ndranghetista ha bisogno di aggiustare un processo non può andare a parlare direttamente con un magistrato”. Ma si tratta di una “’Ndrangheta al servizio della massoneria o di una massoneria al servizio della ‘ndrangheta? “Io lo definisco un sistema di mutuo scambio”, risponde Virgilio nell’intervista. Il punto di vista di uno che sa quello di cui parla. Virgilio infatti, oltre a far parte della loggia massonica segreta faceva parte anche di una loggia ufficiale. Era maestro venerabile della Loggia dei garibaldini, spiega il servizio. E a questo proposito la domanda dell’intervistatrice è puntuale: si trattava di una copertura o esiste un rapporto tra le logge segrete e quelle ufficiali? La risposta dell’imprenditore calabrese fa davvero riflettere: “C’è un riconoscimento universale, ogni massone non può rifiutare il riconoscimento di un altro massone. E’ inutile distinguere tra massoneria riconosciuta e non, con questa super loggia i maestri venerabili avevano grossi interscambi culturali. Diciamo così, culturali”. La giornalista di LineaDiretta a questo punto approfondisce non senza un moto di sorpresa: “Quindi lei mi dice – incalza - che esistevano rapporti tra obbedienze della massoneria ufficiale e quella dove c’era la ‘ndrangheta?”. La risposta: “Si, siamo fratelli comunque”.

I lavori della Commissione. Diventa allora ancor più comprensibile lo sforzo portato avanti dalla Commissione Antimafia per acclarare quali siano i rapporti reali tra mafie e massoneria. Davanti alla presidente Rosy Bindi hanno sfilato i nomi più importanti delle obbedienze italiane. Si sono domandati chiarimenti tesi a verificare possibili rapporti con ndrangheta e mafia. Si è chiesto se i Gran Maestri fossero a conoscenza di talune inchieste e rapporti. Si sono infine richiesti i nomi degli iscritti.  Ma tutti i responsabili si sono barricati dietro il diritto alla privacy. Il 17 gennaio il Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, ha chiarito che “la consegna degli elenchi dei circa 23mila fratelli non può avvenire, perché si compirebbe noi stessi un reato”. La Bindi gli ha detto a quel punto: “Vi siete chiesti perché in Sicilia e Calabria vi è una sproporzionalità tra abitanti di quelle regioni e iscritti alla massoneria rispetto alle altre regioni italiane?”. E Bisi ha risposto: “Sì, conosco i fratelli di quei territori e non sono peggiori di altri, sono come altri. Noi finché non c’è un documento penale non possiamo agire come organi di polizia giudiziaria”.

Trasparenza e rifiuto degli elenchi. Inevitabile per la giornalista autrice del servizio porre una domanda al Gran Maestro del Goi intercettato durante una riunione della sua organizzazione. “Come si concilia con la sua annunciata politica della trasparenza il fatto di non voler fornire i nomi dei vostri elenchi alla commissione parlamentare?”. E’ semplice, ad avviso del Gran Maestro: “Nessun’altra organizzazione umana di persone fornisce l’elenco dei propri iscritti, nessuna”. In soldoni, tutte le grandi obbedienze rifiutano di consegnare l’elenco degli iscritti. E la difesa si è fatta strenua. Schiere di avvocati sono state mobilitate perché – ha detto Bisi ai suoi – “Non si può continuare con le pesche a strascico. Ci opporremo con tutte le forze a chi sta trasformando in una caccia alle streghe una caccia all’uomo”. Inevitabile per la Commissione Antimafia e per Rosy Bindi deliberare per il sequestro degli elenchi attraverso la Guardia di Finanza.

Calabria: Platì è mafiosa? Già, ma ha eletto Rosy Bindi, scrive Ilario Ammendolia su Il Dubbio, il 7 giugno 2016. In questi giorni di vigilia elettorale, Platì, paese di tremila abitanti della Locride, in Calabria, è andato sulla prima pagina di tutti i più importanti quotidiani nazionali. Domenica s'è votato ed i candidati a sindaco sono due normalissime persone del luogo: Ilaria Mittica, funzionaria regionale e Rosario Sergi assicuratore. Elezioni normali come in tutti i paesi d'Italia ed, a tratti, quasi noiose. Ma per gli inviati speciali che per tutta la giornata si sono aggirati ai seggi con penna e taccuino, quella di ieri non è stata una normale manifestazione di libertà e di democrazia. A Platì, dietro ogni cosa, c'è sempre la ndrangheta anche se non è spuntata la lupara né il coltello. Anche se uomini e donne sono andati gioiosamente ai seggi e senza pistola alla tempia. Inutile. Qui si è colpevoli a prescindere. L'inviato di un importante quotidiano nazionale dinanzi alla gente che va al voto scrive che a "Platì siamo al Medioevo. Questa è una terra che è Italia solo sulla carta geografica". (La Repubblica)

Ed è vero. Questa è una Terra che non è Italia gli ospedali somigliano tremendamente ai lazzeretti. Non è Italia perché ha il tasso di disoccupazione più alto di Europa. Perché la garanzie costituzionali sono state sospese da tempo. Perché uno Stato intriso di mentalità mafiosa si arroga di sciogliere i consigli comunali democraticamente eletti. Non è Italia perché le classi dirigenti hanno seminato per decenni la malapianta della ndrangheta trasformando un popolo di lavoratori in popolo di emarginati. Non è Italia perché i parlamentari e la classi dirigenti regionali ha scambiato per mezzo secolo i voti della ndrangheta con favori accordati ai mafiosi. Infatti, la ndrangheta per decenni è stata uno di strumento di governo cresciuta persino (o soprattutto) nelle caserme e nei tribunali. Non è Italia perché le disuguaglianze sono più evidente che altrove. Non è Italia perché qui è stata eletta Rosy Bindi che, chiusa in una caserma di Locri, e debitamente a distanza dai "lebbrosi" che l'hanno eletta, pontifica come una vestale del tempio sulla mafiosità dei calabresi. Non è Italia perché il presidente del consiglio dei ministri indica il candidato a sindaco di Platì dal palco della Leopolda. Perché l'on. Fava si è permesso di affermare che i candidati di Platì pur essendo in regola con i criteri dell'antimafia sono comunque sospetti, ci mancherebbe altro! Non è Italia perché l'indegno spettacolo che in occasione del 2 giugno del 2015 il PD ha messo in scena a Platì, ha dimostrato la consistenza e la serietà dei partiti calabresi. Sostanzialmente uguali! Non è Italia perché il procuratore della Repubblica di Reggio, ha dichiarato che sarebbe utile affiancare al nuovo sindaco di Platì un funzionario per controllare ogni atto della futura amministrazione. Un super controllo a Platì mentre le classi dirigenti fanno sparire nel nulla i miliardi che sarebbero destinati alla sanità o all'ambiente. Si vuole una Calabria ridotta tout-court alla sola dimensione criminale (che esiste) perché ciò fa molto comodo alla "catena di comando". I mafiosi ci sono e vanno fieri dell'attenzione che ricevono dai giornali, dai "partiti", dalle istituzioni. In questa nottata in cui tutti i gatti sono neri, loro ci sguazzano come pesci nel mare. In tutta la Calabria il voto è stato espressione di un disagio estremo. Ovunque si notano segnali di una rivolta strisciante contro lo Stato e che solo Dio sa come potrebbe andare a finire. A Cosenza più che per il "buongoverno" del sindaco uscente si è votato contro gli oligarchi del potere. A Napoli De Magistris, che in Calabria, si è mosso come rigoroso custode dell'ordine costituito, è diventato il Masaniello che agita il "Sud ribelle" contro il Gran Ducato di Toscana. Napoli e Platì sono distanti solo in apparenza. Per usare il linguaggio di Sciascia è la linea della Palma che avanza. Chi vuole ridurre la questione meridionale che oggi si allarga sino a diventare una "questione Mediterranea" a mera questione criminale o di ordine pubblico si assume sulle spalle e per intero le responsabilità storiche di quanto potrebbe accadere. Nel Mezzogiorno, probabilmente la rabbia, lungamente repressa, non troverà sbocco nel movimento "5 Stelle" ma potrebbe sbucare come un fiume carsico nei luoghi più impensati con conseguenze che nessuno in questo momento è in grado di prevedere.

Bindi a capo dell'Antimafia: sfruttò i sindaci anti boss per farsi eleggere alla Camera. Il Pd la candidò in Calabria: ma una volta presi i voti, non s'è più fatta vedere, scrive Felice Manti, Giovedì 24/10/2013, su "Il Giornale". A Siderno la stanno ancora aspettando. Eppure a Rosy Bindi la Locride dovrebbe esserle cara, visto che quei voti raccolti alle primarie Pd in Calabria sono stati decisivi per la sua elezione come capolista. Da febbraio invece l'ex presidente Pd i calabresi la vedono solo in tv. D'altronde la Bindi non ha fatto un solo incontro sulla 'ndrangheta durante la campagna elettorale, ammettendo «di non sapere niente di mafia». «Doveva venire anche il 2 agosto, ero lì ad attenderla», dice al Giornale Maria Carmela Lanzetta, ex sindaco antimafia di Monasterace. Per la cronaca, allora Rosy preferì un talk show su La7. La Lanzetta è amareggiata, ma non lo ammette per orgoglio. Aveva resistito alla tentazione di dimettersi dal Comune stritolato dalla mafia, quando i boss le hanno bruciato persino la farmacia di famiglia. Poi era arrivato Pier Luigi Bersani, l'aveva eletta icona della sua campagna elettorale, e tutto lo stato maggiore del Pd in Calabria si era convinto che alla fine sarebbe stata lei la capolista del Pd nel feudo bersaniano. E invece il commissario bersaniano Alfredo D'Attorre - ça va sans dire - anziché rilanciare il partito si è fatto eleggere e ha dato l'ok al paracadute pure per Rosy, tra lo sconcerto dei sindaci antimafia: «Avevamo scritto a Bersani - dice ancora la Lanzetta - per chiedere una candidatura simbolica, del territorio, per un segnale di cambiamento». Poteva essere la Lanzetta oppure Elisabetta Tripodi, sindaco di Isola Capo Rizzuto (feudo degli Arena, quelli che elessero l'ex senatore Pdl Nicola Di Girolamo in Germania) o Carolina Girasole (bersaniana poi arruolata con Monti). Alla fine la Lanzetta ha perso tutto: niente scranno e niente fascia tricolore. Si è dimessa dopo il «no» del suo votatissimo assessore democrat alla richiesta del Comune di costituirsi parte civile in un processo nato da un'inchiesta antimafia che coinvolgeva due funzionari. Clelia Raspa, medico alla Asl di Locri dove lavorava il vicepresidente Pd del Consiglio regionale Franco Fortugno, ucciso in un seggio delle primarie nell'ottobre del 2005, forse non voleva mettersi contro il capoclan della cittadina della Locride, Benito Vincenzo Antonio Ruga. «Ma alla fine ce l'ho fatta a costituire il Comune parte civile per difendere l'integrità dell'istituzione», sorride amara la Lanzetta. In fondo il povero Bersani non aveva scampo. La Bindi era a un passo dalla rottamazione, travolta dal ciclone Matteo Renzi. Solo delle primarie «blindate» avrebbero potuto salvarla, come successo con Anna Finocchiaro, siciliana ma eletta a Taranto. Esclusa la «renziana» Toscana, quale posto migliore della Calabria? Anche nel 2008 il Pd di Walter Veltroni aveva piazzato Daniela Mazzucconi dalla Brianza, guarda caso protegée della stessa Bindi. A stenderle il velo rosso al debutto di Rosy c'era tutto lo stato maggiore del Pd. Il cronista di Report Antonino Monteleone venne cacciato in malo modo da un congresso al quale partecipavano tutti i colonnelli locali, come la vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà o il potentissimo signore delle tessere Gigi Meduri, sponsor dell'ex consigliere regionale Mimmo Crea, beffato da Fortugno che gli scippò il seggio e beneficiario «politico» della sua morte. Che c'entra Crea, oggi travolto da pesantissime accuse, con la Bindi? Quando entrò nella Margherita, come scrive Enrico Fierro nel suo Ammazzati l'onorevole, Crea «fu festeggiato a Torino in una cena. Meduri, intercettato al telefono, si lasciò scappare: «Sedici erano a tavola, sedici deputati. C'era Franceschini, la Bindi. Quando è arrivato il conto ho detto a D'Antoni provvedi a nome del compare Crea. Una scena che mi si mori... (una scena che a momenti morivo dalle risate, ndr)». Sai che risate con la Bindi all'Antimafia.

 “La quaestio massoneria ha assunto i crismi di una vera e propria crociata”, scrive il 30 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". La lettera del Gran Maestro del GOI Stefano Bisi inviata ai direttori dei giornali, che contesta l’operato della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi: “Noi per primi abbiamo sempre condannato e condanniamo la Mafia e le criminalità che inquinano la Società e oscurano la Legalità”. "Gentile Direttore, Le scrivo questa lettera all’indomani della relazione della Commissione Antimafia sulle infiltrazioni mafiose nelle Logge delle diverse Obbedienze italiane per sottoporre ai lettori del suo autorevole quotidiano e all’opinione pubblica alcune necessarie e opportune riflessioni sul ruolo etico della Massoneria nella Società e sulla enorme gravità, a mio avviso, di alcune idee ispiratrici di proposte di legge che la stessa Commissione ha avanzato per porre una esorbitante ed allarmante Quaestio Massoneria che ha assunto di fatto piuttosto i crismi di una vera e propria crociata nei confronti dei liberi muratori alla luce degli intendimenti della presidente Rosy Bindi e delle possibili determinazioni legislative future che sono state proposte dai commissari. In base ai numeri resi noti dopo il sequestro degli elenchi di Sicilia e Calabria al Grande Oriente d’Italia e ad altre tre Obbedienze sarebbero stati nell’arco temporale di 26 anni, 193 i soggetti indagati per fatti di mafia, in circa 350 procedimenti penali, e sei le persone che sono state condannate in via definitiva, mentre per altri 25 i procedimenti risulterebbero ancora in corso. Per quanto riguarda poi il Grande Oriente d’Italia, la Comunione di cui sono il Gran Maestro dal 2014, queste figure risulterebbero due (un pensionato e un commercialista, di cui la Commissione non ha fornito i nomi opponendo motivi di privacy). Questi i numeri che, pur non sottovalutando affatto la questione e auspicando la via della Giustizia e della Verità, nella realtà credo si commentino subito da soli. Ma, lascio a Lei e ai lettori, ampia valutazione di giudizio e di visione del problema. Secondo la Presidente Bindi e i membri dell’Antimafia, comunque questi numeri su un totale di 17.000 nomi passati al setaccio, basterebbero e/o sarebbero sufficienti per fare emergere un quadro a tinte fosche e preoccupante, per suffragare così l’equazione mafia-Massoneria e bollare a priori in modo infamante tanti onesti liberi muratori italiani. Siamo nel Paese dei teoremi e dei sospetti, si sa, e basta poco per scatenare una inopportuna e pericolosa caccia al massone. Lo stesso Giovanni Falcone non a caso diceva che il sospetto è l’anticamera della calunnia. Noi ci siamo sempre opposti e ci opporremo da fedeli cittadini osservanti della Costituzione ai tentativi di creare una situazione di estremo disagio e di vera e propria ghettizzazione nei confronti di uomini di tutte le estrazioni sociali che hanno liberamente intrapreso la via iniziatica di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza per l’elevazione personale e il miglioramento dell’Umanità. Non certo per essere tacciati di collusioni con organizzazioni che sono lontane dal nostro Dna e dai nostri sani valori. Noi per primi abbiamo sempre condannato e condanniamo la Mafia e le criminalità che inquinano la Società e oscurano la Legalità. Lo facciamo quotidianamente con le nostre azioni trasparenti dentro e fuori i Templi. Lo facciamo con la nostra solidarietà che ha portato la luce dell’impianto di illuminazione al campo di calcio di Norcia donato dall’Ordine ai ragazzi di questa area terremotata, e con le borse di studio ai maturandi delle scuole delle zone interessate dal Sisma che hanno studiato con coraggio, impegno e merito. Ma, alla luce degli ultimi eventi, tornando nel merito della vicenda, la nostra trasparenza e le nostre note finalità, per certi politici sono lontani dalle loro idee e dal modo di vedere la Libera Muratoria qual essa veramente è. La Massoneria e i suoi membri restano per questi filosofi del pregiudizio, entità sospette e segrete, dedite a chissà quali trame occulte e con l’aggravante – non provata – della presunta infiltrazione mafiosa. Al di là di quelle che possono essere le convinzioni altrui, entrare in Massoneria non è affatto facile e scontato, i controlli sono estremamente rigorosi e non legati solo all’ingresso nell’Istituzione. La nostra riservatezza eguale a quella di tutte le associazioni, non può essere fatta sconfinare in modo arbitrario e falso nell’accusa di segretezza. Ora l’onorevole Bindi e i membri dell’Antimafia propongono l’assoluta necessità di un intervento legislativo che vieti esplicitamente la segretezza delle associazioni. Ma lo fanno con toni, modi e soprattutto analogie di leggi fasciste che non esito a definire aberranti e inquietanti per chi ha a cuore la Storia, il sangue versato per la Libertà e la Democrazia. Questo è scritto nella relazione: “Non si vuole di certo auspicare il ripristino delle disposizioni fasciste sopra riportate, seppure, non va dimenticato che, accanto a coloro che perseguivano evidenti volontà illiberali, insigni giuristi apprezzavano tali normative che, per l’eterogenesi dei fini tipica delle leggi, garantivano comunque un sistema di conoscenza e di trasparenza”. Ebbene queste norme fasciste andrebbero tristemente rispolverate e fatte proprie oggi per mettere in riga la Massoneria, quella stessa Massoneria che il Fascismo colpi duramente sopprimendola. Il solo Gramsci con un discorso celebre si alzò in difesa del libero pensiero e della Libertà. Tutti quanti sappiamo cosa è accaduto dopo e quanto è costato il ritorno alla Democrazia. Gli odierni sostenitori di questo grave e allarmante richiamo al passato vogliono riutilizzare questa legge per “trasparenza e conoscenza”. Ma, in realtà, dietro la loro reclamata e declamata azione c’è il fine di mettere i massoni in un recinto. Dovranno esibire il loro status per legge e essere messi costantemente all’angolo. Chissà se in seguito potranno insegnare nelle scuole e nelle università o concorrere per posti pubblici? Quando si inizia con questi fini si può arrivare ovunque. Ecco perché, caro Direttore, mi sono permesso di sottoporle questa lettera che è anche un campanello d’allarme. Perché la Democrazia e il libero pensiero sono un bene di tutti e non di parti o visioni politiche. E dopo i liberi muratori potrebbe toccare ad altri soggetti essere destinatari di quella pregiudizievole attenzione che se non equilibrata può portare allo spegnimento della luce della ragione e al triste passato. Cordiali Saluti. Stefano Bisi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia".

Bindi vuole il diritto di sputtanare i massoni, scrive Simona Musco il 23 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La presidente dell’Antimafia vuole vietare il diritto alla segretezza degli iscritti alle associazioni. Bisi: “Vogliono reintrodurre le leggi fasciste”. In 26 anni sono state 193 le persone indagate per fatti di mafia, in circa 350 procedimenti penali, tra gli iscritti alle logge massoniche di Calabria e Sicilia. Ma tra questi, solo sei sono quelli condannati in via definitiva, mentre per altri 25 i procedimenti penali sono ancora in corso. Sono questi i numeri emersi dalla relazione conclusiva su “Mafia e massoneria”, illustrata ieri a palazzo San Macuto dalla commissione parlamentare antimafia. Numeri che, stando alle conclusioni del presidente Rosy Bindi, destano allarme e necessitano un intervento legislativo che vieti categoricamente la segretezza delle associazioni, elemento comune alle due associazioni e dunque terreno fertile per l’infiltrazione. L’analisi si è limitata a Calabria e Sicilia e ha interessato quattro fratellanze, per un totale di poco superiore ai 17mila iscritti. Su sei persone condannate, solo due (un pensionato e un commercialista) sarebbero tuttora iscritti e attivi. «Non è un’inchiesta sulla massoneria – ha precisato Bindi – ma sulla presenza della mafia nella massoneria». Un’inchiesta che parte dalle recenti indagini antimafia nelle due regioni e caratterizzata da «una mancanza di collaborazione dei gran maestri ostentata fin dall’inizio», denuncia la presidente. «Gli elenchi ufficiali – ha spiegato – presentano una certa opacità e impossibilità piena di individuare gli iscritti», circostanza che il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, ha smentito al termine della conferenza stampa. La mafia sarebbe interessata alla massoneria, si legge, «perché consente di incontrare la classe dirigente del paese», utile alla mafia per riciclare denaro sporco in attività legali. Di fronte a questa volontà, le logge si sarebbero dimostrate «arrendevoli» e avrebbero dimostrato «mancanza di volontà a dotarsi di strumenti» in grado di chiudere le porte alle mafie, «tollerando» la doppia militanza a mafia e massoneria, «spesso nota ad entrambe le organizzazioni» e «quasi ricercata». Le indagini giudiziarie, ammette però la relazione, non sono «mai giunte» ad un giudicato definitivo «circa una relazione stabile e continuativa» tra le due parti, ma il quadro complessivo rivelerebbe, in ogni caso, «una pericolosa e preoccupante contiguità», iniziata in Sicilia alla fine degli anni ‘70 e grazie alla quale sarebbe stato possibile «interferire in qualche modo sulle indagini giudiziarie». Più complessi, invece, i rapporti con la ‘ndrangheta, che ha dato vita ad una carica di livello superiore – la “Santa” – in grado «di creare un collegamento stabile tra l’associazione mafiosa e i vari centri di poteri presenti nella massoneria». Dura la replica di Bisi, che si è detto «preoccupato» dalla possibilità di reintrodurre «leggi fasciste», che in un passaggio della relazione vengono definite, al di là delle «volontà illiberali», come garanzia «di conoscenza e di trasparenza». Leggi che, ricorda Bisi, «hanno prodotto un regime repressivo violando ogni libertà».

Quei massoni mafiosi che sussurrano ai potenti. Sacerdoti, politici, magistrati, professionisti, imprenditori. E padrini delle cosche. La commissione parlamentare antimafia ha presentato la relazione sulle infiltrazioni dei clan nella massoneria. Tra Sicilia e Calabria 17 mila iscritti alle 4 obbedienze ufficiali distribuiti in 389 logge. 193 "fratelli" sono collegati a cosa nostra e 'ndrangheta, uno ogni due templi. I nomi restano top secret, scrivono Federico Marconi e Giovanni Tizian il 22 dicembre 2017 su "L'Espresso". Sacerdoti, magistrati, consiglieri comunali e regionali, assessori, sindaci, imprenditori, studenti, professionisti. E mafiosi, calabresi e siciliani. Al gran ballo della massoneria ci sono tutti, non manca proprio nessuno. Alle danze tra Sicilia e Calabria partecipano in 17 mila. In fondo, una loggia non si nega a nessuno. Insomma, tutti pazzi per il grembiule. Il dato inquietante è però un altro: in queste due regioni del Sud c'è un mafioso o un suo complice ogni due logge massoniche. Sono 193, infatti, i “fratelli” collegati ai clan. C'è chi è stato condannato, chi è stato prosciolto, chi ha festeggiato l'assoluzione e chi si sta ancora difendendo nelle aule dei tribunali. Gli iscritti totali alle quattro obbedienze, solo in Sicilia e Calabria, sono oltre 17mila. Una popolazione in grembiule numerosa come quella dell'isola di Capri. La commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha terminato l'indagine sull'intreccio tra massoneria e mafie. La relazione, approvata il 22 dicembre, è un viaggio nel lato oscuro della massoneria italiana. Un mondo di mezzo nel quale boss e insospettabili professionisti, padrini e rispettabili imprenditori, criminali e politici, si scambiano favori e appoggi. Dei 193 nomi sporchi la commissione precisa che «nove risultano condannati in via definitiva per reati vari, quali il traffico di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta, o destinatari, in via definitiva, di misure di prevenzione personali, come tali indicative di pericolosità sociale». Poi per altri quattro è in corso il processo di appello con l'accusa di associazione mafiosa o di reati aggravati dal metodo mafioso. Uno di questi in primo grado ha subito già una condanna a 12 anni. L'obbedienza con la maggiore presenza di iscritti dal profilo equivoco è il Goi, il Grande Oriente d'Italia. Il Gran Maestro è Stefano Bisi, il massone che più degli altri si è opposto al lavoro della commissione antimafia bollandolo come un atto fascista. Ora che l'indagine si è conclusa e la riservatezza è stata rispettata- nel documento non è presente alcun nome- si scopre che più di qualche boss ha frequentato i templi. Nella Gran Loggia regolare d'Italia i sospetti sono 58, nella Gran loggia d'Italia sono 9 e nella Serenissima solo 4. «Le risultanze illustrate nella relazione hanno fornito conferme in ordine alla rilevanza del fenomeno, a fronte di una sua negazione da parte dei gran maestri, indice o di un’inconsapevolezza o di una sua sottovalutazione, se non di un rifiuto ad ammettere la possibile permeabilità rispetto a infiltrazioni criminali», osserva l'Antimafia. La commissione, tuttavia, precisa che gli investigatori che hanno collaborato ai risconti sugli elenchi sequestrati nelle sede delle obbedienze hanno indicato solo «i soggetti iscritti per reati di mafia in senso stretto, restando pertanto non segnalati tutti i casi in cui il nominativo risulta essere stato, invece, indagato o condannato per altri reati, taluni certamente di non minore gravità». Come a dire: attenzione, i 193, che possono sembrare poca cosa, potrebbero aumentare sensibilmente se si sommassero a questi i massoni con precedenti per corruzione, abuso d'ufficio, reati economici e tributari. Tutti reati spia di una criminalità mafiosa che si insinua nei centri di potere locali: municipi, assessorati, aziende sanitarie, assemblee regionali e provinciali. «A tal proposito, si segnala che il 17,5 per cento degli iscritti presenti negli elenchi acquisiti dalla Commissione non sono identificabili o compiutamente identificabili». Questo significa che molti nella lista sono indicati con le iniziali, oppure con dati anagrafici errati. Il che ha reso impossibile risalire alla loro identità. «Nell’ambito dei 193 soggetti segnalati vi sono, come risulta dall’anagrafe tributaria, numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono quelle dei professionisti, come avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti pure in numero rilevanti i soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori nei più diversi settori, in primis quello edile. Così pure, non mancano coloro i quali hanno rivestito cariche pubbliche». Sono ben 9 gli amministratori, tra sindaci, assessori o consiglieri comunali. «Uno spaccato professionale denotante soggetti di un livello di istruzione medio-alto e, di tutta evidenza, in grado di stringere relazioni anche nel mondo della criminalità e in quello della società civile», si legge nella relazione.

Logge e politica. Un focus la commissione lo ha dedicato alla presenza della massomafia all'interno degli enti locali sciolti per mafia. Caso emblematico l'Asl di Locri, commissariata undici anni fa. «Fra i soggetti a vario titolo menzionati nella relazione della commissione di accesso e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria, figurano 306 nominativi. Di questi, 17 risultano censiti in logge massoniche. Tra essi, 12 soggetti figurano negli elenchi sequestrati dalla Commissione il 1° marzo 2017; 4 figurano solo negli elenchi (della massoneria ndr) sequestrati dalla Procura della Repubblica di Palmi nel 1993-94 (uno nel frattempo è deceduto); mentre un altro è presente in entrambi gli elenchi. Appare significativo che i 4 soggetti presenti negli elenchi del 1993-94 ma non in quelli del 2017, risultano essere stati raggiunti da provvedimenti cautelari personali o a carattere detentivo, uno dei quali per il reato di cui all’art 416-bis c.p». Ma chi sono questi mafiosi armati di compasso? «Uno è il figlio di un noto capo mafia; un altro, il nipote di un controverso personaggio ritenuto molto influente nell’ambiente mafioso; un altro ancora, figlio di un condannato in primo grado per mafia ma assolto in appello e, comunque, indicato come referente di una nota cosca calabrese, nonché in stretti rapporti con un capo indiscusso di una cosca del mandamento ionico della provincia reggina». Detto dei criminali o presunti tali, nella relazione si evidenzia un altro aspetto: «Deve ritenersi non occasionale, la significativa presenza di massoni in posti apicali dell’azienda sanitaria, nelle società presso la medesima accreditate e nelle pubbliche amministrazioni interessate dall’indagine penale. Di rilievo è il fatto che tali personaggi, di cui si è accertata l’appartenenza a logge massoniche regolari, hanno interagito con altri “fratelli” della stessa loggia o di altre per affari riconducibili a persone indagate e, in taluni casi, condannate per associazione mafiosa». Insomma, non è tanto la quantità di mafiosi presenti nelle logge, ne basta uno per usufruire dei vantaggi che il circolo di amicizie può garantire. Anche la Azienda sanitaria provincia di Cosenza è stata sciolta. Incrociando i risultati emersi nella relazione prefettizia con gli elenchi sequestrati, la commissione ha concluso che «su 220 nominativi individuati, presenti a vario titolo nella relazione conclusiva, 23 persone risulterebbero iscritte a logge massoniche».

A casa del padrino. Nel paese di Matteo Messina Denaro pullulano compassi e grembiuli. Undici logge di varie obbedienze per 31 mila abitanti. Una vera città della massoneria, Castelvetrano. Tanto da essere rappresentata degnamente in consiglio comunale, sempre e comunque. Nell'ultima consiliatura, 2007-2012, «8 consiglieri su 30 appartenevano, o avevano chiesto di entrare in logge massoniche. Tra i componenti del consiglio comunale eletto nel 2012, vi sono 11 iscritti ad associazioni massoniche (anche diverse da quelle in esame), uno dei quali è stato anche assessore e componente della giunta comunale, quest’ultima poi revocata il 28.01.2015. Nella nuova giunta nominata l’11.02.2015, il numero di assessori massoni aumenta considerevolmente, diventando cinque su dodici membri complessivi della giunta, cioè poco meno della maggioranza. In sintesi, considerando le ultime due consiliature del comune di Castelvetrano hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro obbedienze. A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri 4 - per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici. Negli elenchi massonici di una obbedienza (GLRI), vi sono infatti omonimi di altri quattro consiglieri comunali di Castelvetrano tra i soggetti che risultano privi del luogo e della data di nascita in quanto depennati. Il tutto distribuito in 11 logge quasi tutte presenti nella città di Castelvetrano e dintorni».

Capi e massoni. Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra.” Lo stesso concetto è stato ribadito alla Commissione, con riferimento ai primi anni del 2000, da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Campanella. Anche lui politico, massone e mafioso. Scrive la commissione: «Nelle più recenti indagini giudiziarie, calabresi e siciliane, ricorre la medesima affermazione che appare ancor più vera alla luce del mutamento delle mafie, ormai propense, come è noto, al metodo collusivo/corruttivo seppur collegato alla propria capacità di intimidazione...Anzi, proprio in questo peculiare momento in cui la mafia tende più ad “accordarsi che a sparare”, deve altresì considerarsi il dato oggettivo del continuo aumento del numero degli iscritti alla massoneria». Del resto le inchiesta recenti dell'antimafia di Reggio Calabria puntano a svelare proprio quel sistema criminale fatto di padrini e insospettabili uomini di potere, che spesso si ritrovano in circoli massonici, non per forza ufficiali.

Un favore al “fratello” boss. Nella loggia “Rocco Verduci” di Gerace, a Locri, si sono verificati fatti inquietanti. «Un magistrato onorario, appartenente alla predetta loggia, aveva chiaramente denunciato, ma soltanto in ambito massonico, una prima vicenda, risalente al dicembre 2010, riguardante le pressioni da egli subite ad opera di due suoi confratelli affinché si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del Tribunale di Locri al fine di ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a un procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato. Vale la pena aggiungere che il massone che sollecitava l’intervento del magistrato onorario in favore dei propri figli indagati, era un medico della ASL di Locri, poi sciolta per mafia, nonché figlio di un noto boss ‘ndranghetista, mentre il massone che lo accompagnava, per sostenerne la richiesta, era un soggetto che, all’epoca di fatti, svolgeva un ruolo direttivo nell’ambito della “Rocco Verduci”». Allo stesso magistrato onorario viene chiesto successivamente un secondo favore: «Intorno al mese di aprile 2012, fu ulteriormente sollecitato, da un altro dei suoi fratelli di loggia, affinché intervenisse ancora, riservatamente, presso i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria al fine di perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, in quel momento, nell’ambito di una indagine antimafia, naturalmente coperta dal più rigoroso segreto, si stava vagliando la sua posizione». In questo caso la vicenda assume contorni molto più oscuri. Sia perché è evidente la fuga di notizie che giungono all'orecchio di massoni borderline, sia perché si trattava di indagine in corso. «Vale la pena aggiungere, anche in questo caso, che il massone che si stava prodigando, presso il magistrato onorario, in favore del politico, già si era prestato, nei confronti di quest’ultimo per far ammettere nella loggia un nuovo bussante, figlio incensurato di un soggetto tratto in arresto per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Saggezza” dell'antimafia di Reggio Calabria».

Tonaca e grembiule. Nello sterminato elenco di personalità, non potevano mancare i sacerdoti delle logge. La chiesa lo vieterebbe, ma questo non ha evidentemente fermato le aspirazioni dei religiosi. «Non è questa la sede per affrontare la questione plurisecolare del rapporto tra Chiesa cattolica e massoneria, tuttavia appare utile ricordare che, in base alla Declaratio de associationibus massonicis emanata dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede il 26 novembre 1983 - presieduta dal Prefetto cardinale Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI - vi è inconciliabilità tra l’adesione alla Chiesa cattolica e alla massoneria», scrive la Commissione. Di recente, tra l'altro, papa Francesco ha respinto le credenziali di un ambasciatore straniero presso la Santa Sede perché iscritto alla massoneria.

Logge segrete e sconosciute. L'indagine della Commissione è stata effettuata sulle obbedienze conosciute, quelle più note e ufficiali. Tuttavia nel variegato mondo massonico esistono numerosi gruppuscoli più o meno noti, più o meno legali. Il tempo per analizzare anche quel mondo non sarebbe stato sufficiente. Per questo la commissione invita i prossimi membri della futura legislatura a proseguire nell'opera di inchiesta: «È stato evidenziato dallo stesso mondo massonico come in Italia, e in particolar modo nelle regioni del centro-sud, sia presente un florilegio di numerose piccole obbedienze, con dichiarate finalità lecite, considerate alla stregua di massonerie irregolari o di logge spurie. Così come è stato segnalato che esistono canali di dialogo tra queste entità associative e la massoneria regolare». E quindi: «L’insieme di queste dichiarazioni, dunque, proprio perché provenienti dall’interno del circuito massonico, e peraltro da chi lo rappresenta, acquistano particolare valenza in quanto pongono le premesse, unitamente ad altri elementi raccolti da questa Commissione, sulla necessità che il lavoro d’inchiesta avviato in questa Legislatura debba proseguire. Non potrà, infatti, essere trascurato l’approfondimento del mondo magmatico delle massonerie irregolari, del loro potenziale relazionale, dell’atteggiarsi delle mafie nei loro confronti». Interessante a questo proposito i particolari forniti dal gran maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia: «Una cosa che accade spesso è che gli iscritti alla massoneria, alla libera muratoria, sono contemporaneamente iscritti anche ad altre forme associative. Parlo del Rotary, dei Lions, dei Kiwanis. In queste associazioni i massoni di varie obbedienze – ed è l'unico posto dove avviene – si incontrano. Quindi, sarebbe ancora più interessante, secondo me, analizzare queste realtà, perché sono le uniche realtà all'interno delle quali la massoneria irregolare e regolare va a incontrarsi. Spesso, quindi, i presentatori incontrano i presentati all'interno del Rotary o del Kiwanis. Molti iscritti alla massoneria ne sono presidenti».

Gli elenchi? No, grazie. La Commissione pensava di trovare una sponda nei vertici delle obbedienze massoniche. Così non è stato. Nelle audizioni dei vertici delle organizzazioni negavano la presenza di infiltrazioni mafiose e sottolineavano l’esistenza di regole e prassi massoniche – come la richiesta dei carichi pendenti e del certificato antimafia ai nuovi membri – in grado di fronteggiare il possibile ingresso di “personalità problematiche”. Si aggiunge poi il rifiuto, in nome della segretezza, di fornire alla Commissione gli elenchi degli appartenenti alle logge, che una volta consegnati sono risultati parziali e incompleti. Le obbedienze hanno sottovalutato, minimizzato e a volte persino negato la presenza di massoni “problematici” all’interno delle logge. Basti pensare che l’infiltrazione mafiosa non è mai esplicitata nei documenti formali con cui ne viene decretata la chiusura delle logge infiltrate. Piuttosto vengono utilizzati l’espediente della “morosità degli iscritti” o questioni di mero rito massonico.

Massoneria, la Commissione antimafia: "Rilevate infiltrazioni delle cosche nelle logge". La relazione dopo le audizioni e i contestati sequestri delle liste di affiliati: quasi 200 'fratelli' sono stati coinvolti in inchieste sulla criminalità organizzata. E non tutti i condannati sono stati espulsi, scrive Alessia Candito il 22 dicembre 2017 su "La Repubblica". Quasi 200 "fratelli" toccati o lambiti da indagini di mafia. Sei condannati per associazione mafiosa, di cui due ancora attivi. Più di 130 logge calabresi e siciliane abbattute dal 1990 dalle quattro principali obbedienze massoniche in Italia, il Goi, la Gran Loggia degli Alam, la Gran Loggia regolare d'Italia, la Serenissima Gran Loggia d'Italia-Ordine generale degli Alam. Sebbene l'analisi del fenomeno sia stata solo parziale e nessun nome venga esplicitamente fatto, è un quadro inquietante quello ricomposto dalla Commissione parlamentare antimafia nella relazione appena approvata su "Mafia e massoneria". "L'esistenza di forme di infiltrazione delle organizzazioni criminali mafiose nelle associazioni a carattere massonico - si legge - è suggerita da una pluralità di risultanze dell'attività istruttoria della Commissione, derivante dalle audizioni svolte, dalle missioni effettuate e dalle acquisizioni documentali". I rapporti fra mafie e massonerie ci sono. E la Commissione ne ha la prova concreta. Dalle audizioni dei magistrati calabresi e siciliani sono emersi dati allarmanti. Gli inquirenti  trapanesi e palermitani hanno infatti evidenziato "un filo conduttore che ipotizza come le logge coperte si annidino ancora all'ombra delle logge ufficiali; come gli uomini, pur risultati iscritti alle logge coperte, abbiano continuato a far carriera sia nel mondo politico, sia nel mondo degli affari, non essendoci mai stata un'efficace reazione delle Istituzioni per isolarli anche dopo che i loro nomi e la loro appartenenza fosse divenuta palese; come vi sia riscontro che già appartenenti a logge segrete e irregolari siano poi trasmigrati in altre logge; di come sia possibile passare da una loggia regolare a una coperta e viceversa". Una situazione delicata soprattutto nel trapanese, "regno" di Matteo Messina Denaro. Nell'area, in cui si concentra un numero di iscritti, soprattutto provenienti dalla borghesia cittadina, assolutamente sproporzionato rispetto ad altre zone d'Italia - hanno riferito in commissione i magistrati -  c'è il rischio che le logge si trasformino in comitati d'affari. Ancor più compromessa, se possibile, sembra la situazione in Calabria, dove - hanno riferito i magistrati - la massoneria, tramite la Santa (la direzione strategica dell'organizzazione, ndc) "si è piegata alle esigenze della 'ndrangheta, così creando all'interno di quel mondo in cui convivevano mafiosi e società borghese professionale, all'ombra delle logge, un ulteriore livello ancor più riservato formato da quei soggetti che restano occulti alla stessa massoneria. Si tratta di coloro che, dovendo schermare l'organizzazione ed essendo noti soltanto a determinati appartenenti ai vertici più elevati, non si possono esporre a nessuna forma evidente, quali possono essere le organizzazioni massoniche". Indicazioni importanti, sebbene necessariamente generiche a causa di indagini e accertamenti in corso. Ma la commissione non si è fermata qui. Il lavoro principale è stato fatto sugli elenchi sequestrati alle quattro obbedienze con decreto firmato dalla presidente della commissione Rosy Bindi e affidati allo Scico per i controlli sulla fedina penale degli iscritti. Un'indagine che dimostra come i Gran Maestri, che si sono avvicendati in Commissione per giurare di non avere condannati o indagati per mafia tra i propri ranghi, abbiano mentito.  Sono 193 - è emerso dal lavoro dei parlamentari - gli affiliati alle logge massoniche di Sicilia e Calabria coinvolti o lambiti da inchieste di mafia. In molti casi, si tratta di procedimenti conclusi con decreto di archiviazione, proscioglimento o sentenza di proscioglimento per morte del reo, ma si tratta - si sottolinea nella relazione - di "un consistente numero di iscritti che è stato coinvolto in procedimenti per gravi delitti". Non per tutti però le inchieste si sono concluse con un nulla di fatto. In 6 sono stati condannati per associazione mafiosa piena, mentre altri 8 sono stati puniti per traffici di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta o sono stati destinatari in via definitiva di misure di prevenzione personali e dunque indicative della pericolosità sociale (semplice o qualificata). E non tutti sono stati espulsi dalle logge a cui appartenevano. Tanto meno sono stati tutti allontanati gli ulteriori 25 massoni che risultano condannati per altri reati gravi o sono tuttora sotto processo per associazione mafiosa o per intestazione fittizia di beni. Al contrario, 12 sarebbero ancora iscritti e attivi, di cui "10 presso logge del Grande oriente d'Italia, uno con una domanda di regolarizzazione presentata presso una loggia calabrese del Goi e membro del consiglio regionale della Calabria dal 2005 al 2010, il che fa desumere che fosse a quei tempi quantomeno pienamente iscritto ad altra obbedienza; uno, imprenditore agricolo, presso una loggia calabrese della Glri". E fra i fratelli che frequentano regolarmente le logge ci sarebbero anche i due, un commercialista e un pensionato, condannati definitivamente per mafia. "Tale dato - si legge nella relazione - che si riferisce ai soli nominativi compiutamente identificati assume significativi profili di inquietudine considerato che 193 soggetti, così come segnalati dalla Direzione nazionale antimafia, hanno avuto modo di operare nelle obbedienze massoniche e così segnalando una mancata o quanto meno parziale efficacia delle procedure predisposte dalle varie associazioni per la selezione preventiva dei propri membri".  Ma per i parlamentari c'è un altro dato preoccupante. "Al di là delle condanne o dei procedimenti in corso per gravi reati e al di là dell'appartenenza alle singole obbedienze - si legge nella relazione non può sottacersi che nell'ambito dei 193 soggetti segnalati, molti dei quali incensurati, a fronte di 35 pensionati e otto disoccupati, vi sono numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti in numero rilevante anche soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori dei più diversi settori, in primis quello edile".

Massoneria: Antimafia, mafia interferisce su giustizia, scrive il 22 dicembre 2017 "Il Giornalelavoce.it". “Con il sequestro non è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono” e comunque “non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti, occulti grazie a generalità incomplete, inconsistenti o generiche. Il vincolo di solidarietà tra fratelli consente il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia, legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi e impone il silenzio” come emerge “in un caso di estrema gravità”. Lo scrive l’Antimafia. In particolare nella relazione presentata oggi dalla presidente dell’Antimafia Rosy Bindi si evidenzia il caso di un magistrato onorario che nel 2010 aveva denunciato, solo in ambito massonico, di aver subito pressioni ad opera di due confratelli perchè si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del tribunale di Locri per ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato. Nel 2012 il magistrato fu ulteriormente sollecitato da un altro dei suoi fratelli di loggia, perchè intervenisse presso i magistrati della procura distrettuale di Reggio Calabria per perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, nell’ambito di una indagine antimafia coperta da segreto, si stava vagliando la sua posizione. L’ex consigliere regionale è stato poi arrestato insieme ad altre 13 persone e condannato a 12 anni di reclusione. L’antimafia critica il fatto che non siano state avvertite le autorità civili “degli evidenti indizi di violazione delle norme penali. Nemmeno dal magistrato onorario risulta alcuna denuncia. L’agire massonico si è pericolosamente atteggiato ad ordinamento separato dallo Stato. Probabilmente un atteggiamento diverso gioverebbe alla massoneria: si abbatterebbe il pregiudizio nei suoi confronti e si ridurrebbe il rischio di pericolose zone grigie”, conclude la relazione Bindi.

Antimafia, legge Anselmi va modernizzata. E’ opportuno “modernizzare la legge Spadolini-Anselmi” ed necessaria una previsione di legge che chiarisca che le associazioni segrete, “anche quando perseguono fini leciti, sono vietate in quanto tali perché pericolose per la realizzazione dei principi di democrazia”. E’ quanto scrive la Commissione antimafia nella relazione sulla massoneria. “Una norma del genere attuerebbe, finalmente, la volontà dei costituenti finora rimasta ignorata anche dalla legge Spadolini Anselmi”. Una norma che vieti la segretezza di tutte le formazioni sociali, massoniche e non, che celino la loro essenza – ragiona la presidente Bindi nella relazione sulla massoneria, presentata oggi alla stampa – non potrebbe ritenersi discriminatoria e nemmeno persecutoria nei confronti della massoneria, come più volte paventato dalla stessa”. L’Antimafia suggerisce di estendere ad alcune categorie – magistrati, militari di carriera in servizio attivo, funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti consolari all’estero – oltre all’iscrizione ai partiti politici, già previsto, anche “il divieto ad aderire ad associazioni che richiedano, per l’adesione, la prestazione di un giuramento che contrasti con i doveri d’ufficio o impongano vincoli di subordinazione”, cosa che si oppone alla fedeltà assoluta alle istituzioni repubblicane. Infine la Relazione dell’Antimafia evidenzia come la legge Spadolini-Anselmi “non ha offerto uno strumento adeguato” nemmeno per perseguire quanto prevede all’articolo 2, dove si dice che “Chiunque promuove o dirige un’associazione segreta o svolge attività di proselitismo a favore della stessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La condanna importa la interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Chiunque partecipa ad un’associazione segreta è punito con la reclusione fino a due anni. La condanna importa l’interdizione per un anno dai pubblici uffici”.

Massoneria: Antimafia, per alcuni tutt’uno con mafia. C’è un persistente “interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria fino a lasciare ritenere a taluno che le due entità siano divenute una cosa sola”. Lo scrive l’Antimafia. “Ciò non significa criminalizzare le obbedienze”; l’Antimafia si chiede se si siano “dotate di anticorpi”. Dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (medici, avvocati, ingegneri, commercialisti). C’è una certa presenza delle forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, di magistrati e politici. La presidente Bindi evidenzia tuttavia come in diversi casi non venga coltivato dalle obbedienze “il primario interesse alla impermeabilità dalle mafie” e come spesso il preteso rispetto delle leggi da parte della massoneria “si è rivelato più apparente che reale”. In particolare la relazione della Commissione parlamentare antimafia bacchetta “la segretezza, che permea il mondo massonico (e quello mafioso) il segreto costituisce il perno di alcune obbedienze”. Il documento parla di “un senso di riservatezza a dir poco esasperato”. L’insieme di queste regole viene “suggellata da una sorta di supremazia riconosciuta alle leggi massoniche rispetto a quelle dello Stato”. “Peculiare appare il giuramento del Goi, il Grande oriente d’Italia, in cui l’affiliato è tenuto a osservare la Costituzione “quasi si riservi un giudizio di legittimità costituzionale massonico sulle leggi che dunque non sono da rispettare sic et simpliciter ma solo se da essi ritenute conformi al dettato costituzionale”. Sul fronte dei numeri emerge che degli oltre 17 mila iscritti nelle obbedienze esaminate nelle regioni Sicilia e Calabria, la gran parte, oltre 9 mila, insiste nelle logge calabresi; in Sicilia gli iscritti sono 7.819. Per uno su sei nominativi presenti negli elenchi (quasi 3 mila nomi) non è stato possibile procedere alla completa identificazione poichè mancavano dati anagrafici essenziali. Oltre mille di questi 3 mila soggetti sono risultati anagraficamente inesistenti, altri 1800 privi di generalità complete, altri 80 indicati con le sole iniziali del nome o del cognome.

Bindi, pentito racconta importanza adesione a mafia e massoneria. “C’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati (..) la massoneria aveva (..) importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico, decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione”. E’ quanto dichiara il collaboratore di giustizia, Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, e riportato nella relazione conclusiva su “mafia e massoneria” presentata oggi a Roma dalla presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi. Campanella “sin da giovane si era dedicato alla politica, alla massoneria – si legge nella relazione -, aderendo alla loggia palermitana del GOI “Triquetra”, ma anche alla mafia, ponendosi al servizio del noto capomafia Nicola Mandala il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano. La contemporanea adesione, quasi contestuale temporalmente (fine anni ’90), alle due diverse associazioni, non era osteggiata nè dall’una nè dell’altra parte. Mandala, infatti – si legge nella relazione dell’Antimafia -, aveva ritenuto che potesse essere “una cosa interessante e che … sarebbe potuta tornare utile in qualche maniera”. Utilità, in effetti, giunte all’occorrenza. Attraverso i fratelli a lui più vicini, infatti, aveva acquisto informazioni utili dai Monopoli di Stato per la gestione delle sale Bingo (facente capo all’associazione mafiosa) nel momento più delicato in cui era intervenuto l’arresto di Mandala, e si temeva che tali esercizi potessero essere sequestrati”. Le sue dichiarazioni confermano – conclude l’Antimafia -, innanzitutto che l’appartenenza alla massoneria crea un vincolo esclusivo e permanente, che, come avviene in Cosa nostra, si dissolve solo con la morte”.

Massoneria: Bindi, pentito dice Provenzano aveva info da loro. “Esisteva un terzo livello di soggetti in relazione direttamente con Bernardo Provenzano, all’epoca, che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazione da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti, ecc. (..) Informazioni di prim’ordine. (..) a un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria”. E’ quanto dichiara il collaboratore di Giustizia, Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, e riportato nella relazione conclusiva su “mafia e massoneria” presentata oggi a Roma dalla presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi. Francesco Campanella, pur dichiarando che non ebbe “il tempo di capire come funzionavano, per dirla con tutta franchezza”, ha riferito di uno specifico episodio di “fughe di notizie” che potette constatare personalmente: “in quel momento specifico in cui Mandala era nelle grazie di Provenzano e gestiva la latitanza, (..) Provenzano comunica a Mandala, esattamente la settimana prima che sarà arrestato, che si deve fare arrestare, che cambierà covo, quindi di non parlare, di mettere tutto a posto. Mandala lo comunica a me: “mi arresteranno, fai riferimento a mio padre Tutta questa serie di informazioni arrivavano”. Un gioco a fare il massone (così Campanella ha definito la sua partecipazione alla “Triquetra”) ma che, tuttavia, corrispondeva all’interesse dello stesso collaboratore di giustizia, della sua famiglia mafiosa e della massoneria. Va ricordato che è stato sentito dalla Commissione Antimafia anche Cosimo Virgiglio, collaboratore calabrese, già più volte ascoltato dai magistrati di Reggio Calabria ai quali aveva reso un ampio resoconto sui meccanismi propriamente massonici.

“Davanti alla Commissione ha sostanzialmente confermato le sue ampie dichiarazioni, peraltro riportate in diversi giudiziarie. Tra queste si ricorda, come nota di colore, che dopo il suo arresto, l’obbedienza lo fece raggiungere in carcere da un avvocato incaricato di dirgli di tacere il nome dei fratelli. Un segreto dunque ancor più valido anche per chi sta dietro le sbarre di un carcere. Anche lui confermava, come Campanella, che il vincolo massonico e perpetuo: si estingue solo con la morte”, si legge nella relazione.

Gli interessi di ‘ndrangheta e mafia per la massoneria: la relazione dell’Antimafia, scrive il 22 dicembre 2017 "Qui Cosenza". Sono 193 i soggetti indicati dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo come iscritti in procedimenti penali ed è consistente il numero di soggetti che, pur non indagati, imputati o condannati per delitti di natura mafiosa, hanno collegamenti diretti con esponenti della mafia e possono costituire un anello di collegamento tra mafia e massoneria. La presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ha presentato oggi la relazione finale sulla massoneria dalla quale emerge come “Cosa Nostra siciliana e la ‘ndrangheta calabrese da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria”. “Da parte delle associazioni massoniche si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia. Sono i casi, certamente i più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza che si rivelano i più preoccupanti”. Un persistente “interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria lasciano ritenere che le due entità siano divenute una cosa sola. Ciò non significa criminalizzare le obbedienze”; l’Antimafia si chiede se si siano “dotate di anticorpi”. Dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (medici, avvocati, ingegneri, commercialisti). C’è una certa presenza delle forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, di magistrati e politici. Dunque “il tema del rapporto tra mafia e massoneria “affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti in connessione sia con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e in Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione”.

Un “rapporto” emerso dopo la missione effettuata a Palermo e a Trapani. “In quell’occasione è stato ripetutamente affrontato il tema del rapporto tra Cosa nostra e la massoneria in Sicilia anche in relazione alla vicenda dell’appartenenza a logge massoniche di alcuni assessori del comune di Castelvetrano (Tp) luogo di origine del noto latitante Matteo Messina Denaro”. Nel documento si ricorda che attualmente nel trapanese sono presenti 200 “fine pena” già detenuti per reati di mafia e di traffico di stupefacenti che, scontata la pena, ora sono in stato di libertà. Nel comune di Castelvetrano insistono 6 logge massoniche su 19 che operano nell’intera provincia di Trapani e nell’amministrazione comunale della cittadina, nel 2016, 4 su 5 assessori erano iscritti alla massoneria e 7 su 30 tra i consiglieri. Nella relazione si evidenzia anche che i fatti di Castelvetrano fanno il paio con le indagini delle autorità siciliana e calabrese, queste ultime sfociate nei procedimenti “morgana mammasantissima e Saggezza. In tutti i casi si evidenziano recenti episodi di infiltrazione mafiosa nella massoneria e si attualizzano gravi fatti del passato “che lasciavano supporre l’esistenza delle infiltrazioni di Cosa nostra e della ‘ndrangheta nella massoneria”. “Con il sequestro non è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono” e comunque “non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti, occulti grazie a generalità incomplete, inconsistenti o generiche. Il vincolo di solidarietà tra fratelli consente il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia, legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi e impone il silenzio” come emerge “in un caso di estrema gravità”.

Servizi segreti, massoni e politici: ecco tutti i legami della 'ndrangheta in Emilia Romagna. Nuovi pentiti svelano i contatti delle cosche padane. Tra cene elettorali, 007 "amici di Bisignani" e "grembiuli" bolognesi. A parlare sono soprattutto i boss, che fanno tremare un sistema di potere. E così gli 'ndranghetisti riprendono a uccidere, in una guerra di mafia che non sconvolge la Calabria. Ma la pianura emiliana, scrive Giovanni Tizian il 07 dicembre 2017 su "La Repubblica". Il lato oscuro della 'ndrangheta emiliana. Popolato da 007, forze dell’ordine, politici e massoni. L’intreccio tra potere e clan nella narrazione di quattro nuovi pentiti rivela scenari inediti in una terra che rifiuta l’etichetta di preda delle cosche. Sospetti per ora, che affiorano però negli interrogatori di alcune gole profonde. Un intrigo padano, dai contorni nebulosi, reso ancor più inquietante da un omicidio. La settimana scorsa in provincia di Reggio Emilia è stato ucciso un giovane di 31 anni, originario della Calabria. Persona perbene, lo descrivono tutti. Due figli piccoli e nessun precedente. Nella stessa via erano state bruciate due auto in quindici giorni. Oltre alla procura ordinaria si è attivata anche l’Antimafia. Si scava nel privato, senza tralasciare piccoli dettagli che portano all’attività del padre della vittima, un edile con una partecipazione in un consorzio dove sono presenti personaggi vicini ai clan. Il delitto è «come sale su una ferita aperta», ha detto il questore nei giorni in cui anche a Ostia le pistole sono tornate a far paura. Il timore che avessero ragione i pentiti però è forte. Alcuni di loro hanno avvertito i magistrati di Bologna di una possibile lotta interna alla ’ndrangheta. Non in Calabria, ma nella pianura emiliana. E come in tutti i conflitti la possibilità che muoiano anche gli innocenti è concreta. Sintomi di questa fibrillazione sono comparsi fin dentro i penitenziari, dove si sono verificati duelli tra ’ndranghetisti di opposta fazione. A nove mesi dell’inizio del più grande maxi processo alle ’ndrine del Nord, c’è chi teme un ritorno agli anni Novanta, quando a Reggio le cosche non esitavano a usare le bombe e le lupare. Sembrava la Corleone di Salvatore Riina, eppure era ed è la provincia di Reggio Emilia. Lungo la via Emilia si sta abbattendo un ciclone giudiziario, alimentato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che stanno rivoltando il passato di complicità che molti davano per sepolto. C’è chi prega in segreto per salvarsi, chi riflette come prevenire il colpo e chi, invece, contrattacca nelle aule di tribunale dove lo Stato sta fronteggiando la cosca Grande Aracri - originaria di Cutro, nel Crotonese - ma trapiantata dagli anni Ottanta al di là della Linea Gotica. Una cosa è certa: calato il sipario su questo processo dimenticato dalla stampa nazionale, nulla sarà più come prima in questa pianura trasformata in Far West. Tanto che il gruppo di ’ndranghetisti finiti in carcere ha trasformato le celle in hotel a 5 stelle. Tablet, cellulari, droga, caffè in cella preso con i poliziotti penitenziari, in stile don Raffaè. Pestaggi e accordi con la camorra. Tutto questo nella sezione alta sicurezza, da dove partivano persino pen drive con gli audio che servivano a istruire i testimoni del maxi processo. Episodi emersi grazie ai collaboratori. Il contagio più temuto dalla ’ndrangheta si è ormai diffuso: in meno di un anno cinque nuove richieste di collaborare con la giustizia. Quattro super pentiti affidabili e un altro che la procura antimafia di Bologna non ha ritenuto credibile, nonostante sia il braccio destro del capo dei capi Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, e reggente del clan a Reggio Emilia. Gli altri che hanno ottenuto la patente di collaboratori credibili non sono, però, da meno. Nell’ordine: Nicola Femia, “Rocco” per gli amici, col grado di boss dell’omonimo gruppo mafioso; Pino Giglio, imprenditore e cassaforte della cosca Grande Aracri; Antonio Valerio, affiliato del cerchio magico del padrino “Manuzza”; Salvatore Muto, uomo d’affari del gruppo criminale cutrese. Insomma, per l’impenetrabile mafia calabrese è un colpo durissimo. Una tragedia epocale per l’organizzazione che vanta il minor numero di pentiti rispetto alle mafie tradizionali. Il primo ad alzare bandiera bianca, sotto i colpi della procura antimafia di Bologna è stato Nicola Femia. A febbraio scorso “Rocco” ha chiesto di incontrare i magistrati. Dieci giorni dopo i giudici bolognesi lo condanneranno in primo grado a 26 anni per mafia. Nell’ambiente del gioco d’azzardo legale è conosciuto come il signore delle slot. Uno dei primi a investire nel settore allo scoccare del nuovo millennio. Affondano qui le radici del suo impero economico e criminale. Stringe alleanze commerciali con imprese note del gaming, diventa partner di affermati imprenditori del Nord Italia e sfrutta la complicità di ingegneri informatici. Regista di joint venture tra mafie con fatturati a sei zeri. Oggi è un super pentito, che ha già riempito migliaia di pagine di verbali di interrogatorio. Carte scottanti, per gli argomenti che svela e per i nomi citati. Dichiarazioni che hanno permesso di aprire fascicoli in diverse procure antimafia e di rafforzare inchieste che sono in corso. Di certo, Femia, non ha mostrato alcuna remora di fronte ai pm: già al primo confronto ha ammesso di aver ucciso una persona quando aveva 15 anni. Fu assolto. L’omicidio era stato ordinato dal vecchio patriarca della mafia calabrese Vincenzo Mazzaferro. Quello fu l’inizio della sua carriera. In segno di riconoscenza il padrino lo battezzò «riservato» dell’organizzazione. In pratica Nicola Femia non aveva dovuto affiliarsi formalmente: «Sapeva (il boss ndr) che poteva contare su di me per qualsiasi cosa, non aveva interesse a rendere ufficiale una mia affiliazione». Da allora Femia inizierà la sua ascesa. Era uomo dei Mazzaferro, e questo bastava a spianargli la strada verso il successo. In Calabria come in Emilia. Nipote, peraltro, di un pezzo da novanta della cosca processato assieme a Michele Sindona, il banchiere della mafia pre Riina. Femia, insomma, qualche segreto lo custodisce. Anche perché da quando ha lasciato la carriera di narcos per diventare re delle slot ha conosciuto figure di un certo peso. Come quel tale, descritto nei verbali come uomo dei servizi segreti, che si vantava di essere amico di Luigi Bisignani, «quello della P4, P5...», ha spiegato con una battuta. Non è l’unico 007 da lui frequentato. Le indagini hanno documentato diversi incontri con un agente segreto. Chiamato dai pm non ha voluto fornire spiegazioni. Il collaboratore Femia sta illuminando con le sue dichiarazioni zone buie di questo territorio che sono collegate anche alla politica. Svela ai magistrati le richieste ricevute dai clan della Lombardia per organizzare cene elettorali in Emilia in favore di alcuni politici i cui nomi sono ancora coperti dal segreto. Riferisce anche di un ex deputato, sempre emiliano, che gli aveva fatto chiedere voti tramite il suo faccendiere. Rivela, poi, i rapporti con professionisti iscritti alla massoneria bolognese, delle mazzette per comprarsi le sentenze e il rapporto con un avvocato già parlamentare. Le storie trapelano dall’ambiente giudiziario dove però vige un grande riserbo. Tutto quello che emerge dagli interrogatori fa vedere come in questo territorio si riesce con facilità a mettere in contatto un ex narcos diventato re dell’azzardo legale con pezzi delle istituzioni locali e nazionali. Basta pensare che nell’arco di sei mesi Femia con una sola società di gaming online è stato in grado di incassare fino a 40 milioni. Don “Rocco” non è tra gli imputati del maxi processo Aemilia contro la cosca Grande Aracri, ma in quell’aula è andato a testimoniare, perché con alcuni emissari di quella ’ndrina aveva stretto una partnership.

UNA QUESTIONE POLITICA. Il “pentito” Salvatore Muto ripercorre adesso l’intreccio politico mafioso in Emilia, partendo dal 1994 quando sostiene che venne impartito l’ordine dai clan di far votare Forza Italia. «Quelli che si diedero da fare erano tutte persone appartenenti alla ’ndrangheta o in qualche modo legate... mi occupavo del volantinaggio, appendevo i manifesti». Secondo Salvatore Muto a distanza di ventitrè anni la passione per il partito di Berlusconi non si è affievolita. Il primo politico condannato in Emilia per complicità con i clan si chiama Giuseppe Pagliani, consigliere comunale e provinciale di Forza Italia. Condannato in appello a 4 anni, assolto in primo grado, nel filone politico del maxi processo. In un altro stralcio della medesima inchiesta è tuttora indagato per rivelazione di segreto il senatore Carlo Giovanardi, in passato nel Pdl. Muto dopo la campagna elettorale per Berlusconi racconta di essere partito per Reggio Emilia. Accolto nella corte del padrino Nicolino Grande Aracri. Fu proprio don Nicolino a confidargli la formula del successo criminale: «Le guerre le ho fatte al Nord e le ho vinte io». Il collaboratore di giustizia custodisce segreti anche sull’attività politica attuale. Questioni di voti e potere. Ricorda quando il suo capo gli raccontò di aver ricevuto da un affiliato la richiesta di raccogliere voti per il candidato a sindaco del Pd di Reggio Emilia. Si tratta dell’attuale primo cittadino Luca Vecchi, successore dell’attuale ministro Graziano Delrio. Un sostegno interessato, che però non è stato ricambiato: «Il sindaco non era a favore nostro, si è messo contro di noi», precisa Muto nel verbale del 17 novembre scorso. La moglie di Vecchi, Maria Sergio, è stata per anni dirigente dell’ufficio urbanistica del Comune guidato da Delrio. La coppia Vecchi-Sergio è stata presa di mira dal boss Pasquale Brescia, volto imprenditoriale dell’organizzazione e vicino a diversi poliziotti. In una missiva inviata alle redazioni di giornali dal carcere ha lanciato accuse pesantissime sia al sindaco che a sua moglie. Lettera dai toni minacciosi, che ha portato la procura antimafia di Bologna a indagare Brescia e l’avvocato che lo difendeva. Il pentito Muto sta svelando ulteriori particolari di quella vicenda: sostiene che l’autore della lettera si vantava di sapere molte cose del sindaco Vecchi ma che non poteva parlarne. La lettera, dice un altro pentito che si chiama Antonio Valerio, «fu scritta per far muovere il sindaco Vecchi a prendere le parti dei cutresi... visto che anche sua moglie Maria Sergio è cutrese e aveva un parente capo di Cutro negli anni ’60-’70... sapendo questo si cercava a livello psicologico di assoggettarlo». In questo modo la 'ndrangheta emiliana messa alla sbarra ricatta. Per difendere ciò che ha costruito in trent’anni di colonizzazione.

CATASTO È POTERE. I carabinieri hanno acquisito documenti e sentito alcuni funzionari in Prefettura a Modena. È l'ultimo clamoroso sviluppo dell'indagine sui clan emiliani. Tutto questo mentre il maxi processo contro gli oltre 200 imputati è in corso. E al ministero dell'Interno giace una richiesta di scioglimento per il Comune di Finale. Potito Scalzulli è un ex dirigente del demanio di Reggio Emilia. Oggi fa politica in Romagna, lontano dalla città in cui tutto è cominciato. La prima denuncia porta la data del 23 novembre 2010, in tempi non sospetti, dunque. Quando, cioè, il bubbone 'ndrangheta emiliana non era esploso pubblicamente. Scalzulli nei suoi esposti non ha mai usato mezzi termini: all’interno dell’ufficio che dirigeva si era incancrenito un sistema, «il sistema catasto», lo definisce. Sette anni di esposti che non hanno smosso alcunché. Per questo, adesso, con il maxi processo in corso ha deciso di inviare il malloppo di documenti e denunce raccolte negli anni alla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi. «Prove documentali che certificano la collusione e la connivenza con il gruppo organizzato di pubblici dipendenti fautori del malaffare, il cosiddetto sistema catasto», si legge nell’incipit del documento inviato alla Commissione. Alla spartizione avrebbero partecipato, secondo l’ex dirigente, funzionari di vertice dell’Agenzia, politici interessati alla tenuta del “Sistema” per garantirsi la continuità del consenso «determinante per fare la differenza sugli equilibri politici elettorali». Al centro delle denunce di Scalzulli anche un politico locale del Pd nonché dipendente dell’Agenzia del territorio, Salvatore Scarpino. Consigliere comunale di riferimento della numerosa comunità calabrese a Reggio Emilia e in ottimi rapporti con l’attuale ministro Delrio. Su Scarpino oltre alle denunce di Scalzulli pesano le dichiarazioni in aula di un testimone durante il processo alla ’ndrangheta emiliana. Renato Maletta, in passato candidato a sostegno di Delrio sindaco e sottoposto di Scarpino all’Agenzia, ha raccontato di aver fatto campagna elettorale per il consigliere Pd. Sorprendenti, tuttavia, le frequentazioni di Maletta: invitato al matrimonio, in Germania, del figlio di un boss e proprietario di un cavallo nel ranch reggiano di un imputato per ’ndrangheta. Non il massimo per chi aspira a ruoli politici. D’altronde, però, l’Emilia non è neanche più la roccaforte etica di un tempo.

 Cateno De Luca, le accuse ai magistrati in diretta su La7, scrive il 27 novembre 2017 "Lettera Emme". "A Messina, nel momento in cui emergi, o ti affili o ti fanno fuori". Show del deputato regionale a "Non è l'Arena" di Massimo Giletti: dito puntato e fatti circostanziati, dai quali il conduttore ha tentato in tutti i modi di dissociarsi. Un imbarazzatissimo Massimo Giletti, conduttore su La 7 della trasmissione “Non è l’arena”, mentre tenta invano di domare un Cateno De Luca senza freni: L’essenza dell’intervista al deputato regionale di Sicilia Vera di ieri sera è questa. Come da qualche settimana a questa parte, De Luca non esita ad attaccare sempre più duramente la magistratura messinese, ogni volta aggiungendo un tassello in più. Stavolta, è toccato ad un non precisato alto magistrato, il cui figlio, secondo De Luca, sarebbe stato assunto in un ente di formazione: le sue indagini da parlamentare e lo “smascheramento” di una manovra che avrebbe portato il rampollo al Ciapi, un ente regionale, sarebbe alla base della sua persecuzione giudiziaria. Così ha gridato a tutta Italia un De Luca rosso in faccia ed in iperventilazione, mentre Giletti tentava di riportarlo a più miti consigli e, fallito il tentativo, ha scaricato su De Luca la responsabilità delle sue parole. “Si assume la responsabilità di quello che sta dicendo”, ha messo le mani avanti il conduttore, tentando di sovrastare le urla di De Luca, il quale ha prontamente risposto. “Ho già denunciato tutto due volte, sto procedendo con la terza, certo che me le assumo”, ha continuato l’ex sindaco di Fiumedinisi, senza mollare di un millimetro, e anzi rincarando la dose e parlando anche dell’arresto di Francantonio Genovese. “Abbassiamo i microfoni”, ha concluso ad un certo punto Giletti, che non riusciva ad avere la meglio su De Luca.

“A Messina, nel momento in cui emergi, o ti affili o ti fanno fuori”, aveva spiegato qualche minuto prima del siparietto Cateno De Luca. Secondo il parlamentare nel Palazzo di Giustizia messinese ci sarebbe una mano nera. Accusa appoggiata anche dal suo legale, Carlo Taormina, il quale ha riferito di altri esposti depositati per fare luce sulla vicenda, scrive “News Sicilia”. Ad alzare ulteriormente i toni l’accusa lapidaria lanciata dal neo deputato che ha parlato di “mafia della magistratura”, provocando la presa di distanza di Giletti e dell’ex magistrato di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, in collegamento da Milano. In collegamento, durante la trasmissione, anche Antonio Di Pietro, ex ministro ma soprattutto ex magistrato. Che ovviamente si è dissociato dall’attacco di De Luca contro quello che per decenni è stato il suo mondo.

La rete massonica ha condizionato (anche) la magistratura, scrive Paolo Pollichieni, lunedì 27 Novembre 2017, direttore de "Il Corriere della Calabria". La Commissione parlamentare antimafia intende consegnare alla magistratura, e segnatamente alle Procure distrettuali di Reggio Calabria, Catanzaro, Palermo e Catania, copia dei fascicoli contenenti tutto il materiale raccolto nell'ambito del filone sui rapporti tra massoneria e criminalità mafiosa e circa l'esistenza di logge occulte o coperte. La decisione dovrebbe essere formalizzata a breve, in una apposita seduta della Commissione. In questa direzione spinge, in particolare, il vicepresidente della Commissione, Claudio Fava il quale nel merito degli elenchi ha già avuto modo di puntualizzare alcune osservazioni: «Da una prima lettura degli elenchi degli aderenti alle logge massoniche in Calabria e in Sicilia, non sembra che emergano nomi di straordinaria notorietà ma c’é una dimensione di adesione alla massoneria che sfugge a ogni controllo, per esempio con le logge coperte o con “i fratelli all'orecchio”. La sensazione che ci siano propaggini che si spingono nel Parlamento è più che una sensazione; non mi stupirei se anche in Commissione Antimafia ve ne fosse qualcuno». Una «sensazione», quella di cui parla Fava, che il rapporto della Guardia di Finanza successivo alla comparazione degli elenchi con i tabulati degli archivi delle forze di polizia, avrebbe ulteriormente irrobustito. Sullo sfondo viene richiamata non solo la sentenza del Consiglio di Stato che “invita” quanti ricoprono incarichi di vertice nella pubblica amministrazione a segnalare la propria appartenenza alla massoneria, ma anche uno scontro che in precedenza aveva visto tre magistrati del Consiglio di Stato (Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa e Raffaele Greco) presentare un esposto disciplinare nei confronti di un loro collega che aveva redatto un articolo scientifico sulla degenerazione dei concorso pubblici, non mancando di citare i condizionamenti da parte della massoneria e dell’Opus Dei.  I tre magistrati ritenevano che in alcune parti quello scritto fosse offensivo nei confronti della giustizia amministrativa. Il successivo arresto dell’ex consigliere di Stato Carlo Malinconico per fatti corruttivi, nonché altri accertamenti giudiziari a carico di un ex presidente dell’associazione dei consiglieri di Stato e di altri magistrati in servizio nel Consiglio di Stato, si incaricò di far decadere l’esposto e riproporre la questione su quanti sono i massoni che indossano grembiulino e toga da consigliere di Stato. Non di meno resta aperta anche la questione dell'eventuale ricattabilità di tali soggetti, posto l'espresso divieto per i magistrati amministrativi di appartenere a logge massoniche. In merito va anche osservato che molti magistrati del Consiglio di stato (Luca Cestaro, Umberto Maiello, Antonio Plaisant, Roberto Pupilella, ecc.) hanno riproposto la questione chiedendo che venga imposto a tutti di fare chiarezza sulla propria eventuale militanza massonica. Il rischio, che dal lavoro della Commissione antimafia ormai viene fuori con chiarezza, è che il potere sia transitato dalle mani della politica a quello di ambienti non solo sottratti al controllo democratico ma addirittura in grado di condizionarne le scelte e l'operato. Non esiste solo la democrazia o la dittatura, esiste anche la cosiddetta oligarchia ed è a questa forma di gestione della cosa pubblica che sembra abbia puntato la massoneria. Una oligarchia che si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire un potere personale grazie al quale ottiene prima di tutto la sua sostanziale inamovibilità. Scorrendo gli elenchi, assicurano, si rileva come sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all'altro, da un grembiulino a un ente, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che diventano autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto di interessi.

Insomma, se i politici sono la casta, l'oligarchia burocratico-funzionale è molto spesso la super casta. Nella stessa loggia, poi, ecco convivere il grande burocrate con il boss di primo livello e tutti e due sottobraccio con mondo imprenditoriale e bancario. Anche la peculiarità territoriale di alcune logge ha attirato l'attenzione degli inquirenti. Ad esempio in Calabria quanti hanno a che fare con la sanità finiscono col ritrovarsi nella stessa loggia che pure è distante dai luoghi dove gli adepti vivono o esercitano la propria professione. In questo contesto oltre che di logge coperte si torna a parlare di massoni “all'orecchio”, vale a dire i cui nomi non compaiono in alcun elenco ufficiale ma sono noti solo al gran maestro. In molti casi si tratta addirittura di magistrati che operano in Procure della Repubblica e presso Tribunali importanti. Qualcuno di questi è rimasto impigliato in rapporti della polizia giudiziaria. In particolare è capitato a Potenza, Crotone e Vibo Valentia; le relative indagini, tuttavia, avrebbero segnato il passo una volta finite in mano, tutte, a un unico pubblico ministero in servizio presso la Procura ordinaria di Catanzaro e il cui nome comparirebbe, oggi, in uno degli elenchi sequestrati dalla Guardia di finanza.

Insomma, attraverso il controllo di alcuni importanti snodi della magistratura ordinaria e di quella amministrativa, il potere oligarchico avrebbe garantito una rete di protezione non solo a boss mafiosi ma anche a imprenditori disinvolti e a burocrati in carriera. Non sarebbe un caso il fatto che in un Paese dove la corruzione, secondo i parametri di rilevamento internazionali, si attesta su posizioni di preoccupante rilievo (al punto da far creare un apposita autority, l'Anac, affidata alla presidenza del magistrato Raffaele Cantone) si registra poi un bassissimo numero di indagini, processi e condanne per corruzione. E se si scende ad analizzare tali indagini si scopre che in massima parte sono riconducibili all'azione di uffici giudiziari del Centro-nord, con in testa Milano, Torino e Venezia, mentre si contano sulle dita di una mano i processi per corruzione nei distretti giudiziari di Catanzaro, Reggio Calabria, Caltanissetta e Cagliari. E sempre spulciando tra gli archivi di una loggia massonica calabrese, gli investigatori si sono imbattuti in una “Petizione al Capo dello Stato, On. Giorgio Napolitano, nella sua veste di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura” a mezzo della quale si chiedeva di invitare i magistrati a dichiarare sotto giuramento la loro eventuale partecipazione o iscrizione alla massoneria. Vale la pena di riportare alcuni passi di quella petizione, della quale non si ha notizia circa l'esito e neppure circa la sua effettiva consegna al presidente Napolitano.

Vi si legge: «La domanda circa l'appartenenza alla Massoneria non può mai ottenere risposta affermativa. Il perché è ben spiegato dalle parole stesse del giuramento che gli aspiranti Massoni pronunciano durante il rito d'iniziazione: “prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra”». Muovendo da tale premessa si chiedeva: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, ha il dovere di garantire la intangibilità della fiducia dei cittadini nell'istituzione giudiziaria e quindi di rendere disponibile un'informazione pubblica sui magistrati appartenenti alla Massoneria poiché lo stringente giuramento innanzi riportato comporta la promessa "di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra" potrebbe far dubitare dell'imparzialità del magistrato massone qualora, in un procedimento giudiziario, fra tutti i liberi muratori della terra, ve ne fosse uno coinvolto direttamente o indirettamente nei fatti soggetti al suo giudizio”. Infine la richiesta di notificare ad ogni singolo magistrato un formale atto d'interpello: «Lei ha aderito alla Massoneria? Se risponde affermativamente, può indicare lo stato attuale della sua appartenenza e la documentazione che lo comprova? Per completezza si allega un estratto di sentenza del Consiglio di Stato che esclude l'esimente della riservatezza in tema di appartenenza alla Massoneria del Pubblico Ufficiale o Pubblico Incaricato: Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 06.10.2003 n° 5881. Il Consiglio di Stato ha stabilito che è legittima una legge regionale che impone ad un soggetto l'obbligo di comunicare l'appartenenza ad una loggia massonica ai fini del conferimento di un incarico pubblico. Con la sentenza n. 5881 del 6 ottobre 2003 i giudici di Palazzo Spada affermano che tale obbligo non viola il diritto di riservatezza in quanto è correlato alla particolare posizione funzionale rivestita dal soggetto designato o nominato ad una pubblica funzione ed è giustificato da preminenti interessi pubblici e generali direttamente assistiti da garanzia costituzionale. Nella motivazione della sentenza il giudice amministrativo precisa inoltre che il diritto alla riservatezza, pur integrando un aspetto di non secondaria rilevanza della proiezione della persona, non è un valore assoluto che trova diretta tutela nella Carta costituzionale vigente come bene primario ed inviolabile ed è destinato perciò a soccombere di fronte al principio di buon andamento dell'amministrazione, postulato a livello costituzionale dell'art. 97».

Adesso a riproporre il tema è l'indagine conoscitiva della Commissione parlamentare antimafia, una indagine però che arriva alla sua parte più delicata proprio mentre la legislatura sta per chiudersi, il che, come capitato altre volte, lascerà incompiuto il tentativo di fare luce su ambiti che pure condizionano pesantemente il sistema democratico del nostro Paese.

Scocca l’ora dei magistrati massoni: ecco come bloccano la Giustizia in Italia, scrive Iacchite il 2 marzo 2017. Sembra che (finalmente!) ci siamo. L’annuncio della Commissione Antimafia di voler procedere al sequestro degli elenchi della massoneria ci dovrebbe dare (al di là delle proteste dei “fratelli”) l’esatta misura dell’inquinamento delle istituzioni da parte dei “deviati”. I massoni onesti, dunque, non dovrebbero contestare questa procedura perché è l’occasione giusta per cacciare a calci nel sedere chi approfitta dell’Istituzione. Soprattutto i magistrati. Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. Sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento. «Prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. L’inchiesta sulla massoneria, condotta da Agostino CORDOVA con l’ausilio della Guardia Municipale di Vibo Valentia, signor VILLONE, ha consentito di scoprire parecchi altarini. Magistrati inseriti nella lista della P2 e DF all’orecchio GOI assonnati dell’epoca, e non, negli elenchi attuali dei massoni: BARBARO Guido, in servizio. BUONO Antonio, in pensione. CASSATA Salvatore, in pensione. LIBERATORE Vittorio, in pensione. MARSILI Mario, in servizio. PALAIA Giovanni, in servizio. RANDON Giacomo, in servizio. RASPINI Domenico, in pensione. SIGGIA Elio, in pensione. STANZIONE Antonio, in servizio. ZUCCHINI Paolo, in servizio.

FONDO SEGRETO P2: DI BLASI Salvatore, D’ONOFRIO Mario, PALERMO Domenico, PINELLO Francesco, RINAUDO Antonio, SPINA Antonio, VELLA Angelo.

ELENCO MAGISTRATI MASSONI ESTRATTI DA ARCHIVI GOI-CSI- GL I: ALIBRANDI Tommaso Cds, in pensione. ARITI Alfredo, ARMANI Giuseppe, CASOLI Giorgio, D’AMICO Antonio, in pensione, DE PANFILIS Lorenzo, in pensione, DI PRIMA Lillo, in pensione, MONTI Davide.

SCHEDA MAGISTRATI MASSONI GOI (non risultanti negli archivi come Magistrati):

D’AGOSTINO Luciano (sì, negli archivi, non come magistrato, dati anagrafici rispondenti). D’AGOSTINO Luciano. La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove è stato giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.

ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.

DI BLASI Salvatore – Per molto tempo giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. Fino a pochi anni fa il giudice Di Blasi si è occupato invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Niccolò (sì, negli archivi, non come magistrato, dati anagrafici rispondenti). FRANCIOSI Niccolò. Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

MARTINO Salvatore (scheda numerata e con timbro, non negli archivi, sì, tra i magistrati, dati anagrafici corrispondenti).

PERRONE Pio, in pensione (scheda numerata e con timbro, non negli archivi).

RINAUDO Antonio (scheda con timbro, non negli archivi, sì, tra i magistrati). RINAUDO Antonio. Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…

ROMAGNOLI Riccardo (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, non come magistrato e senza dati anagrafici). ROMAGNOLI Riccardo. È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.

SALEMI Guido, in pensione (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, ma non come magistrato).

SCARAFONI Stefano (sì negli archivi, non come magistrato, dati anagrafici corrispondenti).

SERIANNI Vincenzo, assonnato (scheda con timbro, non negli archivi, dati anagrafici corrispondenti).

SPINA Antonio (scheda con timbro, non negli archivi, risulta tra i magistrati).

VELLA Angelo, in pensione (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, ma senza dati). VELLA Angelo. Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALE Francesco, in pensione (scheda numerata e con timbro, sì, negli archivi, non come magistrato).

VITALI Massimo (scheda con timbro, sì, negli archivi, ma non come magistrato, dati corrispondenti). VITALI Massimo. Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.

E per il momento ci fermiamo qui.

Unical, il trionfo della massoneria sotto gli occhi di Minniti, Bindi e gattopardo, scrive Iacchite il 28 novembre 2017. Sulla stampa (anche di regime) delle settimane sorse sono state pubblicate le vicende dei sette professori di diritto tributario di Firenze messi agli arresti domiciliari da lunedì 25 settembre con l’accusa di corruzione per aver truccato le procedure per l’abilitazione universitaria. Altri 22 docenti sono stati sospesi dall’insegnamento per dodici mesi, mentre il numero totale degli indagati dalla procura di Firenze in quella stessa inchiesta è 59. Le accuse vanno dalla corruzione all’induzione indebita e alla turbativa del procedimento amministrativo. Molti degli indagati, in quanto membri delle commissioni nazionali nominate dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per rilasciare le abilitazioni all’insegnamento, sono pubblici ufficiali. Nonostante questa triste pagina di storia per l’Università Italiana, l’Università della Calabria, comandata dal massonissimo Babbo Natale (che di Santa Claus ha solo la fisionomia e la stazza, visto il suo menefreghismo e ci dicono anche la sua puerile cattiveria), rimane fuori dalle inchieste della Procura di Cosenza per grazia ricevuta. Molti si chiedono il perché. Ma trovare una risposta non è poi tanto difficile. Lo scriviamo da mesi ormai: il procuratore-gattopardo Mario Spagnuolo ha fatto affari e soldi con l’informatica grazie all’ineffabile professore Guarasci (quello che trucca i concorsi con Crisci) e il suo sostituto anziano Bruno Antonio Tridico è stato premiato con l’assunzione della compagna dopo aver fatto ridere tutta Italia con la sua inchiesta sui falsi esami all’Unical che ha assolto tutti i “pezzi grossi”. E così succede che Crisci sta allo stesso tavolo con Minniti, la Bindi e Spagnuolo e si prende addirittura la libertà di dare la mano al ministro dell’Interno con le modalità massoniche (il dito indice della mano destra staccato dal resto delle dita) sotto gli occhi di quell’incapace di Rosy Bindi, che fa guerra alla massoneria soltanto a chiacchiere. La situazione dell’Università della Calabria pertanto può degenerare senza problemi, tanto nessuno toccherà nessuno. L’8 novembre scorso si è verificato quello che abbiamo anticipato un anno fa: la vittoria del concorso dirigenziale predestinato e costruito ad hoc del dottore Roberto Elmo. Successivamente anche Repubblica è stata costretta a scrivere che non solo nel Dipartimento di Guarasci si truccano i concorsi e il Tar li annulla ma si ripresenta lo stesso candidato che ha barato tanto l’impunità regna sovrana. Prossimamente ci sarà anche un aumento di mansioni e di soldini per la bionda dissennata del primo piano, che dopo le battute veritiere di donna Rosa, fa finta di niente, ma continua a scegliere ditte e a fare le scarpe al suo capo Fabbricatore seminando odio con Babbo Natale. L’ex capo dell’ufficio stampa, Ciccio Kostner, dopo mille tentativi di ripresa e di ricorsi, pare si sia rassegnato alla volontà del supremo rettore, che con il placet del Dimeg e del suo vero direttore Saccà continua, nell’ombra, a governare l’ateneo. Raffaele Perrelli, solo intellettuale in questa bolgia di peccatori, sembra ormai sempre più un pesce fuor d’acqua. Il buon Franco Rubino, sperando in una sua condivisa candidatura a rettore, tesse rapporti con stato e antistato, regalando incarichi, dottorati di ricerca e tante altre cose ancora. Ma Gino Crisci, mentre ostenta la chiusura del Diatic, comincia ad alimentare (chiediamoci come) altri studenti (rappresentanti) per barcamenare nel tormentoso oceano dell’università. Il prorettore Luigino Filice (che si vuole candidare a Rettore a tutti i costi) invece fa finta di non sapere e non vedere che nelle residenze universitarie molti dipendenti e molti studenti sono abusivi. Ma Filice non può parlare altrimenti gli tolgono i suoi scheletri fuori. Altro schifo sono i fondi destinati alle associazioni studentesche. Le uniche a percepire di più sono quelle gestite dal dottore di ricerca (promosso e sostenuto da Rubino a discapito di gente meritevole e preparata) Diego Mazzitelli, consigliere di amministrazione in quota studenti, col voto telecomandato dal rettore. Che continua ad esaltare la “sua” massoneria, tanto anche Minniti e la Bindi ridono quando gli dà la mano come un “fratello”. Ovviamente deviato…

Omicidio Dalla Chiesa, l’intervista a Sciascia: «La mafia è cambiata e nessuno lo ha ancora capito». Nell’anniversario dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ripubblichiamo l’intervista a Leonardo Sciascia apparsa sul «Corriere della sera» del 5 settembre 1982. «Carlo Alberto Dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato». Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo l’assassinio del generale dei carabinieri. Sciascia non aveva stabili frequentazioni con il militare, ma ne era rimasto affascinato tanto da trasformarlo nel capitano Bellodi, protagonista de «Il giorno della civetta». L’incontro avviene nella casa di campagna dello scrittore a Racalmuto, poche migliaia di anime al centro del triangolo della miseria in Sicilia. Sciascia vi trascorre le vacanze in compagnia della moglie, n resto del mondo appare lontano. La notizia dell’assassinio del prefetto di Palermo Sciascia l’ha appresa solo ieri mattina, dodici ore dopo l’agguato. «Questo assassinio — dice — ha un solo significato ed è l’eliminazione di una singola persona che era diventata un simbolo. Le istituzioni sono tarlate, non funzionano più, si reggono solo sulla abnegazione di pochi uomini coraggiosi. A partire dall’assassinio del vice questore Boris Giuliano, la mafia ha deciso di eliminare questi uomini simbolo. Arrivati a Dalla Chiesa, però, mi domando, se non ci sia della follia in chi ordina questi delitti: che cosa vogliono? Qual è il loro obiettivo? Pretendono forse il governo dello Stato? In verità non riesco a capire. Vogliono forse Imporre un ordine mafioso che si sovrapponga a quello dello Stato? Ma questo è impossibile perché livello dei delitti è talmente alto da suscitare una fortissima reazione». «Io credo - continua Sciascia — che nessuna organizzazione eversiva possa gareggiare con lo Stato in fatto di violenza, anche quando lo Stato appare inefficiente. Anzi, la sua inefficienza, è direttamente proporzionale alla mancanza di funzionalità. In queste condizioni sfidarlo mi sembra un atto di napoleonismo folle. Ma tutto ciò mi preoccupa perché uno Stato inesistente è sempre capace di approvare una legge sui pentiti e di scatenare una furibonda repressione poliziesca». «Secondo me la mafia si combatte utilizzando onestà, coraggio e intelligenza e le indagini fiscali illustrate due giorni fa dal ministro Formica mi sembrano un buon inizio. Con questi strumenti la mafia si può debellare. «Per capire tale affermazione bisogna rifarsi alla tesi classica che voleva la mafia inserita nel vuoto dello Stato, mentre in realtà essa vive nel pieno dello Stato. Credo che dall’istituzione della commissione antimafia in poi, l’organizzazione abbia cominciato a sentirsi esclusa dal pieno dello Stato e ora ha assunto questa forma che potremmo definire eversiva. Ma in effetti appare come un animale ferito che dà colpi di coda». «Dalla Chiesa, forse — aggiunge lo scrittore —, non aveva intuito tale trasformazione e i pericoli che ne derivavano. Anch’io, peraltro, non credevo che si arrivasse a colpire tanto in alto. Ma in effetti noi tutti conosciamo bene solamente la vecchia mafia terriera. Per il resto tiriamo ad indovinare. Possiamo dire in ogni caso che la mafia è una forma di terrorismo perché vuole terrorizzare la gente. Ma i fini sono sostanzialmente diversi. Di comune c’è una sola cosa e cioè l’attentato alle nostre libertà». «Ma forse Dalla Chiesa — conclude Sciascia — non aveva piena coscienza di questo fenomeno. Mi meraviglio infatti della maniera con cui è stato ucciso. Quando un uomo arriva alle sue posizioni ha il dovere di farsi proteggere e di farsi scortare bene. Le manifestazioni di coraggio personale possono diventare forme di imprudenza pericolosa. Ciò nonostante mi sgomenta la incapacità della nostra polizia di prevenire. Infatti un attentato ad un uomo come Dalla Chiesa non si improvvisa in quattro e quattr’otto, ma nessuno ne aveva avuto sentore».

I nemici del generale dalla Chiesa. Non soltanto terroristi e mafiosi. «Dalla Chiesa» (prefazione di Aldo Cazzullo, Mondadori, pagine 324, euro 20). La biografia di Andrea Galli (pubblicata da Mondadori) ripercorre le vicende che portarono all’omicidio del 1982. C’è un vuoto di verità che va colmato, scrive Giovanni Bianconi il 28 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa (1920-1982), assassinato a Palermo da Cosa nostra. Si respira un’atmosfera da Giorno della civetta, quando un giovane capitano dei carabinieri sbarcato a Corleone il 3 settembre 1949 fa emergere a fatica i contorni di un misterioso delitto, nonostante latitanze e assoluzioni a protezione dei colpevoli. E non si fa scrupolo di denunciare le interferenze dei politici che «cercano di sopraffarsi affinché l’uno tragga vantaggi a scopi elettorali a danno dell’altro». Quel capitano — non il Bellodi creato da Leonardo Sciascia, ma l’ufficiale dell’Arma in carne e ossa Carlo Alberto dalla Chiesa — ha toccato con mano la mafia e gli intrecci che la proteggono, e sembrano inseguirlo fino a Milano, dove nella prima metà degli anni Sessanta si trova a indagare sulle propaggini lombarde della guerra fra cosche che ha rotto gli equilibri tra gli «uomini d’onore», con tanto di omicidi in trasferta. Poi dalla Chiesa, divenuto colonnello, torna sull’isola per comandare la Legione della Sicilia occidentale, ed eccolo alle prese con inchieste sui funzionari regionali legati a Cosa nostra, anticamera dei rapporti tra mafia e pubblica amministrazione; e con le calunnie di un Corvo ante litteram, impegnato a spargere veleni contro il comandante che con la sua fissazione per il rispetto delle regole rischia di mettere in pericolo il quieto vivere sul quale i boss hanno costruito il loro potere. Se ne andrà ma tornerà ancora, il carabiniere promosso generale e infine prefetto di Palermo, incaricato di guidare una battaglia che non farà in tempo neppure a cominciare: la mafia chiude i conti ammazzandolo a colpi di kalashnikov, insieme alla giovane moglie e all’inerme guardia del corpo. Era il 3 settembre 1982, trentatré anni dopo il primo incarico a Corleone. E stavolta non c’è lo sfondo arido e assolato da Giorno della civetta, bensì la determinazione cupa e sanguinaria de Il padrino. Tutto questo e molto altro, insieme alla sintesi di un lungo tratto di storia criminale e politica d’Italia, affiora dalle pagine in cui Andrea Galli ha ricostruito la vicenda del «generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia» (Dalla Chiesa, Mondadori, con prefazione di Aldo Cazzullo). Una parabola che comincia e finisce in Sicilia, ma in mezzo attraversa la lunga e drammatica parentesi della lotta armata, contro la quale lo Stato schierò dalla Chiesa due volte: prima agli albori delle Brigate rosse e poi, dopo l’inspiegabile scioglimento del suo Nucleo speciale, all’indomani del sequestro Moro. Il racconto di Galli, ricco di dettagli, suggestioni e episodi inediti o poco conosciuti, aiuta a ricordare che il capitolo più tragico del terrorismo rosso si apre e si chiude con le indagini di dalla Chiesa e dei suoi carabinieri, che tra il 1974 e il 1975 quasi arrivano a smantellare le Brigate rosse e in seguito, fra il 1978 e il 1981, avviano il percorso investigativo che porterà alla loro definitiva sconfitta. Un metodo innovativo più che una struttura organizzata, grazie al quale gli uomini del generale (un manipolo di fedelissimi selezionati e votati alla causa) riescono a infiltrare le bande armate e gli ambienti nei quali reclutano militanti, studiandone abitudini e obiettivi per anticiparne le mosse e riuscire a neutralizzarle. Fino al decisivo aiuto fornito dai terroristi «pentiti», primo fra tutti quel Patrizio Peci che proprio con dalla Chiesa decide di saltare la barricata e passare dall’altra parte. I successi del generale e del suo modo di lavorare — accompagnati dalle perplessità mai nascoste nei confronti di uno Stato che non sembra reagire compatto alla sfida del terrorismo rosso, e soprattutto non usa la stessa determinazione contro l’eversione di marca neofascista — lo trasformano in un obiettivo per i suoi avversari sul «campo di battaglia», ma determinano inquietanti preoccupazioni anche all’interno delle istituzioni, nonché gelosie e attenzioni poco benevole dentro l’Arma. Un quadro poco limpido, nel quale s’inserisce il ritrovamento del suo nome nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, che accompagna la nomina di dalla Chiesa a vice-comandante dell’Arma e poco dopo, nella primavera del 1982, a prefetto di Palermo, chiamato a contrastare l’emergenza della mafia che ha sferrato un attacco senza precedenti alle istituzioni, con una raffica di «omicidi eccellenti». Lui accetta anche per provare a sfuggire all’isolamento nel quale si sente confinato con il precedente incarico «privo di contenuti», come scrive lui stesso. Pur nella consapevolezza di essere strumentalizzato: «Mi sono trovato al centro di uno Stato che usa il mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti e non ha nessuna volontà di debellare la mafia», pronto a «buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati e compressi», annota nel diario. Al generale promosso prefetto non viene concesso il tempo di verificare la sua amara profezia. I killer mafiosi entrano in azione su ordine di Totò Riina e della Cupola prima ancora che dalla Chiesa possa cominciare a incidere su quegli interessi. Un particolare che ha pesato e continua a pesare sul reale movente del delitto, come avevano già sentenziato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri giudici istruttori del maxi-processo a Cosa nostra: «Persistono zone d’ombra sia nelle modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia nella consistenza di specifici interessi, anche all’interno delle istituzioni, volti all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A trentacinque anni di distanza dall’omicidio, il libro di Andrea Galli aiuta a riempire, almeno parzialmente, quel vuoto di verità.

“Dalla Chiesa, il mandante fu il deputato Cosentino”. Palermo 1982 - Il procuratore generale Roberto Scarpinato racconta all’Antimafia le accuse al piduista andreottiano per l’omicidio del prefetto, scrivono Gianni Barbacetto e Stefania Limiti il 4 aprile 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Parla lentamente, il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, davanti ai parlamentari della Commissione antimafia. È stato chiamato in audizione, come altri “esperti”, per raccontare i rapporti tra mafia e massoneria. Una storia lunga e complessa di due poteri che si sono, di volta in volta, fronteggiati, confrontati, alleati. E intrecciati con il potere politico. A un certo punto della sua audizione, parlando dell’omicidio del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, il procuratore generale scandisce le parole: “L’ordine di eliminare Dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma. Dal deputato Francesco Cosentino”. Democristiano, andreottiano, massone, Cosentino era un potente parlamentare della Dc, segretario generale della Camera, fedelissimo di Giulio Andreotti e personaggio di rilievo della loggia massonica P2 di Licio Gelli. È l’8 marzo 2017 quando Scarpinato fa risuonare di nuovo il suo nome davanti ai parlamentari della commissione. L’audizione era iniziata in seduta pubblica: “Sono stato informato”, aveva detto Scarpinato, “di progetti di attentati, nel tempo, nei confronti di magistrati di Palermo orditi da Matteo Messina Denaro per interessi che, da vari elementi, sembrano non essere circoscritti alla mafia, ma riconducibili a entità di carattere superiore”. Dopo le prime battute, l’audizione era stata secretata. A porte chiuse, il magistrato siciliano, secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, ha fatto una lunga ricostruzione storica dei rapporti tra mafia e massoneria, ricordando che già Stefano Bontate – capo di Cosa Nostra prima di Totò Riina, che lo fece ammazzare nel 1981 – era affiliato a una loggia segreta “che era un’articolazione in Sicilia della P2 di Licio Gelli”. Il 3 settembre 1982 viene ucciso Dalla Chiesa: un omicidio politico, non solo mafioso. E qui Scarpinato ha rivelato ai commissari dell’antimafia che Gioacchino Pennino, medico, uomo di Cosa nostra e massone, diventato collaboratore di giustizia ha raccontato di aver saputo da altri massoni che “l’ordine di eliminare Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma, dal deputato Francesco Cosentino”. Nessuno dei commissari lo ha interrotto, nessuno ha chiesto spiegazioni. Scarpinato ha proseguito il suo racconto, mettendo a fuoco i complessi rapporti con la massoneria dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, dopo l’eliminazione di Bontate. Riferisce che un fedelissimo di Riina, Giuseppe Graviano – che è uno degli strateghi dell’uccisione di Giovanni Falcone e delle stragi del ’93 – partecipa a riunioni massoniche. Le relazioni continuano fino a oggi, tanto che alcune fonti indicano come massone anche il superlatitante Matteo Messina Denaro: il boss che ha progettato attentati nei confronti di magistrati di Palermo “per interessi che sembrano non essere circoscritti alla mafia, ma riconducibili a entità di carattere superiore”. Per l’omicidio di Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, sono stati condannati all’ergastolo, come mandanti, i vertici di Cosa nostra dell’epoca: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 è arrivata la condanna anche per gli esecutori: Vincenzo Galatolo, Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Nella sentenza si legge: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. Ora abbiamo qualche indicazione in più sugli “specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni”, che hanno portato all’uccisione del generale, in “coesistenza” con quelli di Cosa Nostra. Sul ruolo di Cosentino, Scarpinato in Commissione antimafia non ha fornito altri dettagli. Morto nel 1985, è “figlio d’arte”: suo padre Ubaldo, anch’egli massone, fu segretario generale della Camera dei deputati dal 1944 fino alla sua morte, nel 1951. Il figlio Francesco ebbe la stessa carica dal 1962 al 1976, quando fu coinvolto nello scandalo Lockheed. Fu poi per breve tempo parlamentare europeo. Nel 1981 il suo nome fu ritrovato negli elenchi della P2, scoperti dai magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone negli uffici di Gelli a Castiglion Fibocchi. Una ventina dei 962 nomi dell’elenco trovato in cassaforte erano segnati con un evidenziatore giallo: tra questi, quello di Francesco Cosentino, come quello di Licio Gelli, di Michele Sindona, di Roberto Calvi, di Silvio Berlusconi… Il nome Cosentino compare più volte anche sulle agende di un altro noto fratello della P2, il direttore di Op Mino Pecorelli, che segnava meticolosamente i suoi appuntamenti: “Costa-Berlusconi-Licio-Gregori-Cosentino” (5 settembre 1977): “Berlusconi-Cosentino” (16 ottobre 1977); “Cosentino-Berlusconi Montedison” (27 ottobre 1977). Nel 1979, il Maestro Venerabile della P2 Licio Gelli apre una trattativa con il petroliere Attilio Monti per comprare i suoi giornali, Il Resto del Carlino di Bologna e La Nazione di Firenze. A Monti dice che sta lavorando per Cosentino, che è lui il possibile acquirente. La trattativa non andrà in porto. Ma anni più tardi, il ruolo preminente di Cosentino nella P2 fu messo in rilievo dalla moglie del banchiere Roberto Calvi, Clara Canetti, che alla commissione P2 di Tina Anselmi il 6 dicembre 1982 dichiarò: “Gelli era solo il quarto… Il primo era Andreotti, il secondo era Francesco Cosentino, il terzo era Umberto Ortolani, il quarto era Gelli”. Lo ripeterà il 2 febbraio 1989 a Michele Santoro nella trasmissione tv Samarcanda: “Mio marito mi aveva detto che sopra Gelli e Ortolani c’erano Andreotti e Cosentino”. Il secondo era tutt’uno con il primo. Nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che il 5 aprile 1982, poco prima di andare a Palermo, ebbe un colloquio con Andreotti al quale disse che non avrebbe avuto riguardi per “la famiglia politica più inquinata del luogo”. Era quella andreottiana. Ora Scarpinato rivela: “L’ordine arrivò da Roma”. Dall’andreottiano Francesco Cosentino.

"ECCO CHI E' IL MANDANTE DELL' OMICIDIO DALLA CHIESA", scrive il 4 ottobre 1989 "La Repubblica”. L' ultima verità sull' uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa i giudici della Corte d' Assise di Palermo sono andati ieri a cercarla nel carcere di Alessandria. Gliel' ha offerta il pentito Giuseppe Pellegriti, già boss emergente di un paese dell'Etna, arrestato nel febbraio del 1986. Ma le confessioni del pentito sono andate oltre l'omicidio del prefetto: Pellegriti infatti ha sostenuto di aver saputo dai Santapaola, al cui clan era collegato, che il mandante degli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa. Era uno solo: un politico democristiano di Palermo. Pallegriti ha fatto il nome e quel nome scottante adesso è nel verbale che la Corte ha riportato con sè a Palermo. Ci saranno controlli e verranno fatti accertamenti sui molti punti toccati da Pellegriti, il quale più d' una volta ha detto cose inesatte. Alla Corte che si era trasferita ad Alessandria, Pellegriti non è sembrato molto ansioso di indicare quel nome del mandante politico. IN PRECEDENZA, ad altri giudici che lo avevano sentito, parlando dell'ambiente nel quale era maturato il delitto Dalla Chiesa, aveva detto: Il mandante è un personaggio molto in alto di Palermo o di Roma. Ma non saprei aggiungere altro. Ieri le cose sono andate diversamente. Il presidente della Corte lo ha incalzato: Lei è in una Corte d' Assise. Questa Corte si occupa dell'omicidio Dalla Chiesa, se ha qualcosa da dire la dica adesso. Interessi palermitani e catanesi E Pellegriti ha risposto, facendo quel nome. E ha spiegato che per Dalla Chiesa si erano saldati alcuni interessi palermitani ad interessi catanesi. Gli esecutori furono scelti dai Santapaola. Pellegriti avrebbe avuto le prime notizie sulla vicenda nel corso di una riunione a Belpasso, vicino a Catania. Poi, fra l'86 e l'87 almeno altri due mafiosi incontrati in carcere gli confermarono tutto. Anche qui Pellegriti ha fatto i nomi: Salvatore Tuccio detto Turi di l'ova e Carletto Campanella. Entrambi del clan Santapaola. I giudici gli hanno chiesto se avesse riferito questo fatto ad altri inquirenti. Pellegriti ha riferito di esser stato sentito ai primi di agosto dal giudice bolognese Libero Mancuso, il quale passò i verbali a Falcone che lo interrogò il 17 agosto. Anche Domenico Sica si era fatto avanti. Ad uno dei tre, Pellegriti ricordava di aver fatto il nome del politico siciliano, ma non era più sicuro di quale fosse. E come mai soltanto adesso, l'improvviso pentimento? Qui Pellegriti ha dato una strana versione: ha detto di aver provato rimorsi nel momento in cui ha abbracciato la fede cristiana evangelica pentacostale. In realtà la Corte sembra più propensa a credere che la svolta sia avvenuta dopo che nell' ottobre ' 87 gli fu ucciso il padre Filippo. Una volta il presidente lo ha colto in fallo: è stato quando Pellegriti ha indicato in Carletto Campanella uno degli esecutori dell'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ebbene: Campanella in quei giorni era in carcere. Nel raccontare le meccaniche dei tre omicidi, Pellegriti avrebbe anche spiegato che mentre il delitto dalla Chiesa aveva anche un obiettivo per così dire funzionale, nel senso che gli si voleva impedire di fare indagini giudicate pericolose, gli altri due delitti, quello Mattarella e quello La Torre furono essenzialmente delitti politici. Ma dietro a tutti e tre c'era la mano dell'esponente politico dc. Nel carcere i due avvocati della famiglia Dalla Chiesa, il difensore di Pippo Calò, il presidente della Corte, insieme a uno dei giudici a latere e a un rappresentante della procura generale, hanno vissuto ore di tensione. La decisione di ascoltare il pentito era stata presa il 29 settembre scorso. Pellegriti avrebbe avuto un ruolo in almeno 12 dei 50 omicidi compiuti ad Adriano e a Biancavilla tra il 1985 e il 1987, e si è accusato dell'assassinio di Giuseppe Fava, il giornalista ucciso a Catania nel gennaio del 1985. Disse di aver organizzato l'agguato per fare un favore a Santapaola. A sparare sarebbe stato Antonino Cortese, arrestato nel marzo scorso a Padova. Riscontri non univoci Pellegriti ha parlato a lungo anche del delitto Mattarella. Le sue rivelazioni sono arrivate quando ormai l'inchiesta del giudice Giovanni Falcone volgeva al termine. Falcone ha fatto numerosi controlli sulle rivelazioni del pentito e ieri ha detto che esse sono risultate solo in parte coincidenti con riscontri obiettivi o con quanto era già stato acquisito dall' indagine.

LA MASSONERIA NEL VANGELO SECONDO I PENTITI. SCARPINATO: IL P.G. UN PO’ DISTRATTO, scrive il 5 aprile 2017 Mauro Mellini su "La Valle dei Templi". “Parla lentamente il Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato, davanti alla Commissione Antimafia. E’ chiamato in audizione come altri “esperti”…per raccontare i rapporti tra mafia e Massoneria”. Ad un certo punto il P.G. “scandisce le parole “l’ordine di eliminare Dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma. Dal deputato Francesco Cosentino, democristiano, andreottiano, massone”. Immagino la scena: Scarpinato che parla dopo aver convenientemente agitato la criniera leonina, con Rosy Bindi, il volto illuminato da un mezzo sorriso di compiaciuta, soddisfatta, estatica ammirazione. A Scarpinato piace fare scena. Tentò di farla, figuratevi, anche con me, teste a Palermo al processo Andreotti, agitando un giornale e contestandomi: “Lei ha parlato in un’intervista di “golpe dei giudici”. Come se potesse ritenere di avermi preso in castagna per una frase imprudentemente lasciatami sfuggire. Ed io a rimbeccarlo “Non è esatto!” Facendolo ricorrere subito a minacce di incriminarmi. Finché, superando i suoi rimbrotti ed i preoccupati interventi del Presidente, riuscii a dirgli “Ho parlato? Guardi che ho scritto un libro dal titolo “Il golpe dei giudici”. Certo è che del mio libro avrò anche “parlato”…Questo perché la precisione, l’esattezza non pare che sia la caratteristica degli exploit del Procuratore Generale. Leggendo i titoli di giornali ed agenzie “Dalla Chiesa, il mandante fu il deputato Cosentino”, sono andato subito a vedere a chi si riferisse, dove quel deputato fosse stato eletto etc.. Ma non c’era nessun deputato Francesco Cosentino. No so se perché anche le ulteriori qualifiche sono state dallo stesso Procuratore attribuite a Francesco Cosentino, o perché i giornalisti vi hanno messo del loro, ma di seguito si legge… “democristiano, andreottiano, massone…era un potente parlamentare della D.C. SEGRETARIO GENERALE DELLA CAMERA…”. Ma, in verità non so se Scarpinato oppure i giornalisti, mostrano di essere ignorantelli. Il Segretario Generale della Camera non è un deputato, ma un funzionario, che, in genere, se ha una propensione politica se la tiene per sé. Di Francesco Cosentino si diceva fosse “di area repubblicana” qualcuno si diceva informato del fatto che fosse Massone. Risultò, poi, nelle “liste” di Gelli. Espertissimo di diritto parlamentare, uomo autorevole e “potente” è probabile che si occupasse di cose siciliane e, in genere, di cose e di persone lontane da Montecitorio come è probabile che io mi occupi di commercio con la Cina. Scarpinato, così perentorio e, a dire dei giornali, solenne, nell’affermare che “l’ordine di ammazzare Dalla Chiesa venne da Cosentino” (glielo aveva detto tale Gioacchino Pennino, coinvolto in vicende mafiose e, pare, massone pentito, che lo aveva saputo da altri. Per i magistrati gli ambienti mafiosi sono molto pettegoli, specie per le questioni più rigorosamente segrete). Così disinvolto ad appioppare a Francesco Cosentino la qualifica di deputato, di democristiano e di “andreottiano”, Scarpinato ha dimenticato di riferire alla Commissione Antimafia che il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che affermò essere stato ucciso per mandato della Loggia P2 di Licio Gelli (e quindi, del “vero” capo di esso, il noto massone Giulio Andreotti, il quale era l’ultimo in Italia ad aver bisogno di qualcosa come la P2!!!) era egli stesso appartenente a tale singolare organizzazione massonica. “De mortuis nisi bonum, ma cancellare anche i fatti documentati (e farlo addirittura prima della morte) è un po’ troppo. Che Carlo Alberto Dalla Chiesa avesse fatto regolare domanda di iscrizione alla Loggia di Licio Gelli è indiscutibilmente provato e da lui stesso fu ammesso. E’ anche noto che Dalla Chiesa sostenne di avere chiesto quella iscrizione per “infiltrarsi” e conoscere che cosa si andava approntando là dentro. Ma la tesi del Generale dei Carabinieri (mica un sottoufficiale!) “infiltrato” è in sé assai poco plausibile. A renderla addirittura ridicola ci pensò lui stesso: “Chiesi…l’iscrizione, ben deciso, però, essendo cattolico praticante, a non giungere mai all’iniziazione”. Uno strano modo di “infiltrarsi” e di andare a conoscere le segrete cose di quella Loggia un po’ strana, rimanendo, però, sempre in anticamera. Addirittura tale da ben figurare in una pièce umoristica è, poi, l’affermazione che, essendo stato invitato da Gelli ad un colloquio, “io aderii a condizione, però, che fosse presente un sacerdote di mia fiducia, che indicai in Monsignor Pisoni…il giorno dell’appuntamento, però Monsignore ebbe altro da fare, così ci andai da solo”. Come dire: mostrai a Gelli di considerarlo un demonio, ma mi premurai di avvertirlo che mi portavo dietro l’esorcista, di cui fece, poi, a meno. Questo dichiarò il Generale al P.M. Turone di Milano. Il quale nulla eccepì né gli contestò al riguardo. “Piduista” il dott. Cosentino, ma “piduista”, anche il Gen. Dalla Chiesa. Perché, dunque la P2 (capeggiata in realtà dal noto massone Andreotti) avrebbe dovuto far uccidere il Generale se “era della partita?”. Di questi particolari, di queste quisquiglie Scarpinato non se ne è curato né ha cercato di darne spiegazione agli on. Parlamentari della Commissione. Rosy Bindi, figuriamoci. Anche se non dovrebbe essere digiuna di un po’ di storia parlamentare, credo si sia deliziata di tanta abbondanza di accuse di non poco conto alla sua ex casa politica, la D.C. Così si fanno le Commissioni Parlamentari di inchiesta nel nostro Paese. E si fa la storia. Non c’è da meravigliarsi che poi, la gente, ne faccia delle storielle e, magari, ci si diverta. Che, invece, c’è assai poco da divertirsi. Mauro Mellini.

Dalla Chiesa e la P2. Un fatto che “Il Fatto Quotidiano” nasconde, scrive giovedì 6 Settembre 2012 Giuliano Guzzo. Premessa: consideriamo – al pari di chiunque lo abbia conosciuto o ne abbia sentito parlare – il generale Carlo Albero Dalla Chiesa (1920-1982) un eroe. Di più: un eroe che si dovrebbe ricordare più spesso di quanto non si faccia, come in questi giorni, solo allorquando ricorre la commemorazione del suo vile assassinio. Parimenti, anche se non lo reputiamo titolo meritorio, ci rifiutiamo di considerare una vergogna inenarrabile l’essere appartenuti alla Loggia P2. Un punto di vista, questo, ben distante da quello della redazione de Il Fatto Quotidiano, in particolare del suo direttore, Antonio Padellaro, e del suo vice, Marco Travaglio: il primo quando lavorava per il Corriere ebbe il merito – come lo stesso Travaglio riporta in Inciucio (Bur, 2005) – di «portare in redazione gli elenchi della loggia di Gelli, appena scoperti dai giudici milanesi», il secondo non perde occasione di ricordare – vedi il libro Le mille balle blu (Bur, Milano 2006) – che Licio Gelli risulta «condannato per i depistaggi nelle stragi, e per la bancarotta del Banco Ambrosiano, ed è indagato per l’omicidio di Roberto Calvi». Insomma, Padellaro e Travaglio non stravedono affatto per la P2 e per coloro che ne fecero parte, tutt’altro. E poi si battono per far emergere il più possibile i “fatti” senza censure o bavagli. Sono giornalisti seri, insomma. E allora ci devono spiegare come mai hanno consentito che ieri il loro giornale pubblicasse un articolo di Gian Carlo Caselli dove si celebra – giustamente – il generale Dalla Chiesa spiegando che la sua eredità è di «importanza fondamentale», che rappresenta un «simbolo della lotta (vincente) al terrorismo brigatista»  e che è al suo sacrificio che dobbiamo «i due pilastri su cui ancora oggi si regge l’azione antimafia (reato associativo e misure contro l’illecita accumulazione di ricchezze)», ma dove ci si dimentica di dire che Dalla Chiesa chiese di entrare nella P2 e che pare non la considerasse affatto – lui, uomo delle istituzioni e del dovere – quel club di mezzi criminali e sovversivi che molti lettori del Il Fatto Quotidiano pensano. Come mai questa censura? Non eravate voi, cari giornalisti liberi e indipendenti, quelli contro il bavaglio? E allora perché lasciare i vostri lettori nell’ignoranza? E dire che la volontà di Dalla Chiesa di far parte della Loggia di Gelli è storia. Infatti, quando il 17 marzo 1981 la Guardia di Finanzia scovò gli archivi della P2 contenuti nella cassaforte di Licio Gelli – oltre al nome degli affiliati – scoprì parecchie «domande di iscrizione con firme illustri», tra cui quella del generale (Cfr. De Luca M. – Buongiorno P. Storia di un burattinaio in AA.VV. L’Italia della P2, Mondadori, Milano 1981, p. 60). Da quanto sappiamo Dalla Chiesa inoltrò questa richiesta tramite il generale Raffaele Giudice e il deputato Francesco Cosentino grazie ai quali «fu “presentato” (avevano sottoscritto il modulo di presentazione per l’inserimento nella loggia») a Gelli» (Pennino G. Il vescovo di Cosa nostra, Sovera, Roma 2006, p. 121). E’ meno chiara la ragione per cui Dalla Chiesa presentò quella domanda. Secondo alcune fonti lo fece quasi involontariamente – «anch’io, come altri, sono stato costretto a iscrivermi alla Loggia», avrebbe detto (cit. in Di Giovacchino R. “Il libro nero della Prima Repubblica”, Fazi, Roma 2005, p. 91) -; per altre avrebbe inoltrato la domanda ritenendo la cosa come non grave, anzi: «Io ho fatto la domanda […] per quanto ne sapevo, per le persone che conoscevo, si tratta di uomini per bene, servitori dello Stato...» (cit. in Carpi A.P. “Il Venerabile”, Gribaudo & Zarotti, Torino, 1993, p. 443). Dinnanzi ad una così vasta pluralità di fonti, una cosa appare comunque certa: Dalla Chiesa fece regolare domanda per affiliarsi alla Loggia P2, quella guidata da tale Licio Gelli, «condannato per i depistaggi nelle stragi, e per la bancarotta del Banco Ambrosiano, ed indagato per l’omicidio di Roberto Calvi». Cosa che per noi – lo ribadiamo – rappresenta un aspetto della minima rilevanza e che non scalfisce minimamente la statura morale, umana ed istituzionale di questo compianto ed eroico servitore dello Stato. Per altri, per i quali la P2 rappresenta il Male Assoluto, dovrebbe invece costituire un fatto quanto meno problematico. A meno che i “fatti”, come in questo caso, non vengano fatti sparire. Giuliano Guzzo

Indagini, veleni e guai: ecco cosa sta scuotendo l'Arma dei Carabinieri. Vertici sotto inchiesta. Litigi tra ufficiali. E rapporti opachi con la politica. La Benemerita vive il suo momento peggiore. Ecco cosa sta succedendo e chi potrebbe essere il prossimo comandante generale, scrive Emiliano Fittipaldi il 22 agosto 2017 su "L'Espresso". Chiunque arriverà, «dovrà rimboccarsi le maniche. Perché troverà macerie: erano decenni che l’Arma dei Carabinieri non soffriva di una crisi così grave». Il militare che lavora al Comando Generale di Roma forse esagera, ma non è l’unico a pensare che la Benemerita stia vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente. Una crisi latente da tempo, esplosa con l’indagine Consip. Uno scandalo che ha tramortito, in un domino di cui ancora non si vede la fine, tutti. Dal comandante generale Tullio Del Sette (indagato per favoreggiamento) ai capi di stato maggiore, ascoltati come testimoni; passando ai comandanti di reparti specializzati, accusati di depistaggio; e ai carabinieri iscritti nel registro per falso ideologico e materiale; per finire con la caduta di eroi simbolo dell’Arma come il colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Capitano Ultimo” per aver arrestato Totò Riina, allontanato su due piedi lo scorso mese da una delle nostre agenzie di intelligence perché considerato improvvisamente «non più affidabile». Leggendo le carte e le accuse dei magistrati - tutte ancora da provare - sembra che sul caso Consip l’Arma si sia spaccata a metà. Con il vertice della piramide impegnato a rovinare attraverso fughe di notizie insistite un’indagine giudiziaria che rischiava di compromettere l’immagine del Giglio magico di Matteo Renzi, e la base - rappresentata dagli investigatori del Noe - concentrata al contrario a costruire prove false pur di inchiodare Tiziano Renzi, il padre del segretario del Pd. Un cortocircuito mai visto nel Corpo, un disastro giudiziario e mediatico che ha indebolito ancor di più la posizione del numero uno Tullio De Sette, indagato dallo scorso dicembre a Roma per favoreggiamento e divulgazione di segreto istruttorio, con l’accusa di aver fatto trapelare a soggetti terzi (come l’ex presidente della Consip Luigi Ferrara) l’indagine sulla stazione appaltante dello Stato su cui stavano lavorando i pm di Napoli. Per lo stesso reato sono iscritti anche il ministro Luca Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia: il comandante della Legione Toscana, è stato accusato di aver spifferato informazioni segrete sia da Luigi Marroni (l’ex ad di Consip ha detto che era stato anche Saltalamacchia, suo amico, a dirgli «che il mio cellulare era sotto controllo») sia dall’ex sindaco Pd di Rignano sull’Arno Daniele Lorenzini. «Durante una cena a casa di Tiziano», ha specificato in una deposizione, «sentii Saltalamacchia» suggerire al papà dell’ex premier «di non frequentare un soggetto, di cui tuttavia non ho sentito il nome, perché era oggetto di indagine». Se gli ultimi mesi sono stati difficilissimi, va evidenziato che Del Sette, nato 66 anni fa in Umbria, a Bevagna, era inviso a pezzi dell’Arma anche prima dell’iscrizione nei registri della procura, e che fonti del Comando generale non negano come molti generali, davanti ai guai giudiziari del loro capo, non si siano certo stracciati le vesti.

Già: il comandante generale, arrivato al posto di Leonardo Gallitelli all’inizio del 2015, è infatti stato giudicato fin da subito “troppo” vicino alla politica: anche se la lunga carriera dell’Arma ne faceva un candidato autorevole, in molti non gli perdonavano (e non gli perdonano) i sette anni in cui è stato capo ufficio legislativo del ministero della Difesa, sotto governi sia di destra sia di sinistra; né la scelta, nel 2014, di accettare la chiamata del ministro Roberta Pinotti, per diventarne capo di gabinetto. Non era mai accaduto prima che un carabiniere assumesse quell’incarico fiduciario. A Del Sette viene poi contestato un carattere non facile. Se Gallitelli, mente fredda e raffinata, ha puntato su una guida inclusiva e meritocratica, seppur giudicata da alcuni troppo “curiale”, Del Sette ha preferito un comando verticistico, che per i critici ha finito con l’essere divisivo. «Del Sette è persona di grande valore, molto leale con le istituzioni. Ha lavorato bene con i ministri di ogni partito, come Martino, Parisi, anche con Ignazio La Russa. Molte delle leggi vigenti portano la sua “firma”, compreso l’accorpamento del Corpo forestale ai carabinieri», spiega chi lo stima e ha lavorato con lui al dicastero della Difesa. «Cosa lo ha penalizzato negli ultimi tempi? Su Consip credo si sia trattato di un’ingenuità, e la sua posizione sarà archiviata. Al comando generale invece, non l’ha mai aiutato il suo carattere fumantino. È un uomo capace, che però si arrabbia facilmente. Soprattutto quando si convince che il suo interlocutore non rispetta le gerarchie e i ruoli che lui ha definito». Del Sette viene definito sia dai suoi estimatori (che sono molti) sia dai suoi nemici (che sono ancor di più) un uomo schivo, persino timido, ma poco propenso alla mediazione. Appena nominato dai renziani a numero uno dei carabinieri, ha deciso in effetti di spazzare via la vecchia nomenclatura costruita in sei anni dal suo predecessore, scegliendo di andare allo scontro frontale con alcuni generali fedelissimi di Gallitelli. Molto stimati, però, dalla base dell’Arma.

Così, se il Capo di Stato maggiore Ilio Ciceri è stato sostituto da Vincenzo Maruccia (anche lui sentito come testimone dai pm di Roma per la vicenda Consip), e il generale Marco Minicucci è stato sottoutilizzato, un altro pezzo da novanta come Alberto Mosca ha dovuto cedere la poltrona di comandante della Legione Toscana a uno dei pupilli di Del Sette, proprio Saltalamacchia, dovendosi accontentare del comando della Legione Allievi Carabinieri. Clamorosa poi la scelta del colonnello Roberto Massi: l’ex comandante dei Ros considerato uno degli ufficiali più brillanti dell’Arma, e promosso da Gallitelli capo dell’ufficio legislativo nel 2014, dopo una breve convivenza con Del Sette ha preferito fare armi e bagagli e trasferirsi all’Anas nel 2016. All’ente nazionale per le strade Massi ricopre l’incarico di “responsabile della tutela aziendale”. L’unico gallitelliano che è riuscito a stringere un patto di ferro con il comandante umbro è stato Claudio Domizi, ancora influente capo del personale del primo reparto. «Le tensioni interne sono iniziate fin dal suo arrivo, ma sono peggiorate nel tempo. La crisi Consip le ha fatte solo esplodere», ragiona preoccupato un militare con le stellette, che considera i colleghi gallitelliani veri responsabili della spaccatura, perché nostalgici e incapaci di accettare il nuovo corso. Tutti, però, mettono sul banco degli imputati anche il sistema della rotazione obbligatoria degli ufficiali (che costringe pure i carabinieri più esperti e capaci a cambiare reparto dopo due anni) e l’assenza di una vera meritocrazia interna. «Qualche tempo fa a Reggio Calabria durante un giuramento a passare in rassegna i reparti, oltre agli ufficiali, è stato anche un appuntato del Cocer, il sindacato interno dei carabinieri a cui Del Sette si è molto appoggiato dall’inizio del suo mandato», racconta uno degli scontenti «Forse a voi civili sembra una sciocchezza, ma nell’Arma è una cosa inverosimile, che ha fatto accapponare moltissime divise». Ottimi rapporti con Maria Elena Boschi e lo stesso Lotti, qualche incontro con l’imprenditore renziano Marco Carrai (tra cui una cena a casa del compagno di Mara Carfagna, Alessandro Ruben, che ama invitare mimetiche e stellette nel suo salotto), Del Sette ha dovuto gestire anche la patata bollente del colonnello Sergio De Caprio, “Ultimo”. L’attivismo “anarchico” dell’ex vice comandante del Noe (che ha collaborato con il pm John Woodcock a quasi tutte le inchieste più delicate degli ultimi anni su politica e potere, da quelle sulle tangenti di Finmeccanica alla P4 di Luigi Bisignani, passando dalle tangenti della Lega Nord a quelle sulla Cpl Concordia) non è mai stato amato dai piani alti della Benemerita.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è caduta proprio nel luglio del 2015, quando una delle intercettazioni del fascicolo sulla Cpl (una telefonata privata tra il generale della Finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi in cui il segretario del Pd definiva il suo predecessore Enrico Letta «un incapace») è finita in prima pagina sul “Fatto Quotidiano”. Del Sette, dopo un mese di buriane politiche e polemiche infuocate, deciderà di firmare una circolare che toglie ai vicecomandanti dei reparti le funzioni di polizia giudiziaria. Una norma considerata da molti “contra personam”. «Continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che le sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere», polemizzò senza mezzi termini “Ultimo” in una lettera di saluto ai suoi uomini. Poi grazie alla mediazione dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti e del capo dell’Aise Alberto Manenti, De Caprio a fine 2016 viene distaccato ai servizi segreti. Per la precisione all’ufficio Affari interni, quello che controlla gli 007 italiani che righino dritto. Se malumori e dissapori sono una costante di ogni struttura gerarchica, la crisi dell’Arma supera i livelli di guardia a inizio del 2017. Alle indagini sulla fuga di notizie si aggiungono prima quelle sul capitano Gianpaolo Scafarto del Noe, accusato dai pm di Roma di aver falsificato le prove nell’informativa. Poi quelle al suo capo Alessandro Sessa, numero due del reparto, incolpato nientemeno per “depistaggio” per non aver detto la verità (questa l’ipotesi della procura) durante un’audizione con i magistrati. Infine il tentativo di ritrattazione dello scorso giugno di Luigi Ferrara, il manager Consip che aveva tirato in ballo Del Sette come colui che lo aveva messo sull’avviso in merito a un’indagine giudiziaria sull’imprenditore Alfredo Romeo e la stessa Consip: dopo un confuso interrogatorio, in cui probabilmente il manager ha cercato di proteggere proprio Del Sette, i pm hanno iscritto anche Ferrara nel registro degli indagati. Per falsa testimonianza.

La crisi strutturale del corpo “Nei Secoli Fedele” ha toccato nuove vette qualche giorno fa, quando i pm romani hanno scoperto che Scafarto mandava documenti riservati sull’inchiesta Consip a ufficiali ex Noe traslocati con “Ultimo” ai servizi segreti. L’ipotesi investigativa è che questi stessero ancora collaborando alle indagini su Consip portate avanti dagli ex colleghi. “Ultimo” e tutti i suoi uomini (De Caprio aveva portato con se due dozzine di fedelissimi, di cui la gran parte provenienti dal Noe) sono stati così allontanati dal nuovo incarico, e sono rientrati nell’Arma. Un allontanamento avvenuto senza accuse formali da parte della magistratura, e senza una richiesta esplicita di Manenti. È stato Marco Mancini, un alto funzionario del Dis (il dipartimento che coordina le agenzie d’intelligence) coinvolto in passato nel sequestro dell’imam Abu Omar a chiederne la testa. Dopo aver scoperto che Scafarto e gli investigatori del Noe, sempre nell’ambito dell’inchiesta Consip, lo avevano seguito e fotografato, mandando ai collaboratori di “Ultimo” all’Aise le risultanze dei loro appostamenti. L’incarico di Del Sette terminerà il prossimo gennaio. Ed è probabile che il suo successore verrà nominato non dal governo Gentiloni, ma da quello che entrerà in carica dopo le elezioni politiche, previste per la prossima primavera. In pole position ci sono il numero uno del comando interregionale Ogaden Giovanni Nistri (romano, tre lauree, giornalista pubblicista, ex comandante del comando per la Tutela del patrimonio e direttore del Grande Progetto Pompei, che ha ottimi rapporti con il Pd) e il generale Riccardo Amato, numero uno della divisione Pastrengo ed esperto di antimafia, che gode dell’appoggio del Quirinale. Subito dietro c’è Vincenzo Coppola (chiamato “il paracadutista”, una vita in prima linea nelle missioni di peacekeeping e da marzo promosso numero due dell’Arma), mentre il generale Ilio Ciceri e Riccardo Galletta, capo della Legione Sicilia, sembrano avere tutti i titoli necessari, ma meno chance. Il primo, considerato il miglior uomo macchina possibile, sconta il peccato di essere considerato un gallitelliano, mentre il secondo - all’inverso - un uomo di Del Sette. A chiunque toccherà, risollevare l’Arma non sarà impresa facile.

Il caso Saguto non finisce più. In ballo un'altra toga antimafia, scrive Riccardo Lo Verso il 20 febbraio 2017 su “Live Sicilia”. Il caso Saguto non è chiuso. Ci sono due informative che tirano in ballo un altro giudice che lavora a Caltanissetta. Con tutta probabilità il nuovo filone investigativo dovrebbe essere già approdato, per competenza, a Catania. Nelle intercettazioni dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sono finiti i dialoghi fra Giovanbattista Tona, Silvana Saguto e Carmelo Provenzano. Tona oggi è consigliere della Corte d'appello nissena, in passato da gip si è occupato anche delle stragi del '92, ed è uno dei magistrati più impegnati sul fronte antimafia. Saguto è l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo travolta dall'inchiesta nissena, il perno di un sistema che, secondo l'accusa, aveva trasformato la gestione dei beni confiscati alla mafia in un affare di famiglia. Provenzano è uno degli amministratori giudiziari che di quel sistema avrebbe fatto parte. Secondo i pm di Caltanissetta, Provenzano era stato scelto da Saguto per prendere il posto di Gaetano Cappellano Seminara, quando quest'ultimo iniziò ad essere troppo chiacchierato. Passaggi delicati di cui Tona sarebbe stato a conoscenza. L'ingresso di Provenzano nel sistema sarebbe coinciso con l'incarico nella gestione degli impianti di calcestruzzo degli imprenditori Virga di Marineo. Una procedura inizialmente assegnata a Giuseppe Rizzo che, secondo i pm, poteva contare su un big sponsor, il colonnello della Dia Rosolino Nasca. Saguto considerava Rizzo "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò". E gli venne affiancato Provenzano perché "è un docente e non può dire niente nessuno". Professore alla Kore di Enna, Provenzano è finito sotto inchiesta assieme alla Saguto. Si sarebbe speso, tra le altre cose, per agevolare la carriera universitaria, laurea inclusa, del figlio del giudice. Ad un certo punto, però, la coabitazione Rizzo-Provenzano divenne impossibile. Provenzano aveva un piano per sbarazzarsi del concorrente e ne parlò con Tona. L'esautorazione di Rizzo, per essere indolore, doveva apparire come la conseguenza della sua inefficienza. Dovevano “trovare un modo per dire che lui, la minchiata l'aveva fatta così grossa che lui scatti in piedi”. Bisognava fare emergere “tutto quello che ha fatto male. Il problema non è prendere incarichi, ma uscire con onore dagli incarichi”. Lo stesso Rizzo, sentito dal pm Cristina Lucchini, ha dichiarato di avere capito che tra Saguto e Provenzano c'era un rapporto confidenziale. Era Provenzano ad avere influenza sul giudice e non viceversa, tanto che Rizzo fu costretto a mandare a casa tutti i collaboratori che aveva scelto per fare spazio a quelli del professore. Ed è nel contesto di questo rapporto di forza sbilanciato a favore di Provenzano che si inserisce la figura di Tona e le due informative consegnate dai finanzieri ai pm di Caltanissetta alla fine del settembre sorso. Vi sono annotate le registrazioni dei dialoghi fra Provenzano e Tona di cui si fa cenno nell'avviso di conclusione delle indagini notificato nei giorni scorsi a Saguto e agli altri indagati. È ipotizzabile che sia avvenuta la trasmissione di questa parte dell'inchiesta a Catania, competente quando in ballo ci sono magistrati i servizio a Caltanissetta. Tona e Provenzano erano “amici”. Sarebbe stato il giudice a indicare al professore la strategia per scalzare la concorrenza di Rizzo. E il professore lo aggiornava passo dopo passo. Dalle conversazioni trasmesse a Catania sembrerebbe emergere che il magistrato nisseno era bene informato del modus operandi dei colleghi palermitani e anche dell'operato di Cappellano Seminara.

PER IL CULO SI PRENDONO LE SUPPOSTE, NON LE PERSONE.

La massoneria torna a fare paura: sono tremila gli affiliati non identificabili. Dopo il caso P2, le obbedienze avevano promesso trasparenza. Invece regna l’opacità assoluta come dimostrano gli elenchi visionati dalla Commissione parlamentare sulle logge calabresi e siciliane, scrive Gianfranco Turano l'8 febbraio 2018 su "L'Espresso". Secondo Agatha Christie, un indizio è un indizio. Due indizi sono una coincidenza. Tre indizi sono una prova. Nell’inchiesta della Commissione parlamentare antimafia sui rapporti fra massoneria e crimine organizzato gli indizi sono 2.993. Tanti sono gli affiliati alle logge calabresi e siciliane che non è stato possibile identificare. Per un caso da manuale di eterogenesi dei fini, il lavoro della Commissione ha trovato il suo risultato più clamoroso in un contesto giuridico diverso da quello di partenza che era la caccia ai mafiosi fra le colonne mistiche di Jachin e Boaz. I pregiudicati per 416 bis sono sei su 17.067 nominativi, una percentuale da beatificazione degli ordini massonici rispetto a qualunque categoria professionale calabro-sicula. E le cose non cambiano di molto se si considerano i 193 soggetti «aventi evidenze giudiziarie per fatti di mafia... concluse in grande parte con decreti di archiviazione» o le «25 posizioni per cui vi sono ancora processi pendenti». A tornare in ballo nella relazione finale della Commissione è lo spettro della legge Anselmi sulle associazioni segrete nata all’indomani dello scandalo P2, la loggia coperta guidata dal Venerabile Licio Gelli con 962 affiliati, un terzo degli ignoti trovati nelle liste sequestrate per ordine di Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, il primo marzo del 2017. Per trentasei anni i dirigenti delle varie obbedienze hanno giurato di avere stroncato il fenomeno delle affiliazioni cosiddette all’orecchio o sulla spada cioè la pratica di occultare agli stessi fratelli, con l’eccezione del gran maestro, l’identità di iscritti che dovevano rimanere sotto il cappuccio. Lo hanno ribadito anche durante le audizioni davanti alla Commissione e Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi) lo ha anche detto sotto la forma dell’interrogatorio (18 gennaio 2017) ossia in una delle fasi in cui l’Antimafia è investita dei suoi poteri giudiziari in base all’articolo della legge che la istituisce. Gli scontri polemici di Bisi con la presidente Bindi, senese come il gran maestro del Goi, sono stati i più accesi di tutte le audizioni. Esiste anche la possibilità che il suo caso venga segnalato alla procura e che Bisi (appena assolto a Siena nel processo Timeout, legato a Montepaschi) sia l’unico leader massonico a finire indagato per falsa testimonianza in relazione alla segretezza degli iscritti e alle vicende della loggia Rocco Verduci nella Locride, sospesa nel 2013 dopo l’inchiesta “Saggezza” per disposizione del predecessore di Bisi, Gustavo Raffi, e poi cancellata. Quel che si può dire fin da adesso è che nelle due regioni a maggior rischio di infiltrazione della criminalità organizzata la trasparenza è un sogno. I consulenti della Commissione, lo Scico della Guardia di finanza e i magistrati Marzia Sabella e Kate Tassone, hanno suggerito che non si può «escludere in maniera aprioristica fenomeni di mera superficialità nella tenuta degli elenchi». Ma la trascuratezza qui è sistema. Ottanta nomi sono inseriti con semplici iniziali, in parte riferibili a soggetti cancellati. Altri 1.883 presentano generalità incomplete e 1.030 sono «anagraficamente inesistenti» perché non possono essere associati a un codice fiscale che riveli la certezza dell’identità.

“Irriconoscibili” ovunque. In grandissima parte, quindi, si tratta di fratelli attivi che, presumibilmente, partecipano alle attività sociali e che pagano la quota annuale e i contributi in mancanza dei quali si è passibili di sospensione e poi di espulsione. Esoterica quanto si vuole, con i soldi la massoneria non scherza e intere logge sono state abbattute perché non versavano il dovuto. Eppure proprio la più mistica delle obbedienze, la Gran loggia regolare d’Italia (Glri) del gran maestro Fabio Venzi, successore di Giuliano Di Bernardo, presenta il numero più alto di iscritti non identificabili. Sono 1.515 nelle 25 logge calabresi e nelle 44 logge siciliane su un totale di 1959 affiliati. La proporzione di fratelli non riconoscibili è del 77,3 per cento.

La più grande obbedienza italiana, il Grande Oriente d’Italia (Goi) ha 1185 nomi non identificabili, la Gran loggia degli Alam ne ha 258 e 35 la piccola Serenissima guidata da Massimo Criscuoli Tortora (appena 197 affiliati in tutta Italia di cui 60 nella sola Calabria). Il confronto con la precedente inchiesta sulla massoneria italiana, di stampo giudiziario perché condotta dalla Procura della Repubblica di Palmi e dal suo capo di allora Agostino Cordova nel 1993-1994, lascia scarso spazio all’ottimismo sulla voglia di trasparenza delle logge. Sui 5.743 nominativi di massoni calabresi e siciliani analizzati da Cordova un quarto non era identificabile. Oggi è il 17,5 per cento. Oltre vent’anni dopo il miglioramento è trascurabile. Non solo, ma l’Antimafia segnala un passaggio inquietante. «Premesso che gli elenchi agli atti della Procura di Palmi nel 1993-1994 riguardavano un novero di obbedienze in parte diverso e più ampio rispetto a quelli oggetto di esame da parte di questa Commissione, va rilevato che vi è una parziale discordanza tra di essi nella misura in cui non sono stati rinvenuti negli elenchi acquisiti nel 2017, come noto riferiti a un arco di tempo che va dal 1990 a oggi, taluni nominativi di soggetti all’epoca censiti e poi coinvolti in fatti di mafia». È il caso dell’Asl di Locri commissariata per infiltrazioni della “masso-’ndrangheta” e già al centro dell’omicidio mafioso di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale, nell’ottobre del 2005. «Alcune delle modalità di tenuta dei registri sequestrati alle quattro obbedienza massoniche», dice il membro dell’antimafia Davide Mattiello (Pd), «fanno pensare a pratiche di segretezza che nulla hanno a che fare con la riservatezza. Una sostanziale pratica di segretezza e di irriducibilità all’ordinamento repubblicano delle obbedienza massoniche desumibile anche da altre caratteristiche raccontate dai gran maestri auditi in Commissione. Non poter parlare di quel che si fa, non poter conoscere quel che si farà nei livelli successivi del percorso iniziatico, né chi ci sia, non poter denunciare alla giustizia profana un fratello colpevole, riservarsi un autonomo giudizio massonico non riconoscendo validità alle sentenze della giustizia profana».

Tra esoterismo e fascismo. Fatte le proporzioni, il dato più clamoroso riguarda l’obbedienza di Venzi (Glri) che raccoglie il 63 per cento dei suoi 2400 affiliati nelle due regioni a massimo rischio. Non è soltanto una questione numerica. La Glri è l’unica loggia italiana a potersi fregiare del riconoscimento internazionale più ambito, quello della Gran Loggia Unita d’Inghilterra (Ugle), vera casa madre della libera muratoria per filiazione diretta dalle Costituzioni di Anderson del 1717. A cavallo dello scandalo P2, che lo storico della massoneria Aldo Alessandro Mola ha definito una loggia “speciale” del Goi, era proprio il Grande Oriente d’Italia a godere del riconoscimento. Con l’uscita polemica e la scissione dell’ex gran maestro Di Bernardo nel 1993, in piena tempesta Cordova, la Ugle ha concesso il riconoscimento alla Regolare di Di Bernardo. Il suo erede Venzi, sociologo esperto di esoterismo, di Julius Evola e di rapporti tra massoneria e regime fascista che regna incontrastato sull’obbedienza dal 2001. Romano di origini calabresi, Venzi è il più restio ai rapporti con la stampa. In audizione ha messo in evidenza una volontà di massima di consegnare gli elenchi sua sponte senza poi metterla in pratica, in modo simile ad Antonio Binni, gran maestro degli Alam, e a differenza di Bisi che si è opposto fin dall’inizio. Per rafforzare la sua posizione di trasparenza, Venzi ha dichiarato di presentare due volte all’anno gli elenchi al ministero dell’Interno e in particolare alla Digos per controlli. A prendere per vere queste parole, si dovrebbe concludere che i controlli sono stati negligenti: oltre tre quarti degli iscritti alla Regolare non sono identificabili. Venzi in audizione ha spostato il problema sulle associazioni paramassoniche. «Bisogna verificare», ha detto il gran maestro, «gli ambienti di Rotary, Lions e Kiwanis, dove massoni regolari e irregolari si incontrano. La ’ndrangheta sceglie le obbedienze spurie piuttosto che sopportare le nostre riunioni a carattere filosofico-culturale».

In nome di San Giovanni. La tempesta che investe la massoneria sta portando alla luce un fenomeno che l’Antimafia non ha avuto il tempo e la possibilità di verificare. La disgregazione di alcune obbedienze come la Gran Loggia degli Alam, che avrebbe perso tremila affiliati sugli oltre ottomila che Binni aveva dichiarato solo un anno fa alla presidente Bindi, sta facendo proliferare nuove obbedienze e le cosiddette “logge di San Giovanni”. Due fuoriusciti dagli Alam, l’ex gran maestro Luigi Pruneti e il numero tre dell’obbedienza Sergio Ciannella, si sono messi in proprio ognuno con una loro organizzazione all’inizio e alla fine del 2017. «Noi aspettiamo che si risolva il contenzioso legale con Binni», dice Ciannella. «Se vinceremo ci riprenderemo palazzo Vitelleschi, se no, resteremo dove siamo e cercheremo di lanciare un discorso giuridico sull’articolo 18 della costituzione per stabilire i requisiti fondamentali su che cosa è la libera muratoria in collaborazione con la Serenissima, il Sovrano ordine massonico italiano e la Federazione del Diritto Umano. Oggi chiunque può dirsi massoneria e certamente esiste una proliferazione incontrollata di logge di San Giovanni. In parte, si spiega con la tendenza a sfuggire alla tirannia del gran maestro, che è un dato tipicamente italiano, mentre la massoneria nasce come loggia, non come obbedienza. In Svizzera il gran maestro è un semplice coordinatore, non un monarca. In parte, però, c’è la tendenza a coprire certe deviazioni malavitose che vogliamo e dobbiamo combattere insieme a quelle che un tempo si chiamavano logge coperte». Bastano sette fratelli, magari espulsi da un’altra obbedienza, a organizzare un nuovo tempio. È a questo fenomeno che ha fatto riferimento il numero uno degli Alam Binni quando in Commissione ha dichiarato che soltanto ad Arezzo esistevano 92 raggruppamenti massonici autonomi.

Obiettivo lobby. In Italia il fenomeno delle logge di San Giovanni è così diffuso che è nata anche una federazione di queste monadi massoniche, con tanto di sito web e pagina Facebook. Da anni il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, sta affrontando il fenomeno. Una delle sue fonti principali è il collaboratore di giustizia Cosimo “Mino” Virgiglio che si è dilungato sull’attività della sua Loggia dei garibaldini, fra comitati d’affari, riti iniziatici da reality-show e ’ndrine di Gioia Tauro. «Noi non riconosciamo», si difende Stefano Bisi, «associazioni come quella dei garibaldini ed è motivo di provvedimento disciplinare frequentarsi in riti misti, anche se fra obbedienze regolari. La massoneria irregolare noi l’abbiamo sempre combattuta». Ma il fenomeno non è mai stato debellato. Come ha dichiarato Virgiglio, l’obbligo di assistenza fra massoni va oltre l’appartenenza alle obbedienze e, secondo quanto racconta all’Espresso un fratello di provenienza Alam, sta tornando di attualità una riedizione perversa delle vecchie camere tecnico-professionali della massoneria pre-gelliana, quando i fratelli si riunivano per categorie di appartenenza (medici, giornalisti, avvocati) allo scopo di presentare proposte agli iniziati che sedevano in parlamento. Questo lobbying discreto in Calabria e in Sicilia ha visto partecipare migliaia di iscritti dei quali non si conosce l’identità. Se si pensa che mafia e ’ndrangheta hanno da tempo esteso la loro attività imprenditoriale ben più a nord del Pollino e che la Commissione non ha potuto approfondire le sue ricerche nelle altre diciotto regioni, c’è da sperare che la prossima legislatura continui il lavoro iniziato, anche se Bindi non si ricandiderà.

Mafia e ’ndrangheta unite dalle stragi: «Così lo Stato scenderà a patti». L’uccisione nel ‘94 di due carabinieri collegata agli attentati decisi da Cosa nostra. La procura di Reggio Calabria: «Gli attentati del 1993-1994 non vanno letti in maniera isolata», scrivono Giovanni Bianconi e Carlo Macrì il 27 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". A Gaspare Spatuzza, soldato fedele che aveva già partecipato alla strage di Firenze del 1993 e si preparava a far saltare in aria un camion di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma (progetto poi fallito), il capomafia Giuseppe Graviano l’aveva detto chiaro: «In Calabria si sono già mossi». A colpi di mitraglietta: la stessa M12 che aveva ucciso due militari dell’Arma - Antonino Fava e Giuseppe Garofalo - e ferito altri quattro in tre diversi agguati fra il 18 gennaio e il 1° febbraio 1994. A sparare andarono due giovani ‘ndranghetisti, uno all’epoca minorenne, che subito dopo l’arresto dissero che trasportavano armi e non volevano essere fermati e controllati; un depistaggio per coprire il disegno che la Procura di Reggio Calabria, nove anni dopo la traccia delle prime dichiarazioni del pentito Spatuzza, ritiene di avere svelato: un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, con l’avallo di massoneria e spezzoni di servizi segreti deviati, per aggredire le istituzioni e costringere lo Stato a norme meno severe contro il crimine organizzato.

La presunta trattativa con le istituzioni, insomma, si estende anche alle cosche calabresi, e ieri è arrivato un nuovo ordine d’arresto per il boss stragista Giuseppe Graviano e per il capo ’ndrangheta Rocco Filippone, oggi settantasettenne, che secondo l’accusa all’epoca dei fatti fece da tramite tra i capi dei clan e delle ‘ndrine nelle riunioni riservate in cui si decise il ricatto allo Stato. Un’indagine avviata su impulso della Procura nazionale antimafia al tempo della gestione di Pietro Grasso, basata sulle dichiarazioni di decine di pentiti delle due organizzazioni e sulle indagini della polizia, Servizio centrale operativo e Servizio centrale antiterrorismo; ai mandanti degli omicidi e dei ferimenti dei carabinieri viene contestata anche «la finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico».

Il disegno stragista che doveva condurre alla trattativa fu infatti figlio — secondo questa ricostruzione — dei mutamenti politici che caratterizzarono il biennio 1992-1994, ma in un certo senso cercò anche di orientarli. Perché dopo la fine dei partiti tradizionali, sia la mafia che la ‘ndrangheta si misero alla ricerca di nuovi referenti, e i boss dell’isola avevano in testa la creazione di un gruppo chiamato Sicilia Libera. I pm calabresi (il procuratore Federico Cafiero De Raho, l’aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto Di Bernardo) hanno acquisito e aggiornato l’inchiesta sui cosiddetti «Sistemi criminali» archiviata dai colleghi palermitani, che avevano scritto: «I vertici di Cosa nostra cambiarono cavallo abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che in effetti poi avrebbe vinto le elezioni) sicché a questo nuovo movimento, Forza Italia, andò il loro appoggio». All’esito della nuova indagine il pm Lombardo precisa che la strategia stragista «si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la `ndrangheta e altre organizzazioni criminali trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi».

A confermare questa impostazione sono arrivate le ultime registrazioni dei colloqui in carcere di Giuseppe Graviano, in cui il boss si lascia andare (consapevole o meno di essere intercettato) a espressioni di risentimento nei confronti di Silvio Berlusconi, «al quale rimprovera di non aver rispettato sostanzialmente i patti», sottolinea il giudice nel provvedimento di arresto. Che si sofferma anche sulla «straordinaria anomalia, davvero macroscopica» sull’allentamento del «carcere duro» introdotto dopo le stragi palermitane del 1992 con l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Se nel ‘92 ci fu una sola revoca e una sola mancata proroga, che nel ‘95 diventarono 2 e 2, nel 1993 si ebbero 122 revoche e 358 mancate proroghe, mentre nei primi mesi del ‘94 ci furono 9 mancate proroghe. Numeri che per il giudice segnano una coincidenza «non casuale» tra le stragi del ‘93 e gli omicidi dei carabinieri di inizio ‘94 con quei provvedimenti, «sintomatici del fatto che lo Stato aveva recepito le rimostranze degli stragisti, che avevano così perseguito con successo il loro obiettivo».

Essenziale, perché il messaggio lanciato da mafia e ‘ndrangheta alle istituzioni andasse a buon fine, era che la vera matrice delle bombe e delle sparatorie restasse coperta. Ecco allora le firme della fantomatica sigla Falange armata, utilizzata anche da appartenenti al servizio segreto militare rimasto spiazzato dallo svelamento della struttura clandestina di Gladio, che pure erano alla ricerca di nuovi referenti politici. Le indagini dell’Antiterrorismo hanno portato alla luce tre rivendicazioni calabresi per gli attacchi all’Arma, mentre il pentito Tullio Cannella ha ricordato che dopo le bombe del luglio ’93 a Roma e Milano il boss corleonese Leoluca Bagarella «era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, e disse con soddisfazione e ironia: “Vedi che ora queste cose le appioppano alla Falange armata”, poi disse ancora con tono compiaciuto: “Vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!».

Mafie, massoneria e servizi segreti deviati: la congiura per rovesciare lo Stato. Le stragi calabresi e siciliane con il marchio della Falange Armata. Dal 1990 nacque la "Cosa sola". 'Ndrangheta, Cosa nostra e le altre mafie decidono di fare la guerra allo Stato, scrive Guido Ruotolo il 26 luglio 2017 su "Tiscali Notizie". Quando il maresciallo della stazione dei carabinieri di Polistena aprì la busta, quella fredda mattina del 4 febbraio del 1994, rimase di stucco. Imprecò ma non capì. Lesse anche la firma «Falange Armata» e rimase disorientato. «Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi - era scritto con il normografo, con un carattere tremante su quel foglio di carta stropicciato - uccisi sull'autostrada. È un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine…cornuti e bastardi e figli di puttana». Non capirono i carabinieri, e neppure gli inquirenti quella rivendicazione. E neppure quelle tre telefonate tutte dello stesso tenore: «Questo non è che l'inizio di una strategia del terrore».

Era il 18 gennaio del 1994 quando sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, furono uccisi i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo. E prima, nella notte tra l'1 e il 2 dicembre del 1993, e dopo, il 1 febbraio del 1994, altri quattro carabinieri rimasero feriti. Tutti colpiti da una stessa mitraglietta M12. Uno dei due esecutori materiali degli attacchi ai carabinieri spiegò che quegli omicidi o tentati omicidi furono fatti per impedire che quelle pattuglie intercettassero tre distinti carichi di armi. Anche per la mancata strage di via Fauro a Roma, l'autobomba che doveva uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, il 14 maggio del 1993, e poi per le stragi di Firenze, Roma e Milano, arrivarono rivendicazioni telefoniche della Falange Armata. Mai la Ndrangheta e Cosa nostra avevano rivendicato un omicidio, una strage. E ora, leggendo le 976 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Reggio Calabria, contro il boss di Brancaccio, Palermo, Giuseppe Graviano, della cupola di Cosa nostra, e Rocco Santo Filippone, esponente di spicco della Ndrangheta dei Piromalli, quali mandanti dei tre attentati contro i carabinieri, si scopre che furono proprio Cosa nostra e la Ndrangheta a rivendicare le stragi e gli attentati firmandosi Falange Armata.

L'ipotesi (che sarà approfondita da nuove indagini) della Procura reggina, del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha coordinato le indagini della squadra mobile e dell'Antiterrorismo, è che furono uomini dell'ex Sismi, in particolare esponenti «del VII Reparto cosiddetto “OSSI” che, fino a pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) si occupava di Stay Behind, (Gladio, l'organizzazione paramilitare che doveva fronteggiare una eventuale invasione comunista, ndr) che, evidentemente, volevano destabilizzare il Paese creando un nuovo allarme terroristico. Costoro, che per anni avevano operato agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla “Falange Armata”. Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatta propria anche da Cosa nostra, nel corso della riunione di Enna (1991)».

Le indagini reggine aprono squarci e scenari mai coltivati prima, né a Reggio Calabria né a Palermo, Firenze e Caltanissetta, dove le procure hanno indagato sulle stragi di Palermo e del Continente e sulla trattativa Stato-Mafia. E questi scenari in sostanza ipotizzano che le varie mafie, anche la camorra e la Sacra corona unita, oltre che la Ndrangheta e Cosa nostra abbiano deliberato una strategia comune di attacco eversivo e terroristico contro lo Stato.

Per non essere equivocati, il gip ricorda che «la matrice stragista (il riferimento è ai tre attacchi alle tre pattuglie di carabinieri, ndr) frutto di un accordo tra Cosa nostra e la Ndrangheta, ha l'obiettivo di rompere con la vecchia classe politica e colpire le istituzioni e la società civile, nell'ottica di ottenere benefici a proprio favore in specie in relazione all'applicazione del 41 bis». Forse è giunto il momento di mettere in archivio vecchie «certezze». Intanto, dobbiamo retrodatare, e di molto, all'agosto del 1990, la riunione in cui la Ndrangheta che parla con Cosa nostra (un summit tra Ndrangheta e Cosa nostra si era già svolto a Milano) comunica al suo “popolo” che la strategia comune in via di definizione prevede una offensiva mia vista prima contro lo Stato.

Antonino Fiume, l'autista del boss (“capo crimine”) reggino, Giuseppe De Stefano, mette a verbale che nell'estate del 1990 al Villaggio Blu Paradise, in provincia di Vibo Valentia, già si parlava di adesione alla strategia stragista di Cosa nostra. E una conferma l'abbiamo con la decisione di rivendicare gli attentati con la firma di Falange Armata. «Sul finire del 1990 la Ndrangheta utilizza la rivendicazione falangista in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile (Lodi, 11 aprile 1990), compiuto dal gruppo di fuoco lombardo dei Papalia perché l'educatore aveva scoperto i rapporti che lo stesso Papalia aveva intessuto con gli apparati di sicurezza». In conferenza stampa, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha ricordato che i pentiti attribuiscono a Antonio Papalia la decisione di rivendicare l'omicidio Mormile con la sigla Falange Armata: «L'indicazione di utilizzare la sigla in questione - sostiene il gip - veniva dai servizi di sicurezza, Il Papalia, infatti, era persona scarsamente scolarizzata e del tutto priva di strumenti culturali, pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo».

Quella presentata ieri in conferenza stampa dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, dal procuratore di Reggio Federico Cafiero De Raho e dagli investigatori della questura di Reggio guidata da Raffaele Grassi, è solo un frammento di una inchiesta che deve ancora esplorare nuovi territori. A partire dall'omicidio del sostituto procuratore generale presso la Cassazione, Antonino Scopelliti, che doveva sostenere l'accusa contro i capi mafia condannati all'ergastolo nel maxi processo a Cosa nostra. Le carte reggine lasciano intravedere anche scenari politici che maturano alla fine delle stragi del 93, cioè dell'inizio del '94 con il fallito attentato e contro i carabinieri. Ci sono pentiti che raccontano che ben prima della stagione delle leghe meridionali di Cosa nostra (Sicilia libera che si presentano alle elezioni provinciali di Palermo e Catania nell'autunno del 1993), c'era stata quella della Ndrangheta con Calabria libera. E i magistrati reggini vogliono capire perché la famosa riunione tra i movimenti indipendentisti e leghista meridionali a cui aderiscono Livio Gelli e lo stesso Vito Ciancimino si svolge a Lamezia Terme. E perché Totò Rina sceglie l'aula del Tribunale di Reggio Calabria per pronunciare il proclama contro i «tragediatori», i Lentini, Caselli, Violante. Insomma, l'inchiesta di Reggio sembra un trattore diesel. Cammina piano ma vuole arrivare molto lontano.

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni: "Strategia comune di 'ndrangheta e Cosa nostra per le stragi mafiose". Blitz condotto dalla Direzione distrettuale antimafia. In manette due elementi di vertice: sono tra i mandanti degli attacchi contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994. Le tre riunioni "preparatorie" e il racconto di Spatuzza su un fallito attentato a Roma, scrivono Fabio Tonacci ed Alessia Candita il 26 luglio 2017 su "La Repubblica". Se la procura di Reggio Calabria ha visto giusto, un pezzo di storia d'Italia va riscritto. Un pezzo delicatissimo e cruciale, a cavallo tra il 1993 e il 1994, quando l'assetto dei partiti fu rivoluzionato dalla discesa in campo di Forza Italia e nacque la Seconda Repubblica. Secondo i magistrati, infatti, non furono solo i Corleonesi a compiere le "stragi continentali", con le bombe in via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma: alla strategia terroristica di destabilizzazione dello Stato partecipò, su richiesta di Cosa Nostra, anche la 'ndrangheta, con tre attentati in Calabria che lasciarono a terra i due carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo (18 gennaio 1994) e ne ferirono gravemente altri due. L'inchiesta si chiama, non a caso, "'ndrangheta stragista". E' il frutto di un lavoro durato più di quattro anni, a cui si sono dedicati principalmente il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto procuratore della Dna Francesco Curcio, e i poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria. Sono stati riascoltati decine di pentiti e collaboratori di giustizia, tra cui Antonino Lo Giudice e Giovanni Brusca. Decisive per rileggere i fatti di quel biennio sono state le dichiarazioni rese in altri processi da Gaspare Spatuzza, protagonista degli anni di sangue. Questa mattina è stato arrestato nella sua casa di Melicucco Rocco Santo Filippone, 77 anni, a capo del mandamento tirrenico della 'ndrangheta ai tempi delle stragi e tuttora "vertice della cosca Filippone, collegata alla più potente famiglia dei Piromalli di Gioia Tauro, al quale è demandato il compito di curare le relazioni con gli altri capi clan". Sono in corso una ventina di perquisizioni in tutta la regione. Un mandato di arresto è stato notificato in carcere anche a Giuseppe Graviano, il capo del mandamento palermitano di Brancaccio detenuto a Terni e "coordinatore" delle stragi continentali. L'alleanza 'ndrangheta-Cosa Nostra per mettere in ginocchio lo Stato e sostituire la vecchia classe politica "divenuta inaffidabile" si consolidò attraverso loro due.

Fu il boss dei boss Totò Riina, secondo gli inquirenti, a decidere di chiedere alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia del terrore. Dopo il suo arresto nel gennaio 1993, seguito alle stragi di Capaci e Via D'Amelio, si tennero nell'autunno di quell'anno almeno tre importanti riunioni in Calabria tra mafiosi e 'ndranghetisti: una in un villaggio turistico in provincia di Vibo Valentia, cui parteciparono tutti i capi delle cosche; una a Melicucco (alla presenza forse dello stesso Giuseppe Graviano); l'ultima a Oppido Mamertina. Territorio dei clan Mancuso, dei Pesce, dei Mammoliti ma soprattutto dei Piromalli, quelli che più avevano stretto i rapporti con i Corleonesi. I calabresi decisero di aderire al piano dei siciliani. E per questo organizzarono tre attentati contro i carabinieri, cioè contro quell'istituzione dello Stato che aveva materialmente arrestato Totò Riina. Il primo, nella notte tra il 1 e il 2 dicembre 1993, quando il commando composto da Giuseppe Calabrò, Consolato Villani (entrambi già condannati) e Mimmo Lo Giudice (deceduto), tentarono di uccidere due carabinieri a Saracinello con un mitra M12, senza riuscirsi e senza neanche ferirli; il secondo, il 18 gennaio 1994, quando con la stessa arma furono ammazzati sulla Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, gli appuntati Fava e Garofalo; il terzo, l'agguato ai due carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, che non morirono ma rimasero gravemente feriti.

E' in questo contesto che si inseriscono le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, affiliato della famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano. Ai magistrati ha raccontato di un suo incontro con Giuseppe Graviano al cafè Doney di via Veneto, a Roma, durante il quale il boss gli fece capire che dovevano riprendere l'iniziativa, con qualcosa di sconvolgente. "Abbiamo il Paese in mano, si deve fare per dare il colpo di grazia", mette a verbale Spatuzza. "Graviano mi dice che dovevamo fare la nostra parte perché i calabresi si sono mossi uccidendo due carabinieri e anche noi dovevamo dare il nostro contributo. Il nostro compito era abbattere i carabinieri e quello era il luogo dove potevano essercene molti, almeno 100-150". Quel luogo era lo Stadio Olimpico di Roma. Il giorno fissato, secondo Spatuzza, era "il 22 gennaio 1994". Un sabato. La macchina, una Lancia Thema riempita con 120 kg di tritolo, 30 kg in più rispetto a quello usato in via D'Amelio. Ma il telecomando non funzionò. Nonostante lo stesso Spatuzza premette più volte il pulsante, l'auto (che era posizionata in viale dei Gladiatori, vicino alle camionette dei carabinieri) non esplose.

Nell'indagine "ndrangheta stragista", cui hanno partecipato anche il procuratore capo Federico Cafiero de Raho, il pm Antonio De Bernardo, i poliziotti del Servizio centrale operativo, dell'Antiterrorismo della polizia di Prevenzione, sono diversi "i fili" che vengono tirati dagli inquirenti. Nelle mille pagine dell'ordinanza cautelare, infatti, si ricostruisce l'intera strategia di destabilizzazione dello Stato, a cui erano interessati in quei primi anni Novanta non solo 'ndrangheta e Cosa nostra: vengono approfonditi i legami delle cosche con la massoneria, gli apparati deviati dei servizi segreti (possibili ispiratori della strategia stragista) e l'appoggio che le mafie offrirono alle leghe meridionali. Emergono anche gli interessi della galassia dell'eversione nera e l'influenza che tutto ciò ebbe sul nascente assetto politico dei partiti. "Sullo sfondo delle stragi - scrivono i magistrati - appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2 ancora in cerca di rivincite".

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni contro la guida comune di 'ndrangheta e mafia. L'inchiesta di Dda, Ros e Sco, anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco ai carabinieri fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Tra gli arrestati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'inchiesta anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco all'Arma a cavallo fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, in una fase delicatissima della storia della Repubblica italiana: il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. In territorio reggino le aggressioni ai carabinieri furono tre, dal dicembre 1993 al febbraio del 1994, con un bilancio di due morti (Fava e Garofalo) e due feriti gravi (Musicò e Serra). Il passaggio successivo avrebbe dovuto essere ancora più devastante con la strage dello stadio Olimpico a Roma, fallita per un malfunzionamento del telecomando. Fra le tre richieste di arresto il nome più famoso è quello di Giuseppe Graviano, palermitano di 53 anni. Il mafioso di Brancaccio, insieme al fratello maggiore Filippo e all'affiliato Gaspare Spatuzza, sono da anni al centro delle inchieste che cercano di fare luce sulla stagione delle stragi. Della sua statura criminale non è lecito dubitare. Gli indagati calabresi (Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio), invece, sono meno conosciuti, nonostante la lunga anzianità di servizio. Rocco Santo Filippone, 77 anni, è nato ad Anoia, un paesino di 2 mila persone nell'entroterra di Rosarno confinante con Melicucco dove Filippone è stato arrestato. È la culla della 'ndrangheta, la piana di Gioia Tauro, dove le affinità strutturali fra crimine calabrese e mafia siciliana dei feudi sono assolute. Il volto contadino di questa 'ndrangheta non deve ingannare. I clan della Piana sono in prima linea quando si tratta di rapporti con la politica e di esportazione dell'impresa mafiosa verso il nord. Negli anni Settanta, il trentenne Filippone si fa strada nelle gerarchie partendo dalla guardiania di un terreno del Bosco in contrada Acquabianca. Il Bosco è la grande zona verde di ulivi e agrumeti fra Rosarno e Gioia Tauro dove il governo Colombo, a seguito dei Moti di Reggio del 1970-1971, ha deciso di impiantare il quinto centro siderurgico. Filippone si trova coinvolto come mediatore nella principale saga criminale di quel periodo. È la faida di Cittanova fra il clan Facchineri, già sbarcato nella capitale dove ha stretto rapporti con il cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, e il gruppo rivale Gullace-Raso-Albanese. La furia dello scontro è però inarrestabile. Ci saranno oltre 30 morti. Nel frattempo, le vicende politiche si evolvono. Il centro siderurgico viene abbandonato per la crisi dell'acciaio e sostituito con il progetto del porto di Gioia Tauro sul quale presiedono gli uomini della famiglia Piromalli, la cosca più potente della zona, se non la più potente in assoluto. Con il beneplacito dei re della Piana Filippone organizza il suo gruppo che controlla l'area di Cinquefrondi con i Bianchino e i Petullà e si federa con i Bellocco di Rosarno. È una cosca satellite, non di primo piano, una delle tante che reggono quel territorio con una dittatura feroce e che, come dimostrano gli arresti di un mese fa ordinati dalla Procura di Roma, sbarca il lunario con il traffico di droga. Il dinamismo di Filippone si esercita anche attraverso i nipoti, figli della sorella che vivono a Reggio. Sono Giuseppe e Francesco Calabrò. Il primo diventa un pistolero: è lui che aprirà il fuoco sui carabinieri Fava e Garofalo. Il secondo si dà all'edilizia insieme al primo cugino, Giovanni detto il marchese, e finirà sepolto con la sua macchina in fondo al porto di Reggio. Di Filippone non si avranno tracce fino al 2011 quando l'operazione Artù della Dda di Reggio, guidata al tempo da Giuseppe Pignatone, manda in carcere un gruppo di 'ndranghetisti che avevano tentato di cambiare un certificato di deposito falso da 870 milioni di dollari al Credito Svizzero. Filippone viene arrestato e poi rilasciato. Il processo è trasferito a Bologna per competenza territoriale, visto che il consorzio finanziario-criminale aveva centro in Emilia. Alla fine del 2016 ci sono stati i rinvii a giudizio, con Filippone a piede libero. Nella riunione plenaria delle 'ndrine all'hotel Sayonara, quando i mafiosi calabresi decisero di ritirarsi dalla strategia stragista, Filippone avrebbe svolto un ruolo di tipo logistico ricevendo i siciliani sbarcati in Calabria per discutere con i colleghi della 'ndrangheta l'attacco allo Stato. La parte qualificante dell'inchiesta sta però nei contatti con il mondo dell'eversione unificata fra massoneria segreta (loggia P2), servizi di informazione e quell'eversione nera che, dagli ordinovisti fino alla Falange Armata, prese la laurea proprio con i Moti di Reggio del 1970 e divenne, a braccetto con la 'ndrangheta, un interlocutore di spessore per chi desiderava pregiudicare il processo democratico nella fase della strategia della tensione. È questa la cosiddetta componente riservata della 'ndrangheta dove i confini fra criminali e uomini dello Stato sono troppo spesso spariti. L'operazione della Dda di Reggio, da questo punto di vista, è ancora incompleta, come gli stessi magistrati lasciano trapelare. Per mettere le mani sui traditori, gli uomini dell'intelligence che hanno aiutato i criminali a insanguinare l'Italia, si rimanda a una fase successiva dell'indagine.

Strategia comune 'ndrangheta e mafia, l'atto di accusa dei giudici. Dopo il blitz dell'Antimafia che ha portato agli arresti degli organizzatori degli omicidi dei carabinieri del '94, ecco la ricostruzione degli investigatori, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'ordinanza di custodia cautelare che accusa Giuseppe Graviano, Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio, di 45 anni, inizia la sua ricostruzione dalla pagina oscura dei tre assalti ai carabinieri nella zona di Reggio fra dicembre 1993 e febbraio 1994. Questa vicenda è stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale firmato dall'allora aggiunto Gianfranco Donadio. Le dichiarazioni del killer dei carabinieri, Giuseppe Calabrò, incaricato dallo zio Rocco Filippone, rappresentano una sostituzione del movente tipica dei depistaggi. Calabrò disse che Fava e Garofalo erano stati uccisi perché seguivano l'automobile carica di armi di Calabrò, guidata da Consolato Villani, imparentato con la famiglia Lo Giudice, al tempo minorenne e oggi pentito. In realtà, le tre aggressioni condotte in quaranta giorni segnalano il coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista di Cosa Nostra che aveva colpito a Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e Velabro), di Firenze (via dei Georgofili) e di Milano (via Palestro).

I Graviano di Brancaccio erano già legati per affari di droga alle 'ndrine della Tirrenica e chiesero ai calabresi di partecipare alle stragi volute da Totò Riina in modo da “garantire e realizzare i desiderata di Cosa Nostra” nel contesto del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica con le elezioni fissate il 28 marzo 1994 e la discesa in campo di Silvio Berlusconi che in Calabria farà eleggere Amedeo Matacena junior, primula rossa della latitanza a Dubai dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Bisognava sostituire, dicono i magistrati: “una vecchia ed ormai inaffidabile classe politica con una nuova, diretta emanazione delle mafie”. E aggiungono: “i tre delitti, nella la loro apparente incomprensibilità, come si vedrà, avevano dei tratti e delle tracce comuni, presentavano delle simmetrie tali, da indurre a ritenere, ragionevolmente, che i loro autori non agissero a caso o per sanguinaria imperizia, ma, piuttosto, seguissero un copione ben studiato, un preciso cliché, che, per la verità, avrebbe potuto consentire, già all'epoca dei fatti, a chi indagava su quelle vicende, di poterle ricondurre ad un medesimo disegno criminale di stampo mafioso/ terroristico”. E più oltre: “Sia l'opinione pubblica, sia la classe dirigente del paese, sia gli appartenenti all'Arma, dovevano intendere che il solo fatto di indossare una divisa rappresentava un rischio che trasformava il militare in un bersaglio. Ed è qui, proprio qui, attraversando questa linea di confine, che si passa dalla logica criminale a quella terroristica. E venendo ad un episodio più risalente nel tempo, in questa logica terroristica, come sarà poi analizzato, a dimostrazione dell'ampiezza del disegno criminale di cui ci si occupa, si poneva, anche, l'omicidio dell'Ispettore di PS Giovanni Lizzio in servizio presso la Questura di Catania. Tale delitto avvenne il 27.7.1992 a Catania per mano di sicari della famiglia Santapaola che così, all'epoca, intesero aderire alla richiesta dei Corleonesi di attacco frontale allo Stato”.

“L'elaborazione di tale disegno eversivo (servente rispetto a quello "politico") manifestò i suoi primi segnali di esistenza ben prima dell'inizio della cd stagione stragista in un periodo che può essere ricompreso fra due eventi determinanti nella presente ricostruzione, e cioè fra la prima rivendicazione ( avvenuta nell'autunno del 90) a nome delle sedicente organizzazione eversiva "Falange Armata", avvenuta in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile, delitto consumato vicino Milano, nell'Aprile del 1990, per mano di sicari della potentissima cosca calabro-lombarda dei Papalia che su richiesta di non identificati esponenti dei servizi di sicurezza utilizzò quella sigla per rivendicare il delitto, e le riunioni di Enna, dell'estate-autunno 1991, in cui i vertici di Cosa Nostra iniziarono a elaborare la strategia stragista programmando che le rivendicazioni dei futuri attacchi allo Stato sarebbero, pure, state eseguite con la ancora sostanzialmente sconosciuta sigla "Falange Armata". Giova, ribadire nuovamente, e sottolineare che, anche in relazione agli episodi oggetto della presente trattazione risulta la rivendicazione "Falange Armata"... la stessa sigla Falange Armata — poi utilizzata per rivendicare gli attentati materialmente eseguiti dalle mafie - è stata ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose... il fatto che lo stesso Paolo Fulci, già direttore del Cesis (proveniente però da una carriere diversa, quella diplomatica) in quegli anni fu vittima (precisamente in un periodo immediatamente successivo al disvelamento della struttura Gladio, ma precedente alla stagione stragista) di gravissime minacce da parte di soggetti riconducibili ai servizi di sicurezza (e, in particolare, come vedremo, riconducibili alla cd VII Divisione del Sismi — struttura che istituzionalmente si era occupata di organizzare e sovraintendere a stay behind e, quindi alla struttura Gladio)”.

“Per il numero e lo spessore dei soggetti intervenuti quella di Nicotera Marina fu sicuramente la più importante e tuttavia, altri incontri (che per comodità possiamo definire "satellite") su questo tema messo sul tavolo dai corleonesi, si svolsero in Calabria come risulta da numerose dichiarazioni acquisite sul punto. Ed è importante dire che in nessuna delle riunioni in questioni la `Ndrangheta prese, ufficialmente, una posizione netta. Risulta che non vi fu mai, all'interno della `Ndrangheta unitaria, una unanimità di vedute e che almeno all'epoca ed ufficialmente (parliamo di un periodo che va dal 1990, passando per il 1991- in coincidenza, sostanzialmente, con la riunione di Enna di cui si è detto, fino all'estate del 1992, cioè subito dopo la strage di Via D'Amelio, epoca in cui si svolse l'incontro plenario di Nicotera Marina) venne in sostanza presa - salve alcune eccezioni che poi vedremo - una posizione attendista. Insomma la `Ndrangheta nel suo complesso, intesa come forza unitaria, cioè, per motivi tattici, sia esterni (non si poteva opporre un rifiuto agli amici siciliani) che interni (si è detto che non vi era unanimità di vedute) fece intendere ai siciliani di essere pronta a collaborare se specificamente richiesta e se necessario, senza, però, attivarsi motu proprio. La partita, in realtà, come vedremo, si giocava sottobanco. Infatti, nel complessivo attendismo (quando non scetticismo) della `Ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti, invece, quelle che ruotavano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri - che, non a caso, avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata ( che in Italia aveva un nome e cognome, certificato da sentenze e da atti di di Commissioni Parlamentari d'Inchiesta : Licio Gelli ) —si muovevano nell'ombra, all'insaputa del resto della consorteria. Davano rassicurazioni agli amici siciliani fino a organizzare la riunione conclusiva di Melicucco a ridosso degli agguati ai Carabinieri, in cui si dava il via operativo agli attacchi armati per cui è richiesta cautelare”.

Madre contro figlio. Il ruolo di Filippone Maria in relazione alla ritrattazione di Calabrò Giuseppe. La correttezza dell'assunto appena riportato trova conferma nel contenuto della nota informativa della locale Squadra Mobile, del 15 maggio 2015 (successivamente integrate con ulteriori note informative di completamento e rettifica parziale, che si allegano alla presente) che, ad evasione di specifica delega verbale di questa Direzione Distrettuale Antimafia, ha collazionato e documentato alcuni specifici passaggi dichiarativi, registrati in sede di intercettazione telefonica e ambientale audio-video in carcere, riferibili a CALABRO' Giuseppe54 (operazioni autorizzate nell'ambito del presente procedimento penale, giusta R.I.T. 262/14 D.D.A., in data 10.02.2014). Giova precisare, peraltro, che nel corso della disposta attività di intercettazione, gli operatori di Polizia Giudiziaria hanno avuto modo di appurare fattivamente tutta una serie di criptici rimandi lessicali caratterizzati spesso da toni allusivi che, interfacciati con le risultanze probatorie già evidenziate nel corpo degli ulteriori atti di indagine, hanno consentito di mettere in evidenza le evidenti pressioni esercitate dai familiari del CALABRO', ed in particolare dalla di lui madre FILIPPONE Maria Concetta, al fine di costringere lo stesso a ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in merito ai fatti per cui si procede, interamente ricavabili dal verbale di trascrizione dell'interrogatorio dal predetto reso in data 07 maggio 2014 presso la Casa Circondariale di Tempio Pausania (Olbia), in qualità di testimone. Tale programma delittuoso non risulta in alcun modo privo di rilevanza per il sol fatto che la prima missiva di timida ritrattazione sia stata inviata a questo Ufficio in data 10 maggio 2014 e, quindi, in data antecedente alle conversazioni di seguito riportate. Tale primo accenno del CALABRO' alla sua intenzione di ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in data 7 maggio 2014 va letto, invero, alla luce della precedente missiva dell'8 maggio 2014 in cui il CALABRO' aveva comunicato a questo Ufficio di voler confermare e rafforzare il suo contributo narrativo a favore della condivisa strategia stragista di `Ndrangheta e Cosa Nostra. La ritrattazione del 10 maggio 2014 è, quindi, il frutto della fortissima tensione emotiva che vive il CALABRO' nel periodo immediatamente successivo alle dichiarazioni gravemente accusatorie rese a questo Ufficio. Appare fisiologico, invero, che il predetto dichiarante oscilli tra i propositi collaborativi e il timore di coinvolgere i propri prossimi congiunti in vicende di elevatissima rilevanza penale: tale assunto trova conferma letterale nelle parole che il CALABRO' pronuncia in data 8 maggio 2014: "Sono cosciente che, al termine delle mie affermazioni, molti miei congiunti saranno a rischio e, qualora ciò non dovesse avvenire, comunque tutti si allontaneranno da me rinnegando il ‘grado di parentela'. Appare evidente che il dichiarante senta un peso enorme sulle proprie spalle, che si traduce in un proposito collaborativo ancor più forte il giorno successivo alle dirompenti dichiarazioni del 7 maggio 2014 per poi trasformarsi dopo qualche giorno in un ritorno al desiderio di non provocare ricadute pesantissime sui soggetti chiamati in correità. Solo quando si registra l'intervento minaccioso e deciso della madre, FILIPPONE Maria Concetta, il detenuto, come di seguito documentato, abbandona definitivamente i suoi propositi collaborativi a favore dell'Autorità Giudiziaria — destinati a fornire ulteriori elementi di prova utili nell'ambito della presente indagine — per adottare nuovamente la scelta di scontare il lungo periodo di detenzione ancora residuo nel più assoluto silenzio. La palese condotta intimidatoria consumata da FILIPPONE Maria Concetta è da ricondurre in primo luogo alla voluta e programmata delegittimazione processuale del CALABRO', in grado di pregiudicare il corretto inquadramento delle complesse dinamiche criminali sottostanti alle azioni delittuose consumate in provincia di Reggio Calabria ai danni di appartenenti all'Arma dei Carabinieri e, quindi, di individuare nella figura del fratello FILIPPONE Rocco Santo e nel nipote FILIPPONE Antonino le ulteriori figure a cui riconoscere un ruolo di assoluto rilievo causale nella consumazione dei gravissimi delitti oggetto di contestazione in questa sede... Sin dal suo esordio "tutto dietro…di ritornare tutto indietro.." la donna condiziona le decisioni operative del figlio, esortandolo a tenere fede — nell'interesse comune, quale elegante accezione della comune appartenenza alla organizzazione di tipo mafioso — "fede... fedeltà...fedeltà", a comportarsi stoicamente in un certo modo: "bocca chiusa... e non sbagli mai".

Stragi di mafia, l'altra verità sui veri piani della 'ndrangheta. La malavita organizzata calabrese insieme a Cosa Nostra siciliana nell'attacco allo Stato. Ma solo per pochi mesi: poi gli interessi e le strategie sono cambiate. Ecco cosa svela un'inchiesta che riscrive il passaggio alla Seconda Repubblica, scrive Gianfrancesco Turano il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Aggiornamento del 26 luglio 2017. La strategia stragista della ’ndrangheta dura appena due mesi: dicembre 1993, gennaio 1994. Il 2 febbraio è tutto finito». Parla Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Non c’è altro che il magistrato possa dire riguardo all’inchiesta di importanza colossale sui tre attentati contro i carabinieri risalenti a 23 anni fa che, secondo quanto risulta all’Espresso, sta per giungere alla conclusione. Partita come una sorta di “cold case” dalle intuizioni di investigatori etichettati come visionari ed emarginati per la loro determinazione ad andare in fondo, questa indagine è diventata la chiave d’accesso ai misteri d’Italia nei sessanta giorni che portano alla Seconda Repubblica. È una rilettura che investirà posizioni di potere e personaggi rimasti attivi per decenni e, fino a oggi, nella zona d’ombra dove i confini fra crimine organizzato e istituzioni non esistono più per una tragica tradizione del potere in Italia iniziata ai tempi della strategia della tensione, quasi mezzo secolo fa. Il lavoro che ha preso forma a Reggio è frutto di un impegno collettivo durato anni fra Calabria e Sicilia perché alla fine si è capito che la distinzione fra ’ndrangheta e Cosa nostra ha senso solo a livello territoriale o mandamentale e non nella componente riservata, quella legata con filo diretto alla politica in una fase di passaggio delicatissima quale è stata la lunga e cruenta transizione dalla Prima Repubblica, fra discese in campo e spinte autonomistiche estese dal Lombardo-Veneto alle due regioni più a sud d’Italia. Sui nomi interessati dall’inchiesta il riserbo è ovviamente assoluto. Ma il quadro può essere delineato ricostruendo le attività di magistrati come Vincenzo Macrì e Gianfranco Donadio, ex aggiunti della Dna, o come Francesco Curcio, attuale sostituto alla direzione nazionale antimafia, e Giuseppe Lombardo, pm reggino titolare dei fascicoli più delicati del rapporto ’ndrangheta-politica confluiti da poco nel maxiprocesso battezzato Gotha. Tassello dopo tassello le parole dei pentiti, fra i quali Gaspare Spatuzza, Consolato Villani e suo cugino Antonino “il Nano” lo Giudice, potrebbero comporre lo scenario chiaro e definitivo nel quale la cosiddetta ’ndrangheta ha agito come tecnostruttura terroristica, per citare un’espressione di Donadio, in compartecipazione con gli apparati dello Stato.

Il primo attentato avviene il 2 dicembre 1993. Dal punto di vista criminale, è un fallimento. Il commando apre il fuoco contro una pattuglia di carabinieri in servizio nei quartieri della periferia sud di Reggio Calabria ma non centra il bersaglio. Il fatto rimane nelle cronache locali.

Il secondo episodio è un salto di qualità terrificante sotto il profilo militare. Il 18 gennaio 1994, poco dopo le feste natalizie, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo, 33 anni di Scicli, sposato con due figli, e Antonino Fava, 36 anni di Taurianova, capoequipaggio, anch’egli sposato con due figli, scortano fino al tribunale di Palmi un magistrato in arrivo dalla Sicilia. Attendono di riaccompagnarlo ma l’incontro negli uffici giudiziari si prolunga e la centrale operativa manda l’Alfa 75 dell’Arma in pattugliamento sull’autostrada. Una decina di chilometri a sud di Palmi, in un tratto in discesa e con varie gallerie fra gli svincoli di Bagnara e Scilla, i carabinieri notano un’auto sospetta. Prima che possano intervenire, vengono affiancati da un’altra macchina e investiti lateralmente da decine di colpi di Beretta M12, un’arma automatica. L’Alfa 75 finisce contro il guard rail. Gli assassini scendono e sparano ancora, stavolta frontalmente, dal parabrezza. Infieriscono con una valanga di piombo a compensazione del fallimento del 2 dicembre. Una telefonata rivendica l’azione. Si saprà dopo che a chiamare è Villani, autista del commando. Pentito del clan De Stefano, Villani ha dichiarato al processo Meta otto mesi fa: «Dovevamo fare come la Uno bianca». Il riferimento è alla catena di delitti commessi dai fratelli Savi, poliziotti, a Bologna e dintorni. Il massacro dell’A3 provoca un effetto enorme. A Reggio arriva il comandante dell’Arma Luigi Federici e annuncia la mobilitazione generale. Il cronista di Repubblica scrive senza mezzi termini che il massacro dell’autostrada è «il tassello di un disegno criminale terroristico-mafioso». Ci vorranno anni perché la definizione trovi riscontro giudiziario. E lo trova in Sicilia nell’autunno 2009, grazie alle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza a Caltanissetta.

«Spatuzza aveva notizie frammentarie sulle operazioni contro i carabinieri desunte da colloqui con il suo boss Graviano», dice Antonio Ingroia che da pubblico ministero ha raccolto le parole del pentito insieme al collega Nino Di Matteo e che oggi da avvocato è difensore di parte civile delle vedove di Fava e Garofalo. «Sa però che il duplice omicidio dell’autostrada fa parte di una reazione concertata contro l’Arma». Dopo il massacro di Scilla Graviano dice a Spatuzza che i calabresi si erano mossi e che adesso toccava a loro. Inizia così la preparazione della strage dell’Olimpico, dove un’autobomba deve esplodere in una domenica di calcio vicino a un pullman dei carabinieri. Una prima versione, definita dal procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, fissa l’attentato al 31 ottobre 1993 durante Lazio-Udinese, dunque prima delle operazioni in Calabria. Successive indagini spostano la data al 9 gennaio 1994 (Roma-Genoa) e infine al 23 gennaio (Roma-Udinese). L’attentato non va a segno per un malfunzionamento del telecomando dell’autobomba. L’operazione non sarà ripetuta perché i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati il 27 gennaio 1994, quattro giorni dopo la partita di Roma e circa un anno dopo Totò Riina. Il 26 gennaio 1994, mercoledì, Silvio Berlusconi annuncia in televisione la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito-azienda organizzato in pochi mesi da Marcello Dell’Utri.

Ma in Calabria non è ancora finita. Alle 20.35 del primo di febbraio 1994 una pattuglia in servizio sulla tangenziale di Reggio, nei pressi dello svincolo di Arangea, nota una macchina ferma. È l’ora di punta e il veicolo in sosta è un rischio per la circolazione. I militari, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, scendono per un controllo e vengono accolti da una tempesta di proiettili: fucile a canne mozze e machine pistol Beretta M12, la stessa dei delitti precedenti. Feriti in modo grave, i carabinieri si salvano soltanto perché i killer, a differenza di quanto accaduto a gennaio sull’autostrada semideserta, non possono fermarsi per il colpo di grazia. Rischiano di finire incastrati nel traffico. I due soldati si salveranno. L’Arma non tarda a reagire. Il 5 maggio 1994 vengono arrestati per gli assalti ai carabinieri Giuseppe Calabrò, Consolato Villani, ancora minorenne, e i presunti armieri. Calabrò e Villani incominciano a collaborare. In sostanza, confessano. Hanno sparato loro ed erano solo loro due quella notte d’inverno sull’autostrada: Villani guidava, Calabrò sparava. Ma operano una sostituzione del movente che condizionerà l’esito del processo: l’assassinio di Fava e Garofalo sarebbe stata la reazione d’impulso per evitare un controllo a un’altra auto di mafiosi che trasportava un carico di armi da guerra prelevate a Gioia Tauro. Gli investigatori seguono la pista del M12. Si scoprirà che la mitraglietta è un’arma prodotta per esigenze sceniche del cinema o della tv, senza marchio né matricola. Esce dalla catena di montaggio devitalizzata e viene rimessa in condizioni di normale funzionamento senza troppo sforzo dagli armieri delle ’ndrine. Pochi mesi dopo il massacro, gli uomini della Dia di Milano trovano anche il deposito dal quale provengono le armi sceniche. È in un capannone in Val Trompia nel bresciano, nel distretto produttivo della Beretta. Poi la traccia viene abbandonata. Le acque si calmano, salvo gli ultimi fuochi della banda della Uno bianca che arriva al capolinea con gli arresti di Roberto e Fabio Savi nel mese di novembre. Il 7 dicembre 1994 viene inaugurata a Reggio la scuola allievi carabinieri, intitolata a Fava e Garofalo. Le due vedove ritirano la medaglia d’oro al valor militare. Oltre quindici anni dopo sarà Donadio a riprendere la pista delle armi sceniche con l’aiuto di Francesco Piantoni e Roberto De Martino, i colleghi della procura di Brescia che si sono occupati della strage di piazza della Loggia.

Villani ha 17 anni. È un debuttante del crimine ma la sua famiglia ha solide tradizioni di ’ndrangheta ed è imparentata con i Lo Giudice, un clan di Reggio nord schierato con i Condello-Imerti-Serraino e contro i De Stefano-Tegano-Libri nella guerra da 700 morti finita nell’estate 1991, a ridosso dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Calabrò, che al tempo ha 22 anni, ha invece già una storia di sangue alle spalle. Si propone come uomo d’armi alla cosca di Reggio sud Ficara-Latella, schierata con il clan De Stefano-Tegano-Libri nella guerra. Viene accettato con riluttanza perché ha un profilo poco ortodosso. Gli piace esibire la sua mafiosità. Ama ’ndranghetiare, come si dice in Calabria. In compenso ha il grilletto facile tanto che viene soprannominato “Scacciapensieri” per la leggerezza d’animo con la quale esegue gli incarichi dei capi. Senza troppe domande ha sparato quindici colpi in pieno giorno e in centro per ammazzare un vigile urbano, Giuseppe Marino. Qualche giorno prima Marino aveva osato multare l’auto di un boss per divieto d’accesso alla zona pedonale del corso Garibaldi. La cosca tiene Calabrò a distanza di sicurezza perché lo considera instabile, come il fratello Francesco, coinvolto anch’egli nell’assalto ai carabinieri, pentito e subito bollato come psicopatico da una perizia ad hoc. Quando il processo inizia, Giuseppe Calabrò collabora. Il tribunale decide che è credibile quando si accusa ma non è credibile quando accusa gli altri. Il verdetto (febbraio 1997) condanna all’ergastolo il killer mentre Villani viene affidato al giudice del tribunale dei minori Domenico Santoro, poi gip nel processo Mammasantissima. Nel 1998 Calabrò viene spedito agli arresti domiciliari a Bologna. Lì evade e in mezzo alla folla del Natale ammazza due bangladeshi che, secondo lui, avevano stuprato la sua ragazza due anni prima. Il processo chiarirà che nel 1996 le vittime non erano neppure in Italia. Condannato all’ergastolo, stavolta in via definitiva, nel 2011 Calabrò pubblica il libro-memoriale “Una scia di sangue” con la prefazione di uno dei giudici più potenti del tribunale di Reggio, Giuseppe Tuccio, allora garante dei diritti dei detenuti su nomina del governatore regionale Giuseppe Scopelliti. Quando esce il libro di Calabrò, il fratello Francesco, che nel frattempo è diventato imprenditore, è già scomparso da cinque anni (2006). I suoi resti saranno trovati ad aprile del 2013, dentro una Smart gialla affondata nel porto di Reggio. Anche il primo cugino di Giuseppe Calabrò, Giovanni detto “il marchese”, diventerà un imprenditore, ma di notorietà internazionale con appoggi in Russia, Kazakhistan e un rapporto diretto con il presidente turco Tayyip Erdogan. Amico del governatore della Liguria Giovanni Toti e debitore del Comune di Roma per 36 milioni di euro, Calabrò ha fatto parlare di sé l’anno scorso grazie al tentato acquisto del Genoa calcio da Enrico Preziosi, prima di essere condannato in secondo grado a sei anni per la bancarotta dell’Algol dal tribunale di Busto Arsizio nell’aprile del 2016.

A cavallo fra il 1993 e il 1994 matura un mutamento politico di grande importanza a livello nazionale. È in arrivo Forza Italia, che troverà in Calabria il suo coordinatore in Amedeo Matacena junior, oggi latitante a Dubai per sfuggire a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e per le sue frequentazioni con il clan De Stefano, ribadite di recente in aula dal pentito Nino Fiume. Di qua e di là dello Stretto, stanno crescendo le proposte autonomistico-secessioniste con le Leghe del Sud. L’ipotesi investigativa è che l’attacco all’Arma sia inquadrato in un’ipotesi di autonomismo eversivo. A decidere la strategia è una commissione ristretta dove i siciliani, autori delle stragi del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e del 1993 (Roma, Firenze, Milano) concordano la linea con i rappresentanti dei due principali clan calabresi: i De Stefano di Reggio e i Piromalli di Gioia Tauro. Dopo gli assalti ai carabinieri, però, le famiglie della ’ndrangheta chiedono una riunione plenaria di tutta la provincia nel luogo dove per tradizione si svolge questo tipo di summit: il santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte. Il dissenso delle altre famiglie verso la strategia stragista è netto ed esplicito. La ’ndrangheta ha interesse a crescere e a prosperare economicamente, non a guerreggiare con la Repubblica italiana. Bisogna smetterla subito di attaccare l’Arma per rientrare nei ranghi e amministrare il nuovo potere all’orizzonte dall’interno, come la vera mafia ha sempre fatto, individuando referenti politici nell’ordine emerso dalle elezioni politiche del 28 marzo 1994 dove, fra gli altri, è eletto anche Matacena. La mozione di maggioranza è accolta, e forse con sollievo, anche da parte di chi aveva iniziato a seguire i siciliani sulla via dello scontro totale.

I Piromalli e i De Stefano non sono gente nuova al protagonismo politico. Già nel 1970, con i Moti per Reggio capoluogo, hanno strumentalizzato la rivolta popolare in parallelo con l’estrema destra del golpista Junio Valerio Borghese (Fronte nazionale) e del fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Ma anche lì hanno saputo tirarsi indietro quando i finanziamenti statali sono piovuti su Reggio città e su Gioia Tauro per il centro siderurgico, poi diventato il porto. Dal febbraio 1994, il crimine calabrese tornerà sott’acqua per diventare in pochi anni l’organizzazione più ricca e potente del mondo. Che poi sia davvero ’ndrangheta è una questione nominalistica. Il boss Pasquale Condello “il Supremo”, al momento del suo arresto nel 2008 ha dichiarato: «Chiamatela come volete: ’ndrangheta, se siamo in Calabria. Ma se eravamo in Svezia si chiamava in un altro modo». E Giuseppe De Stefano, erede al 41 bis del clan reggino protagonista dei Moti e di due guerre da mille morti, ha affermato in udienza al processo Meta: «Noi non siamo ’ndrangheta». E non voleva dire: siamo pacifici cittadini. Intendeva: siamo ben altro, siamo molto di più.

Il caso dei carabinieri rimane chiuso dalla sentenza del 1998 fino al 2011, quando in Dna lavora come aggiunto Macrì, poi sostituito dall’altro reggino Alberto Cisterna. Macrì è il primo e forse il più acuto analista dei legami fra la ’ndrangheta e lo Stato. È lui a inquadrare la figura di Calabrò nel contesto dei legami fra la cosiddetta ’ndrangheta e gli apparati dello Stato. In questo ambito sta già prendendo forma l’intuizione investigativa di Donadio, anch’egli alla Dna, su “Faccia da mostro”, il poliziotto coinvolto nell’omicidio del collega Antonino Agostino. Prima delle ferie estive del 2012, l’aggiunto di Reggio Michele Prestipino manda in Dna un’informativa con una lettera anonima che inquadra gli assalti ai carabinieri del 1993-1994 in una riedizione dell’eterna strategia della tensione italiana. Il 18 settembre 2012 un ex compagno di cella di Calabrò dice che la lettera è del killer. L’11 ottobre Donadio interroga in carcere Villani che, alla fine di un colloquio senza sostanza, mentre il magistrato sta uscendo dalla stanza, lo ferma: «Dottore, non ve ne andate». E racconta i fatti allineandosi ai contenuti della lettera. Calabrò viene interrogato a Bollate il 27 novembre 2012. Esordisce dicendo a Donadio: «So perché mi avete contattato». Conferma il contenuto della lettera, ammette che è sua ma si blocca quando sente parlare dei De Stefano.

Un terzo collaboratore entra in scena. È Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni (14 dicembre 2012) sono fondamentali per identificare Faccia di mostro ossia il poliziotto Giovanni Aiello, che si gode la pensione dello Stato a Montauro Lido, poco a nord di Soverato. Il Nano dice fra l’altro di essere in contatto con il capocentro del Sismi (i servizi militari) Massimo Stellato e che Aiello gli è stato presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, uomo della Dia arrestato a dicembre del 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in secondo grado a 10 anni nel maggio del 2016 insieme a Luciano Lo Giudice, fratello di Nino il Nano. Consapevole del rischio che corre, Lo Giudice si dà malato al colloquio successivo, fissato prima di Natale, poi scrive alcuni memoriali dove calunnia Donadio, Cisterna, Prestipino, lo stesso procuratore capo del tempo Giuseppe Pignatone, e a giugno 2013 scompare dalla località delle Marche in cui vive sotto il programma di protezione. Il caos organizzato di Lo Giudice ottiene risultati notevoli. Il 6 settembre 2013, il nuovo procuratore capo della Dna, Francesco Roberti, entrato in carica da un mese, ritira le deleghe a Donadio che, sotto procedimento disciplinare, si trasferisce alla Commissione Moro. Ma l’indagine procede a Reggio con Cafiero e Lombardo che lavorano su un arco temporale molto ampio. I primi risultati si vedono nel 2016, quando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati come Matacena per concorso esterno, tornano in carcere con nuove accuse che non configurano un ne bis in idem. Lo stesso accade con il fascicolo sulle stragi dei carabinieri. Condannati gli esecutori materiali, l’inchiesta riparte dai mandanti e dai moventi reali, molto diversi dalle follie individuali di un pistolero. «Siamo stati manipolati», conclude il pentito Villani. Stavolta sono i traditori dentro lo Stato a tremare.

La 'ndrangheta stragista che voleva attaccare lo Stato. In carcere i boss Filippone e Graviano, mandanti dell'omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo. Quei delitti, svela la Dda, erano parte di una strategia mirata a destabilizzare l'Italia. Gli incontri con gli emissari di Riina e il sì dei clan al progetto di aggressione alla democrazia. Le rivelazioni "calabresi" di Spatuzza, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". Negli anni Novanta c’era un piano per destabilizzare l’Italia ma a portarlo avanti non è stata solo Cosa Nostra. Anche la ‘ndrangheta ha fatto la sua parte. Per questo motivo, questa mattina la Squadra Mobile di Reggio Calabria ha stretto le manette ai polsi di due elementi di spicco dei clan calabresi e siciliani. In carcere è finito Rocco Santo Filippone, elemento organico al potentissimo clan Piromalli di Gioia Tauro, ed è stata notificata una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere a Giuseppe Graviano, capomafia del mandamento di Brancaccio, Palermo. Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo della Dda di Reggio Calabria, sono loro i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo, trucidati nei pressi dello svincolo di Scilla il 18 gennaio 1994, e dei due agguati che nei giorni successivi sono quasi costati la vita ad altri quattro loro colleghi, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, feriti alla periferia sud di Reggio Calabria il 1 febbraio, e Vincenzo Pasqua e Salvo Ricciardo, rimasti miracolosamente illesi dopo l’attentato subito il 1 dicembre del ’93. Tutti delitti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore Lombardo insieme al sostituto della Dna, Francesco Curcio – che si inscrivono in una strategia di attacco allo Stato, che dopo i brutali attentati costati la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha continuato a mietere vittime anche fuori dalla Sicilia. E non solo a Firenze, Roma e Milano. C’è stata una tappa calabrese nella strategia degli “attentati continentali”, concordata dai vertici delle mafie tutte. Un piano funzionale alla costruzione dello Stato dei clan. Sono in corso di esecuzione anche numerose perquisizioni in diverse regioni d’Italia. Alle operazioni eseguite dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, dal Servizio Centrale Antiterrorismo e dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, partecipano anche i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella sala convegni della Questura di Reggio Calabria, alla presenza del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Franco Roberti dei magistrati inquirenti e degli investigatori. A oltre vent’anni di distanza dal brutale omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e dal ferimento rimasto senza perché dei loro quattro colleghi, si ricompone in un quadro inquietante quello che all’epoca fu considerato un delitto da balordi. Per arrivarci, i magistrati hanno ascoltato centinaia di boss, pentiti e non, hanno fatto sopralluoghi, cercato riscontri, incrociato informative. Perché fra le pieghe di indagini del passato, più di un’indicazione era già affiorata. Oggi però, tutti quegli elementi sparsi trovano unità in un quadro inquietante che tiene insieme le mafie tutte, pezzi deviati dei servizi, ambienti piduisti e galassia nera. Tutti responsabili – affermano i magistrati di Reggio Calabria – di aver tentato di sovvertire l’ordine repubblicano in Italia. Un piano che in Calabria è stato oggetto di almeno tre riunioni, la prima al villaggio turistico Sayonara di Nicotera, controllato dal clan Mancuso di Limbadi, legato a doppio filo al potentissimo casato mafioso dei Piromalli, le altre due a Oppido Mamertina. Al tavolo, c’erano i massimi esponenti dell’epoca della ‘ndrangheta calabrese e gli “emissari” siciliani di Totò Riina. Storicamente legato ai Piromalli, storico casato di ‘ndrangheta che vanta legami con la Sicilia fin dalle prime decadi del Novecento, il boss siciliano si era rivolto a loro per “convincere” i massimi vertici delle ‘ndrine ad aderire alla strategia degli attacchi continentali.

IL PROGETTO Questo tuttavia – emerge dall’indagine della Dda reggina – non era che un aspetto parziale di un piano ben più ampio e complesso, da maturare in più fasi, iniziato a maturare qualche anno prima. A svelarlo negli anni scorsi erano stati collaboratori di giustizia come Antonio Galliano e Pasquale Nucera, che avevano parlato ai magistrati del progetto delle mafie di «destabilizzare lo Stato». Un progetto cui la ‘ndrangheta non ha lavorato da sola.

«Parallelismo inquietante tra politica e strategia stragista». Il procuratore aggiunto di Reggio, Lombardo, durante la conferenza stampa sugli arresti di Filippone e Graviano. «Dopo la vittoria Forza Italia diventa il referente delle mafie». Curcio: «Vittime scelte perché simboli dello Stato». Roberti: «Con l’indagine si è aperto uno squarcio di verità importante per la giustizia, le vittime e la democrazia», scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". «Oggi collochiamo la ‘ndrangheta nel suo giusto ruolo». È soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. A poche ore dall’esecuzione dell’indagine “Ndrangheta stragista”, dalle sue parole traspare l’orgoglio per un’inchiesta complessa, da più parti osteggiata perché considerata “visionaria” o “romanzata” ma in cui tanto la Dda reggina, come la Procura nazionale antimafia, hanno sempre creduto. Un’inchiesta che oggi riscrive un pezzo della storia dell’Italia repubblicana. Non è vero, come per anni è stato da più parti sostenuto, che la ‘ndrangheta abbia detto no alle richieste di partecipazione alla strategia stragista. Al contrario, vi ha partecipato attivamente. E per una motivazione molto semplice. Quella lunga scia di sangue voleva essere prodromica a un mantenimento dell’influenza delle mafie tutte sullo scenario politico italiano. L’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e il tentato omicidio di altri quattro militari dell’Arma in quei tumultuosi anni Novanta dovevano essere un messaggio, o meglio parte di un messaggio. «Le vittime di quegli attentati non sono state scelte, al contrario di quanto successo in passato, perché avessero svolto una particolare indagine o avessero particolari meriti, ma perché - spiega il sostituto procuratore della Dna, Francesco Curcio - erano un simbolo dello Stato». E quello Stato, che all’epoca aveva il volto di una classe politica che proprio in quel momento cadeva sotto i colpi di Tangentopoli, per i clan era sempre stato “cosa loro”. E doveva continuare ad esserlo, nonostante i cambiamenti di facciata. «Uno degli aspetti più inquietanti di questa ricostruzione – dice al riguardo il procuratore aggiunto Lombardo - è la presenza di un parallelismo inquietante fra vicende politiche di quegli anni e strategia stragista». Le bombe e i morti degli anni delle stragi continentali, cui oggi si aggiungono anche gli attentati ai carabinieri in terra calabrese, non sono dunque stati semplicemente espressione della feroce reazione dei corleonesi all’arresto di Totò Riina. Per le mafie tutte – e questo è uno dei più importanti dati che emerge dall’inchiesta – erano funzionali ad un piano di lungo periodo. E che interessava tutti i clan che già da tempo avevano iniziato a parlarsi e a consorziarsi, soprattutto in territori di nuova colonizzazione come la Lombardia. Per non pestarsi i piedi vicendevolmente, lì i clan avevano iniziato a parlarsi. E in questo modo avevano capito di essere più forti insieme. Per questo, quando gli storici referenti istituzionali del loro dominio iniziano a venir meno è insieme che decidono di reagire. Si tratta di una strategia decisa ai massimi livelli. È stata definita in una serie di incontri, organizzati in Calabria e non solo, che hanno visto al tavolo i massimi vertici delle mafie. Ma soprattutto si tratta di una strategia che doveva rimanere segreta. Non a caso, molti di quegli omicidi e di quegli attentati sono stati firmati come “Falange armata”. E non a caso la base, i picciotti, i piccoli capi di ‘ndrangheta non ne hanno mai saputo nulla per scelta cosciente della direzione strategica dei clan. «La logica – spiega Lombardo - era quella di gestire un discorso di livello molto alto, dunque come aveva fatto Cosa Nostra, anche la ‘ndrangheta doveva mantenere il segreto su quale fosse stato il suo ruolo in quella stagione». Perché la “strage lenta” doveva rimanere segreta? In primo luogo, perché per essere efficace doveva provocare un diffuso sentimento di instabilità e paura, secondo perché solo in pochi, ben selezionati referenti dovevano essere in grado di cogliere la portata e il reale messaggio sotteso a quell’attacco. «Ci troviamo di fronte – dice Lombardo - a un’organizzazione criminale che tiene conto delle evoluzioni politiche, che aderisce prima ai movimenti autonomisti, fino alla riunione di Lamezia Terme del ’93, quindi abbandona il progetto autonomista nel momento in cui la nuova formazione politica, quindi Forza Italia diventa il referente di determinati ambienti e si avvia una stagione del tutto nuova». Gli attentati si fermano, in Italia torna la pace, le mafie sembrano ritirarsi in buon ordine. E non solo loro. Perché anche altri attori hanno partecipato alla strategia stragista. Per i magistrati, anche settori dei servizi di informazione un tempo legati a Gladio e al piano Stay behind, ben conosciuti e comodi in ambiente piduista, nei tumultuosi anni Novanta stavano vedendo crollare le fondamenta del loro potere. Il blocco sovietico si stava liquefacendo, gli assetti internazionali stavano cambiando, dunque anche le condizioni alla base del loro straordinario potere. Per questo, si ipotizza nell’inchiesta della Dda reggina, anche loro, insieme alla galassia dell’eversione nera con cui hanno sempre avuto contatti, hanno avuto interesse a lavorare con le mafie alla strategia di destabilizzazione. A rivelarlo non sono soltanto innumerevoli collaboratori che hanno presenziato agli incontri fra uomini dei clan e agenti dei servizi, ma anche la stessa sigla Falange armata. Presa in prestito forse dalla falange di franchista memoria. «Quando abbiamo chiesto ad un collaboratore che aveva partecipato all’omicidio Mormile se sapesse il significato della parola Falange, se il suo capo Domenico Papalia, glielo avesse spiegato – ricorda Curcio - lui ci ha risposto “mi hanno detto di rivendicare così”. Attraverso una serie di ulteriori dichiarazioni, abbiamo scoperto che risultano contatti fra questo Domenico Papalia con soggetti appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca». E non isolati ad un unico caso o un unico omicidio. La conferma viene dall’interno degli stessi apparati di intelligence. «Una straordinaria conferma è arrivata dall’ambasciatore Fulci, capo del Cesis proprio in quel periodo storico, minacciato dalla Falange Armata – spiega al riguardo il sostituto procuratore della Dna - Lui si convinse che queste minacce provenissero proprio dall’interno dei servizi. Per questo il tema di ulteriori indagini dovrà essere proprio questo: individuare i soggetti che si sono incontrati con esponenti della criminalità organizzata, quanto meno per suggerire strategie». Ma non è l’unico filone che i magistrati intendono seguire. «Con quest’indagine – dice il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti – è stato aperto uno squarcio estremamente importante di verità ed è estremamente importante per la giustizia, per le vittime e per tutto il nostro Paese e gli assetti democratici del nostro Paese. Fare chiarezza continuerà ad essere nostro obiettivo e nostro dovere anche in riferimento ad altre vicende che sono oggi oggetto di indagine e che si iscrivono in quella stagione, come l’omicidio del collega Scopelliti». Per il procuratore capo della Dna «fu ucciso in prevenzione, come alcuni anni prima era stato ucciso il collega Saetta». Tutti tasselli – promette – «che vanno anche oltre la stagione stragista e si vanno componendo».

Perquisizione per Bruno Contrada. Il provvedimento rientra nell'inchiesta della Procura di Reggio Calabria sugli attentati ai carabinieri Fava e Garofalo. Per l'ex numero due del Sisde la Cassazione aveva revocato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, "Il Corriere della Calabria". La Procura di Reggio Calabria ha disposto una perquisizione in casa di Bruno Contrada, ex numero 2 del Sisde condannato per concorso in associazione mafiosa per cui, nelle scorse settimane, la Cassazione aveva revocato la condanna. La perquisizione rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla. Nelle oltre mille pagine di ordinanza di custodia cautelare, non appaiono rifermenti diretti all’ex numero 2 del Sismi. Ma il suo nome c’è ed è legato a quello di Giovanni Pantaleone Aiello, ex agente della Squadra Mobile di Palermo «legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati». Di Aiello hanno parlato dopo anni di esitazione per serio timore di ritorsioni i collaboratori di giustizia Nino Lo Giudice, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani. «Lo Giudice era preoccupato non di un fantasma, ma di un soggetto (e di tutti i collegamenti che a questo facevano capo) in carne ed ossa che lui ben conosceva la cui pericolosità, evidentemente, considerava ben maggiore di quella di tutti gli altri soggetti (che non erano propriamente delle mammole) che, fino a quel momento, aveva chiamato in correità». Per il collaboratore - si legge nelle carte - Aiello «risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate». L’ex agente – indagato e perquisito nell'ambito di questo procedimento – è stato indicato da Villani e Lo Giudice come “Il mostro”, uomo legato ad ambienti dei servizi che avrebbe avuto un ruolo in una serie di fatti di sangue. 

A caccia di prove in casa Contrada. Controlli e misteri: esito negativo, scrive di Riccardo Lo Verso Mercoledì 26 Luglio 2017 su "Live Sicilia". I poliziotti della Squadra mobile di Reggio Calabria sono piombati a casa palermitana di Bruno Contrada nel cuore della notte. Quaranta minuti dopo le quattro. A caccia della prova dei rapporti oscuri fra l'ex poliziotto e Giovanni Aiello, soprannominato "faccia da mostro" per la profonda cicatrice che ne deturpa il viso. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello, oggi in pensione, presenza costante nei misteri d'Italia, avrebbe convinto l'ex carabiniere Saverio Tracuzzi Spadaro a mentire ai pm sul suo rapporto con Aiello e sul ruolo del poliziotto nelle file della 'Ndrangheta. La perquisizione a casa Contrada, che ha avuto esito negativo, rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. Diversi i punti che hanno condotto i pm fino a casa dell'ex numero tre del Sisde a cui la Cassazione ha di recente revocato gli effetti della condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Contrada è risultato in contatto con l'ex agente di polizia Guido Paolilli che lo aveva chiamato per commentare le sue dichiarazioni ai pm su Aiello. Sia "faccia da mostro" che Paolilli sono stati indagati a Palermo per l'omicidio dell'agente Nino Agostino, ucciso insieme alla moglie nel 1989. Per Paolilli, che rispondeva di favoreggiamento, la Procura chiese ed ottenne l'archiviazione. Fu uno dei primi a indagare sul delitto Agostino, privilegiando la pista passionale. Aiello, accusato di omicidio, è ancora indagato dopo l'avocazione del fascicolo da parte della procura generale, decisa dopo diverse richieste di archiviazione da parte dei pm di Palermo. Contrada viene indicato dai magistrati reggini come la persone “più strettamente legata ad Aiello nella polizia di Stato”. Fonte dell'informazione sarebbe "una persona pienamente attendibile che non si nomina per evidenti motivi di cautela processuale". In passato è stato il pentito Nino Lo Giudice, detto il nano, a raccontare che Aiello gli fu presentato dal capitano Tracuzzi della Dia, condannato in appello a 10 anni perché considerato colluso con la 'Ndrangheta. Lo Giudice aggiunse che Aiello schiacciò il telecomando che innescò l'esplosione per la strage di via D'Amelio, e di avere saputo dallo stesso Aiello del suo ruolo nell'omicidio di Agostino e della moglie. Solo che quando iniziò a riferirlo ai magistrati sarebbe stato minacciato dagli uomini dei servizi segreti. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, l’avv. Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla.

L’attacco allo Stato di ‘ndrangheta e mafia siciliana, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". Un progetto mafioso e terroristico, per attentare al cuore dello Stato, colpendo una delle istituzioni più amate, l'Arma dei Carabinieri. Un progetto messo in piedi da 'ndrangheta e mafia siciliana, con l'inquietante collaborazione di pezzi dello Stato: la Procura di Reggio Calabria prova a riscrivere la storia d'Italia, partendo dagli attentati tre attentati compiuti in danno dei Carabinieri di Reggio Calabria, in cui persero la vita, il 18 gennaio 1994, gli Appuntati Antonino Fava Fava e Giuseppe Garofalo; rimasero gravemente feriti, l'1 febbraio 1994, l'Appuntato Bartolomeo Musicò e il Brigadiere Salvatore Serra e rimasero miracolosamente illesi, l'1 dicembre 1994, il Carabiniere Vincenzo Pasqua e l'Appuntato Silvio Ricciardo. Due i mandanti, il boss siciliano, Giuseppe Graviano, e Rocco Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, con importanti collegamenti con la potente famiglia Piromalli. Omicidi e tentati omicidi che si inquadrano negli anni della strategia stragista portata avanti da Cosa Nostra, ma che ora vede anche la 'ndrangheta grande protagonista: un progetto eversivo, che infatti spinge la Procura retta da Federico Cafiero De Raho a contestare anche l'aggravante terroristica, oltre a quella mafiosa. La Dda di Reggio Calabria ha ricostruito – attraverso l'apporto di nuovi e fondamentali elementi raccordati e collegati tra loro – le causali degli attentati ai carabinieri, ma, soprattutto, matrici e scopi sottesi a tali delitti, che vanno a collocarsi nel contesto della strategia stragista nei primi anni '90 messa in atto dalle mafie, con il coinvolgimento oscuro e inquietante di schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2, ancora in cerca di rivincite nonostante l'ufficiale scioglimento nel 1982. Costanti e inquietanti i riferimenti investigativi alla figura del Venerabile Licio Gelli. A spingere gli inquirenti, il procuratore Federico Cafiero De Raho, l'aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto Antonio De Bernardo, nonché il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, e il sostituto della DNA, Francesco Curcio, sulla matrice unica e sul disegno volto in parte a destabilizzare e in parte a conservare lo status quo, una serie di caratteristiche comuni sui tre delitti, a cominciare dall'utilizzo dell'arma, un mitra M12. Si sarebbe trattato, dunque, di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione sarebbe maturata non all'interno delle cosche di 'ndrangheta, ma si sarebbe sviluppata attraverso la sinergia, la collaborazione e l'intesa di organizzazioni criminali, come Cosa Nostra e 'ndrangheta. Sulla scorta delle dichiarazioni di decine di collaboratori di giustizia, gli inquirenti avrebbero scoperto come numerose riunioni – quasi tutte nella zona tirrenica della provincia di Reggio Calabria – avessero ad oggetto l'inquietante joint venture tra le due mafie: a fare da collante, Rocco Santo Filippone, nonché Giuseppe Graviano, che con la sua famiglia ha avuto negli anni il compito di saldare legami e alleanze con i calabresi. Così, dunque, le mafie volevano partecipare a una vera e propria opera di ristrutturazione egli equilibri di potere sul territorio nazionale: e tale strategia appariva condivisa da pezzi deviati dello Stato, in contatto con il piduismo. Sul punto le indagini hanno evidenziato come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie sarebbe da far risalire a oscuri suggeritori appartenenti ai servizi segreti e, comunque, alla massoneria deviata. Il disegno terroristico mafioso era, dunque, servente rispetto ad una finalità "più alta", che prevedeva la sostituzione di una vecchia ed inaffidabile classe politica con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Si stava attraversando un periodo di grandi cambiamenti a livello nazionale (ma anche internazionale) di natura storica e politica, in cui tutte le organizzazioni criminali, dopo il tramonto della c.d. "prima Repubblica", intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando. Al culmine della strategia stragista del '93, a partire dal mese di settembre, e quindi in epoca immediatamente successiva agli altri attentati posti in essere nel continente (Roma, Firenze e Milano), era stata organizzata una strage di proporzioni immani facendo saltare in aria alcuni pullman dei Carabinieri in servizio a Roma allo stadio Olimpico in una delle tante domeniche calcistiche particolarmente affollate, attentato che doveva essere eseguito nella terza decade del Gennaio 1994 e che falliva soltanto per un guasto tecnico al telecomando che avrebbe dovuto innescare l'ordigno. Ad aprire squarci di luce agli inquirenti, un atto di impulso della Procura Nazionale Antimafia, che segnala alla Procura di Cafiero De Raho le dichiarazioni del collaboratore di giustizia siciliano, Gaspare Spatuzza, già capo mandamento di Brancaccio, il quale ha vissuto dall'interno ed in modo completo tutta la vicenda delle stragi del '93 e del '94, dai progetti condivisi ai momenti esecutivi. Da qui il lavoro di raccolta delle dichiarazioni di altri pentiti – alcune in parte già note, altre riattualizzate – e la costruzione dell'impianto investigativo, inquietante e affascinante, quanto, secondo gli inquirenti, solido. E subito, davanti agli occhi dei magistrati, appare come la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della 'ndrangheta tirrenica - d'intesa con esponenti reggini - diedero assicurazione ai Corleonesi, rappresentati da Graviano - di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone individuarono nel giovane Giuseppe Calabrò (nipote di Rocco Santo Filippone, poiché figlio della sorella Marina), l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, in quanto egli, dotato di una eccezionale preparazione militare ed una straordinaria dimestichezza con le armi, era privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale. Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (già condannati definitivamente come autori materiali dell'omicidio di Fava e Garofalo) vennero poi aizzati a scatenare la strategia di attacco contro i Carabinieri dal defunto Demetrio Lo Giudice classe 1937, emissario della cosca Libri per il quartiere Reggio Campi di Reggio Calabria che fece crescere da un punto di vista militare e criminale Calabrò e che infine lo spinse ad eseguire i delitti oggi contestati; tale dato risulta coerente in relazione alla posizione assunta dalle cosche di 'Ndrangheta di cui Filippone e Lo Giudice erano, all'epoca, eminenti rappresentanti (vale a dire quella dei Piromalli-Molè-Pesce, il primo e dei De Stefano-Libri-Tegano il secondo ) che, non a caso, erano le famiglie di 'ndrangheta che, all'epoca, avevano manifestato maggiore apertura nell'appoggio a Cosa Nostra nella strategia stragista. Un soggetto importante, Filippone, la cui figura è stata per anni sottovalutata e, con ogni probabilità coperta, anche dalla magistratura calabrese. E' lui l'uomo che salda i rapporti con Cosa Nostra: così dunque, si può affermare che mafia siciliana e 'ndrangheta non siano unite solo da progetti di natura economica, ma anche da progetti di natura politica, attraverso spinte autonomistiche, non solo in Sicilia, ma, ancor prima, in Calabria. Un'indagine su tre gravissimi fatti di sangue, tre complessi attentati alle istituzioni democratiche, che, quindi, apre scenari inquietanti almeno sugli ultimi 30 anni di storia d'Italia: la 'ndrangheta emerge non solo perché era in stretti rapporti con Cosa Nostra, ma in quanto risultava particolarmente inserita in quei rapporti con la destra eversiva e la massoneria occulta, proprio in quel periodo stragista in cui entrambe le organizzazioni (Cosa Nostra e 'Ndrangheta) sostennero il disegno federalista attraverso le leghe meridionali. "Oggi ricollochiamo la 'ndrangheta nel suo giusto ruolo" dicono gli inquirenti, che sottolineano inquietanti parallelismo tra le vicende politiche di quegli anni (nel 1994 verrà fondata Forza Italia) e la strategia stragista. Il partito di Silvio Berlusconi sarebbe così divenuto il referente di determinati ambienti, con l'abbandono del progetto autonomista. A tal proposito, nella complessiva ricostruzione dei fatti, assume inoltre particolare rilievo la vicenda della riunione intermafiosa di Nicotera Marina (VV), avvenuta dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, svolta all'interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (VV), come noto legatissima a quella dei PiromallI che aveva come tema proprio la questione stragista: non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, ciò a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta. Un'inchiesta che svela i contatti stabili tra le due organizzazioni, l'esistenza di componenti elevate e occulte e che si innesta nella seconda fase delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Consolato Villani e Nino Lo Giudice: questi, infatti, scompare dalla località protetta in cui si trovata (per poi essere catturato nuovamente dopo qualche mese) quando Villani inizia a parlare dei mandanti degli attentati ai carabinieri. Entrambi collaboratori, non avevano avuto il coraggio di rivelare i meccanismi in cui erano stati inseriti negli anni '90. Lo Giudice sparisce quando la parte più importante della sua carriera criminale sta per essere scoperta. "Perché, a distanza di 25 anni dalle stragi esistono ancora zone d'ombra?" si chiede il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Perché, come spiegano gli inquirenti, l'attenzione ora è posta sulle connivenze istituzionali, su agenti segreti infedeli, massoni che hanno controllato e controllano fette consistenti dell'Italia.

E il ruolo di Reggio Calabria e della 'ndrangheta ora, finalmente, appare per quello che è sempre stato: cuore pulsante di alcune delle vicende più oscure d'Italia.

Patto 'ndrangheta-mafia, il summit a Nicotera Marina dopo la morte di Falcone e Borsellino, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". Esponenti di Cosa Nostra e 'ndrangheta si incontrarono in Calabria dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo affermano i magistrati della Dda di Reggio Calabria, negli atti relativi all'operazione "'Ndrangheta stragista" di oggi. Il summit si tenne a Nicotera Marina (Vv), a all'interno del villaggio turistico "Sayonara", controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (Vv), legata a quella dei Piromalli, egemone nella piana di Gioia Tauro (Rc). Al centro dell'incontro, la strategia stragista inaugurata dai siciliani. Per interloquire con Cosa Nostra furono chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, "cio' - secondo la Procura antimafia - a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta". Sarebbe stato l'allora capo indiscusso della mafia siciliana, Salvatore Riina, il promotore della richiesta alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia di Cosa Nostra, con l'individuazione degli obiettivi istituzionali da colpire. Altre riunioni si sarebbero svolte nella zona del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta (Rosarno, Oppido Mamertina, Melicucco), in ambiti territoriali sottoposti alla giurisdizione criminale dei Mancuso, dei Piromalli, dei Pesce e dei Mammoliti. Cosa Nostra, ipotizzano i magistrati, aveva indirizzato proprio ai Piromalli/Molè, con i quali i rapporti erano strettissimi, la richiesta di promuovere gli incontri "in vista di una adesione generalizzata della 'ndrangheta alla strategia stragista che Cosa Nostra aveva deciso di intraprendere". Diversi collaboratori di giustizia, aderenti alle varie cosche di 'ndrangheta, avrebbero raccontato delle riunioni. Alle loro dichiarazioni la Squadra Mobile avrebbe cercato riscontro attraverso intercettazioni telefoniche, ambientali e di altra natura. (AGI)

Il patto 'ndrangheta-mafia: le strategie eversive e i "suggeritori" istituzionali, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". C'era un vero e proprio patto eversivo, suggellato da esponenti di Cosa Nostra e della 'ndrangheta reggina nel corso di diversi summit, dietro agli attentati subiti in Calabria dall'arma dei Carabinieri, costati la vita a due militari, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi a colpi di mitra il 18 gennaio 1994 lungo l'autostrada A3 nel tratto Bagnara-Scilla, nel Reggino, ed il ferimento di altri quattro militari. Queste le conclusioni a cui è' giunta la Dda di Reggio Calabria che stamani ha emesso due provvedimenti restrittivi a carico di due esponenti di spicco delle mafie calabresi e siciliana: Rocco Santo Filippone, 73 anni, di Anoia (RC), considerato capo del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta all'epoca degli attentati ai Carabinieri, e Giuseppe Graviano, 54 anni, palermitano, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, coordinatore riconosciuto con sentenze definitive delle cosiddette stragi "continentali" eseguite da Cosa Nostra. Graviano era già detenuto nel carcere di Terni. Gli omicidi e i tentati omicidi, commessi nella stagione degli attacchi mafiosi allo Stato, sarebbero, secondo la Dda reggina, aggravati dalle circostanze dalla premeditazione, in quanto pianificate nell'ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista "ideato, voluto ed attuato - scrivono gli inquirenti - dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e 'Ndrangheta". Gli inquirenti ravvisano anche finalità di terrorismo e di eversione dell'ordinamento democratico, perchè Cosa Nostra e 'ndrangheta intendevano costringere lo stato italiano a rendere meno rigorose sia la legislazione che le misure antimafia, ma soprattutto puntavano alla sostituzione della vecchia classe politica, ormai giudicata inaffidabile, con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Dunque, dopo il tramonto della "prima Repubblica", i boss mafiosi intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica "proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando". Secondo la ricostruzione dei magistrati, elementi importanti della 'ndrangheta tirrenica, d'intesa con esponenti reggini, diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Queste componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone avrebbero individuato nel giovane Giuseppe Calabrò, nipote di Rocco Santo Filippone, l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, essendo dotato di un'eccezionale preparazione militare e di una straordinaria dimestichezza con le armi, ma anche perchè era, nelle valutazioni della Dda, "privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale". Filippone e Graziano sono accusati di essere i mandanti, in concorso fra loro e con Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (entrambi già condannati in via definitiva come esecutori di dei delitti) e Demetrio lo Giudice, detto Mimmo, del tentato omicidio ai danni dei carabinieri Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo, commesso in località Saracinello di Reggio Calabria nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1993; dell'omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e del tentato omicidio di altri due militari dell'Arma, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, contro i quali furono sparati numerosi colpi utilizzando un mitra M12 ed un fucile calibro 12. Serra e Musicò rimasero feriti gravemente. Serra rispose al fuoco con l'arma d' ordinanza. Anche quest'ultimo attentato avvenne a Reggio Calabria, in località Saracinello, il primo febbraio 1994. I tre attacchi all'Arma, si sottolinea negli atti dell'inchiesta, presentavano caratteristiche comuni. In primo luogo perchè furono compiuti nella cintura periferica di Reggio Calabria, ma anche perchè, in tutti gli episodi, era stata usata la stessa arma automatica (un mitra M 12), ai danni di pattuglie automontate, che, di notte, erano impegnate in normali turni di controllo del territorio. Sullo sfondo del patto stragista stretto da Cosa Nostra e 'ndrangheta negli anni '90 "appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate a loro volta collegate a settori del piduismo ancora in cerca di rivincita". Lo scrive la Dda di Reggio Calabria negli atti relativi all'inchiesta "'Ndrangheta stragista" nell'ambito della quale la Polizia ha notificato oggi due ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di un boss della 'ndrangheta e di uno, già detenuto, della mafia. L'uccisione di due militari dell'Arma sull'autostrada A3 nel gennaio del 1994 ed il ferimento di altri militari sempre in Calabria, dunque, "vanno a collocarsi - scrivono i magistrati reggini - nel contesto della strategia stragista che ha insanguinato il Paese nei primi anni 90' e in particolare in quella stagione definita delle "stragi continentali". Secondo l'impostazione accusatoria, l'obiettivo strategico delle azioni contro i Carabinieri, al pari di quello degli altri episodi stragisti verificatisi nel Paese, "era rappresentato dalla necessità, per le mafie, di partecipare a quella complessiva opera di vera e propria ristrutturazione degli equilibri di potere in atto in quegli anni. E tale strategia - secondo gli inquirenti - appariva condivisa, da schegge di istituzioni deviate, da individuarsi in soggetti collegati a servizi d'informazione che ancora all'epoca mantenevano contatti con il piduismo". Dalle indagini sarebbe emerso come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie, fra cui quelli per cui è stata emessa l'ordinanza eseguita oggi, "è da farsi risalire a suggeritori da individuarsi in termini di elevatissima gravità indiziaria, in appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca, nei cui confronti, comunque, le indagini proseguiranno". (AGI)

L'accorduni tra 'ndrangheta e Cosa Nostra: attacco coordinato per le stragi degli anni '90, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". "Cade in maniera netta l'assunto secondo cui la 'ndrangheta, o cosche di primo piano di essa, sia stata totalmente estranea alla svolta stragista impressa da Cosa nostra negli anni '90. Molti aspetti di queste torbide vicende saranno chiariti". É quanto si apprende in ambienti investigativi che hanno coordinato l'inchiesta che ha portato all'arresto di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano. Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza hanno avuto l'effetto di un colpo di maglio su oltre venti anni di storia criminale da cui la 'ndrangheta emerge come "alleato" affidabile di Cosa nostra "nell'attacco coordinato allo Stato ed alle sue istituzioni più rappresentative, come l'Arma dei Carabinieri". Gli inquirenti parlano senza mezzi termini di "progetto di disarticolazione della democrazia e delle istituzioni", in un quadro politico, come quello degli anni '90, caratterizzato dall'instabilità istituzionale e dalla chiusura della Prima Repubblica. "Sfuma così il tentativo - dicono gli inquirenti - di depotenziare le responsabilità della 'ndrangheta, per come raccontato finora, a seguito del rifiuto del boss Giuseppe De Stefano agli emissari di Cosa nostra negli anni '90 durante un incontro nella zona di Nicotera, che avrebbe sancito la contrarietà della 'ndrangheta alle stragi. E invece l'accorduni prese corpo proprio con gli autori dell'assassinio di don Pino Puglisi, ucciso dai Graviano a Brancaccio perché 'disturbava' taluni equilibri e complicità in quel quartiere di Palermo". Nel mosaico ricostruito dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria appaiono anche molti spunti di indagine chiuse frettolosamente negli anni '70 e negli anni '80, omicidi e intimidazioni contro personaggi pubblici che alla luce di quanto sta emergendo troverebbero una diversa valutazione, un filo di interessi economici e di potere tra parti deviate di istituzioni, estremismo di destra e, appunto, la 'ndrangheta.

Sinergie sempre più forti all’ombra della massomafia. La stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione. Il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta vertiginosamente con il crescente astensionismo. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”, scrive Paolo Pollichieni, Sabato 15 Luglio 2017, su "Il Corriere della Calabria". Funziona e regge. In una Calabria che si presenta devastata nel suo reticolo produttivo e ridotta a mal partito in quanto a rappresentanza politica, funziona e regge, anzi conosce una stagione di grande prosperità, quell’area che ha ormai smesso di essere “grigia” per diventare organica alla ‘ndrangheta nella gestione del territorio. Funziona e regge, in sostanza, quella camera di compensazione allestita al riparo da logge massoniche spurie dove potere criminale e potere politico si incontrano ed elaborano strategie tese al consolidamento del loro potere. Funziona e regge, quel modello criminale che affonda le radici già nelle cronache della prima indagine sulla massoneria deviata, quella di Agostino Cordova. Modello che ricompare sull’asse Lamezia-Vibo dieci anni più tardi, con la stagione delle “leghe” come veicolo per il traghettamento verso la seconda repubblica. Modello cristallizzato nell’indagine reggina denominata “Olimpia”, alla quale lavorarono Macrì e Mollace, Cisterna e Pennisi, Verzera e Di Palma. Carte oggi riscoperte e rivisitate ma che hanno stroncato più di una carriera e “mascheriato” più di un magistrato inquirente. Oggi quel “modello criminale” appare scolpito e scontornato nelle indagini di una magistratura meno aggredibile che, in uno con una polizia giudiziaria più autonoma, ci consegna una serie di indagini che a Vibo come a Lamezia, a Crotone come a Locri, a Gioia Tauro come a Reggio Calabria, evidenziano sempre più come la stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione e della sinergia criminale. Ci sarebbe materia per una riflessione attenta da parte di quel che rimane in Calabria di un ceto politico non cooptabile da parte della ‘ndrangheta. Anche il crollo della partecipazione democratica conosciuto in queste ultime tornate elettorali, oggi, si appalesa come funzionale agli interessi della massomafia: il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta di peso vertiginosamente in presenza di un altrettanto vertiginoso calo delle percentuali dei votanti. C’è questa voglia di riflettere da parte di quel che resta della Politica con la P maiuscola, in Calabria? Dobbiamo imporci di crederlo. Anche quando ti trovi a sbattere contro vicende come quelle reggine, dove l’isolamento di un assessore viene motivato con la sua irriducibilità davanti all’applicazione della legge. Anche quando devi prendere atto che la transumanza delle baronie politiche, lungi dall’essere bandita, diventa oggetto di adulazione da parte delle segreterie regionali più blasonate. Anche quando la sottovalutazione regna sovrana nella mente di chi fa incetta di deleghe e potere ritenendo che sigillare significa decidere. È questo lo scenario che abbiamo davanti in Calabria. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”; le indagini in corso, e quelle che arriveranno, possono creare la precondizione per ripulire la casa e renderla agibile ma sono ben altri i soggetti che debbono incaricarsi di evitare che venga nuovamente sporcata sino all’inagibilità. Non lo si otterrà nominando qualche magistrato in pensione al vertice della Stazione unica appaltante. Questo semmai è il segno di un senile ricorso all’imbellettamento. Serve lasciar spazio alle energie migliori e nella misura in cui questo si cercherà di fare chiaramente lo spazio selettivo si restringe. Fino a fare apparire asfittici i confini dettati dalla militanza storica in questo o quel movimento politico. È tutta qui la vera lotta alla ‘ndrangheta ed è tutta qui la battaglia per il cambiamento.  Le cosche sono attrezzate per sostenerla. Gratteri lo ha ripetuto anche di recente: investono meno in armi e più in settori di controllo sociale. Dai media alla clientela, dall’imprenditoria al controllo del consenso. Figurarsi che investono anche in “antimafia”.

Massoneria, coop rosse e consulenze: su cosa indaga Catanzaro. Gli incroci con Consip sono solo una piccola parte delle inchieste in corso. E riguardano gli affari della “Sviluppo srl” e di Rocco Borgia. Nel mirino di due Procure i legami con Cmc e aziende in procinto di chiudere affari con Regione, Anas e Sorical, scrive Martedì, 25 Luglio 2017 Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria". Rocco Borgia è un distinto signore, i suoi 74 anni li porta che è uno splendore. Merito, assicura ai suoi potenti amici, della “dieta calabrese” alla quale resta fortemente fedele, pur avendo lasciato la natia Melicucco da molti decenni. Oggi, infatti, vive a Roma, si definisce imprenditore e non fa mistero del suo alto grado in massoneria. Rimosso, invece, il suo passato da militante del vecchio Partito comunista italiano. È un maniaco della riservatezza, il che però non lo ha salvato da continue apparizioni nelle cronache giudiziarie del nostro Paese. L’ultima lo vede, nel febbraio scorso, perquisito nell’ambito delle indagini sulla Consip e sugli appalti da destinare al “Gruppo Romeo”. Una perquisizione giustificata dal fatto che gli inquirenti messi alle calcagna di Alfredo Romeo lo fotografano mentre va a pranzo con i vertici dell’Inps e poi a colloquio con il tesoriere del Pd, al Nazareno. In Calabria due Procure si occupano di lui ed entrambe seguendo il filo della cosiddetta “massomafia”, una “supercupola” che si incarica di mediare affari miliardari selezionando la classe dirigente locale, utilizzando le cosche per il controllo del territorio, garantendo i patti con le maggiori imprese nazionali. Anche nel nuovo assetto delle logge calabresi e nel voto per il rinnovo dei vertici nazionali, la “massomafia” avrebbe avuto un ruolo di primo piano. Così, nel 2015, quando una “cooperativa rossa” affidataria di lucrosi appalti pubblici sull’asse Catanzaro-Cosenza deve scegliersi un “ambasciatore” che poi garantisca gli accordi, avrebbe puntato proprio su Rocco Borgia. Vero? Falso? È quanto stanno cercando di chiarire le indagini delle procure distrettuali di Reggio Calabria e di Catanzaro. Quel che appare accertato è che la ingombrante figura del massone Rocco Borgia spacca la sinistra italiana. Il suo nome, infatti, figura in due articolate e durissime interrogazioni parlamentari. La prima risale alla scorsa legislatura e vede come primo firmatario Elio Lannutti. Siccome rimase senza risposta, ecco che viene riproposta nell’attuale legislatura, prima firmataria Laura Castelli. Gli interroganti chiedono lumi sul ruolo avuto dal Borgia alla guida di una missione italiana in Somalia. In particolare chiedono al ministro degli Esteri chi aveva accreditato il Borgia nella Ong italiana Cins. Chiedono anche di sapere se «l’alter ego apicale nel Cins, tale Umberto Santich sia lo stesso Santich sotto processo a Roma per lo scandalo che costò il posto al capo di Finmeccanica Orsi». Infine intendono sapere se i due, Borgia e Santich, fossero consulenti della Farnesina. Il nostro ministero degli Esteri rispondere che in effetti Umberto Santich lo è stato e anche Rocco Borgia, aggiungendo però che «Rocco Borgia era tra i rinviati a giudizio per reati di cui agli articoli 54, 110 e 640bis del codice penale per truffa ai danni del ministero degli Esteri».

In Calabria, a radicare attenzioni e competenze delle locali Procure, opererebbe oggi la “Sviluppo Srl”, in cui il Borgia, pur non comparendo come socio, avrebbe consolidati interessi, utilizzandola anche per una serie di sinergie con le “cooperative rosse”. In questo contesto è proprio l’indagine delle Procure calabresi a dar manforte all’inchiesta Consip, per un motivo molto semplice: dimostrerebbe un rapporto stretto tra Rocco Borgia e la Cmc, al punto da curarne le proiezioni e gli interessi in Calabria. La Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, è un colosso della cooperazione rossa e in Calabria costruisce di tutto. Alfredo Romeo teme che il nuovo assetto ai vertici dell’Inps possa nuocergli. Ne coglie le prime avvisaglie anche rispetto a interessi che la sua azienda ha nella gestione del patrimonio immobiliare dell’Inps in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Lazio. Lo dice chiaramente l’imprenditore amico di Tiziano Renzi, Francesco Russo mentre parla con il Romeo: «A me mi stanno martellando, sono quelli di Cmc, incontrali, incontrali, incontrali». E lui per “incontrarli” si rivolge a Rocco Borgia concordando con lui una lauta consulenza attraverso, appunto, la Sviluppo Srl. Chiacchiere? Non pare proprio, visto che nelle perquisizioni condotte salta fuori una fattura intestata a Sviluppo Srl di 24.400 euro, versati dalla Romeo Gestioni in un conto corrente acceso presso la Banca Popolare di Bari, per «attività di consulenza e assistenza in merito a possibilità di sviluppo commerciale e partenariato in materia di efficentamento energetico». Identica dizione e identica casuale di altre “consulenze” che le inchieste calabresi troveranno nel corso delle loro indagini. Ovviamente cambiano i contraenti, non più la “Romeo Gestioni” ma altre aziende in procinto di concludere affari con la pubblica amministrazione e in particolare con Anas, Sorical e Regione Calabria. Da ultimo, la Guardia di finanza, nel sequestrare un parco eolico da 300 milioni di euro in quel di Isola Capo Rizzuto, perché riconducibile al clan ‘ndranghetistico degli Arena, rinviene e cataloga altre “consulenze” riconducibili alla Sviluppo Srl. Comprensibile la furiosa reazione del procuratore distrettuale Nicola Gratteri davanti a una “fuga di notizie” che appare solo artatamente giustificata con le inchieste dei carabinieri del Noe sulla Consip e sugli amici, veri e presunti, di Babbo Renzi. 

Omicidio Mormile, "Umberto ucciso dalla ‘ndrangheta con il nulla osta dei servizi segreti", scrive Antonella Beccaria il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia”. A parlare è Vittorio Foschini, ‘ndranghetista pentito che il 26 aprile 2015 ha detto anche altro: Mormile sapeva di un patto tra criminalità organizzata calabrese e servizi segreti. L’educatore carcerario lo disse chiaramente: “Io non sono dei servizi”, quando gli venne chiesto un favore per il boss Domenico Papalia, e per questo – anche per questo – morì. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile”, spiega infatti Foschini.

Vediamo di capire meglio. Umberto Mormile, 37 anni, era un educatore in servizio nel carcere di Opera dopo essere stato a Parma. Fu ammazzato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, mentre andava al lavoro. Gli furono sparati sei colpi di 38 specialesplosi da un’Honda 600 che aveva affiancato la sua Alfa 33. L’omicidio venne rivendicato dalla Falange Armata – Falange Armata Carceraria, per la precisione – sigla che esordì proprio con questo delitto (e sul punto torneremo). In via definitiva per l’omicidio Mormile sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Nel corso del processo, la memoria dell’educatore carcerario fu sporcata da insinuazioni secondo cui avrebbe avuto una “condotta non specchiata” e troppo propensa a prestare favori ai boss detenuti, sia a Parma che a Opera. Falso, tanto che già nella stessa sentenza di condanna non lo si dava per certo, non c’erano elementi per sostenerlo. Perché tornare a parlare adesso di tutto questo? Per due ragioni. La prima è che il 19 luglio scorso, sul palco allestito a Palermo, in via D’Amelio, per la commemorazione della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino 25 anni fa, sono saliti per la prima volta Stefano e Nunzia Mormile, fratelli di Umberto. Insieme ad Armida Miserere, la direttrice di carcere legata sentimentalmente all’educatore assassinato e morta suicida a Sulmona il 19 aprile 2003, i fratelli hanno portato avanti per anni ricerche in proprio e sono giunti a una conclusione: Umberto fu assassinato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e amministrazione penitenziaria per entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis, il regime di carcere duro. Stefano e Nunzia Mormile lo hanno ripetuto pubblicamente pochi giorni fa in via D’Amelio e lo hanno fatto in modo tanto vigoroso da essere stati avvicinati da Nino Di Matteo, il pm palermitano oggi alla Direzione nazionale antimafia. La seconda ragione per cui tornare a parlare di Umberto Mormile si lega alla prima, l’esistenza di un antesignano del Protocollo Farfalla noto a Umberto e possibile causa (o almeno concausa) del suo omicidio. Di questo si parla nell’ordinanza ‘Ndrangheta Stragista, quella che ipotizza (in realtà conferma aggiungendo nuovi elementi rispetto a quelli già conosciuti) l’esistenza di un patto terroristico tra malavita calabrese e Cosa nostra per destabilizzare lo Stato. Proprio nelle 970 pagine dell’ordinanza compaiono le parole di Foschini e a pagina 914 c’è un paragrafo che si intitola “Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni Falange Armata. L’omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola. Il copyright della ‘ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale”. Sul delitto Mormile, che aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia e stava rifiutando il secondo favore, intervennero anche – scrive la gip di Reggio Calabria Adriana Trapani – i servizi segreti o, più precisamente, “non identificati esponenti” degli apparati di sicurezza, che suggerirono ai Papalia di usare la sigla Falange Armata per rivendicare il delitto. Così successe e nell’ordinanza reggina si legge ancora (a parlare è sempre Foschini): “Antonio Papalia, come ci disse (a me, a Flachi, a Cuzzola, a Coco Trovato e altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione ‘Falange Armata’ dell’omicidio Mormile”. A questo proposito ha aggiunto il collaboratore di giustizia Antonino Fiume: “Tutti gli omicidi di un certo tipo venivano decisi dal ‘consorzio'”. Certo, affermazioni da riscontrare ancora, ma ce ne sarebbe abbastanza per tornare a indagare sul delitto Mormile e sulle complicità di uomini dello Stato in quell’omicidio. Per questo, forse, a processo ci fu chi puntò sulla sua inesistente “condotta non specchiata”.

La Falange Armata: quell'abbraccio tra mafie e servizi segreti, scrive Claudio Cordova giovedì 27 luglio 2017 su "Il Dispaccio". La vicenda della Falange Armata, collegata a centinaia di minacce, rivendicazioni, illecite inframmettenze nello svolgimento di funzioni pubbliche di governo, ha generato lo svolgimento di approfondite e complesse investigazioni in diversi Uffici Giudiziari. Va detto, è questo è un dato giudiziariamente accertato, che, mai, seppure ipotizzata, è stata trovata prova dell'esistenza di una vera e propria cellula terroristica-eversiva, inquadrabile in una fattispecie associativa – con una sua gerarchia interna, con una sua struttura, con un sua logistica, con armi, con dei suoi mezzi economici, delle sue basi - che rispondesse al nome Falange Armata. Essa è stata una sigla con la quale si sono, per un verso, rivendicati stragi, delitti ed attentati fra il 1990 ed il 1994 organizzati e materialmente eseguiti da soggetti non inquadrabili nella sedicente struttura in questione (mafie, delinquenti comuni, ecc) e, per altro verso, anche, minacce, pressioni, intimidazioni, calunnie, commesse in danno di esponenti istituzionali con telefonate, missive, queste si confezionate da chi era intraneo alla sedicente Falange. Dietro questa sigla, ovviamente vi erano persone. Più esattamente, un gruppo - o forse, più di un gruppo - di soggetti che la utilizzavano per raggiungere proprie finalità di natura politica e di destabilizzazione. Le rivendicazioni avevano oggettivamente un fine chiaro ed evidente: colorando della natura politico/terroristica fatti che non erano tali e la cui vera finalità non poteva essere apertamente dichiarata (quella di ricattare le istituzioni) servivano a creare un certo clima nel paese, evidentemente favorevole alle finalità di chi poneva in essere le azioni criminali e dello stesso gruppo che si nascondeva ed aveva intentato la sigla stessa. E il clima che voleva crearsi era un clima di terrore. Dunque, più nel dettaglio, l'intenzione di attribuire ad una organizzazione terroristica la responsabilità di una serie di fatti anche gravissimi di sangue, aveva un duplice ordine di ragioni: la prima, scontata, ragione (strumentale alla seconda) – che è inevitabile conseguenza degli atti terroristici - era quella, come si è detto, di creare paura nel paese. Che già conosceva il terrorismo e ne temeva la ferocia. Tutto ciò per ottenere qualcosa.

Falange Armata – o almeno quel gruppo che aveva inventato la sigla e la utilizzava secondo un preciso disegno – da un punto di vista materiale, si limitava a rivendicare, minacciare, calunniare. La falange armata, insomma, utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità. Finalità che, stando alle risultanze investigative, sarebbero esclusivamente di natura politica, quale espressione di una (sordida) lotta per il potere. C'è un inquietante filo rosso che lega le vicende stragiste. Alla fine del 2013, Tullio Cannella, le cui dichiarazioni sono importanti con riferimento alla ricostruzione dei rapporti anche di rilievo politico intercorrenti fra Cosa Nostra siciliana e 'Ndrangheta, dichiarava: "...A questo punto della lettura del verbale si richiede al Cannella se è in grado di meglio precisare cosa ebbe a sapere, nel contesto mafioso, degli attentati del 92/93. Il Cannella dichiara: era il Luglio del 93, Leoluca Bagarella era con me al villaggio Euromare di Buofornello. Era ora di pranzo ed era accesa la televisione. Andò in onda il tg e diedero la notizia degli attentati di Roma e Milano. A questo punto Bagarella che era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, disse con soddisfazione e con ironia:"vedi che ora queste cose le "appioppano" alla falange armata" poi disse ancora con tono compiaciuto: "...vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!". Io gli dissi " ma perché tu hai a che fare con i terroristi?". Bagarella rispose: "...Diciamo che abbiamo avuto qualche contatto". La sera ricordo che Bagarella era di ottimo umore. Gli avevo offerto i suoi sigari preferiti, i Barmorall. Se ne stava compiaciuto a fumare. Ad un certo punto ritornò il discorso sugli attentati e disse con tono serio "il "mio amico" ci ha a che fare con questi terroristi. Ma devono fare quello che diciamo noi. Se sgarrano gli tagliamo la testa". Quando Bagarella parlava con me del "suo amico" si riferiva univocamente a Provenzano Bernardo. Di ciò sono certo. In particolare lui, come ho già detto, quando doveva prendere una decisione importante mi diceva anche che ne doveva parlare con il "suo amico". Capivo, intuitivamente, che l'unico amico che era al di sopra di Bagarella, all'epoca (siamo dopo la cattura di Riina) era Provenzano. Poi ne ebbi la certezza. Una volta, in quel periodo, mi disse che dovevo risolvergli un problema del "suo amico" o meglio della moglie del suo amico e mi diede dei documenti, non ricordo ora di che genere, che riguardavano Saveria Palazzolo, moglie di Provenzano Bernardo. Insomma quando parlava del suo amico era chiaro fra noi che si riferiva a Bernardo Provenzano. Quando con me parlava dei Graviano, diceva: " quei cornuti dei Graviano". Diceva ciò in quanto sapeva del mio rapporto conflittuale con i Graviano stessi.

ADR: dalle notizie che in quel momento passava il tg, mi riferisco a quello di ora di pranzo che sentii con Bagarella, non si faceva alcun riferimento alla Falange Armata. Dunque fu sicuramente Bagarella ad introdurre il discorso sulla Falange Armata...omissis".

Cannella è stato il soggetto più vicino al boss di Cosa Nostra Leoluca Bagarella nel periodo delle stragi. E' colui che, in quell'epoca agevolava la latitanza del Bagarella, e, dunque, è colui che meglio e più di qualsiasi altro collaboratore di giustizia è in grado di riferire le reazioni, le frasi, i contatti, avuti dal Bagarella nel periodo della stragi continentali. In primo luogo, dalle dichiarazioni di Cannella emergeva che lo stesso Bagarella aveva affermato di avere rapporti con gli estremisti di destra. E che tali rapporti, in particolare, erano riferibili (oltre che a lui stesso) a Provenzano (il suo "amico"). In ogni caso gli estremisti dovevano fare quello che dicevano "loro". Le carte dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" si soffermano sul fatto se i legami fra Cosa Nostra e la destra estrema - davvero esistessero, in quanto gli ambienti deviati da cui derivava la sigla Falange Armata, erano collegati e connessi alla destra eversiva. Nota la convergenza fra Cosa Nostra, la destra eversiva di Stefano Delle Chiaie, la massoneria controllata da Licio Gelli (i cui rapporti con la destra eversiva sono pure stati ampiamente dimostrati) che si realizzò nei movimenti autonomisti-separatisti, nei quali non a caso, proprio Bagarella e il suo uomo, Tullio Cannella, ebbero ruolo significativo. E in effetti la sera del 14 Maggio 1993 e nella notte/mattina del 15 Maggio 1993, alcune ore dopo l'attentato di via Fauro (che aveva come obbiettivo il giornalista Maurizio Costanzo) vennero effettuate telefonate di rivendicazione "Falange Armata"; la mattina del 27.5.1993, dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze, più telefonate all'Ansa rivendicarono l'attentato a nome Falange Armata; dopo gli attentati di Roma e Milano del Luglio 1993, furono effettuate rivendicazioni a nome Falange Armata. E, tuttavia, il fatto che le gravissime attività stragiste in esame, poste materialmente in essere da Cosa Nostra nel continente, fossero poi rivendicate "Falange Armata", non sembra sia stato il frutto di un caso, di una serie d' iniziative eterogenee e scoordinate fra loro che, però, hanno portato ad un risultato omogeneo. Appare dimostrato, sulla base di convergenti (e perfettamente sovrapponibili) dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, Salvatore Grigoli e Pietro Romeo, che Cosa Nostra, in persona di un uomo dei Graviano, Giuliano Francesco detto "Olivetti", ebbe a rivendicare (anche se non in tutti casi) con la sigla Falange Armata, gli attentati continentali. Questo spiega agevolmente la ragione per la quale Bagarella sapesse di tale imminente rivendicazione. E, come vedremo, si pone in perfetta coerenza e continuità con quanto, già anni prima, Cosa Nostra, e prima ancora la 'Ndrangheta, avevano concepito, programmato ed attuato. In particolare, Grigoli, il 26.3.2015, nel riferire degli intensi rapporti fra la famiglia di Brancaccio ed i calabresi, dichiarava:

"...A.D.R: Giuliano Francesco detto Olivetti - durante un incontro a cui eravamo presenti io, il predetto, Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e forse altri, incontro durante il quale stavamo preparando, in un sito di Palermo dalle parti di Corso dei Mille, l'esplosivo per lo Stadio Olimpico - ad un certo punto, ci disse che era stato proprio lui a fare le rivendicazioni "Falange Armata" relative ai precedenti attentati sul continente. Se non erro disse che queste rivendicazioni le faceva da Roma. Ma non sono sicuro.

A.D.R: il Giuliano Francesco, di carattere è un po' chiacchierone e a volte dice cose che non dovrebbero dirsi secondo le regole di Cosa Nostra. Io ad esempio delle rivendicazioni al suo posto non ne avrei parlato.

A.D.R: Ovvio che tale iniziativa, quella della rivendicazione, era così delicata che il Giuliano (che seppure era chiacchierone non era bugiardo) non poteva che averla presa se non a seguito di un ordine superiore che non poteva che venire da Giuseppe Graviano (più che da Filippo). Questo il Giuliano non lo disse espressamente o meglio non ricordo se lo disse o no, ma è certo, in base alle nostre regole interne, che dovesse essere stato Graviano Giuseppe che coordinava in modo puntuale tutta l'attività stragista a dare questo ordine.

A.D.R: Effettivamente non so neanche io - e certamente neppure lo sapeva il Giuliano - cosa fosse esattamente la "Falange Armata". Io ritenevo fosse una sigla terroristica tipo Brigate Rosse ovvero altra sigla anche di estrema destra, per me era lo stesso. Prendo atto ed informazione dalla SV, che si tratta di una sigla che venne usata per la prima volta in Spagna in epoca franchista. Se è così, e non ne dubito, si tratta di una cosa molto raffinata e neppure Graviano Giuseppe, aveva una simile cultura. Direi che in Cosa Nostra quello che aveva più cultura era Matteo Messina Denaro che io ho personalmente conosciuto.

A.D.R: Io ho sempre pensato che fosse scontato che la rivendicazione Falange Armata servisse a depistare le indagini e sono convinto sia così anche in considerazione della vicenda Contorno. Non bisognava capire, o almeno non doveva apparire una immediata riconducibilità degli attentati di Roma, Firenze, Milano e dell'Olimpico a Cosa Nostra, mentre era inevitabile pensare che l'attentato a Contorno era riconducibile a noi. Per tale ragione, mentre facevamo uso di tritolo per gli attentati precedenti e fra questi l'Olimpico, per l'attentato a Contorno usammo della gelatina ed un esplosivo bianco, granuloso che noi chiamavamo dash, assai diverso dal tritolo. Preciso a sua richiesta che, ovviamente, qualcuno doveva capire che c'entravamo noi con questi attentati continentali, altrimenti che li facevamo a fare, ma non doveva essere immediatamente visibile la nostra presenza, la nostra mano. Chi di dovere doveva capire e venirci incontro riducendo il carcere duro e le altre misure contro il crimine organizzato. Erano discorsi che facevamo sempre all'interno del gruppo di Brancaccio che si occupava di queste vicende. Dovrei avere parlato di questi fatti anche con Nino Mangano.

A.D.R: Vidi di persona, per una delle ultime volte (o forse era anche l'ultima volta, ma a distanza di anni non posso essere sicuro) Giuseppe Graviano a Roma più esattamente lo vidi in una villetta vicino al mare in una località nei pressi di Roma che si chiama Torvajanica. Era un giorno o forse due giorni (propendo più per due giorni) prima dell'attentato fallito dell'Olimpico. Non ricordo esattamente l'ora in cui arrivò il Graviano ma era buio, forse era sera o pomeriggio inoltrato. A vostra domanda escludo di essere stato presente, sempre in quel giorno o anche il giorno prima o il giorno dopo, in un locale di via Veneto a Roma di nome Donnay unitamente al Graviano Giuseppe e allo Spatuzza. Escludo di essere mai stato con Graviano in locali di Via Veneto. A sua domanda non posso escludere che prima o dopo il suo arrivo a Torvajanica il Graviano si sia visto con lo Spatuzza nel predetto locale. Non conosco la circostanza. Nel villino di Torvajanica quella sera iniseme a me e Giuseppe Graviano c'erano Spatuzza, Giuliano, Lo Nigro, Benigno Salvatore, Giacalone e forse altri. Forse, ma non sono sicuro, vi era anche Vittorio Tutino ovvero Cristoforo, detto Fifetto, Cannella, unitamente al Graviano quali suoi accompagnatori. A sua domanda preciso che non posso assolutamente escludere che il Graviano giunse a Torvajanica anche insieme allo Spatuzza o con lo stesso. Dato il tempo trascorso, di questi dettagli non ho ricordo preciso. A vostra ulteriore domanda rispondo che non ricordo che nel villino, ovvero in altre circostanze legate all'attentato alla FFOO dello Stadio Olimpico, si sia fatto riferimento a vicende calabresi più o meno simili.

ADR: Ricordo che nel corso dell'incontro nel villino in questione Giuseppe Graviano nel dire che bisognava concludere e portare a conclusione, immediatamente, l'attentato all'olimpico da subito (già il giorno dopo o forse quello ancora successivo) disse che bastavano quattro persone per fare l'attentato, per cui invitò me e se non sbaglio il Giuliano a ritornarcene in Sicilia. In effetti la mattina successiva partimmo per la Sicilia io e probabilmente come ho detto il Giuliano...

ADR: Era il Lo Nigro che aveva stretti rapporti con la 'ndrangheta come la vicenda del traffico di "erba" con la 'ndrangheta e la sua partecipazione a cerimonie che si svolsero in Calabria, tipo matrimoni, dimostrano (sono fatti di cui ho ampiamente già parlato). Ricordo che in questa occasione di viaggio in Calabria il Lo Nigro venne anche fermato dalla polizia. Può darsi, non posso escludere, che pure i Graviano avessero questi rapporti in Calabria, ma non sono in grado di dire fatti specifici.

ADR: Non sono in grado di riferire di viaggi dei Graviano in Calabria. Ricordo, invece, che Giacalone nel corso del 93/94, talora andava a Milano, presso un Ristorante di cui non ricordo il nome su diretta richiesta di Giuseppe Graviano e/o di Mangano per consegnare delle lettere al proprietario di questo ristorante che non so dire chi sia. Forse potrebbe essere anche un calabrese come la SV mi chiede. Giacalone che era mio socio in una rivendita di auto e che era con me in grande confidenza, mi raccontava di questi viaggi milanesi o spesso partiva organizzando proprio davanti a me il viaggio. Mi disse che una volta si era trovato in mezzo ad una sparatoria in un bar o comunque in un locale milanese in cui casualmente si trovava nel corso del viaggio che aveva fatto per recapitare queste lettere. Non conosco il contenuto di queste lettere.

ADR: La mia conoscenza dei fatti stragisti si limita a ciò che avvenne in Cosa Nostra nel gruppo in cui operavo quello del mandamento di Brancaccio in cui era inclusa la famiglia di Corso dei Mille cui io appartenevo. Non so dire se vi furono condivisioni della strategia stragista con entità criminali diverse da Cosa Nostra..."

A sua volta, il collaboratore di giustizia, Pietro Romeo, il 26.3.2015, anche lui rimarcando i rapporti fra la famiglia di brancaccio ed i calabresi, riferiva: "...A.D.R. Mi chiedete se nel contesto della mia partecipazione ai fatti stragisti continentali ho avuto informazioni sulle rivendicazioni "Falange Armata". Vi rispondo di sì. Premetto che io sono uscito dal carcere tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994. Quando uscii dal carcere – ero detenuto per delle rapine che avevo fatto - non ero uomo d'onore e, per la verità, non lo sono mai diventato. Tuttavia partecipai alle attività del gruppo di Brancaccio. In pratica quando, dopo la mia scarcerazione incontrai Giuliano Francesco, che io conoscevo come appartenente a Cosa Nostra, che faceva capo a Tagliavia Francesco di Corso dei Mille/Via Messina Marina, figlio di Giuliano Salvatore, esponente di rilievo della famiglia di Corso dei Mille. Del gruppo del Tagliavia facevano parte anche il Cosimo Lo Nigro ed il Barranca Giuseppe. Ebbene il Giuliano Francesco mi propose di entrare nel gruppo di fuoco guidato all'epoca da Nino Mangano. Si tenga presente che all'epoca erano in carcere sia i Graviano (capi di Brancaccio ma molto legati alle famiglie di Corso dei Mille e via Messina Marina) che il Tagliavia. Io accettai e così andai dalle parti di Roma ad aggregarmi al gruppetto che in quel momento doveva fare l'attentato a Contorno in località Formello, vicende tutte su cui ho reso ampie dichiarazioni. Venendo alla sua domanda le dico che il Giuliano che era persona molto loquace, di sua iniziativa, non solo mi parlo degli attentati precedenti (quelli di Roma, Firenze e Milano) ma mi raccontò anche che era stato proprio lui a telefonare, dopo gli attentati, rivendicando gli stessi a nome Falange Armata. Non ricordo a chi telefonò per fare le rivendicazioni. Mi disse, comunque, che così gli avevano ordinato di fare e lui così fece ed anche se lui non mi ha detto chi gli diede questo ordine, io penso che a darlo possano essere stati solo i Graviano o il Tagliavia perché Giuliano prendeva ordini da loro e comunque non poteva prendere una iniziativa così importante senza che i capi lo autorizzassero. Il Giuliano mi spiegò che, seppure le stragi erano state volute per affievolire il regime di carcere duro contro la criminalità organizzata e per avere, più in generale, dallo Stato, un migliore trattamento, tuttavia non si voleva – evidentemente da parte chi gli aveva dato l'ordine di fare le rivendicazioni in questione (e quindi da chi stava sopra a chi gli aveva dato tali ordini) - che fosse immediatamente ricollegata la strategia stragista a Cosa Nostra. Insomma queste rivendicazioni servivano a "depistare". Per la verità io dissi a Giuliano: ma tu pensi che facendo così lo Stato si arrende? Non ricordo la sua risposta ma certo non mi disse nulla di significativo se no lo ricorderei, almeno penso.

A.D.R: Giuliano, come ho detto era un chiacchierone. Dunque parlava spesso di questi argomenti. Non posso dirle dove esattamente mi disse queste cose. Direi sia in Sicilia che in Continente quando eravamo insieme.

A.D.R: Era Cosimo Lo Nigro, che aveva rapporti privilegiati con i calabresi. Ricordo che il Lo Nigro addirittura andava a dei matrimoni o battesimi o comunioni, non ricordo, di questa famiglia di 'ndrangheta che si celebravano in Calabria, non ricordo dove. La cosa me la disse lo stesso Lo Nigro. Inoltre come ho già ampiamente raccontato (su questi fatti sono stati celebrati dei processi) Lo Nigro faceva affari di ogni genere, sia nel settore della droga che delle armi, con i calabresi ed, in particolare, con la famiglia di questo Peppe presso cui era anche andato in occasione delle ricorrenze sopra indicate. Ho partecipato in prima persona e quindi rinvio alle dichiarazioni rese an suo tempo in quanto ovviamente ricordavo meglio i dettagli, a queste operazioni di traffico di droga e armi svolte insieme ai calabresi. Il fatto più eclatante che ricordo fra i tanti è che il Lo Nigro, sotto i miei occhi, mise 500 milioni in contanti all'interno dello sportella della sua vettura smontando un pannello. Tali soldi li portò in Calabria da Peppe o dai suoi amici per investirli in un ulteriore carico di droga. Erano i calabresi che avevano i contatti con i produttori e dunque a loro ci si rivolgeva. Tutto ciò avveniva subito dopo i fatti di Formello fra il 1994 ed il 1995. Ricordo anche di avere visto con i miei occhi il Peppe a Palermo vicino la casa di famiglia di Cosimo Lo Nigro, con una Renault Clio Williams blu. Era una vettura particolare dunque la ricordo. Portammo noi di Cosa Nostra, nel 94, dal Marocco, "fumo" dei calabresi fino a Palermo. In cambio avemmo una parte del carico ed il restante lo consegnammo alla famiglia di Peppe. Ricordo che tale carico lo portarono a Milano, con un camion, Piero Carra e Cosimo Lo Nigro. Nel traffico era implicato un altro calabrese, Giovanni detto "Virgilio", calabrese.

A.D.R: Non sono in grado di dire come il Lo Nigro avesse stretto in modo così significativo i rapporti con i calabresi. Mi chiedete se si trattava di amicizie dei Graviano ed io vi dico che non sono in grado di rispondere.

A.D.R: Non sono in grado di riferirle se la strategia delle stragi continentali ebbe un consenso anche da parte di altre organizzazioni di tipo mafioso. Io non avevo rapporti con i capi di tali organizzazioni. Neppure il Giuliano era all'altezza di avere questi rapporti i vertici di altre entità criminali...omissis".

La sigla Falange Armata, che Cosa Nostra decise di adottare ad Enna e che, quasi contestualmente (leggermente prima) la 'Ndrangheta decise di adottare, richiamava coordinate e conoscenze storico/politiche piuttosto ricercate . Il precedente più vicino (anzi, l'unico, per la verità, nella storia contemporanea, moderna e medievale) ed anche più congruo, era quello dei cd falangisti, della destra franchista spagnola del secolo scorso. In particolare, come è noto agli storici, la "Falange Espanola de las J.O.N.S." fu una formazione di ispirazione fascista fondata nella Spagna della Seconda repubblica da Josè Antonio Primo de Rivera nel 1933. Nel 1937, in piena guerra civile spagnola, si fuse con il movimento nazionalista e diede vita al partito "Falange Espanola Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista – FET y de las JONS", in cui confluirono le forze legate ai vecchi valori monarchici, clericali e conservatori. Il generale Francisco Franco ne assurse a leader indiscusso e, nel 1939, il "FET y de las JONS" diventa "Movimento Nacional", partito unico franchista. Se vogliamo andare più dietro nel tempo per trovare un altro riferimento alla Falange, è necessario affidarsi alle reminiscenze degli studi classici, evocando la cd Falange Macedone. Si tratta, come si vede, di riferimenti storici che, francamente, stridono con il livello culturale ed il grado di conoscenza della storia e della politica, antica e moderna, di Riina, Provenzano, Bagarella, Filippone, Papalia e compagni. E allora, forse, vi sono delle menti ancor più sopraffine dietro. Squarci di luce arrivano, ancora una volta, dalle dichiarazioni messe nero su bianco in fase di indagine. A cominciare da Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu". Egli, nel corso dell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava un dato fondamentale riguardante la genesi della strategia terroristica di cui Cosa Nostra fu massima artefice: la riunione, meglio, le riunioni "strategiche" di Enna della fine del 1991, in cui venne decisa la necessità di dare uno scossone allo Stato, innescando una spirale del terrore. Fatto di cui aveva riferito Leonardo Messina. E tuttavia, Malvagna, disvelava un particolare di non secondario rilievo relativo a tali riunioni: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...

A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...

A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace" (N.d.PM : si tratta esattamente della ricostruzione operata nelle sentenze fiorentine sulle stragi). Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla "Falange Armata"..."

Malvagna, quindi, veniva nuovamente escusso il 20.5.2015: "...A.D.R: Secondo il racconto di mio zio Malpassotu, furono i Corleonesi - ed in particolare Totò Riina - a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati "Falange Armata". Quando mio zio disse questa sigla in compresi che si trattava di un qualcosa che doveva rappresentare un riferimento ad una qualche organizzazione terroristica. Poi mio zio mi spiegò ancora meglio. Mi disse che bisognava confondere le acque. Non bisognava fare capire all'opinione pubblica e allo Stato che eravamo noi mafiosi a sviluppare questa strategia terroristica ma dovevamo gettare sconcerto e scompiglio fino ad indurre lo Stato a cercare una interlocuzione con noi. Mio zio mi disse per farmi comprendere a cosa alludesse che bisognava fare come in Colombia dove i trafficanti di cocaina quando erano stati duramente attaccati dallo stato colombiano che veniva supportato dalla DEA e dagli americani, iniziò a porre in essere, sotto mentite spoglie, una strategia di attentati terroristici che indussero lo Stato a scendere a compromessi con loro. Non so dire se questo esempio storico di mio zio sia corretto ma così mi disse. In ogni caso mio zio mi spiegò che bisognava da subito attivarsi anche con atti soltanto dimostrativi. Bisognava creare da subito un clima di paura. Fu così che immediatamente presi la palla al balzo e chiesi a mio zio se potevo fare giungere delle minacce all'allora sindaco di Misterbianco a nome Antonino Di Guardo che era un sindaco "antimafia" che ci dava fastidio denunciando pubblicamente il nostro sodalizio. Mio zio assentì e così io incaricai un giovane di mia fiducia tale Alfio Adornetto che faceva parte del gruppo che io dirigevo di telefonare a casa di questo sindaco e minacciarlo, rivendicando le minacce con la sigla Falange Armata. La cosa avvenne (siamo nella primavera del 1992) e se non sbaglio questo Sindaco è stato pure ascoltato come teste nel processo per la strage di Capaci nella quale pure io sono stato escusso. Ricordo anche che venne fatto un attentato dimostrativo davanti alla Caserma di Piazza Verga dei Carabinieri e anche in questo caso facemmo la rivendicazione Falange Armata. Di questo attentato si occuparono gli uomini di D'Agata. In quello stesso periodo erano in preparazione ma non ricordo se andarono ad effetto altre minacce o atti intimidatori con le stesse modalità ai danni del giornalista Claudio Fava, dell'avvocato Guarnera che difendeva i collaboratori di giustizia e il Sindaco Bianco (non ricordo se all'epoca fosse o meno in carica). Tutto ciò avveniva nello stesso periodo in cui il Santo Mazzei dava la disponibilità a fare attentati in continente. A proposito di ciò ricordo che mio zio il Malpassotu diceva che se il Mazzei fosse riuscito davvero ad eseguire gli attentati che si riprometteva di compiere avrebbe fatto una carriere fulminate superandoci nella gerarchia mafiosa. Ovviamente diceva ciò con preoccupazione in quanto temeva che noi perdessimo potere...omissis....

Le affermazioni di Malvagna, trovavano, poi, conferma nelle convergenti dichiarazioni di altro collaboratore di Giustizia catanese, Maurizio Avola, che aveva già parlato della riunione di Enna del 1991 nella quale i vertici di Cosa Nostra siciliana avevano deciso di attaccare lo Stato con atti terroristici in quanto i suoi rappresentanti non erano più affidabili con la conseguente necessità di creare una situazione di panico diffuso che avrebbe agevolato rivolgimenti politici favorevoli alle mafie. E tuttavia, anche Avola, peraltro in piena consonanza con sue pregresse dichiarazioni, nel corso dell'interrogatorio reso a questo Ufficio, in data 14.4.2015, dichiarava: "....ADR: Furono Aldo Ercolano e Marcello D'Agata che dissero a noi della famiglia Santapaola, quando già Santo Mazzei era divenuto un esponente di rilievo di Cosa Nostra catanese, in mia presenza, che laddove fossero stati eseguiti gli attentati contro lo Stato che avevano deciso i corleonesi, bisognava ricorrere a delle rivendicazione "di comodo" che non dovevano consentire di collegare gli attentati a Cosa Nostra, che, infatti, non rivendica mai le proprie azioni. Dissero che bisognava utilizzare la sigla Falange Armata. A vostra domanda vi dico che non sono in grado di dire come sia stata "inventata" questa sigla. Io pensavo che fosse una rielaborazione delle "Falangi" con cui si denominavano gli ultras del tifo calcistico. Ma si tratta di una mia ricostruzione e di una mia ipotesi. I miei capi non spiegarono l'origine della sigla. Faccio presente che allorquando nel 1992 venne collocato a Piazza Verga un ordigno di fronte ad una caserma dei CC da parte di Pippo Ercolano, venne fatta una rivendicazione Falange Armata. L'atto intimidatorio venne posto in essere dall'Ercolano perché all'epoca i CC indagavano su di una sua impresa. A vostra domanda preciso che non posso né escludere né affermare che fosse stato Santo Mazzei ad inventarsi questa sigla Falange Armata...".

Oscuri e inquietanti gli interrogativi su chi inventò la sigla Falange Armata, l'esatta individuazione e collocazione nel tempo delle modalità attraverso cui Cosa Nostra (e, soprattutto, la 'Ndrangheta) decisero di utilizzare la rivendicazione "Falange Armata" in occasione di eventi stragisti ovvero di delitti che, comunque, avevano come bersaglio figure istituzionali o politiche, e la individuazione del momento in cui le mafie, e non altri, iniziarono ad utilizzare concretamente la stessa. Oscuri e inquietanti gli interrogativi sui suggeritori esterni. L'idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato – il cui nucleo forte era costituito da una frangia del SISMI e, segnatamente, da alcuni esponenti del VII Reparto cd "Ossi" che, fino alla caduta del muro di Berlino (o, fino a pochi mesi dopo) si occupava di Stay Behind – che, evidentemente, volevano destabilizzare il paese creando un nuovo allarme terroristico; costoro – che non scordiamolo avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della 'Ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla "Falange Armata". Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatto proprio anche da Cosa Nostra, nel corso della riunione Enna. L'idea delle mafie di rivendicare le stragi con la sigla Falange Armata non era una trovata bislacca e cervellotica dei capi delle mafie, ma rispondeva perfettamente alle loro esigenze strategiche; era stata approvata da Cosa Nostra, nel lontano 1991, ad Enna, nello stesso periodo storico in cui Cosa Nostra e le altre mafie iniziarono a dare sostegno, con Gelli e l'estrema destra, alle cd liste autonomiste; il loro concreto atturarsi in occasione delle stragi continentali era noto e gradito al reggente di Cosa Nostra nel 1993 (Leoluca Bagarella) prima ancora che tali rivendicazioni fossero note. In tal senso, non è affatto secondario il rilievo di quanto, sempre sul conto di Bagarella, riferiva un collaboratore di giustizia siciliano, Emanuele Di Filippo, alla fine del 2013: "...A.D.R.: Ho fatto parte, originariamente, del gruppo di fuoco di Ciaculli nel corso dei primi anni 80'. Ero uomo d'onore ma non ritualmente "punto". Il mio capo, all'epoca, era mio cognato Marchese Antonino. Dopo il suo arresto avvenuto credo nel 1982, cominciai a prendere ordini da Giuseppe Lucchese detto "lucchiseddu" con il quale ho commesso numerosi omicidi per i quali sono già stato giudicato. Intorno alla metà degli anni 80', precisamente intorno al 1985, riuscii a "sganciarmi" dal ruolo "ingrato" di killer ed iniziai ad operare nel settore degli stupefacenti, delle estorsioni e del contrabbando di sigarette. Come ho già ampiamente spiegato, per svolgere tale mia ultima attività, nella quale sono stato impegnato fino al mio arresto nel 1994 ( ho iniziato a collaborare nel 1995, e grazie alle mie indicazioni e dichiarazioni venne catturato Leoluca Bagarella ) seppure rimanevo "inquadrato" nella famiglia di Ciaculli, operativamente mi sono "spostato" nella zona di Brancaccio/ Corso dei Mille, dunque, in tale contesto, facevo riferimento ai fratelli Graviano anche se costoro, ovviamente, non erano i miei capi.

ADR: Io avevo rapporti risalenti nel tempo e consolidati con Leoluca Bagarella dovuti a motivi di parentela. In particolare mia sorella si era sposata con Marchese Antonino che era il fratello della moglie di Leoluca Bagarella che si chiamava Vincenzina. A ciò si aggiunga che i rapporti fra i Graviano e Bagarella erano assai stretti e che io stesso facevo da tramite fra il mio predetto cognato, detenuto a Voghera, e Totò Riina – notoriamente vicinissimo a Bagarella di cui era cognato – facendogli pervenire dei pizzini di Riina stesso, pizzini che mi venivano consegnati, chiusi e sigillati, da Filippo Graviano...

ADR: Cesare Lupo era persona inserita in Cosa Nostra, molto vicina ai Graviano, anche se operava principalmente con la famiglia di Corso dei Mille (il cui territorio peraltro è limitrofo a quello di Brancaccio). Ho conosciuto il Lupo da libero nei primi anni 90', ma si è trattato di incontri occasionali. Mio fratello Pasquale, che pure collabora, ha avuto, invece, con il Lupo, rapporti più intensi e penso possa dirle su di lui qualcosa in più. Di seguito, in ogni caso, ebbi modo di rivedere ed incontrare il Lupo presso il Carcere dell'Ucciardone. Mi sembra alla sezione seconda. Eravamo nel 1994.

ADR: Mi si chiede se confermo quanto riferito alla DDA di Firenze nel già citato interrogatorio, sul fatto che il Lupo mi parlò di collegamenti fra il Leoluca Bagarella ed ambienti istituzionali deviati. Rispondo che lo confermo. In pratica il Lupo, proprio mentre ci trovavamo all'Ucciardone e parlavamo di pentiti, mi disse che Leoluca, prima o poi, li avrebbe individuati grazie ad informazioni che riceveva da qualcuno dei servizi segreti ....omissis".

Se, quindi, come risulta, vi erano rapporti o contatti fra il Bagarella ed esponenti dei servizi si ha una ulteriore traccia - coerente rispetto alle altre fonti di prova che consente di individuare in alcuni esponenti deviati dei Servizi di Sicurezza, suggerì a Cosa Nostra - in epoca antecedente e prossima alla riunione dell'estate 1991 ad Enna in cui la sigla venne adottata dal sodalizio mafioso - di utilizzare, per la rivendicazione delle stragi, la sigla Falange Armata. Specie se si considera che proprio il Bagarella era ben consapevole della funzione e delle finalità della strategia di rivendicazione delle stragi da parte di Falange Armata. Ed in questo ambito è ben possibile, oltre che coerente, che in più ampio quadro pattizio e, quindi, in un ambito in cui si erano individuati obbiettivi di comune interesse, si fosse proceduto ad una divisione di impegni e compiti fra i diversi partners, nel quale, le mafie, per la loro parte, si erano impegnate a "fare rumore". E, ovviamente, si badi bene, non deve affatto pensarsi che Cosa Nostra (e la 'Ndrangheta) avessero preso questi impegni controvoglia, sottomettendosi ad altri. Anzi. Le Mafie intendevano ricattare ed atterrire lo Stato con il terrorismo. Anche favorendo un ricambio della classe politica. In particolare, è noto che anche Licio Gelli – ed un suo vasto entourage - avevano preso parte, con ruolo di primario rilievo, al disegno di disgregazione del panorama politico istituzionale della Prima Repubblica. Ma tornando alle intelligenze fra Cosa Nostra e servizi deviati un importante elemento cognitivo, pienamente convergente rispetto a quelli fino ad ora evidenziati e che rafforza, quindi, la ricostruzione fino ad ora prospettata, proviene dalle affermazioni del collaboratore di Giustizia Armando Palmeri, legato alla mafia di Alcamo, che fin dall'inizio della sua collaborazione (nel 1998) aveva segnalato un episodio davvero inquietante. In particolare all'inizio del luglio 2016, Palmeri riferiva: "...ADR: Sono entrato in Cosa Nostra nel 1991. Nel 1995, avendo già preso le distanze da Cosa Nostra, con la quale era però rimasto in contatti, ho iniziato a collaborare informalmente con gli inquirenti, facendo in buona sostanza l'informatore e, poi, nel 1998 ho formalmente iniziato collaborare con la AG ottenendo il programma di protezione.

ADR: All'interno di Cosa Nostra non ero uomo d'onore ufficialmente, ma ero persona "riservata" di Milazzo Vincenzo, capo-mandamento di Alcamo. Mi spiego meglio: ero inizialmente e sono rimasto amico personale di Milazzo fino a quando non è stato ucciso nell'estate del 1992. Eravamo amici da alcuni anni, un paio circa. Io ero persona di fiducia del Milazzo, anche per gli affari di mafia del predetto. Spesso lo spostavo. Tenete conto che da quando io ebbi a conoscerlo era già latitante. Preciso che non ero stipendiato ma semplicemente molto legato al Milazzo. Ovviamente se e quando chiedevo dei soldi in relazione alle mie necessità, Milazzo me li dava. Ma in quel contesto più dei soldi contava la sincera amicizia. Io all'epoca ero istruttore di nuoto presso la piscina Camping El Baira di S.Vito lo Capo e alle Terme Segestane.

ADR: Con riferimento a contatti fra il Milazzo ed esponenti di apparati statali o sedicenti tali, posso dire che nel 1991 e, comunque, alcuni mesi prima dell'omicidio del Milazzo (non so dire se 1 anno, 6 mesi, 8 mesi prima o altro è passato troppo tempo) e comunque prima della strage di Capaci accompagnai il Milazzo ad un incontro che si tenne nelle campagne di Castellammare (svincolo che va a Scopello) in una villetta di pertinenza di tale Manlio Vesco. In effetti, precisamente, la villetta, era in contrada Consa. Costui, il Vesco, era un imprenditore amico del Milazzo, poi morto suicida, in circostanze molto particolari. Appresi, infatti, che stranamente il Vesco, prima di morire, aveva posteggiato la vettura lungo l'autostrada vicino lo svincolo di Alcamo per poi percorrere chilometri e chilometri a piedi, per poi, infine, lanciarsi nel vuoto. Ricordo che anche i mezzi d'informazione sottolinearono la stranezza del fatto.

ADR: Ricordo che Milazzo in occasione di questo primo incontro in contrada Consa, mi chiese di partecipare allo stesso. Io mi rifiutai, non volevo espormi e preferivo rimanere nell'ombra. Allora Milazzo mi disse di non entrare nella villetta ma di attenderlo fuori, rimanendo defilato ed invisibile, avendo cura di controllare i movimenti che potevano esserci intorno alla villa stessa. All'uopo mi diede anche un binocolo. Vidi arrivare due vetture dopo l'arrivo del Milazzo da cui uscirono, da una, due persone che non conoscevo (si trattava di persone ben vestite di circa 40 anni, che escluderei potessero essere dei "picciotti") accompagnate dal dott. Baldassarre Lauria, medico primario dell'Ospedale di Alcamo che io già conoscevo fisicamente e che li seguiva o precedeva con l'altra macchina. A seguito dell'incontro Milazzo mi apparve molto preoccupato e turbato. Lui aveva molta fiducia in me e senza che io chiedessi nulla (in Cosa Nostra non si chiede) mi raccontò che le due persone venute con il Lauria erano due dei servizi segreti i quali senza giri di parole avevano richiesto al Milazzo di fare una attività di tipo terroristico in continente per loro conto. Se non ricordo male gli chiesero di fare degli attentati in continente. Non sono sicuro se in questa occasione si parlò di Firenze, come uno dei luoghi in cui fare attentati o se invece con riguardo a questo stesso argomento la città di Firenze non venne in considerazione successivamente in quanto luogo ove si trovavano dei parenti della famiglia Ferro che avrebbero potuto fare da appoggio per la commissione dell'attentato. Su questo vi dirò in seguito procedendo con ordine. E' certo che, comunque, questi attentati andavano fatti in continente e in tale contesto in effetti, mi disse il Milazzo, che il dott. Lauria che partecipò alla discussione con quelli dei servizi, tirò fuori l'idea di procedere anziché con attentati dinamitardi con l'avvelenamento delle acque, a mezzo ii batteri. Insomma secondo il Lauria era più agevole avvelenare l'acquedotto (ubicato, forse, ma come ho detto non ricordo con certezza, a Firenze). Il Milazzo mi disse che l'idea del Lauria della guerra batteriologico venne tuttavia subito esclusa e rimase in campo solo l'idea degli attentati tradizionali con esplosivo.

ADR: Secondo quanto mi disse il Milazzo, negli intenti di costoro – e cioè di quelli dei servizi - vi era quello di destabilizzare lo Stato. Non so dirvi perché volessero destabilizzare lo Stato nel senso che Milazzo su questo aspetto nulla disse. Posso invece dirvi che il Milazzo, all'esito di questo primo incontro si riservò di dare una risposta. In ogni caso era davvero preoccupato e già mi disse che tendenzialmente non aveva intenzione di farsi coinvolgere anche se forse lo avrebbe anche fatto – se io non lo avessi dissuaso – perché, diceva di avere molta paura di questi soggetti dei servizi. Ricordo le sue parole testuali: sono loro la vera mafia.

Insomma pur trovando folle il progetto, Milazzo aveva timore di inimicarsi questi agenti dei servizi. Io, come ho detto, gli spiegai che doveva astenersi e non farsi coinvolgere perché rischiava di mettersi in guai ancora più grandi. Senza contare che afre attentati, uccidendo anche perone innocenti, fra cui donne e bambini, non è da vero uomo d'onore. Lui alla fine si convinse a non farsi coinvolgere ma nella consapevolezza che ciò gli sarebbe costato la vita. Disse: va bene cerchiamo di non farci coinvolgere ma moriremo. In effetti poi sia pure con cautela e con diplomazia riuscì a non farsi coinvolgere.

ADR: Mi chiedete se sono a conoscenza della vicenda del ritrovamento di un arsenale di armi nel 1993 nella villa di due carabinieri, nei pressi di Alcamo. Nulla ne so, anche se ricordo l'episodio che sicuramente non era ascrivibile a Cosa Nostra.

ADR: No so dirvi la ragione per la quale questi sedicenti esponenti dei servizi si rivolsero per questo "affare" proprio al Milazzo. Posso dirvi però che il Milazzo mi disse che questi due agenti sapevano di me, sapevano cioè che io ero legato al Milazzo e che, come dissero al Milazzo stesso, mi consideravano molto scaltro e capace verosimilmente in senso criminale.

ADR: A seguito vi furono altri due incontri fra il Milazzo con questi dei servizi (erano sempre le due stesse persone): uno si svolse sempre in contrada Consa ma mi sembra in una casa diversa dalla prima e l'ultimo, il terzo, nella casa di tale Senatore Corrao che si trova sulla cima di un monte che si chiama Bonifato, nei dintorni di Alcamo.In entrambi questi incontri si parlò ancora degli attentati in continente che quei due dei Servizi volevano fossero fatti. In entrambi gli incontri io rimasi fuori a vigilare e in un caso, addirittura, seguii e pedinai la vettura dei due agenti dei servizi fino a Palermo, senza però scoprire nulla in quanto li persi in una rotatoria di Via Belgio.

Fu quindi il Milazzo che mi raccontò lo svolgimento dei due incontri spiegandomi che si era destreggiato nel senso pur senza farsi direttamente coinvolgere come si era ripromesso, non rifiutò mai esplicitamente un suo apporto a tali attentati. Prendeva tempo dando una generica disponibilità. L'importante era non prendere impegni stringenti che potevano costringerlo a dare attuazione al progetto stragista. Milazzo, tuttavia, immaginava, per come mi disse, che quelli dei servizi potessero sospettare o addirittura ritenere che lui voleva "sgusciare via e fare il furbo". In proposito proprio l'incontro con Gioacchino Calabrò, che avvenne a seguito di questi tre incontri, in un baglio sito vicino Calatafimi, può trovare spiegazione proprio in questo atteggiamento attendista e ad un tempo apparentemente compiacente del Milazzo nei confronti di quelli dei servizi. In sostanza successe che io accompagnai il Milazzo a questo incontro e rimasi in disparte mentre Milazzo parlava con il predetto Calabrò che era uomo d'onore di Castellammare del Golfo. Tuttavia, io trovandomi a breve distanza dai due, riuscii, comunque, a sentire aspetti salienti dei loro discorsi. In particolare sentii che Milazzo ordinava a Calabrò di dire a Ferro Giuseppe (allora soldato del Milazzo, ma successivamente divenuto, dopo la morte di Milazzo, Capo-Mandamento) di ordinare ai suoi parenti che si trovavano a Firenze di "mettersi a disposizione" di Cosa Nostra. Sul momento non misi a fuoco esattamente il senso di quell'ordine. Quando, però, un anno e passa dopo vi fu l'attentato di Firenze di via dei Georgofili, pensai che l'attentato e l'ordine che aveva dato il Milazzo potessero avere un qualche oggettivo collegamento fra loro ( tenete conto nel frattempo il Milazzo era morto e Ferro era il nuovo capo-mandamento) e, quindi, in via logica, misi anche in collegamento gli incontri con quelli dei servizi, in cui si parlò di attentati in continente, con i due episodi in questione ( e cioè : ordine dato da Milazzo al Calabrò e l'attentato di Firenze).

ADR: I proprietari delle tre abitazioni in cui si svolsero gli incontri di cui ho parlato, non so se abbiano a meno partecipato agli incontri ed alle discussioni con questi agenti dei servizi. Viglio dire che io non li ho visti ma non posso escludere che nel momento in cui accompagnai presso tali abitazioni il Milazzo, gli stessi potessero essere già lì presenti per poi partecipare agli incontri. Preciso tuttavia che nella prime due occasioni il Milazzo aveva le chiavi di casa e preciso che ricordo che il Senatore Corrao di nome fa Ludovico. Ora che ricordo anche questo senatore è morto di morte violenta ucciso dal suo domestico straniero.

ADR: il pedinamento fino a Palermo non ricordo se fu mia iniziativa o se fu il Milazzo a dirmi di procedere in tale senso.

ADR: Ovviamente ho riferito di questa vicenda ai PPMM di Palermo non appena ho iniziato a collaborare. In effetti mi vennero anche sottoposti degli album fotografici ma fra le foto che mi sono state poste in visione non vi erano quelle dei due soggetti dei servizi di cui sopra. Certo è che almeno all'epoca avevo un ottimo ricordo delle fattezze dei due presunti agenti. Non so dire se oggi, dopo tanti anni, sarei in grado di riconoscerli...omissis".

Gli oscuri suggeritori sarebbero allora i Servizi Segreti. La 7 Divisione del SISMI (si trattava della Divisione dell'ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio), il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Le prime rivendicazioni "Falange Armata" fatte in Italia erano collegate all'omicidio dell'Educatore Carcerario Umberto Mormile, avvenuto a Lodi l'11.4.1990 proprio per mano della 'ndrangheta. In particolare varie telefonate venivano effettuate presso sedi Ansa e sedi di Istituti Penitenziari. In un primo momento, nell'immediatezza, il giorno dei fatti, con riferimenti alla riconducibilità ad azioni terroristiche dell'agguato al Mormile e, poi, con riferimenti specifici alla Falange Armata carceraria che diverrà, poi, ancora di seguito, semplicemente Falange Armata. Interessanti, allora, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. A cominciare da Vittorio Foschini, escusso a metà 2015: "...A.D.R: Sono entrato nella 'ndrangheta dopo avere lavorato, pur essendo calabrese, con Cosa Nostra ed i siciliani. Io avevo lavorato nella droga con Biagio Crisafulli, palermitano, e, quindi in collegamento con i Carollo e Luigi Bonanno, all'epoca contrapposti ai corleonesi. I Fidanzati erano invece alleati ai Corleonesi. Fu Antonio Papalia che decise di riunire tutti i calabresi, sia riggitani che catanzaresi, che stavano in Lombardia. Ciò determinò anche il riconoscimento – avvenuto a seguito di specifiche riunioni tenutesi in Calabria a Petilia Policastro fra componenti della 'ndrangheta reggina e "milanese" e catanzeresi – delle famiglie catanzaresi dalla "Madonna dell'Aspromonte" ciò significa l'ingresso ufficiale nella vera e propria 'ndrangheta. Dunque questa riunione dei calabresi lombardi sotto un'unica bandiera – eravamo tantissimi – determinò il sopravvento della 'ndrangheta in Lombardia. Fra i siciliani furono nostri alleati solo i Crisafulli e anche, ma in modo meno intenso, i Carollo/Bonanno.

A.D.R: Al vertice, in Lombardia, c'erano Antonio e Domenico Papalia, poi Coco Trovato. Con noi c'era anche il gruppo di Anacondia...omissis...

A.D.R: Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia. Anzi nel rifiutare ad Antonio Papalia il favore per Domenico Papalia (che se non sbaglio era detenuto per l'omicidio D'Agostino delitto nel quale secondo quanto appresi da Antonio Papalia erano coinvolti anche i servizi segreti), ancorchè ricompensato, disse ad alta voce, ad Antonio Papalia che lui "non era dei servizi", alludendo ai rapporti fra Domenico Papalia e i servizi che pure erano veri ed esistenti. Infatti nel carcere di Parma, in precedenza, il Papalia Domenico aveva rapporti e colloqui con i servizi. Ciò mi venne detto da Antonio Papalia che pure aveva rapporti con i servizi come pure lui stesso mi confidò. Proprio questo rifiuto con l'allusione ai servizi fu fatale per il Mormile. Insomma, questa allusione sui rapporti Servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile. Preciso meglio la sequenza dei fatti come raccontatami da Papalia Antonio: prima Domenico in carcere chiese il favore a Mormile, voleva una relazione addomesticata; Mormile rifiutò. Ciò avvenne in quanto Mormile aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia. Ci fu un diverbio. Domenico comunicò la cosa al fratello Antonio in un colloquio dicendo al fratello di convincere il Mormile. Antonio nei giorni successivi, subito fuori dal carcere, avvicinò il Mormile che si rifiutò di nuovo nonostante la promessa di 20 milioni dicendo che lui non era dei servizi. Dio seguito Antonio riferì al fratello Domenico, nel corso di un colloquio in carcere che il Mormile non cedeva e che anzi aveva fatto allusioni ai servizi. Domenico si preoccupò e deliberò l'omicidio. Antonio Papalia mi raccontò questo fatto subito dopo il colloquio in carcere di cui ho appena detto. Preciso che secondo il racconto fatto a me da Antonio Papalia, lo stesso Domenico Papalia, che disse che, secondo lui, Mormile andava ucciso, precisò anche che bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i servizi vista l'allusione che era stata fatta e visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia). Ne seguì che Antonio Papalia, come ci disse (a me a Flachi, a Cuzzola, a Coco trovato ed altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all'omicidio Mormile si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione "falange armata" dell'omicidio Mormile. Fu Antonio Papalia allora che ordinò a Brusca Totò (persona che comunque potrei riconoscere) di telefonare ad un giornale e fare la rivendicazione a nome di questa presunta organizzazione terroristica. Ciò avvenne sotto i miei occhi addirittura prima dell'omicidio. Il Papalia Antonio, infatti, disse a questo Brusca che appena eseguito l'omicidio, lui doveva fare la telefonata di rivendicazione...

A.D.R: La 'ndrangheta era contraria alla strategia stragista dei corleonesi, e lo erano anche i Papalia e Coco Trovato. O meglio divennero contrari quando si accorsero delle conseguenze che questa strategia comportava. Papalia Antonio si mostrava preoccupato. Per la verità Antonio Papalia brindò in occasione delle stragi, ma, lui e gli altri, poi, si sono preoccupati per le conseguenze. Si cominciò a vedere e a temere che lo Stato avrebbe svolto una azione repressiva assai dura......omissis".

Foschini svela che era stato lo stesso Antonio Papalia, mandante del delitto, a ordinare la rivendicazione di tipo terroristico "Falange Armata". Ma di più, Foschini chiariva che l'indicazione di utilizzare la sigla in questione veniva dai servizi di sicurezza, o meglio dagli appartenenti ai servizi che erano in contatto con i Papalia (Domenico ed Antonio). Dunque, i casi sono due: o Papalia ebbe ad inventarla, a crearla, o qualcuno lo imbeccò. La prima ipotesi è del tutto implausibile. Papalia era persona scarsamente scolarizzata (aveva frequentato le scuole dell'obbligo) e del tutto priva di strumenti culturali adatti a questo compito. Pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo. Salvatore Pace, escusso dalla Dda, afferma:

"... ADR:...Papalia Antonio era molto ignorante, rozzo, ma come ho detto un capo...."

E allora il suggeritore era in una posizione che, per qualsivoglia motivo, dobbiamo ritenere sovra-ordinata rispetto a Papalia, tale da poterlo determinare a seguire delle strategie che il suggeritore stesso riteneva necessarie in quel momento. Un contributo, ancora più significativo sia sulla causale del delitto che soprattutto, per ciò che rileva in questa sede, sulla sua rivendicazione, veniva da altro soggetto che aveva partecipato alla esecuzione del delitto agli ordini dei Papalia, Antonino Cuzzola: "...A.D.R: Sono stato detenuto dal febbraio 1992 al febbraio 1993. Sono stato nuovamente arrestato a Giugno 1993. Ho iniziato a collaborare nel 2004 da detenuto. Sono stato ininterrottamente detenuto dal 1993 al 2007. Quando sono uscito dal carcere nel 1993 (essendo stati arrestati Antonio Papalia e Franco Coco Trovato nel settembre 1992) il reggente della famiglia Papalia, in Lombardia, era Musitano di cui non ricordo il nome comunque era il nipote di Antonio Papalia, figlio della sorella, all'epoca aveva 25/30 anni. Durante la rilettura del verbale si dà atto che il collaboratore ricorda il nome di Musitano : Antonio. Più importante di lui era Domenico Paviglianiti che però era latitante e stava all'estero. Tenete presente però che Papalia Antonio era un "re" a San Vittore. Dava ordini da lì. E comandava dal carcere. Passava gli ordini a Musitano che andava a colloquio con lui. Le stesse guardie carcerarie avevano soggezione del Papalia Antonio. Gli facevano fare quello che voleva. Ad esempio teneva in carcere un congelatore tutto per lui. Cosa che non aveva nessuno.

A.D.R: In effetti come ho già detto in altri processi, Domenico Papalia, fratello di Antonio, aveva rapporti con i Servizi Segreti con i quali aveva colloqui nel carcere di Parma. Ciò appresi da Antonio Papalia in occasione della preparazione dell'omicidio dell'educatore carcerario Mormile. Mormile, a dire di Antonio Papalia, venne ucciso proprio perché si fece sfuggire con un detenuto di questi colloqui fra Domenico Papalia e i Servizi Segreti. Cuzzola ricostruisce nel dettaglio la dinamica dell'omicidio Mormile: "Mi fate il nome Falange Armata. Vi dico, ora che ci penso che è proprio il nome della formazione terroristica che avrebbe dovuto rivendicare l'omicidio Mormile. Penso di averlo detto anche sul processo Mormile. Ora mi sfuggiva il nome. Prendo atto che la prima telefonata fatta all'Ansa di Bologna in cui si parla di "terrorismo" risale allo stesso giorno dell'omicidio. Prendo atto che sono seguite altre telefonate di rivendicazione e che solo qualche mese dopo si fece per la prima volta il nome Falange Armata. Vi dico, allora, che escludo ancora che l'incontro al bar di Buccinasco si sia verificato il giorno stesso dell'omicidio. Sono certo. Ritengo, allora, le possibilità sono tre: o quando Papalia parlò della rivendicazione al bar di Buccinasco avrà detto che già aveva fatto la stessa ed io ho capito male, oppure disse che aveva fatto la rivendicazione ed io ricordavo male, oppure, ancora, disse, non so per quale ragione, che avrebbe fatto la rivendicazione ma in realtà già l'aveva fatta. Quanto alla sigla Falange Armata io ricordo di averla sentita fin dall'inizio. Può essere che sia stata ideata all'inizio e poi utilizzata in concreto, solo in un secondo momento, oppure può essere che io ricordi male sul momento esatto in cui si fece per la prima volta il nome di questa formazione. Sono certo, però che fu proprio Antonio Papalia a dirmi che le rivendicazioni sarebbero state fatte, per depistare, dalla Falange Armata. Ricordo che fra i Papalia e Cosa Nostra vi era un rapporto molto stretti. Posso dire, ad esempio, che con i Madonia ed i Fidanzati i rapporti erano molto stretti. Dopo l'omicidio di Corollo, eseguito su mandato di Riina o comunque di Cosa Nostra – Corollo era uno che gestiva per Cosa Nostra il traffico di stupefacenti in Lomabardi – tutto il traffico di stupefacenti che veniva gestito dal predetto Corollo venne affidato ai Sergi per richiesta di Cosa Nostra stessa. Ciò a dimostrazione della particolare vicinanza fra 'ndrangheta e Cosa Nostra. I Papalia diventarono i responsabili della 'ndrangheta per la Lombardia con l'avallo di tutta la 'ndrangheta calabrese. Si sapeva che i Papalia e, in particolare, Domenico papalia era in rapporti con i servizi segreti. Pino Piromalli me lo disse in carcere a Cuneo nel 2000. Mi spiegò che la sua cosca era entrata in possesso di documenti che comprovavano questo rapporto. Tuttavia nessuno contestò, all'epoca, questa circostanza al Papalia. Posso presumere che la cosa fosse gradita ai vertici della 'ndrangheta... Mi chiedete se il nome "Falange Armata", particolarmente inconsuete, fosse "farina del sacco" di Papalia Antonio. Rispondo che effettivamente Antonio Papalia non ha una grossa cultura. Io lo conoscevo bene. Parlava un italiano molto stentato. Aveva la licenza media inferiore. Il riferimento alla "Falange Armata" è troppo raffinato per lui. Sicuramente qualcuno deve avergli suggerito questo nome. Anzi le dirò di più: ricordo che Coco Trovato gli chiese, al Papalia, cosa fosse questa "Falange Armata". Papalia disse "Mi hanno detto di fare questo nome". Non specificò chi suggerì questa sigla....

ADR: In effetti Carmine e Peppe De Stefano dopo la morte del padre, a partire dal 1986/87, stavano più a Milano – con i Papalia e Coco Trovato – che a Reggio Calabria.

ADR: Ricordo che avevamo stretti rapporti anche con i pugliesi e in particolare con il gruppo Anacondia. Ricordo questa stretta frequentazione e alleanza a partire dalla fine degli anni 80'...

ADR: Ho assistito ad una visita fatta, intorno al 1989/90, dai Servizi Segreti a Domenico Paviglianiti a casa sua a Reggio Calabria San Lorenzo. Vidi arrivare queste persone distinte a bordo di una Uno. Non presenziai all'incontro. Quando se ne andarono chiesi a Paviglianiti chi fossero. Mi disse che erano gente dei Servizi mandata da Don Mico Libri. Gli avevano proposto di fare da confidenti in cambio di un aiuto che avrebbe avuto sui processi. Posso anche dire che Barbaro Francesco ha ammesso di avere contatti con i Servizi nel carcere dell'Aquila. Insomma era una cosa assai diffusa nella 'ndrangheta quella di avere rapporti con i Servizi Segreti...omissis".

Lo stesso Antonio Papalia, persona non istruita e non in grado di escogitare un nome come Falange Armata, aveva detto che gli avevano detto "di fare questo nome". Dal tenore delle dichiarazioni di Cuzzola e di Foschini, si evince che, seppure il Papalia avesse un proprio interesse a depistare le indagini e a confondere le acque, il suggerimento e, soprattutto, il modo con il quale il suggerimento era stato dato e supinamente accettato (...mi hanno detto di fare questo nome... ) davano conto di uno specifico e convergente interesse dei suggeritori a propalare e diffondere la sigla in questione come collegata ad una campagna terroristica che si andava avviando e di una sorta di subalternità dei Papalia ai suggeritori. Ancor più inquietante è collegare Falange ai servizi deviati e, in particolare, ad una frangia della 7 Divisione del Sismi, era quella che aveva rapporti operativi con Gladio e, quindi, con Stay Behind. Agli atti dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" c'è la deposizione resa dall'ex Ambasciatore Paolo Fulci che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario Generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d'informazione "operativi" dell'epoca (il Sisde ed il Sismi) - fra il Maggio 1991 e l'Aprile del 1993 e poi, dalla DNA. Poi veniva acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti alla AG dai servizi d'informazione e dal Cesis, che riguardano il medesimo oggetto. Fulci, come risulta dall'ampio carteggio in atti, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell'Arma dei carabinieri dell'epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Andreotti con l'avallo dell'allora Presidente della Repubblica Cossiga) dopo che nell'Aprile 1993 lasciò l'incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltre-oceano. Vennero sentiti, il suo capo-gabinetto – Generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, da quelle escussioni, emerse che il Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al Comandante Generale dei CC, di dare impulso ad attività d'indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo OSSI, una sorta di gruppo di elite della 7^ Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange Armata (che pure aveva minacciato il Fulci ) sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di "intossicazione", disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il Generale Russo, in particolare – che in tutta evidenza non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci – in via generale, nel corso della escussione del 3.7.1993 alla Digos di Roma, ribadiva che il Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Fulci riferirà di avere svolto interamente la sua carriera – fino al momento della nomina al Cesis – in diplomazia, dove da ultimo, prima era stato ambasciatore in Canada e, poi, rappresentante italiano presso il Consiglio Atlantico (dove erano rappresentati tutti i paesi Nato ; che nel contesto di tale incarico, dopo che Andreotti nell'autunno 1990 aveva confermato l'esistenza di Gladio, aveva brillantemente ricucito lo strappo fra il nostro paese e i partners atlantici, causato proprio dalla pubblica ammissione dell'esistenza della struttura, riuscendo ad ottenere una non-smentita delle dichiarazioni di Andreotti da parte della Nato; he a seguito di ciò venne contattato dall'allora Presidente Cossiga, che gli rappresentava che lui era pienamente d'accordo con Andreotti che lo voleva nominare a capo del Cesis; che dopo qualche riluttanza accettò la nomina; che senza ancora che la sua nomina avesse avuto una qualche risonanza mediatica ( in realtà, anche in seguito ne ebbe poca) mentre occupava ancora il suo vecchio incarico diplomatico, ebbe a ricevere la prime minacce Falange Armata; che tale attività intimidatoria nei suoi confronti ebbe a proseguire. Inoltre nei primi mesi si accorse che all'interno dell'abitazione dei servizi che lo ospitava a Roma era intercettato da impianti e microspie di tipo ambientale che avevano lasciato gli stessi servizi (Sismi) nonostante avesse chiesto una bonifica; che la sua gestione si caratterizzò per particolare rigore in quanto per la prima volta utilizzò i poteri del segretario generale di Cesis che permettono di bloccare nomine e promozioni dei servizi e soprattutto di bloccare fondi, cosa che fece in modo puntuale e sollecito; che continuando le minacce nei suoi confronti e imperversando, comunque, le minacce, le rivendicazioni e l'inquinamento informativo da parte di Falange Armata, delegò un suo dirigente di massima fiducia, il De Luca (deceduto) a svolgere penetranti accertamenti sulla provenienza di tali rivendicazioni/minacce Falange Armata; che all'esito di tali indagini svolte sui tabulati che tracciavano la cella di provenienza delle telefonate Falangiste, De Luca gli presentò due lucidi che contenevano due mappe d'Italia. In una erano localizzate le celle di provenienza delle minacce falangiste e nell'altra i luoghi d'incontro e le sedi periferiche ove operava il Sismi; che effettivamente aveva segnalato al Comandante Generale dei CC la vicenda in questione evidenziando che sulla base degli accertamenti svolti dal suo staff i soggetti che, all'interno del Sismi, potevano avere maggiore collegamento con le attività falangiste erano quelli inseriti nel Nucleo OSSI della Settima divisione del Sismi. Un dato di evidente interesse e di significato indiziario univoco è dato dalla circostanza che Fulci ebbe a ricevere le prime minacce Falange Armate nel Maggio 1991 quando ancora non solo non aveva preso servizio al Cesis, ma neppure era nota al pubblico la nomina. Evidente che solo un soggetto che avesse un qualche interesse a fare la minaccia e, al contempo, avesse l'informazione della nomina di Fulci, poteva essere l'ignoto falangista. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all'interno della 7^ Divisione (sciolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprire nei primi anni 90. Non sappiamo chi, all'interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordavano – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta l'utilizzazione della sigla falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Negli anni successivi, ci sarebbero stati sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l'accordo in questione era parallelo a quello politico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cd liste autonomiste ed andava oltre. Con riferimento agli attentati ai Carabinieri sul suolo calabrese, uno degli esecutori materiali, Consolato Villani, avrebbe ricevuto dal complice Giuseppe Calabrò l'incarico di rivendicare gli atti contro i militari dell'Arma per darne una coloritura di tipo terroristico. Una traccia di rilievo che consentiva di chiudere il cerchio e collegare gli assalti ai carabinieri, non solo alla strategia delle stragi continentali eseguite dai Graviano, ma più complessivamente alla strategia delle rivendicazioni falangiste, iniziate, a livello nazionale, proprio con il delitto Mormile commesso, non a caso, dalla cosca dei Papalia-Coco Trovato che era anche quella che, più delle altre spingeva, per appoggiare la strategia stragista di Cosa proveniva da scrupolosi accertamenti svolti nell'ambito dell'inchiesta. Almeno tre rivendicazioni erano state effettuate in occasione degli attacchi ai carabinieri del periodo dicembre 1993 – febbraio 1994 a Reggio Calabria. In particolare: una rivendicazione telefonica pervenuta ai CC di Scilla in data 20.1.1994 (in cui il telefonista prometteva altri agguati); una ulteriore rivendicazione telefonica ai CC del Rione Modena di RC in cui si parlava di fare "una strage" ; infine quella più significativa, a firma Falange Armata, inviata con missiva scritta con normografo ai CC di Polistena. Particolarmente di rilievo in quanto non solo, per l'appunto, vi era la rivendicazione Falngista ma perché inviata presso una Stazione dei CC che si trovava nella giurisdizione della 'Ndrangheta tirrenica che tanta parte aveva avuto nelle oscure vicende oggetto dell'inchiesta. In particolare, con riferimento a quest'ultima, si trattava di una lettera inviata tramite servizio postale ai Carabinieri della Stazione CC di Polistena (spedita da Polistena il 2.2.1994 e pervenuta in data 4.2.1994) e firmata "Falange Armata", in cui si esprimeva compiacimento per la morte dei due carabinieri e si auspicava che la stessa fine potessero fare tutti i militari in servizio presso la citata Stazione. Si riporta il testo della missiva: "Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull'autostrada è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine cornuti e bastardi e figli di gran puttana".

Il terrore di “faccia da mostro” e del passato con le istituzioni deviate: luce sulla fuga e i falsi memoriali di Nino Lo Giudice, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017, su "Il Dispaccio". La fuga, la ritrattazione, i video, i memoriali in cui infanga magistrati e forze dell'ordine che hanno segnato una svolta a Reggio Calabria. L'inchiesta "Ndrangheta stragista" si propone di fare luce anche sulla fin qui inspiegabile vicenda di Antonino Lo Giudice, ex boss dell'omonima cosca di 'ndrangheta, poi divenuto pentito e protagonista di un voltafaccia che farà discutere per le gravi accuse (totalmente infondate) nei confronti dell'allora capo della Procura, Giuseppe Pignatone, e di altri magistrati e membri delle forze dell'ordine della sua squadra. Gli accertamenti fornivano significative spiegazioni in ordine alla genesi dei suoi comportamenti culminati nell'abbandono del domicilio protetto e nell'invio delle farneticanti missive in cui ritrattava tutte le accuse. Rendendo così comprensibili condotte, quali la fuga e la ritrattazione, che, altrimenti, si dovrebbero considerare insensati atti autolesionistici, posto che, per un verso, non provocavano (e non potevano provocare ) alcun vantaggio né al dichiarante stesso né ad altri, e, per altro verso, determinavano la certa conseguenza della revoca del programma di protezione e degli altri benefici connessi alla collaborazione (così come si è puntualmente verificato, essendo ad oggi Lo Giudice privo di programma e mero dichiarante) . E ciò in una situazione nella quale Lo Giudice, aveva ottenuto anche gli arresti domiciliari in località protetta, dove scontava la custodia cautelare (e in prospettiva avrebbe potuto scontare le pene definitive che gli sarebbero state irrogate). In particolare da tali successivi interrogatori venivano in rilievo spiegazioni che - sul solco di quanto già evidenziato nella sentenza che si è appena riportata, che riconduceva, come si è detto, ad una situazione di vero e proprio terrore che aveva determinato le condotte scellerate del Lo Giudice – illuminavano ulteriori ed importanti dettagli della vicenda. Segnatamente il Lo Giudice, nel corso dell'interrogatorio del 29.9.2014 reso alla Dda di Reggio Calabria e alla Procura di Catanzaro, riferiva: "...ADR: In data 14.12.2012 ero con appartenenti alla Sezione Anticrimine (tale Stefano Meo e tale Gabriele) in quanto ero collaboratore di giustizia e mi stavo recando a Reggio Calabria per partecipare ad una udienza di persona. Arrivati nei pressi di Termoli, Stefano ricevette una telefonata che preannunciava "dei problemi" a Reggio. Ci siamo fermati presso un distributore di benzina e Stefano ricevette un'altra telefonata ma mi disse di stare tranquillo. Siamo poi andati in albergo a Roma e venne tenuta una video conferenza al posto dell'udienza tradizionale di cui vi ho detto; dopo tutto ciò mi dissero che dovevo andare alla D.N.A. Abbiamo atteso sino alle 17.00 in quanto ero atteso dal Dott. Donadio; il dott. Donadio mi formulò delle domande; non comprendevo cosa volesse apprendere. Mi fece delle domande su tale Giovanni AIELLO; io confermai di conoscerlo ma venni "tirato" nel discorso senza conoscerne il motivo. Preciso che il Dott. Donadio non mi ha costretto a dire nulla; mi ha solo "accompagnato" nel discorso suggestionandomi...

ADR: Io mi sono spaventato di quanto riferito da Donadio su Aiello, non mi sono fidato, seppi da Donadio che Aiello era uno dei Servizi Segreti, era presente in via D'Amelio e mi sono spaventato.

Il verbale viene sospeso alle ore 15.40.

L'interrogatori viene ripreso alle ore 15.42.

ADR: quando parlava il Donando, io anticipavo le risposte essendo intuitivo e pur non conoscendo l'Aiello ci azzeccavo, come voi mi fate rilevare sulla vicenda del suo addestramento e del fatto che abitasse sulla Ionica calabrese. Io mi sono anche preoccupato dopo l'accadere di diverse situazioni strane che si verificarono dopo il predetto colloquio investigativo; ricordo che una mattina, nel mese di febbraio 2013 e nel luogo di protezione, si fermò una Fiat Punto. Un uomo in borghese che si qualificò come Carabiniere, chiamandomi per nome, mi disse di salire a bordo. Con lui c'era un'altra persona. Mi portarono fuori Macerata presso una Bravo marrone dove c'erano altri due carabinieri, verosimilmente dei servizi, per come io ho capito. In macchina vi erano due persone; quello lato passeggero mi disse di "stare attento" dato che avevo parlato di Aiello di cui non avrei, invece, dovuto parlare. Nel discorso io riferii di avere delle registrazioni che avevo fatto dopo il colloquio con Donadio che dimostravano che io non avevo detto nulla su Aiello; queste persone vennero a casa e presero queste registrazioni che io gli consegnai. Ripeto: in quel giorno, io ero per strada, si avvicinò una Fiat Punto di colore grigio e mi portarono fuori città dove vi era anche una Fiat Bravo di colore marrone. La persona che mi agganciò, si qualificò come Carabiniere; era alto, dall'età apparente di 35 anni. Sul sedile posteriore, ricordo, vi era il lampeggiante. Ho notato, una volta salito in macchina, le due persone che erano armate con pistole Beretta. Voglio rappresentare che 4 mesi fa, a giugno circa, nel luogo di protezione, si sono presentate delle persone dove lavora la mia compagna ed hanno chiesto informazioni sulla mia persona al datore di lavoro di Laila come ho appreso nel corso di un colloquio anche telefonico...omissis...

Per tornare all'incontro preciso che i due sulla Fiat Punto mi accompagnarono dove vi era una Bravo. Su detta macchina vi era una persona pelata, con accento laziale, che formulava le domande di circa 40 anni. Questi mi disse prima di stare tranquillo. Mi disse che sapeva che io aveva parlato di Aiello e mi disse che dovevo stare attento specie nel futuro a parlare di certi argomenti. Io dissi che a Donadio non avevo raccontato nulla di Aiello; a questa persona io consegnai le registrazioni.

ADR: in quel giorno non avevo registratore e telefonino al seguito. Dopo il colloquio investigativo ho iniziato a registrare perché ero spaventato. Le udienze le registravo per comprendere, nell'immediatezza, quello che avevo raccontato. Mi pare che l'incontro di cui vi ho detto è occorso nel mese di febbraio. Preciso che in seguito successero altri fatti strani. Vennero delle persone che volevano entrare nella mia casa nella località protetta. Io non li conoscevo e disse che prima avrei chiamato ai miei referenti di zona e loro preoccupati se ne andarono.

ADR: Ho diffidato di Donadio perché ho pensato che il tutto, tutte le sue domande su Aiello, fossero correlate, una specie di ritorsione, alle mie dichiarazioni rese sul conto del Dott. Cisterna pure lui della Dna. Mi voleva mettere in difficoltà.

ADR: Mi chiedete se comunque io avevo mai sentito parlare prima di allora, prima che Donadio mi facesse simili domande di Aiello. Vi dico la verità: Aiello lo sentii nominare all'Asinara; ero stato lì detenuto nel periodo 1992/1995...omissis....

ADR: Nessuno mi ha detto di scrivere quanto ho scritto nei memoriali contro il Dott. PIGNATONE, PRESTIPINO e CORTESE. Mi sono spaventato dato che, dal mese di giugno 2011 in poi, ai miei figli hanno bruciato la macchina ed a mio fratello il furgone. Volevo ritrattare quanto già raccontato ma volevo, nel contempo, aiutarvi. Nei due memoriali che ho scritto ho cercato di fornirvi degli elementi che possano aiutarvi. Comunque le mie accuse ai predetti inquirenti erano del tutto capziose e dettate dal momento di sconforto.

ADR: I memoriali li ho scritti io. A conferma della falsità di quelle accuse non ho mai confermato a verbale quanto ho scritto su Pignatore e gli altri; ripeto li ho scritti perché avevo perso la fiducia...omissis...

ADR: La mia compagna Laila vive in località protetta; ho appreso da lei, al telefono, che pochi mesi fa a Giugno, si erano presentati dal datore di lavoro della stessa, due persone qualificatesi come Carabinieri. Questi hanno mostrato al datore di lavoro della mia compagna, delle foto che la ritraevano ed hanno chiesto il motivo per il quale lavorava in quel luogo. Per quanto mi è stato riferito, al datore di lavoro, che si intimorì, venne indicato che era la mia compagna e che io ero un appartenente alla 'ndrangheta...omissis....

ADR: non ho raccontato di Aiello, nella prima fase della mia collaborazione, perché avevo paura...mi è rimasta impressa la sua freddezza. Sembrava non avesse mai emozioni. Spontaneamente: io temevo Aiello ed ho paura anche ora, potrei morire anche in carcere, che ne so.

ADR: io chiesi ad Aiello della bruciatura che aveva in volto e lui mi disse che era stata provocata durante una operazione, dallo scoppio di un'arma, fucile o di una pistola, non ricordo...

ADR: nel terzo memoriale che io stavo scrivendo prima del mio arresto, parlavo di Rocco FILIPPONE; questi è il responsabile, il mandante, dell'omicidio dei Carabinieri eseguito da Villani e Calabrò. Ciò mi venne detto da Villani. Ad Oppido Mamertina, intorno al 1991, così come Villani mi raccontò nell'anno 2000 o 2001, si incontrarono Filippone, Giuseppe de Stefano, Giuseppe GRAVIANO ed altri, per definire che si dovevano uccidere nell'ambito di una strategia stragista, fra gli appartenenti alle FFOO, solo appartenenti all'Arma dei Carabinieri.

ADR: sapevo che Filippone, di Melicucco, era uno dei capi della Tirrenica.

ADR: preciso, a richiesta, che ho timore sia di Aiello che della famiglia dei Condello. Ho più paura di Aiello perché è esponente di un mondo che non conosco. Non so chi ci sia dietro...omissis..."

Nino Lo Giudice, il "Nano", è un boss della 'ndrangheta pentito. Che, però, scappa. E non lo fa nell'ambito della sua carriera criminale e nemmeno quando, da collaboratore, accusa parenti stretti, ma anche pezzi delle Istituzioni. Scappa quando la Direzione Nazionale Antimafia gli chiede di Giovanni Aiello, il poliziotto dei servizi segreti noto come "faccia da mostro". A quel punto, il "Nano" si terrorizza. Lo Giudice si terrorizza e inizia a svalvolare, quando si parla di Aiello e quando inizia a ricevere una serie di incursioni da soggetti ritenuti nell'orbita dei servizi segreti. Ora, però, è possibile fare degli ulteriori passi in avanti verso una più completa (anche se non ancora esaustiva) ricostruzione dei fatti che indussero il Lo Giudice a fuggire. Quelle accuse alla squadra di Pignatone erano false e attraverso le indagini sarà possibile comprendere quali ragioni, quali forze, quali intimidazioni condizionarono il Lo Giudice, ma non sarà, invece, possibile individuare e dare un nome ed un cognome a chi materialmente fece sentire il Lo Giudice in una condizione di pericolo imminente. Il colloquio investigativo svolto nel Dicembre del 2012 alla Dna, fu l'elemento, il fattore, che innescò la spirale che condusse Lo Giudice alla fuga, ma non fu il colloquio investigativo in sé, o meglio, le modalità di conduzione dello stesso da parte della Dna, a spaventare il Lo Giudice - uomo che, deve ragionevolmente ritenersi, per il suo passato e per la sua personalità, per terrorizzarsi, deve essere sottoposto a ben altro che ad un, sia pure serrato, colloquio investigativo. E invece si terrorizza.

Come si evince dallo stesso tenore delle dichiarazioni di Lo Giudice, lo stesso ruotava intorno a due questioni: la figura di Giovanni Pantaleone Aiello - ex poliziotto in servizio alla Squadra Mobile di Palermo legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati; le vicende degli assalti ai Carabinieri oggetto dell'inchiesta. Evidente che fossero questi i nervi scoperti di quella che, fino ad allora, era stata, invece, la regolare e apparentemente completa collaborazione di Nino Lo Giudice. Nervi scoperti che venivano colpiti non certo dalle modalità del colloquio investigativo in Dna, visto che Lo Giudice, come si è detto, non solo è stato un incallito criminale, ma aveva vasta esperienza di contro-esami particolarmente incalzanti nel corso della sua non breve carriera di collaboratore, ma, evidentemente, dagli argomenti, del tutto nuovi, che in quella sede venivano affrontati. Invero, il "Nano", fino a quel momento, aveva affrontato interrogatori e contro-esami assai spinosi, non solo su questioni e delitti legati alla sua appartenenza alla 'ndrangheta, ma anche sulla responsabilità ed il coinvolgimento di suoi congiunti in tali fatti, primo fra tutti quello di suo fratello Luciano. Ma non solo. In tale contesto aveva anche riferito dei contatti che lui e suo fratello Luciano avevano con appartenenti alla magistratura ed alle Forze dell'Ordine. Eppure mai aveva ritrattato. Mai aveva smesso di collaborare. E men che meno si era terrorizzato, aveva messo in guardia i congiunti ed aveva tentato di fuggire. Né, mai, aveva manifestato agli inquirenti, non solo espressamente, ma neppure per fatti concludenti, preoccupazione per la sua incolumità e per quella dei suoi cari. Tanto meno, lo aveva fatto in termini così drammatici. Evidente, allora, che Lo Giudice, fra i diversi argomenti "scottanti" da lui affrontati, riteneva davvero pericolosi (sia per lui che per i suoi cari) proprio quelli affrontati nel colloquio investigativo del Dicembre 2012 alla Dna. E cioè quelli che lo portavano sul terreno delle stragi e dei suoi possibili ulteriori protagonisti e quello dei suoi rapporti (confermati peraltro, non solo dal Villani, ma, anche, da altri elementi indiziari) con un soggetto quale Aiello, che sulla stessa base delle dichiarazioni del Lo Giudice, risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate.

E ciò, tuttavia, seppure poteva preoccupare il Lo Giudice in misura fuori dall'ordinario (per usare un eufemismo) di fatto, non era, ancora, sufficiente a terrorizzarlo e a fargli prendere le decisioni più drammatiche e definitive, cioè la fuga dal luogo di protezioni e l'invio delle missive di ritrattazione. Il turbamento del Lo Giudice, a seguito dello svolgimento del colloquio investigativo, peraltro, lo si comprende appieno, anche alla luce di un ulteriore fattore: la miscela fra gli argomenti trattati nel corso del colloquio investigativo e l'appartenenza del Magistrato che conduceva il colloquio – il dott. Gianfranco Donadio - alla Direzione Nazionale Antimafia. Invero si trattava dello stesso Ufficio del quale, fino a pochi mesi prima, aveva fatto parte il dott. Alberto Cisterna (che, come il dott. Donadio, era Procuratore Aggiunto della Dna). Ed il dott. Cisterna, proprio a seguito delle indagini seguite alle reiterate accuse dello stesso Lo Giudice - che attribuiva al Cisterna comportamenti ambigui e collusivi con suo fratello Luciano, indagato per gravissimi reati di criminalità organizzata – era stato trasferito dal CSM, dalla Dna ad altra sede. A ciò si aggiunga che dalle narrazioni di Lo Giudice, Cisterna e Aiello erano, sia pure indirettamente, legati fra loro dal fatto che entrambi erano in rapporti con il Capitano Spadaro Tracuzzi, Ufficiale di pg, condannato per avere concorso, da esterno, nell'associazione mafiosa denominata cosca Lo Giudice. Si comprende, allora la ragione per la quale Lo potesse essere impressionato e suggestionato dal colloquio in questione anche in ragione del timore che Donadio, per motivi di colleganza con il Cisterna e per una sorta di ritorsione contro lo stesso collaboratore, volesse, attraverso il colloquio, esporlo a due pericoli particolarmente gravi: quello derivante dall'evidenziare, dal rendere notori, per la prima volta, in un atto d'indagine, le connessioni del Lo Giudice con entità deviate dello Stato di eccezionale pericolosità, connessioni di cui, però, fino a quel momento, Lo Giudice stesso (pur dovendolo fare) non aveva mai riferito; metterlo nel mirino delle ritorsioni di Aiello e delle entità deviate cui lo stesso Aiello era collegato, avendo disvelato, Lo Giudice, circostanze di fatto pericolose proprio per i circuiti deviati in cui, l'Aiello, sarebbe inserito. Lo Giudice spiegava che, non solo, aveva notato presenze inquietanti nelle adiacenze della sua abitazione in località protetta e che vi erano stati dei tentativi di contattarlo da parte di soggetti non meglio identificati, ma che il contatto, infine, vi era stato e che, avvicinato e portato, manu militari, in una macchina da sedicenti carabinieri, verosimilmente in servizio presso qualche apparato di sicurezza, era stato ammonito a non parlare più di Aiello. Lo Giudice, all'esito del colloquio investigativo con il dott. Donadio, si era impegnato a fornire, non appena rientrato in località protetta, per il tramite di Ufficiali di pg delegati, al Procuratore Nazionale Antimafia, una copia cartacea di alcune foto di Aiello "faccia da mostro". Foto che aveva custodito nel suo pc, di cui, a suo dire, disponeva, in quanto consegnategli dal suo affiliato Antonio Cortese sottoposto a colloquio investigativo dal Pna). Cortese, sempre secondo il racconto di Lo Giudice, aveva avuto, a sua volta, la disponibilità di queste foto, in quanto, lo stesso Lo Giudice gli aveva ordinato di scattarle (all'insaputa di Aiello) durante un pedinamento dello stesso Aiello ordinato, sempre, dal Lo Giudice (che evidentemente non si fidava di Aiello, di cui aveva, già allora, un chiaro timore) per avere una traccia dei luoghi e delle persone frequentate da Aiello.

Così, dunque, nascono memoriali e video per screditare il corso palermitano a Reggio Calabria. E tale filmato, girato la sera del colloquio investigativo e cioè la notte fra il 14 ed 15 Dicembre 2012, veniva, poi, inviato, su opportuno supporto informatico, a chi di dovere, alcuni mesi dopo, in uno con i memoriali di ritrattazione. Che, peraltro, se, davvero, nulla avesse avuto a che fare con Aiello, non si capisce perché si sarebbe dovuto preoccupare tanto. Mentre, quella paura, quel terrore, quella concitazione, potevano spiegarsi ed avere una loro logica solo se fossero ricorse due condizioni: l'effettiva esistenza di tali rapporti e, al contempo, la loro straordinaria pericolosità che consigliava di occultarli per quanto possibile.

Nicola Calipari era nel mirino dei clan, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". In una intercettazione ambientale del 12 febbraio 2016, i colloquianti compiono espliciti riferimenti a soggetti di 'Ndrangheta di origine cosentina ed ai propositi omicidiari di questi nei confronti del dott. Nicola Calipari, all'epoca dirigente della Squadra Mobile di Cosenza. Da agente dei servizi segreti, Calipari, reggino, morirà nel marzo del 2005 a Baghdad, in Iraq, nell'operazione per liberare la giornalista Giuliana Sgrena. In sintesi Giuseppe Graviano spiegava ad Adinolfi che i calabresi avevano richiesto a Cosa Nostra, forti del legame ormai instaurato, di uccidere il funzionario della Mobile di Cosenza Nicola Calipari approfittando della circostanza che lo stesso si recava nella città di Palermo per ragioni di carattere sanitario (problemi di fertilità) riguardanti sua moglie; in tale contesto dopo un iniziale assenso ed una iniziale collaborazione fornita da Cosa Nostra, Graviano si vanta di aver bloccato la esecuzione del delitto salvando la vita al Calipari; di rilievo risulta anche la esatta indicazione della clinica presso la quale avvenivano le visite della moglie di Calipari. Particolari inquietanti che arrivano dalle affermazioni dei collaboratori di giustizia Nicola Notargiacomo e Dario Notargiacomo. Il primo, esponente della 'Ndrangheta cosentina, aveva beneficiato dell'ospitalità dei Graviano presso il Villaggio Euromare formalmente di Tullio Cannella, ma di fatto nella disponibilità dei Graviano di Brancaccio. Premesso che i rapporti dei Notargiacomo con esponenti di Cosa Nostra si estendevano anche a Leoluca Bagarella e Nino Marchese, per rimanere ai personaggi di maggiore spessore, risultava che Bagarella avesse stretto, durante le sue carcerazioni, strettissimi rapporti con esponenti della destra eversiva, fra i quali il Mario Di Curzio. Accertata la piena attendibilità del narrato dei Notargiacomo e cioè, in primo luogo, i comuni periodi di detenzione fra gli interssati, si rileva che il Di Curzio, pur non avendo precedenti per reati "politici" effettivamente, in corso di detenzione si era avvicinato agli ambienti della destra eversiva tanto che unitamente a Concutelli ea d altri, partecipava, in ambiente carcerario a manifestazioni contro l'Amministrazione. Alla luce del ruolo dei fratelli Notargiacomo, i riferimenti operati da Graviano alla vicenda Calipari sono divenuti meritevoli di riscontro. Si è reso necessario, in particolare, verificare i singoli passaggi del colloquio intercettato partendo dalla escussione del collaboratore di giustizia Giovanni Drago, per il ruolo di estremo rilievo dal predetto rivestito nel mandamento di Ciaculli/Brancaccio, il quale il 4 maggio 2017 ha dichiarato quanto segue: "Ricevo lettura del mio precedente interrogatorio del 22.11.2013:

"ADR: Per il tramite di Marchese Antonino e quindi mio, i Graviano e in particolare Giuseppe strinsero i rapporti con alcuni gruppi di 'ndrangheta. In particolare ricordo i fratelli Notargiacomo, certo Pino (non ricordo se era un nome o cognome) e due che sono morti per lupara bianca. Con loro trafficavamo in armi e droga. Ho riferito già a suo tempo di questi rapporti. Posso dire che nel 1988/90 li abbiamo ospitati presso l'Eurovillage di Buonfornello di Cannella. Erano scampati ad un agguato e, verosimilmente, o si stavano nascondendo dai nemici o erano (anche) latitanti..."

Confermo pienamente quanto dissi a suo tempo nel verbale sopra riportato. A vostra richiesta e domanda preciso che fu proprio Marchese Antonino, forse, ma non sono sicuro, unitamente a suo fratello Giuseppe, a conoscere per primo, fra noi di Cosa Nostra palermitana, i suddetti Notargiacono. Ricordo che tale conoscenza avvenne nel carcere di Trani dove Marchese Antonino, e forse Giuseppe, erano detenuti unitamente ai Notargiacomo. In seguito a questo periodo di co-detenzione con il (o i) Marchese, i Notargiacomo vennero scrarcerati prima del (o dei) Marchese suddetti (Marchese che, infatti, per quanto mi risulta, negli anni successivi sono rimasti detenuti). Fu quindi Gregorio Marchese, che invece era libero e non era stato detenuto a Trani (ma se non erro in quel periodo non è mai stato detenuto) fratello di Giuseppe e Antonino, nonché mio cugino, a presentarmi i Nortargiacomo che io stesso ho poi presentato a Giuseppe Graviano. In tutta evidenza, quindi, i Marchese detenuti (Antonino e, forse Giuseppe) avevano fatto da tramite con il fratello Gregorio per metterlo in contatto con i Notargiacomo e ritengo che ciò possa essere avvenuto nel corso di colloqui con i familiari nel suddetto carcere di Trani. Preciso che Gregorio Marchese era uomo a nostra disposizione, pur non essendo uomo d'onore. Egli faceva continuamente da tramite fra noi del Mandamento di Ciaculli, i suoi fratelli detenuti - che invece, a sua differenza, erano uomini d'onore - e altri esponenti anche di rilievo di Cosa Nostra. In tale contesto il Gregorio Marchese ci presentò i Notargiacomo. Si tenga presente che all'epoca ( siamo nella seconda metà degli anni 80') il Mandamento di Ciaculli comprendeva anche la famiglia di Brancaccio, oltre che quelle di Corso dei Mille e di Roccella, dunque per tale ragione è evidente che la conoscenza con i Notargiacomo venne immediatamente fatta anche dal Graviano Giuseppe che reggevano la famiglia di Brancaccio posto che io, come uomo d'onore, facevo parte della famiglia di Brancaccio ed avevo un rapporto quotidiano e fraterno con i Graviano stessi. Peraltro Giuseppe Graviano, dopo l'arresto di Lucchese Giuseppe, che era il capo Mandamento di Ciaculli, divenne colui che di fatto dirigeva il predetto Mandamento. Preciso che ero io stesso, in prima persona, che, unitamente a Giuseppe Graviano, anche quando Lucchese era libero, avevo rapporti con i Notargiacomo, dunque parlo di rapporti che ho vissuto direttamente. In tale contesto si colloca la vicenda di Buonfornello di cui ho detto e tutte quelle relative ai comuni traffici di armi e droga che avevamo noi di Brancaccio con i tre fratelli Notargiacomo. Rapporti di cui ho riferito ampiamente in precedenti verbali. A vostra richiesta, premesso che i fratelli Notargiacomo erano tre, preciso che i rapporti li avevo solo con Nicola e Dario Notargiacomo. Fra i loro sodali ho conosciuto anche i fratelli Bartolomeo e un tale Pino, tutti calabresi (di Cosenza) come i Notargiacomo. A vostra domanda vi dico che non ricordo con esattezza il nome del terzo fratello Notargiacomo, che non ho mia conosciuto, forse si chiamava Roberto, ma non sono sicuro. Colloco questi rapporti con i Notargiacomo ed i loro sodali in un periodo che si è sviluppato fra il 1985/86 (comunque dopo la scarcerazione dei Notargiacomo) fino all'inizio degli anni '90. Mi chiedete se i Notargiacomo si siano mai lamentati dell'azione investigativa o comunque del comportamento di qualche uomo dello Stato. Si ricordo bene questa circostanza. Mi pare di averne già parlato in qualche verbale. In ogni caso ricordo che i Notargiacomo si lamentavano, anche con me personalmente, sia del Direttore di un Carcere, che operava dalle loro parti (direttore che, se non ricordo male, poi, è stato ucciso) in quanto a loro dire pare fosse stato molto duro nei loro confronti ed aveva fatto, sempre a loro dire, degli abusi contro di loro, che di un funzionario di polizia, sempre operante delle loro parti, quindi a Cosenza, che indagava con molta capacità e decisione su di loro. Con riferimento a questo funzionario, ricordo che i Notargiacomo ci dissero che lo stesso veniva a Palermo, mi pare con cadenza mensile, in quanto aveva la moglie in stato di gravidanza che si faceva seguire da un noto ginecologo palermitano, mi pare, ma non sono sicuro, tale dott. Cittadini. Ricordo che questo nome, quello del ginecologo, è stato da me fatto ai PPMM, molti anni fa, a verbale, quando la mia memoria era più fresca. In ogni caso i Notargiacomo ci dissero e lo dissero in particolare a Graviano Giuseppe, essendo anche io presente, questo particolare delle visite ginecologiche della moglie di questo funzionario, in quanto volevano essere autorizzati dal Graviano Giuseppe ad uccidere detto funzionario quando, accompagnando la moglie, veniva a Palermo. Se non ricordo male ci dissero anche il tipo di macchina che utilizzava il funzionario per accompagnare la moglie dal ginecologo. Questo ginecologo aveva lo studio a Palermo in zona centrale, ma in territorio di competenza di mandamento diverso dal nostro. Mi pare di avere specificato bene il luogo dove il funzionario si recava con la moglie e quindi il luogo dove il predetto ginecologo faceva le visite alla moglie del funzionario di polizia. Se non ricordo male, tale luogo è dalle parti del Teatro Massimo e del Politeama. Questa richiesta o meglio questa richiesta di essere autorizzati a commettere il delitto, venne fatta dai Notargiacomo quando Lucchese Giuseppe era ancora libero. Ricordo che ricevuta la richiesta, il Graviano ne parlò con Lucchese e ricordo che io presi parte alla conversazione. Lucchese prese atto della richiesta e disse che ne doveva parlare a Riina e, quindi, in Commissione. In seguito Graviano Giuseppe mi disse che di quell'attentato al funzionario di polizia cosentino da farsi a Palermo non se ne faceva nulla perché non era il momento di fare "chiasso" con un atto così eclatante. Di seguito tale diniego venne comunicato dal Graviano ai Notargiacomo. Quindi in effetti l'attentato non venne fatto.

ADR: Non ricordo assolutamente il nome del funzionario di polizia che doveva essere ucciso dai Notargiacomo.

ADR: Non sono in grado di dire come i Notargiacomo sapessero di queste visite a Palermo del funzionario di polizia e della moglie. Forse avevano una talpa o forse qualcuno ne aveva seguito gli spostamenti.

ADR: questo episodio della richiesta di potere uccidere a Palermo il funzionario di polizia è sicuramente precedente al soggiorno dei Notargiacomo presso il villaggio Euromare di Buonfornello".

Le successive acquisizioni, provenienti dall'apporto dichiarativo dei fratelli Notargiacomo, confermavano in pieno il narrato di Drago. Il 4 maggio 2017, invero, Nicola Notargiacomo precisava: "Ricevo lettura di stralcio del verbale da me reso in data 28.6.2016:

ADR: Ho conosciuto Giuseppe Graviano nel 1988 quando mi recai a Palermo insieme a Bortolomeo Stefano e mio fratello Dario. Avevo rapporti con i siciliani in quanto in carcere a Trani, nel 1985 io e Bartolomeo Stefano avevamo conosciuto Nino Marchese. Io all'epoca ero inserito nel gruppo Perna operante nella zona del cosentino. La cosca Perna era contrapposta a quella Pino/Sena. Non eravamo riconosciuti, come cosca, dal crimine di Polsi, anche se eravamo operativi come locale di Cosenza ed avevamo rapporti molto intensi, anche grazie a me, con i Nirta, gli Aricò (Destefaniani di Reggio Calabria) e i Pelle.

ADR: Più precisamente fu Drago Giovanni che a sua volta ci era stato presentato da un fratello di Nino Marchese, a presentarci Giuseppe Graviano. Si instaurò un rapporto privilegiato proprio con Giuseppe Graviano. Iniziammo a scambiarci, armi, esplosivi, droga. Più precisamente noi vendevamo a Giuseppe Graviano e a tutta la famiglia di Brancaccio, armi automatiche (UZI, kalashnikov, ecc), acidi, loro vendevano a noi stupefacenti del tipo cocaina ed eroina, inoltre ebbero a regalarci del tritolo per un quantitativo di circa 25 kg. Tutto ciò avvenne fra il 1988 ed il 1989, anno nel quale, a seguito di un conflitto a fuoco nel quale Bartolomeo Stefano ebbe a subire gravissime ferite, ci rifugiammo nel villaggio Euromare di Buonfornello. Preciso che andammo presso questo villaggio in quanto Giuseppe Graviano ci aveva detto che aveva dei medici che potevano curare il Bartolomeo Stefano. Ed in effetti così fu. Al Villaggio Euromare abbiamo avuto rapporti diretti e frequenti con Giuseppe Graviano (che io sapevo essere il vero titolare del villaggio), Cristofaro Cannella, Tullio Cannella, Marcello e Vittorio Tutino, Cesare Lupo, vero factotum dei Graviano, ed altri ancora. Ricordo anche uno che faceva da supporto continuo a Bagarella Leoluca. Mi chiedete se questa persona fosse tale Calvaruso. Si, lui, Toni Calvaruso. Andai con lui in barca all'isola delle femmine.

ADR: In tale Villaggio rimanemmo fino ad Ottobre 1989 (eravamo arrivati nel Giugno dello stesso anno). Ricordo, circostanza che mi indisse ad andare via, che Graviano Giuseppe mi disse che secondo un "professore" che aveva visitato Stefano Bartolomeo, il predetto aveva oramai riportato a seguito delle ferite, sotto un profilo psicologico, gravi e permanenti conseguenze che lo avrebbero reso inaffidabile. Si erano, poi, determinate ulteriori situazioni incresciose che incrinarono i nostri rapporti con il Graviano. In particolare, a mia insaputa avevo intrecciato una relazione con una ragazza che solo in un secondo momento venni a sapere trattarsi di una cugina di Lupo Cesare. Poi Graviano reclamava (come mi disse Marcello Tutino nel ristorante Happy Days di Giovanni Lombardo) una parte di pagamento non ancora soddisfatto di un fornitura di cocaina.

ADR: Giuseppe Graviano è anche venuto a farci visita a Cosenza con sua moglie, sua cognata e con Marcello Tutino, nell'estate 1988. Andammo insieme a Camigliatello Silano per fare una gita. Pernottarono presso l'abitazione di Bartolomeo Stefano sita in Contrada Andreotta.

ADR: i nostri rapporti con Giuseppe Graviano, sia pure in modo non traumatico, in concreto, si interruppero, quindi, nel 1989 a seguito delle incomprensioni di cui ho detto.

ADR: Tutte le vicende relative ai rapporti illeciti fra noi e i Graviano hanno avuto uno sviluppo processuale, con condanne, a Palermo. Sono i processi cd "Ferryboat" che si sono chiusi più o meno nel 1997/98.

ADR: Non ho mai parlato con Giuseppe Graviano dei suoi rapporti con componenti della 'Ndrangheta diversi da noi. Certamente ne aveva. Non gli mancavano. Ma non ne parlammo mai espressamente. Ora che ricordo, per fare un esempio di quanto il Graviano potesse essere inserito in rapporti con esponenti della 'Ndrangheta, una volta, lo stesso mi chiese se, per le nostre esigenze a Cosenza, avessimo avuto bisogno di killer. In caso positivo, aggiunse, poteva farmi entrare in contatto con i Facchineri di Cittanova che, disse, erano suoi amici. Posso dire che Graviano aveva agganci ovunque...omissis". Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. Si tratta di episodio che non ho vissuto direttamente ma che mi è stato raccontato da mio fratello Dario. In effetti mio fratello Dario mi disse che era stato a Palermo con Bartolomeo Stefano ed aveva richiesto a Graviano Giuseppe di essere autorizzato ad uccidere un Ispettore di Polizia a nome Toni Provenzano, che faceva servizio alla Questura di Cosenza. Il Provenzano aveva sposato la sorella di una ex moglie di mio fratello Dario. Questa donna, cioè l'ex moglie, si chiamava Caloiero Stefania. Il Provenzano ci dava fastidio. Spesso fermava mio fratello, lo controllava. Abusava della sua divisa per motivi penso personali. Insomma dava noia. Eccedeva. Era troppo zelante. Mio fratello mi disse che il Provenzano per suoi motivi spesso andava a Palermo. Se non ricordo male il Provenzano aveva in cura a Palermo qualche suo parente. Non ricordo che parente fosse né di che tipo di cure avesse bisogno. A vostra domanda, che mi chiedete perché scomodare Cosa Nostra per uccidere un Ispettore di Polizia a Palermo, che facilmente avremmo potuto uccidere in Calabria, rispondo che comunque a noi sembrava che ucciderlo a Palermo fosse la cosa migliore perché in questo modo nessuno poteva sospettare di noi e soprattutto ci fidavamo dei palermitani e dell'appoggio che avrebbero potuto darci. Ricordo che mio fratello Dario mi disse che aveva chiesto l'autorizzazione a Giuseppe Graviano, che all'epoca era capo-mandamento per commettere l'omicidio in questione e che il Graviano, dopo essersi consultato con Riina, gli disse che non era il caso di commettere questo delitto a Palermo perché in quel momento un delitto eclatante avrebbe determinato conseguenze pregiudizievoli per cosa nostra. Questi fatti sono avvenuti nel 1998 (in realtà è il 1988, come ricavabile dal certificato storico di detenzione e dal fatto che lo stesso iniziò a collaborare con la giustizia nel 1993 – n.d. PM), subito dopo la nostra scarcerazione.

ADR: Io non ho mai conosciuto Giuseppe Lucchese. Conosco il nome, ma non l'ho mai visto. A vostra domanda chiarisco che, per quanto mi risulta, quello del Provenzano è l'unico omicidio in relazione alla cui esecuzione abbiamo richiesto l'autorizzazione a Graviano, ovvero la sua collaborazione. A vostra domanda preciso che non ricordo proprio che noi abbiamo richiesto la collaborazione di Cosa Nostra per uccidere un qualche Direttore di Carcere.

ADR: Non ho un fratello a nome Roberto siamo solo due fratelli io e Dario. Esiste un Roberto che è il fratello di Stefano Bartolomeo".

Analogo apporto proviene dalle dichiarazioni di Dario Notargiacomo, il quale sempre in data 4 maggio 2017 dichiarava: "Ricevo lettura del mio verbale del 6.7.2016. "A sua domanda preciso di aver iniziato a collaborare con la giustizia nel dicembre 1993, in un periodo in cui ero sottoposto alla misura della semilibertà che ho in seguito violato a seguito di alcuni episodi che mi hanno messo in allarme. Ho poi deciso di collaborare con la giustizia in quanto ha avuto paura per la mia incolumità: per tali ragioni mi sono trasferito a Roma, dove ho beneficiato dell'aiuto dei fratelli CARDELLI attraverso i quali ho mantenuto rapporti con persone vicine al clan SENESE. Ho conosciuto i fratelli GRAVIANO tramite Nino MARCHESE quando ci trovavamo tutti insieme nel carcere di Trani. In quel periodo ho conosciuto anche Leoluca BAGARELLA. I contatti con la famiglia MARCHESE erano tenuti anche da Stefano BARTOLOMEO che aveva rapporti molto stretti anche con Giovanni DRAGO. I rapporti con i GRAVIANO si instaurarono attraverso questo circuito e divennero particolarmente stretti nel tempo tanto che Giuseppe GRAVIANO venne a trovarci a Cosenza. A seguito di tali primi contatti, ai fratelli GRAVIANO abbiamo fornito numerose armi, corte e lunghe, che venivano acquistate dai PARADISO di Lamezia Terme. Le armi venivano vendute ai GRAVIANO ed ai MARCHESE: ricordo che i nostri rapporti si sono estesi anche a Fifetto CANNELLA. Le armi che vendevamo ai GRAVIANO, anche attraverso Stefano BARTOLOMEO ed il fratello Roberto, ci venivano regolarmente pagate. Dai GRAVIANO invece noi acquistavamo sostanza stupefacente del tipo eroina. Tutto questo si svolge nel periodo che va dal 1988 al 1990. A sua domanda confermo di essere stato ospite dei GRAVIANO in Sicilia nel 1989 presso un villaggio turistico nei pressi di Termini Imerese, che mi pare si chiamasse Euromare: tale villaggio era nella disponibilità di GRAVIANO Giuseppe. In tale località ho incontrato oltre ai fratelli GRAVIANO anche Giovanni DRAGO, Fifetto CANNELLA e Tullio CANNELLA. Il nostro soggiorno in Sicilia avviene dopo il ferimento di Stefano BARTOLOMEO, in quanto avevamo bisogno di un luogo tranquillo. Se non ricordo male lo spostamento in Sicilia venne programmato dal BARTOLOMEO che aveva rapporti diretti con i GRAVIANO. Intendo precisare che nel corso del soggiorno abbiamo avuto rapporti anche con Vittorio TUTINO e Cesare LUPO. Il rapporto tra me ed i fratelli GRAVIANO è sostanzialmente parificabile, anche se non sovrapponibile totalmente, a quello che aveva anche mio fratello con i predetti. Oltre a noi i GRAVIANO avevano rapporti con appartenenti alla 'Ndrangheta della zona di Polistena, di cui non ricordo il nome. Questo riferimento venne fatto in relazione alla situazione di Pino MARCHESE a cui non era stata riconosciuta la semi infermità mentale. Se non sbaglio fecero riferimento ad una avvocato o magistrato operante in Calabria che doveva interessarsi in Cassazione a favore del MARCHESE...omissis. Ricordo anche che Giuseppe GRAVIANO ci chiese la disponibilità di un alloggio in Sila da destinare alla latitanza di Totò RIINA: questo episodio è precedente al nostro soggiorno presso il villaggio Euromare. Intendo precisare che noi facevano parte del gruppo PERNA-PRANNO-VITELLI, in cui sono entrato nel 1981. Noi avevano una certa indipendenza che ci aveva affidato Franco PERNA: ciò valeva per il traffico di armi e di stupefacenti di cui parlavo prima. Questa indipendenza era stata guadagnata da noi per la capacità di gestire un gruppo di fuoco importante. È doveroso precisare, visto che me lo chiede, che Franco PERNA era a conoscenza dei nostri rapporti con i GRAVIANO: ricordo di aver informato il PERNA di tali rapporti nel corso della comune carcerazione in Pianosa nel 1986. Sono a conoscenza che i PINO/SENA avevano rapporti con la cosca BONURA di Palermo, come appresi da un certo Franco nel carcere di Cosenza nel 1990. Non ricordo se mi vennero riferiti altri particolari in merito a tale rapporto...omissis. I nostri rapporti con i GRAVIANO si interruppero nel 1990 con il nostro arresto. Nell'ultimo periodo i nostri rapporti si erano comunque rovinati. Ho saputo da Stefano BARTOLOMEO che tutto quello che i GRAVIANO facevano era conosciuto da Toto RIINA: mi disse in particolare che i GRAVIANO erano particolarmente rispettosi della linea di comando...omissis. Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. In effetti successe che io personalmente, accompagnato da Bartolomeo Stefano, parlai con Drago Giovanni - non ricordo con certezza, nell'occasione, la presenza di Graviano Giuseppe che non posso escludere, ma per noi era come se fosse presente perché era pacifico che quello che dicevamo a Drago, questi lo doveva riportare a Graviano - di un omicidio di un funzionario di Polizia, più esattamente di un Ispettore, tale Toni Provenzano. Toni Provenzano era il marito della sorella della mia ex moglie. La mia ex moglie si chiama Stefania Caloiero. Non ricordo il nome di sua sorella, moglie del Provenzano. In effetti il Provenzano non voleva imparentarsi, sia pure indirettamente, con un pregiudicato come me. Per questo mi aveva preso di mira e mi controllava di continuo abusando della sua funzione. Ciò sia prima della mia carcerazione a Trani (all'epoca ero già fidanzato con la mia ex moglie) che dopo ( io mi sono sposato con la mia ex moglie nel febbraio/marzo 1989 e mi sono separato di fatto da lei nel 1992) . Ricordo che era ossessivo, mi fermava per strada, mi perquisiva la vettura e così via con frequenza quasi quotidiana. Mi aspettava sotto casa. Insomma non ne potevo più. Senza contare che questo atteggiamento a mio avviso generato da motivi personali, arrecava danno alle attività criminali mie e del mio gruppo. Per questo, avendo saputo che il Provenzano si recava a Palermo per accompagnare la moglie da un noto ginecologo, chiesi (direttamente o indirettamente, non ricordo come ho detto) unitamente al Bartolomeo, l'autorizzazione al Graviano di commettere il delitto in questione. Ricordo che precisai ai siciliani che questo Provenzano era un poliziotto della Questura di Cosenza, presso la quale come capo della mobile operava dott. Calipari, buonanima. Ricordo che in un primo momento il Graviano ci diede l'assenso nel senso che disse o ci fece dire che se ne sarebbero "occupati loro". Una volta mi dissero, più esattamente fu il Drago a dirmelo, che avevano pedinato il Provenzano e che questo era entrato in una caserma per cui avevano interrotto il pedinamento. In un secondo momento Graviano, direttamente o indirettamente per il tramite del Drago ora non ricordo a distanza di tempo, mi disse o mi fece sapere che bisognava soprassedere alla esecuzione del delitto in quanto lo stesso Riina riteneva che il momento storico non era adatto, in quanto loro, dopo il delitto, avrebbero avuto la polizia addosso. In realtà io penso che Riina non voleva fare eseguire il delitto in questione in quanto rischiava di mettere in pericolo e quindi di bruciare il canale che aveva con noi e quindi la nostra preziosa collaborazione. Senza contare che vedeva a rischio anche la possibilità di avere rifugio nel cosentino nella casa sulla Sila che noi volevamo mettergli a disposizione. Ovvio che l'esecuzione dell'omicidio di un poliziotto cosentino a Palermo avrebbe potuto fare pensare ad una alleanza fra noi (si tenga conto che peraltro il Provenzano era quasi un mio parente) e Cosa Nostra e quindi il Riina.

ADR: Il dott, Calipari era un obbiettivo del gruppo Perna e in particolare di Franco Perna che lo voleva morto. Ciò fin da prima del nostro arresto e della nostra detenzione a Trani per l'omicidio Cosmai. Il Calipari era un poliziotto che dava "fastidio", molto tenace e, in particolare, aveva redatto dei rapporti indirizzati al Carcere di Cosenza e quindi al Cosmai, nei quali evidenziava la pericolosità di Franco Perna al fine di fargli revocare la semilibertà. Ciò in epoca antecedente e prossima al 1985. Insomma Calipari era in pericolo. A vostra domanda non escludo affatto che noi abbiamo parlato di queste intenzioni del Perna ai danni del Calipari anche con i siciliani. Tenete conto che questo tipo di delitti in danno di rappresentanti dello Stato, come il caso del Cosmai, agli occhi di Cosa Nostra era come se fossero delle "stellette" dei veri e propri segni distintivi della nostra capacità criminale e della nostra affidabilità. Dunque niente di più facile che parlando con i siciliani sia a Trani che a Palermo del delitto Cosmai, si sia fatto riferimento anche ai propositi del Perna (del cui gruppo abbiamo fatto parte fino al 1989) di uccidere il Calipari. Si tenga anche presente che, nel febbraio 1988, quando fummo scarcerati da Trani, il proposito del Perna di uccidere il Calipari era ancora attuale e noi eravamo ovviamente coinvolti in tale progetto posto che eravamo appartenenti alla cosca del Perna". La intervenuta conferma dei propositi omicidiari da parte dei collaboratori di giustizia ha imposto ulteriori approfondimenti di indagine attraverso la diretta escussione del V.Q.A. Antonio Provenzano, certamente individuato dai fratelli Notargiacomo come soggetto da uccidere in Palermo, e dell'On. Rosa Maria Villecco, vedova di Nicola Calipari.

Provenzano, escusso in data 17 maggio 2017, dichiarava: "ADR: Sono entrato in Polizia nel 1981. Ho preso servizio, nel 1985, presso la questura di Cosenza quale Vice Ispettore in servizio presso il dipendente Commissariato di Rossano Calabro. Nel 1985 ho preso servizio alla S. Volante di Cosenza che dipendeva dalla S. Mobile (all'epoca diretta dal dott. Nicola CALIPARI – n.d.P.M.). Sono stato due anni alle volanti (con intermezzi alla Digos) e nel 1988 sono stato spostato stabilmente alla Digos dove dirigevo una sezione. Sono rimasto alla Digos fino alla fine degli anni 90.

ADR: Mi sono sposato il 24.4.1983 con Caloiero Giuliana. La stessa tuttora è mia moglie. Abbiamo cercato di avere figli nostri nel 1983 e nel 1984. Mia moglie ha avuto due gravidanze ma – per interruzioni involontarie delle stesse - abbiamo perso i figli, per problemi riguardanti la salute di mia moglie. Infine abbiamo adottato.

ADR: Ovviamente abbiamo tentato di superare questo problema di salute di mia moglie che non riusciva a portare a termine le gravidanze facendoci assistere da specialisti. Ricordo in particolare che andammo a Palermo dal dott. Cittadini che ha una clinica, a nome Candela, alle spalle di piazza Politeama. Non ricordo esattamente le date delle visite. Certo iniziarono dopo le gravidanze interrotte e per alcuni anni continuarono fino alla fine anni 80', inizi 90'. Mi chiedete di essere più preciso sulle date ed io vi dico che consultando la documentazione a casa potrei risalire alle date esatte. Mi rappresentate che nel corso di questi miei viaggi a Palermo sono stato pedinato e ho rischiato un agguato. Mi chiedete di conseguenza di riferire chi fosse a conoscenza di questi miei viaggi a Palermo con mia moglie. Vi rispondo, in primo luogo, che non avevo mai sospettato di potere essere oggetto di tali attenzioni e poi che io non ho mai detto a nessuno, per ovvie ragioni di riservatezza, di questi miei viaggi a Palermo. A vostra domanda vi dico che non posso escludere che mia moglie abbia potuto riferire degli stessi a suoi congiunti, con particolare riferimento alla madre. Escludo che possa essersi confidata con le sorelle perché non si parlavano, se non con Anna Franca, con la quale aveva rapporti, invece.

ADR: In effetti la sorella di mia moglie, a nome Caloiero Stafania è stata sposata, per un breve periodo, con Dario Notargiacomo noto criminale della zona di Cosenza. Poi si sono separati.

ADR: E' vero che quando operavo alle volanti ho sottoposto in più circostanze i fratelli Notargiacomo a controlli anche molto puntuali e serrati. Preciso che questo era il mio modus operandi che attuavo in modo costante con tutti i pregiudicati. Faccio presente che avevo una mia tecnica particolare nel fare questi controlli. Ad esempio: notavo il pregiudicato x in una certa via e lo controllavo. Se lo vedevo tre ore dopo in altro luogo lo controllavo di nuovo. Era una cosa che faceva molto irritare i pregiudicati, non solo per il fastidio che procuravano, ma anche perché se il controllo evidenziava che più pregiudicati si accompagnavano fra loro, poteva scattare la diffida del Questore che poi poteva determinare il ritiro della patente. Per loro è una grave deminutio.

ADR: Mi chiedete se durante i miei viaggi a Palermo sia mai entrato in strutture militari o di polizia. Rispondo di sì. In una circostanza, non ricordo quando, per risparmiare, dormii in alcuni alloggi di servizio della Polizia di Stato (mia moglie era rimasta a dormire in Clinica) che si trovava dalle parti di una struttura sportiva. Il complesso era chiamato Le Tre Torri ed ospitava, mi sembra, più forze di polizia. Vi era sicuramente un posto di Polizia all'ingresso. Ricordo, inoltre, che in altre circostanze ho mangiato alla mensa utilizzata dalla PdS di Palermo. Non ricordo dove si trovava.

ADR: A Palermo io e mia moglie andavamo in automobile, la mia Fiat Uno. Partivamo la mattina presto da Cosenza in modo da arrivare lo stesso giorno in tempo per la visita del dott. Cittadini. In alcuni casi ritornavamo a Cosenza in giornata, ciò quando la visita era veloce e non richiedeva una presenza continuativa per un tempo apprezzabile di mia moglie. Quando invece era necessario che mia moglie si trattenesse per un tempo più lungo presso la Clinica del Cittadini, allora io pernottavo a Palermo. Come ho detto una volta presso un alloggio di servizio, altre volte in una pensione che stava a 50 metri dalla clinica, sullo stesso marciapiede.

ADR: Apprendo, più nel dettaglio, che la 'ndrangheta cosentina aveva richiesto, per il tramite dei Notargiacomo, a Cosa Nostra di procedere alla mia eliminazione quando soggiornavo a Palermo e che poi per ragioni indipendenti dalla volontà dei Notargiacomo l'attentato non ebbe luogo. Mi chiedete se sono in grado di spiegare questa volontà di eliminarmi da parte dei Notargiacomo e della 'ndrangheta cosentina. Mi chiedete se posso ricordare qualche specifico episodio che possa avere determinato tanto odio nei miei confronti. Rispondo che proprio il mio modo di fare ha determinato questo odio. Io ero "energico" con tutti nello stesso modo. Con i mafiosi, con i pezzi da 90 e con i ladruncoli da strada. Questo umiliava gli 'ndranghetisti che pretendono un rispetto anche formale dalla polizia anche per fare vedere alla popolazione che sono "importanti". Ritengo, per quella che è stata la mia esperienza, che, non molti, in Polizia a Cosenza, all'epoca, avevano il "fegato" per essere così inflessibili. Pochi si sottraevano alla debolezza di essere forti con i deboli e deboli con i forti. Io ero "forte" con tutti. Compreso con quelli della 'ndrangheta. Compreso con i Notargiacomo con cui evitavo accuratamente di avere rapporti e a cui riservavo un trattamento inflessibile come a tutti gli altri della 'ndrangheta.

ADR: Ero molto legato da un punto di vista professionale al dott. Calipari che è stato dirigente della Mobile a Cosenza anche quando le Volanti erano una sezione della S.Mobile. Ricordo che Calipari mi stimava molto. Non sono a conoscenza di progetti omicidiari in danno di Caliapari da parte della 'ndrangheta.

ADR: Tra i soggetti che ho controllato in modo inflessibile vi è stato anche BAROLOMEO Stefano. Non ricordo episodi particolari in relazione a tale soggetto". La definitiva conferma della reale situazione di pericolo vissuta da Nicola Calipari, la si otteneva in data 16 giugno 2017 da Rosa Maria Villecco, la quale a distanza di molti anni era in grado di fornire particolari certamente utili a riscontrare il contenuto dei colloqui di Graviano Giuseppe oggetto di intercettazione ambientale:

"ADR: Mio marito Nicola Calipari, è stato capo della Squadra Mobile di Cosenza fino al Maggio 1989. Aveva avuto l'incarico di funzionario della Mobile di Cosenza nel Luglio del 1982, ufficio che iniziò a dirigere nel 1984, dopo che il suo superiore aveva avuto un trasferimento.

ADR: In effetti mio marito a partire dall'estate del 1987 (ma potrei sbagliare di qualche mese) ebbe la scorta. Avevamo la volante fissa sotto casa (a Rende) e due uomini seguivano Nicola ovunque. Ebbe anche una vecchia blindata. Mio marito mi nascose inizialmente la situazione di pericolo. Mi disse, infatti, che tutti i capi delle Squadre Mobili calabresi avevano avuto precauzionalmente la scorta. Poi mi disse la verità. Aveva avuto minacce dalla 'Ndrangheta. Era una cosa che mi disse perché io venni avvicinata da una vicina di casa che mi disse che tutti sapevano che la scorta mio marito l'aveva avuta in quanto minacciato (peraltro la vicina mi fece intendere che sarebbe stato gradito un nostro trasferimento in altro condominio perché tutti, nel palazzo, erano preoccupati, specie per la sicurezza dei bimbi). A questo punto, come ho detto, chiesi conto a mio marito della effettiva situazione che riguardava la sua e la nostra sicurezza. Allora Nicola mi disse che era la 'Ndrangheta ad avercela con lui. Erano state spedite lettere di minaccia contro mio marito C'era stata una perquisizione fatta da mio marito al Perna Franco stesso o a qualche suo accolito nel corso della quale doveva essere successo qualcosa che aveva ulteriormente determinato o rafforzato il risentimento dei Perna contro Nicola. La situazione era diventata particolarmente pericolosa e così nel febbraio del 1988 mio marito, proprio per farlo allontanare da Cosenza, venne mandato in missione in Australia. Così per qualche mese andammo in Australia, dove c'era sto un caso di lupara bianca in danno un italiano. Era un fatto legato alla 'Ndrangheta. Lui doveva partecipare e partecipò ad una struttura interforze (tipo Dia, mi pare si chiamasse NCA) in cui erano presenti lui e alcuni funzionari di polizia australiani e un magistrato australiano. Ci trasferimmo in Australia, io, Nicola e nostra figlia, per alcuni mesi. Poi tornammo in Italia, ancora Cosenza (cosa inspiegabile da un punto di vista della sicurezza di mio marito) e poi, nel Maggio 1989, ottenemmo il trasferimento a Roma (dopo che a mio marito era stato anche proposto di andare a dirigere la Mobile di Reggio Calabria, ma in questo caso io mi opposi decisamente dicendogli che era non lo avrei seguito).

ADR: Mio marito era molto legato al povero dott. Cosmai, Rimase molto scosso per la sua morte. Nicola diceva che il Cosmai aveva cercato di innovare nella gestione del carcere di Cosenza eliminando privilegi che alcuni detenuti in precedenza avevano e facendo anche, all'uopo, del "repulisti" interno. Mi disse che Cosmai venne ucciso perché alcuni agenti della penitenziaria, infedeli, avevano sparso la voce che Cosmai nel carcere era molto duro con gli appartenenti alla cosca dei Perna (ovvero di altra cosca) mentre agevolava la cosca avversa. Insomma fecero ingiustamente credere che il Cosmai si era schierato con una delle cosche in quel momento in guerra.

ADR: Nicola non mi parlò mai di sue indagini su Cosa nostra, né dei rapporti fra Cosa Nostra e la Ndrangheta. Né mi risulta che Cosa Nostra ebbe a rivolgergli delle minacce.

ADR: Fatti salvi alcuni giorni a Taormina, non siamo mai stati in Sicilia altre volte, in quegli anni (gli anni 1982/89) né, tanto meno, a Palermo.

ADR: Ricordo il nome di Provenzano come collaboratore di mio marito, ma nulla più. Il funzionario e collega di cui più si fidava mio marito era l'Ispettore Pirozzidella sezione omicidi. Aveva un ottimo rapporto anche con l'Ispettore Pugliese. Inoltre era molto legato al dott. D'Alfonso Alfonso, che dirigeva la Criminalpol della Calabria ed il dott. Blasco che dirigeva la Squadra Mobile di Reggio Calabria".

“Bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato, i calabresi già si erano mossi”, scrive Claudio Cordova mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". La prima traccia pubblica delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia palermitano, Gaspare Spatuzza, sul coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista dei primi anni '90, si ha davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, il 18 giugno 2009. Sono proprio le dichiarazioni di Spatuzza il punto di partenza da cui muove la Dda di Reggio Calabria nell'inchiesta "Ndrangheta stragista", che ha portato all'arresto del boss siciliano Giuseppe Graviano e di Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Ecco la deposizione di Spatuzza, del giugno 2009: ...omissis...Avv. Gatto - senta signor Spatuzza lei ha mai sentito parlare dell'omicidio dei Carabinieri avvenuto nel 1994 sull'autostrada di Reggio Calabria e precisamente in località Scilla? Spatuzza Gaspare – e dottore guardi io purtroppo non posso rispondere perché su queste…su questi fatti in cui già ho reso abbondantemente dichiarazione, ci sono delle fasi uhm…delle indagini in corso per cui io intendo avvalermi della facoltà di non rispondere, quindi però in queste condizioni non posso farlo però ehm...mettetevi nelle mie condizioni..

Avv. Gatto - si, le chiedo scusa...

Spatuzza Gaspare – non posso rispondere...

Avv. Gatto - le chiedo scusa signor Spatuzza, tanto lo chiederà anche il Procuratore e il Presidente...ma lei è stato sentito da parte della Procura di Reggio Calabria in ordine a questo episodio?

Spatuzza Gaspare – in ordine a questo episodio direttamente diciamo che la Procura di Caltanissetta, Firenze e di Palermo e sono stato anche ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria...

Avv. Gatto – signor Spatuzza le chiedo scusa, lei ha avuto mai contatti con i fratelli Graviano?

Spatuzza Gaspare – i fratelli Graviano diciamo che sono i capi famiglia della famiglia di Brancaccio a cui io appartenevo...

Avv. Gatto - ed è il mandamento di cui faceva parte lei?

Spatuzza Gaspare – del mandamento io ho fatto parte e poi ho gestito il mandamento come reggente dal '96 al '97...

Avv. Gatto - senta le notizie che lei ha avuto dai fratelli Graviano, sono notizie che ho avuto in maniera diciamo da tutte e tre i fratelli oppure da uno specifico dei fratelli?

Spatuzza Gaspare – no da Giuseppe Graviano...

Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia?

Spatuzza Gaspare – come?

Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia dei Carabinieri, dell'omicidio dei Carabinieri?

Spatuzza Gaspare – la notizia entra in un contesto di cui io ho diciamo che...comunque in un contesto in cui mi è stata fatta questa confidenza che erano stati uccisi questi due Carabinieri...

Avv. Gatto - senta, le faccio la domanda secca...rientra questo omicidio nella strategia della tensione?

Spatuzza Gaspare – ehh...credo di si, in base alle mie... (pausa)

Avv. Gatto - Presidente io avrei altre domande da fare sull'attendibilità del teste però...

Dott. Finocchiaro – sì ma noi ancora…non sappiamo ancora con precisione che cosa gli ha detto Graviano, quando glielo ha detto, dove glielo ho detto...

Avv. Gatto - eh...

Dott. Finocchiaro – a noi queste cose qua interessano...

Avv. Gatto - eh, io potrei continuare però mi dovrei...

Dott. Finocchiaro – signor Spatuzza mi scusi...

Avv. Maffei – però Presidente io insi...

Dott. Finocchiaro – qua c'è qua...appunto dobbiamo stabilire un poco i termini...

Avv. Maffei – Presidente, il signor Spatuzza...nel mio modestissimo...

Dott. Finocchiaro – ...del...di questo esame...a noi interessa sapere soltanto le confidenze, il contenuto delle confidenze che il signor Spatuzza avrebbe ricevuto, questo a noi è noto diciamo soltanto sulla base delle notizie giornalistiche, avrebbe ricevuto in ordine a questo omicidio per cui lui non è imputato, non è nulla...per cui dovrebbe soltanto riferire quello che ha saputo da altre persone; non vedo quindi su queste circostanze perché si dovrebbe avvalere della facoltà di non rispondere..a noi soltanto questo ci interessa perché noi stiamo procedendo nei confronti di due minori che sono imputati per l'omicidio di questi Carabinieri; se lui ha saputo qualche cosa in ordine a questo omicidio, è tenuto a rispondere..ha capito avvocato?

Spatuzza Gaspare – e allora mi scusi...

Dott. Finocchiaro – avvocato...

Avv. Maffei – però parla con me Presidente immagino?

Dott. Finocchiaro – si, si parlo...parlavo con lei, si...visto che è intervenuta...

Avv. Maffei – Presidente...

Dott. Finocchiaro – ha capito quali sono i termini della questione?

Avv. Maffei – si ho capito, però se non è neanche assistito...

Dott. Finocchiaro – come?

Avv. Maffei – si, si io sono d'accordo, ho capito perfettamente ma se non è neanche assistito da un difensore, cioè voglio dire...e questa è anche una situazione un po'...un po' particolare...

Dott. Finocchiaro – guardi...

Avv. Maffei – o no?

Dott. Finocchiaro – lui oggi poteva anche essere sentito senza...senza difensore...se è stato dato avviso, è stato dato avviso soltanto per un massimo di garanzia proprio per evitare che possa andare incontro ad altre, però lei ben capisce che in questa situazione, lui ricopre la veste di teste puro e semplice...siamo d'accordo?

Dott. Di Landro – dovremmo esserlo...

Avv. Maffei – Presidente io mi rimetto alla sua decisione, non sono d'accordo però mi rimetto alla sua decisione, non...mi sembra che non posso fare diversamente; essere d'accordo no perché comunque è una persona che ha fatto...è stato capo di un mandamento cioè non è che ha saputo queste notizie diciamo fuori da un contesto mafioso, ha conosciuto…ha saputo questa notizia all'interno di un contesto mafioso, quindi...

Dott. Finocchiaro – ma guardi io non lo so come le ha avute le notizie, quindi...

Avv. Gatto - sinceramente a me non è mai successo però...

Dott. Finocchiaro – noi non sappiamo proprio nulla, abbiamo letto un articolo di giornale che ci è stato prodotto dalla difesa in cui si dice che il signor Spatuzza avrebbe anche...

Avv. Maffei – sì! sì, sì...

Dott. Finocchiaro – ...ricevuto delle confidenze in ordine a questo omicidio, stop…poi non sappiamo nulla...

Avv. Maffei – si...

Dott. Finocchiaro – se il signor Spatuzza ci chiarisce le idee, poi potremo essere in condizioni di dire se è un teste pure e semplice, un testimone assistito, se non...se si può avvalere della facoltà di non rispondere, tutte queste cose sono da...da verificare, non lo possiamo stabilire a priori. Procuratore Generale come...

Dott. Di Landro – niente, a me pare...a me pare che tutto quello che lei ha detto sia condivisibile al cento percento, volevo soltanto aggiungere una nota di chiarezza, qua si tratta soltanto di sapere se il signor Spatuzza sa e che cosa sa di questo omicidio, punto e basta; è inutile che facciamo tutta questa confusione...mandamento, non mandamento, chi era il capo, chi era il sottocapo, o…e tutti i contorni della vicenda...questi non ci interessano, è un teste e noi abbiamo bisogno di avere il suo contributo se ce lo può dare con riferimento a questo omicidio...se ce lo può dare, nessuno è qui né a tormentarlo, né a volere per forza una risposta perché non possiamo stare nemmeno appresso alle dicerie, a que...al sentito dire, noi abbiamo bisogno di fatti concreti con riferimento ad una situazione grave qual è quella di cui ci stiamo occupando, quindi se ha dati precisi, concreti, fattuali che possono essere utili ai fini della verità, li dica sennò tanti saluti, lo ringraziamo e...e via, andiamo avanti...

Dott. Finocchiaro – perfetto...

Avv. Priolo - Presidente se mi concede una parola solo un momento, perché mi pare che si sia tutti d'accordo, perché cosa principalmente il difensore del signor Spatuzza la interpretazione che lei ha fatto del tutto, quindi mi pare che allo stato si possa andare a fare...mi pare siamo tutti d'accordo compreso l'avvocato di Spatuzza, quindi...

Dott. Finocchiaro – va beh, allora avvocato...

Avv. Gatto - per me non ci sono problemi...

Dott. Finocchiaro – dico se lei fa le domande specifiche...

Avv. Gatto - si io le faccio specifiche...

Dott. Finocchiaro – ecco...

Avv. Gatto - per me non ci sono problemi, per questo...

Dott. Finocchiaro – sennò appunto...

Avv. Gatto - no, no per me non ci sono problemi, io...le domande sono specifiche, proprio...

Dott. Finocchiaro – perfetto...

Avv. Gatto - ...però voglio dire...signor Spatuzza senta, le fu...le ripeto la domanda in modo da riannodare i fili, lei ebbe notizia sull'attentato ai Carabinieri avvenuto nel gennaio '94 in Reggio Calabria, sulla...l'autostrada allo svincolo di Scilla?

Spatuzza Gaspare – a gennaio del '94 io ho..sono stato incaricato di portare un...di compiere un attentato su Roma contro a dei Carabinieri, quindi siccome io sto cercando di..di sospendere questo attentato contro i Carabinieri perché ho intenzione di colpire un altro obiettivo...

Dott. Finocchiaro – non ho capito...

Spatuzza Gaspare – ...di cui il Giuseppe Graviano capo del mandamento di Brancaccio mi dice che non può essere che…fare l'attentato che io ho in mente ma si devono colpire i Carabinieri anche perché in Calabria altre persone si erano mossi..difatti in quei giorni in Calabria erano stati uccisi due Carabinieri, ora non so se questo contesto dei Carabinieri di Calabria entra nel contesto della strage che dovevo compiere io su Roma...

Avv. Gatto – questa è stata sola ed unica notizia che lei ha avuto da Graviano?

Spatuzza Gaspare – si, si precisamente...

Avv. Gatto – dopo di questa vicenda non ne parlò più?

Spatuzza Gaspare – no perché tra l'altro poi lui è stato arrestato quindi...

Dott. Finocchiaro – è stato arrestato...

Spatuzza Gaspare – ...poi la nostra missione, un po' si...si conclude...

Avv. Gatto – è a conoscenza se Graviano avesse contatti in Calabria?

Spatuzza Gaspare – ma in Calabria nella nostra storia, noi abbiamo avuto diversi contatti con i calabresi...

Avv. Gatto - che ha detto?

Dott. Finocchiaro – non abbiamo sentito mi scusi, se può ripetere...

Spatuzza Gaspare – per la nostra storia, abbiamo avuto sempre diversi contatti con le famiglie calabresi...

Avv. Gatto - non ho altre domande, grazie Presidente...

Dott. Di Landro – nessun'altra domanda, la ringrazio (incomprensibile).

Dott. Finocchiaro – va beh signor Spatuzza lei è stato abbastanza ora...ora chiaro, quindi non abbiamo altre domande da porgerle perché lei in effetti ora si è limitato a dire soltanto che ha avuto questo...c'è stato questo richiamo, questo riferimento fatto da...dal Graviano e basta, non sa nient'altro su questo omicidio per cui la disturbiamo più e possiamo anche e...oncludere l'esame, la ringraziamo...avvocato arrivederci....omissis".

Agli inquirenti fiorentini, nisseni e milanesi, Spatuzza parla di vicende che non avevano mai incrociato sotto il profilo professionale essendo vicende che appartenevano alla competenza della AG reggina. Erano, episodi che, all'epoca delle appena riportate dichiarazioni, risalivano ad oltre 14 anni prima, a cui, peraltro, non solo, non era stato attribuito, in senso assoluto, il rilievo che meritavano, ma che, neppure, erano mai stati collegati al contesto delle attività stragiste di quegli anni e, quindi, ricollegate a quel programma criminale che Cosa Nostra siciliana aveva ispirato. Dunque, Spatuzza introduce, del tutto spontaneamente, una vicenda di cui, assolutamente, nessun collaboratore di giustizia siciliano aveva mai riferito prima, e, soprattutto, l'aveva riferita in una prospettiva del tutto nuova, per chiunque. E ciò senza essere, in alcun modo, sospettabile, per le ragioni sopra spiegate, di essersi determinato a riferirla per venire incontro ad aspettative degli inquirenti. Soprattutto, la fonte di Spatuzza era quella più qualificata fra tutte quelle ipotizzabili per deporre su queste vicende: invero, se esisteva – all'epoca – qualcuno, in Cosa Nostra, che poteva riferire dei fatti in esame ebbene questi era proprio Gaspare Spatuzza, per anni mafioso del quartiere Brancaccio. E ciò per un duplice ordine di ragioni: egli, in primo luogo, era stato, proprio nel periodo stragista, il vero e proprio punto di contatto e collegamento fra i vertici della famiglia di Brancaccio - e, dunque, i Graviano ed il loro "vice" Nino Mangano (che prenderà il posto dei Graviano dopo il loro arresto) e i gruppo degli esecutori delle stragi continentali – composto da persone di fiducia di Riina-Bagarella-Graviano, anche non formalmente "combinate". Ciò risulta pacificamente dalle sentenze emesse in primo e secondo grado dalle Corti fiorentine sule stragi di Via dei Georgofili, Velabro, San Giovanni in Laterano, Via Palestro, Stadio Olimpico, Formello tutte in atti allegate; ha dimostrato, come si è visto, specie in materia stragista, una prodigiosa memoria ed una particolare serietà ed attendibilità. L'uomo del quartiere Brancaccio, quindi, delinea uno scenario stragista intimamente connesso con gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra sul continente, che, come oramai pacificamente accertato dalle Corti fiorentine, tendevano – in un periodo storico caratterizzato da cambiamenti politici epocali, non solo in Italia, ma sull'intero scacchiere internazionale – a mettere alle corde lo Stato per indurlo a concessioni su particolari temi della giustizia quali il 41 bis OP, le leggi sui collaboratori di Giustizia, ed altro ancora. Concessioni, peraltro, che, a ben vedere, solo per uno strabismo valutativo, solo per un inspiegabile errore di prospettiva (che si è perpetuato nel tempo) sono state ritenute concessioni in favore di Cosa Nostra siciliana, laddove, invece, si trattava di concessioni, di aperture, che, ove accolte, avrebbero portato beneficio all'intero sistema criminale, e, dunque, fra le altre mafie, anche alla 'ndrangheta. Su questo specifico aspetto, ovviamente, torneremo in modo più ampio ed approfondito in seguito. In questa sede basterà anticipare che plurimi, eterogenei e convergenti elementi di prova, dimostrano, invece, che tutte le mafie nazionali, d'intesa, in quegli anni, perseguivano quell'obbiettivo. In tale scenario – alla stregua delle propalazioni di Spatuzza – la 'ndrangheta si era incaricata, attraverso un'intesa con Cosa Nostra, di mandare, anche lei, seppure in modo meno eclatante, come era più congeniale al suo modo di agire (e come, strategicamente, risulterà ben più remunerativo) un messaggio allo Stato, attaccando reiteratamente uno dei suoi simboli: l'Arma dei Carabinieri. Simbolo che, del resto, non era per nulla eccentrico rispetto alla complessiva strategia stragista posto che, proprio nel periodo in cui venivano eseguiti a Reggio Calabria i tre attacchi ai Carabinieri, Cosa Nostra stava organizzando quello che poteva essere il più grave degli attentati di quella tragica stagione: l'attentato, con auto-bomba, ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, attentato che avrebbe determinato decine e decine di morti. Circa un anno prima rispetto all'escussione a Reggio Calabria, nel luglio 2008, l'ex uomo dei Graviano rendeva dichiarazioni davanti alla Dda di Firenze:

P.M. DOTT. CRINI: Quindi siamo nel mese di gennaio.

P.M. DOTT. NICOLOSI: Ma quanto tempo, come eravate rimasti d'accordo con Graviano... cioè, Graviano sapeva il giorno in cui avreste fatto l'attentato?

SPATUZZA GASPARE: No, lui sa che ci stiamo spostando su Roma, quindi là poi teniamo un appuntamento su Roma. Quindi noi andiamo là per trovare l'obiettivo Carabinieri. Quindi quando lui viene già noi abbiamo detto: "Senti, l'abbiamo trovato, c'è il problema dell'Olimpico e siamo..." poi noi abbiamo scelto la data. Quindi lui siccome doveva transitare... e non lo so se sta venendo dalle Calabrie. Che là (incompr.) il discorso che già altri si erano mossi, che in Calabria erano stati uccisi due carabinieri. Quindi questi due carabinieri sono stati uccisi o in quel giorno o il giorno prima. Questo è anche...

P.M. DOTT. CRINI: Un ulteriore elemento.

SPATUZZA GASPARE: Un ulteriore elemento.

P.M. DOTT. CRINI: Perché parlate del fatto che c'è stato un altro...

SPATUZZA GASPARE: Perché io sto facendo leva...

P.M. DOTT. CRINI: ...uccisione di Carabinieri...

SPATUZZA GASPARE: Sto facendo leva io per Contorno.

P.M. DOTT. CRINI: Certo, sì, sì.

SPATUZZA GASPARE: E lui mi dice: "No."

P.M. DOTT. CRINI: "Ci sono altri impegni."

SPATUZZA GASPARE: Il problema dell'esplosivo. "Ci sono altri impegni e poi c'è il problema dell'esplosivo...omissis"

Pochi mesi dopo, siamo a dicembre, Spatuzza viene sentito anche dai magistrati di Caltanissetta: "...Attentato all'Olimpico. Per tale episodio delittuoso vi fu un incontro con Giuseppe Graviano in cui manifestammo il nostro disagio per aver ucciso una bambina nell'attentato a Firenze. In quell'occasione ci fin detto che dovevamo proseguire con la nostra strategia perché sollecitare "chi si doveva muovere". Nacque in quella riunione l'idea di colpire un pullman di carabinieri sicché pensammo di agire nuovamente a Roma che è luogo pieno di caserme. A Roma andammo io Lo Nigro, Giuliano Francesco, Giacalone Luigi, Salvatore Grigoli, Salvatore Benigno. Il supporto logistico ce lo diede ancora una volta Scarano ed un amico di quest'ultimo di nome Bizzoni. Ricordo che approntammo l'ordigno anche con dei tondini di ferro affinché si potesse fare più danno possibile e scegliemmo come obiettivo lo stadio Olimpico. Nel frattempo era salito a Roma anche Giuseppe Graviano, per discutere della possibilità di uccidere Contorno che avevo individuato a Roma. Il Graviano mi disse che non era possibile dovendosi utilizzare per Contorno un altro esplosivo e poi perché quello stesso giorno o il giorno prima erano stati uccisi due carabinieri in Calabria e, dunque, mi disse che già "gli altri si erano mossi". A Roma operammo io, Benigno, Lo Nigro e Giacalone, mentre gli altri erano riscesi a Palermo. L'attentato non andò a buon fine poiché non funzionò il telecomando...omissis".

Poi, proprio nel periodo in cui viene ascoltato in contraddittorio a Reggio Calabria, il collaboratore rende dichiarazioni anche davanti alla Dda di Milano: "...omissis... SPATUZZA – Noi abbiamo in cantiere, non dimentichiamo le torri(?) di via del Fante, Commissariato Brancaccio, l'autocivetta della Polizia; quindi siamo ben proiettati per fare veramente del male, però c'è questo cambiamento di rotta quindi andiamo su Roma, Milano, quello che sia. Abbiamo noi Napoli, c'è la questione dei Carabinieri in Calabria, che entra nel contesto dell'Olimpico. Quindi a questo punto... non so questa la ricollego io a questa situazione di quello che mi dice Giuseppe Graviano in quell'incontro che avviene a Campofelice.

P.M. – Cioè... Vada avanti e poi le farò delle domande.

SPATUZZA – Quindi il momento che io gli dico che siamo lì noi per mettere in cantiere l'attentato contro i Carabinieri, non contro l'Olimpico, quindi io lo colloco nel novembre/dicembre del '93, perché poi a gennaio sono stati arrestati i fratelli Graviano; quindi lo colloco a fine del '93. Quindi quando si mette in cantiere questo attentato contro i Carabinieri più ne possiamo prendere e meglio è, siccome il mio pensiero andava sempre a quella bambina, la piccola Nadia...

P.M. – Di via dei Gergofili.

SPATUZZA – Di via dei Gergofili, (inc.) si chiama... Quindi lì dico a Giuseppe Graviano che ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente, perché per la nostra mentalità è...possiamo sposare noi Capaci, per noi quella schifezza andava bene, via d'Amelio, per quella schifezza... secondo quella mentalità eravamo a posto, non siamo più a posto quando entriamo noi sul tessuto sociale, quando diventiamo dei terroristi. Quindi là c'è questa esternazione, esternazione parliamo, che io non potevo fare ma siccome mi potevo permettere di dire questa cosa a Giuseppe Graviano, anche perché tra i ragazzi c'era qualche tentennamento, che ci stiamo spingendo oltre. Quindi gli dissi che il mio pensiero andava pensando a questa cosa e gli dissi "Ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente".

Lui ha capito un po' questa mia debolezza, se così possiamo chiamare, quindi ci disse che è bene che ci portiamo dietro alcuni morti così si danno una smossa, una spinta. A quel punto ci chiede a me e a Lo Nigro se capivamo qualche cosa di politica. Io non ne ho capito mai niente, neanche ho avuto mai modo di avvicinarmi a questa cosa, la stessa cosa il Lo Nigro, e lui ci spiega che lui è abbastanza preparato di questa materia. Quindi ci spiega che c'è in atto una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a cominciare dai carcerati. Quindi lì si chiude la situazione e ci spingiamo per l'attentato all'Olimpico, che poi grazie a Dio è fallito.

P.M. – Attentato all'Olimpico che significava allo stadio?

SPATUZZA – Lo Stato...

P.M. – Lo stadio.

SPATUZZA – Lo stadio... No, le persone comuni.

P.M. – Le persone comuni?

SPATUZZA – I Carabinieri, però parliamo (inc.) dei Carabinieri.

P.M. – Cioè di fare molto danno, un'espressione... detto nella vostra...

SPATUZZA – Sì. E se noi pensiamo che il Totuccio Contorno è un nostro nemico, a me mi lega per una questione familiare quindi ho dedicato tutta la mia vita, disgraziatamente, per seguire a 'sti soggetti. Se noi accantoniamo il Totuccio Contorno, che quando c'è l'appuntamento su Roma con Giuseppe Graviano che vado a prendere (inc.) nella Capitale, io faccio pressione per dirci "Colpiamo Contorno e…una volta che siamo tutti". Lui disse che innanzitutto non si deve fare Contorno per due motivi: uno per l'esplosivo, che si deve fare con l'esplosivo diverso di quello che già si è adoperato, e poi perché si erano mossi i calabresi; infatti quel giorno e il giorno prima era stato commesso un attentato contro due Carabinieri a Reggio Calabria. Quindi se noi pensiamo Giuseppe Graviano c'ha un conto aperto, in sospeso con Totuccio Contorno, perché Totuccio Contorno ha ucciso il padre di Giuseppe Graviano. Quindi com'eravamo noi accaniti... ora se noi pensiamo che Giuseppe Graviano accantonare una questione perché persona... vai a vedere quello che c'è dietro.

P.M. – Quindi, per ricapitolare, lei dice "Oggi che leggo, che mi si dice per la prima volta qual è il contenuto di questa missiva", e cioè saranno collocate altre bombe, ci saranno centinaia di morti, lei dice "Non è che ora capisco, cioè questa è la riprova di quello che noi stavamo facendo"...omissis".

Spatuzza, dunque, del tutto spontaneamente, introduce riferimenti agli attentati in Calabria ai danni dei carabinieri. E lo fa in quel contesto in cui riferisce della programmazione (la cui esecuzione era prevista per il mese di gennaio 1994) dell'attentato (poi fallito per il mancato funzionamento del telecomando ovvero dell'innesco dell'ordigno, che impedì l'esplosione di 120 kilogrammi di esplosivo collocati all'interno di una vettura opportunamente posizionata) ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, che avrebbe comportato decine e decine di morti, fornendo, in tal modo, una causale comune di tale episodio con quelli avvenuti in Calabria. Tale matrice comune consiste proprio nella comunanza delle vittime, in qualità di rappresentanti dello Stato, ma anche nella comunanza temporale degli episodi, in quanto, nell'arco temporale in cui furono commessi i delitti in Calabria, era in fase di programmazione l'attentato allo Stadio Olimpico di Roma. Atteso il tenore dell'atto d'impulso, le indagini – che, per una parte, erano svolte in stretto collegamento investigativo con le DDA di Catania e Caltanissetta (e, per diversi motivi, con quella di Palermo) che, in quel periodo, pure svolgevano indagini su connessi episodi stragisti di matrice mafiosa – non potevano che partire da un nuovo ed approfondito esame di Gaspare Spatuzza (il rilievo della cui collaborazione è stato esaminato in precedenza). E così, in data 8.10.2013, si procedeva all'esame del collaboratore: "...Mi richiedete di ricostruire in sintesi il mio percorso criminale e collaborativo e rispondo che pur senza essere "combinato" negli anni '80 sono entrato in Cosa Nostra e, segnatamente, nella famiglia Graviano operante in Brancaccio agli ordini di Giuseppe GRAVIANO. Per tutti gli anni '80 ho operato nel descritto contesto criminale effettuando anche per conto della famiglia svariati omicidi. Solo agli inizi degli anni '90, fatto insolito fino a quel momento, sono stato incaricato di reperire materiale esplosivo senza che mi fosse spiegato il perché dal predetto GRAVIANO Giuseppe. Ovviamente in seguito compresi la ragione di tale attività in quanto, con un ruolo più defilato a Capaci e con un ruolo più incisivo a via D'Amelio partecipai alla stagione stragista avendo un ruolo anche nei successivi attentati nel Continente. A vostra domanda preciso che non sono in grado di stabilire con esattezza la ragione per la quale non ero stato ancora "combinato". Diciamo che siccome operavo sempre all'interno del Mandamento di Brancaccio non se ne sentiva la necessità. Indubbiamente, peraltro, questa circostanza mi consentiva di operare in maniera più efficace, cioè in modo coperto e discreto. Tornando alla concatenazione dei fatti che riguardano la mia biografia criminale preciso che il 27 gennaio 1994 furono arrestati Giuseppe e Filippo GRAVIANO nella città di Milano, essendo i predetti latitanti. Mi fu detto che da quel momento avrei dovuto prendere gli ordini da Nino MANGANO che diventava il reggente del Mandamento; nel 1995, precisamente a giugno, venne arrestato anche Nino MANGANO. Due mesi o tre mesi dopo ebbi un incontro nel trapanese con Matteo MESSINA DENARO, BRUSCA ed altri esponenti di Cosa Nostra. All'esito di questo incontro essendo stato deciso che toccava a me reggere il Mandamento di Brancaccio venni anche formalmente "combinato". Nel 1997 sono stato arrestato e il mio pensiero fu quello di collaborare con la giustizia. Resistenze e problemi familiari mi impedirono di concretizzare questa scelta. Nel 2000 incontrai in carcere Giuseppe GRAVIANO nella casa circondariale di Tolmezzo. Avendo maturato una forte ripensamento sul mio passato gli comunicai che da quel momento mi doveva considerare dissociato da Cosa Nostra. Nel 2008 mi sono finalmente deciso ed ho iniziato a collaborare con la giustizia essendo in seguito riconosciutomi il programma speciale di protezione. Mi chiedete se ho conosciuto Gioacchino PENNINO e vi rispondo che l'ho conosciuto egli era vicinissimo ai fratelli Graviano così come lo era Sebastiano LOMBARDO che era l'anello di congiunzione tra i Graviano ed il dott. PENNINO. Io stesso quando ebbi un problema di famiglia, dovevo far riassumere mia nipote che era stata licenziata dal dott. PENNINO, entrai in contatto con quest'ultimo tramite Iano LOMBARDO. Mi viene chiesto di riferire tutto quanto è a mia conoscenza, sia diretta che de relato, sui rapporti fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta calabrese. Rispondo che ebbi conoscenza dell'esistenza di tali rapporti a metà degli anni '80 in particolare venni a sapere dai fratelli Graviano che i "calabresi" ed in particolare sentii il nome di due fratelli mi sembra che di nome facciano Notargiacomo rifornivano di armi la nostra famiglia. Parliamo di un traffico di "armi pesanti" cioè mitragliatori ed altre armi da guerra. In questo contesto venni a sapere da Vittorio TUTINO che era ed è un componente della famiglia GRAVIANO, che peraltro partecipava in prima persona a questo traffico di armi, che i fratelli NOTARGIACOMO erano coinvolti in una faida in Calabria durante la quale uno dei fratelli era stato ferito. Il TUTINO mi disse che i due fratelli si erano rifugiati presso il villaggio "eurovillage" ubicato a Campo Felice di Roccella villaggio gestito da Tullio CANNELLA che alla fine di una complessa vicenda di cui ho già parlato divenne anche proprietario del villaggio che, comunque, era un bene della famiglia Graviano. Su questo traffico di armi potrà probabilmente riferirvi sia Emanuele DE FILIPPO che DRAGO Giovanni entrambi collaboratori di giustizia della famiglia di Brancaccio. Altro episodio che collega Cosa Nostra alla 'Ndrangheta, da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell'anno 1998. Successe che nell'ambito del noto procedimento Golden Market da cui sono derivati numerosi stralci dei diversi processi si era arrivati almeno per quello che riguarda il filone in cui ero imputato al grado di appello. All'epoca ero detenuto a Tolmezzo insieme a Giuseppe e Filippo GRAVIANO. In tale contesto i Graviano, da una parte, mi dissero che dovevo ricusare il presidente della Corte di Assise di Palermo proprio all'ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per associazione e qualche reato satellite con l'assoluzione per gli omicidi, dall'altra mi dissero che due tranche di 500 milioni di lire l'una per il tramite di AGATE Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che "avrebbero" aggiustato un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe GRAVIANO mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano AGATE. Mariano AGATE esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, così come mi spiegarono i fratelli Graviano e così come ho compreso stando in Cosa Nostra, l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta. Questa informazione che ho avuto a suo tempo mi è stata confermata nel corso degli anni durante i quali sono stato sottoposto al 41 bis. In particolare ho potuto rilevare come tutti indistintamente i capi 'Ndrangheta a partire da Mommo MOLE'avessero una venerazione per Mariano AGATE. Voglio anche ricordare come Pasquale TEGANO con me detenuto ad Ascoli Piceno unitamente a Mariano AGATE così come lo stesso Franco COCO TROVATO quando si rivolgevano a Mariano AGATE mostravano un rispetto che si riserva ai capi. Lo chiamavano "zu Mariano. Lo stesso ARENA detenuto ad Ascoli quando si rivolgeva a Mariano AGATE lo chiamava vossia. Mi chiedete se AGATE fosse massone vi rispondo che ho informazioni in questo senso. Segnatamente tra il 1995 ed il 1996 ebbi ad incontrarmi con Mariano ASARO. Eravamo entrambi latitanti e questa latitanza la trascorrevamo insieme dormendo negli stessi rifugi in località Marausa. Entrammo in grande confidenza e l'ASARO nel riferirmi delle grandi opportunità che derivavano da Cosa Nostra dai rapporti con la massoneria mi disse che Mariano AGATE massone ne era un esempio. Prima di riferirvi della vicenda degli attentati dei carabinieri in Calabria posso riferirvi di un altro episodio che evidenzia i collegamenti tra Cosa Nostra e la Ndrangheta. In particolare mi riferisco ad un traffico di armi e droga che nel corso del '93 la famiglia Graviano sviluppò in sinergia con i calabresi appartenenti della famiglia Nirta. Preciso che il contatto con NIRTA (ho conosciuto due fratelli NIRTA di circa trent'anni all'epoca di cui uno chiamato Pino) fu ottenuto grazie ai buoni uffici di SCARANO Antonio colui che si occupò di approntare le basi logistiche per gli attentati a Roma, persona di origine calabrese. Il traffico avviato dai GRAVIANO si concluse quando divenne reggente Nino MANGANO. Il trasporto dell'hashish che arrivava dalla Spagna giungeva via mare a Palermo grazie all'imbarcazione messa a disposizione da Cosimo LO NIGRO. A Palermo lo stupefacente veniva suddiviso tra noi ed i calabresi. Parliamo di quintali di hashish. Quanto alle armi era tale Pietro CARRA che mi risulta essere attualmente collaboratore di giustizia che ne curava il trasporto con un camion. Le armi erano da guerra mini uzi ed altro. Preciso che Giuseppe GRAVIANO mi disse di andarci piano con i Nirta in quanto noi avevamo un rapporto privilegiato con un'altra famiglia calabrese contrapposta ai Nirta che operava nel medesimo territorio. Venendo ora alla vicenda degli attentati, successe che verso la fine del '93 io e Cosimo LO NIGRO che era il "bombarolo" utilizzato da Cosa Nostra anche per precedenti fatti stragisti, fummo incaricati da Giuseppe GRAVIANO di individuare nella città di Roma un obiettivo che ci consentisse di uccidere molti carabinieri. Io e LO NIGRO iniziammo subito a preparare l'esplosivo. Ricorremmo al materiale esplodente che ci rifornirono i pescatori che reperivano con la pesca a strascico pescando vecchi ordigni bellici mentre come detonatori ci rifornimmo di un salsicciotto di gelatina e di un altro detonatore confezionato con un involucro di strisce rosse. Di seguito trasportammo il materiale esplodente in Roma ed iniziammo i sopralluoghi per individuare il luogo dove piazzare l'ordigno. Tenga presente che Giuseppe GRAVIANO ci aveva detto che dovevamo fare alla svelta ma che prima di muoverci dovevamo parlare con lui direttamente. La cosa era insolita perché normalmente quando partivamo per fare gli attentati il GRAVIANO ci indicava direttamente giorno, luogo ed ora in cui effettuare l'attentato. Dopo che individuammo lo stadio olimpico quale luogo ideale per fare la strage vi fu l'incontro nel Donay bar in via Veneto a Roma tra me e Giuseppe GRAVIANO. Da lì ci muovemmo per andare in un villino a Torvaianica dove c'era il gruppo di fuoco. Nel corso di questo incontro GRAVIANO Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all'accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in DELL'UTRI e BERLUSCONI, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato. Io cercai di convincere GRAVIANO, visto che avevamo ottenuto quello che volevamo, di lasciar perdere con l'attentato ai carabinieri e di procedere invece all'eliminazione di Totuccio CONTORNO che casualmente io e Cosimo LO NIGRO avevamo individuato in Roma località Formello riuscendo anche a capire quale era la sua abitazione. Feci leva sul fatto che il CONTORNO era un nemico mortale sia mio che di Giuseppe GRAVIANO in quanto ritenuto responsabile sia della morte di mio fratello che della morte del padre di GRAVIANO Giuseppe. Giuseppe GRAVIANO fu irremovibile. Mi obiettò in primo luogo che per ammazzare CONTORNO non si sarebbe potuto utilizzare l'esplosivo che avevamo preparato per i Carabinieri in quanto del tutto analogo a quello usato nei precedenti attentati sul continente sicchè si sarebbero immediatamente individuati nei nemici di CONTORNO gli autori delle stragi sul continente, poi mi disse, in secondo luogo, che bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell'attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria. Preciso che l'incontro con GRAVIANO Giuseppe di cui ho detto sopra si è svolto con certezza nella settimana precedente il giorno 22 gennaio del 1994. Ciò è certo in quanto il giorno dell'attentato programmato all'olimpico era proprio il 22 gennaio data che è stata anche individuata sulla base della circostanza che la targa da collocare sull'auto bomba venne rubata, come di consueto (vedi strage di Via d'Amelio) il giorno prima del programmato attentato e il giorno in cui venne rubata la targa è stato individuato proprio nel giorno 21 gennaio 1994. A vostra domanda preciso che non mi fu specificato dal GRAVIANO quale gruppo calabrese si fosse mosso, nè con chi lui avesse preso accordi. Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla 'Ndrangheta d'intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il GRAVIANO con quella frase che ho detto sopra - in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri. La conferma di un complessivo accordo tra Cosa Nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo Filippo GRAVIANO ebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla 'Ndrangheta ed alla Camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa Nostra. Filippo GRAVIANO mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro "padri"...omissis. Dei rapporti con i calabresi potrebbe forse riferire notizie utili Giovanni GAROFALO, mio uomo di fiducia, ed ora collaboratore di giustizia; era lui che curava i rapporti con i NIRTA.

Si dà atto che viene consegnato, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio ) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: riconosco la foto nr. 25 che rappresenta TEGANO Pasquale che ho conosciuto ad Ascoli Piceno nel 2007-2008 prima della mia collaborazione. L'Ufficio da atto che così è.

Adr: Il TEGANO, come mi sembra di aver già detto, aveva un totale rispetto verso Mariano AGATE. Entrambi facevano insieme i colloqui familiari circostanza significativa perché potevano così scambiarsi notizie ed informazioni...omissis..."

La pur Spatuzza raccolta da questo Ufficio sul punto specifico del tema degli attacchi in Calabria ai Carabinieri (...bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi...") secondo elementari principi di logica, che tengano conto sia del tenore letterale della frase che del contesto e del momento in cui la stessa venne pronunciata da Graviano, postula l'esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai Carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. Nel momento in cui Graviano pronunciava la frase in questione, per un verso, il suo gruppo aveva commesso in "continente", nei mesi precedenti, una serie di atti criminali di cui era evidente la finalità terroristica tesa a fiaccare la resistenza dello Stato e, per altro verso, il medesimo gruppo, stava per commettere un ulteriore atto terroristico a Roma, dove ci sarebbe stato un massacro di decine e decine di militari italiani appartenenti all'Arma, che non avrebbe avuto pari nella storia repubblicana, tanto che, per trovare precedenti analoghi, bisognava risalire all'ultimo conflitto mondiale. Dunque Graviano e i suoi uomini – su mandato dei vertici di Cosa Nostra – in quel periodo non solo si stavano muovendo, inequivocabilmente, in una direzione chiara, quella dell'attacco frontale allo Stato, ma agivano nell'ambito di una strategia (esclusivamente) terroristica, ancorchè di matrice mafiosa. In questo contesto Graviano, per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere, celermente, alla esecuzione dell'attentato allo Stadio Olimpico, faceva il (noto) riferimento alla consumazione (appena avvenuta) degli omicidi dei Carabinieri commessi in Calabria, atto che imponeva, per l'appunto, una rapida esecuzione dell'attentato romano. Dunque, alla stregua del riferimento fatto da Graviano, gli omicidi dei Carabinieri in Calabria erano un antecedente logico che fungeva da fattore di accelerazione di un altro e più eclatante delitto (l'attentato contro decine di carabinieri allo stadio olimpico) sicchè i due episodi (quello calabrese e quello romano) risultavano, alla stregua di una lettura logica e "contestualizzata" della frase del Graviano, programmati all'interno di una strategia omogenea ed unitaria ( e, del resto, a contrario, se gli episodi calabresi si fossero collocati in un contesto non omogeneo rispetto all'attentato dell'Olimpico e rispetto a questo fossero stati eccentrici e, quindi, estranei alla strategia terroristica in atto, il riferimento fatto dal Graviano a Spatuzza sarebbe stato privo di senso). Ne segue, già in via logica, che non appare neppure astrattamente ipotizzabile che tasselli di rilievo di tale strategia, quali (alla stregua della esposta ricostruzione) furono gli attentati calabresi - che, non a caso, erano sia perfettamente calibrati cronologicamente con l'eclatante attentato programmato a Roma che omogenei a questo quanto all'obbiettivo attinto o da attingere ( i Carabinieri) - fossero stati concepiti senza un previo concerto con chi aveva organizzato il predetto attentato romano e, cioè, con Giuseppe Graviano. Nel momento in cui Graviano parlava a Spatuzza degli omicidi dei carabinieri in Calabria (notizia, peraltro, che, di norma, sarebbe passata inosservata agli occhi di un mafioso di Brancaccio) e cioè il giorno dopo la consumazione del duplice omicdio Fava-Garofalo, nulla, concretamente, ancora si sapeva, da un punto di vista investigativo in ordine alla loro effettiva natura, alle loro esatte modalità, alla loro scaturigine, ai loro autori, ed in cui, addirittura, non solo, non era stato ancora fatto dagli inquirenti il collegamento fra quel duplice omicidio (di cui parlava il Graviano) ed il duplice tentato omicidio del 2.12.1993. Graviano, invece, nonostante questa assenza d'informazioni anche in capo agli inquirenti, mostrava di conoscere benissimo il contesto in cui era avvenuto il duplice omicidio, chi fossero gli autori (gli amici calabresi) e soprattutto che si trattava non di un "normale" anche se tragico, conflitto a fuoco fra forze dell'ordine e malviventi ma di una azione eversiva/terroristica contro i Carabinieri, omogenea a quella in programmazione a Roma. E solo chi (come evidentemente il Graviano) era stato in diretto contatto con gli organizzatori di quell'agguato, poteva immediatamente, il giorno dopo i fatti, e senza indugi, collocare tale vicenda in un contesto terroristico/eversivo, che, peraltro, solo oggi appare palese. Del resto, anche esaminando gli episodi calabresi e quello dello Stadio Olimpico, in modo asettico, senza tenere conto cioè delle propalazione di Spatuzza, non può non essere rilevata una loro perfetta e non casuale coerenza all'interno di un disegno criminale che, nella sua ferocia, era chiaro e lineare. E ciò si rileva già sul piano dell'uso della violenza. Che, simmetricamente ma in modo progressivamente più incisivo e grave, doveva colpire l'Arma dei Carabinieri. Prima in Calabria e, poi, al cuore, a Roma, dove ci sarebbe stato un vero e proprio massacro di militari italiani.

C'era una volta a Enna: così nacque la strategia stragista di Cosa nostra e 'ndrangheta, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017, su "Il Dispaccio".  Elemento di conferma sul diverso ma rilevantissimo versante della genesi della stagione stragista, proveniva dalle convergenti propalazioni di collaboratori catanesi che pure avevano riferito delle riunioni di Enna come quelle in cui, Cosa Nostra, deliberò la stagione stragista del '92-'93 nel contesto di una strategia "politico-eversiva". Come indicato da Leonardo Messina, Riina ed i suoi uomini soggiornarono per un periodo piuttosto lungo ad Enna, a cavallo fra la metà del 1991 e gli inizi del 1992.

Importanti le dichiarazioni di Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu" che nell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava la riunione "strategica" di Enna della fine del 1991, di cui aveva riferito Leonardo Messina: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...

A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...

A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace". Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia...omissis...

Tali dichiarazioni venivano confermate e dettagliate nel corso di un successivo interrogatorio svolto nel 2015.

"A.D.R: Sono in protezione dal marzo del 1994. Ho iniziato a collaborare più esattamente in data 11.3.94. Quando ho iniziato a collaborare ero detenuto presso il carcere Bicocca di Catania. Ero stato arrestato il 25.3.1993. In particolare da quel giorno sono stato detenuto prima a Rebibbia, poi a Catanzaro e infine a Catania. Fino al momento della mia collaborazione ho fatto parte di Cosa Nostra catanese ed in particolare della famiglia Santapaola/Pulvirenti. Io ero il nipote del noto Pulvirenti Giuseppe detto il malpassotu.

A.D.R: Girolamo Rannesi, era un uomo d'onore di Cosa Nostra catanese gruppo Pulvirenti, ed era stato "combinato" insieme a Santo Mazzei detto "O'Caccagnusu". La cerimonia in questione si svolse a Catania alla presenza dei corleonesi ed in particolare alla presenza di Nino Gioè di Altofonte e di Leoluca Bagarella. Ovviamente erano presenti anche gli uomini d'onore di Catania e fra questi in primo luogo Nitto Santapaola. Era presente anche un uomo d'onore di Trapani tale Giovanni Bastone, quest'ultimo molto amico di Mazzei. Tutto ciò mi venne raccontato dal Rannesi, che è colui che nella primavera del 1992 mi raccontò dei propositi stragisti di Santo Mazzei da attuarsi in Toscana e a Torino attraverso una serie di attentati. Mazzei vantava una serie di appoggi in Toscana e a Torino e per questo si era offerto ai corleonesi per compiere tali attentati.

A.D.R: La confidenza sulla disponibilità di Mazzei a fare attentati in Toscana e a Torino il Rannesi me la fece quando era già uomo d'onore.

A.D.R: Quando si tenne la riunione di Enna nella seconda metà del 1991/ fine 1991, di cui ho ampiamente riferito in altri verbali, la sentenza della Cassazione sul maxi-processo non era stata ancora emessa. Ricordo tuttavia che già si sapeva che il Maxi sarebbe andato male.

Infatti ricordo che proprio Nitto e Salvatore Santapaola ed Aldo Ercolano, non so sulla base di quali informazioni, dicevano in mia presenza che quel processo sarebbe andato male per Cosa Nostra. Più esattamente dicevano che non erano riusciti ad "aggiustarlo".

A.D.R: Nulla posso dire delle cd liste autonomiste ovvero delle Leghe Meridionali che all'inizio degli anni 90' si presentavano alle elezioni. Neppure ovviamente sono in grado di riferire sui rapporti eventualmente esistenti fra tali formazioni politiche e Cosa Nostra. Posso dire che poche settimane prima che io iniziassi a collaborare e comunque prima che a livello mediatico si sapesse con certezza della cd "discesa in campo" di Berlusconi – in ogni caso fra il Gennaio ed il Febbraio del 1994 – quando ero detenuto alla Bicocca, tale Marcello D'Agata che era "consigliere familiare" dei Santapaola, mi disse, allorchè io gli rappresentai che nonostante tutto quello che avevamo fatto ( mi riferivo implicitamente alla strategia stragista di Cosa Nostra) eravamo nei "guai" a livello giudiziario, lui mi rispose di stare tranquillo perché gli amici palermitani ci avevano fatto sapere che tutto si sarebbe risolto con l'avvento di una nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi. Mi invitò a fare sapere a tutti quelli che potevo raggiungere di votare per Berlusconi poiché il suo partito avrebbe risolto i nostri guai. Sempre in quel periodo alla Bicocca le parole del D'Agata mi furono confermate da Gaetano Asaro - che pur non essendo uomo d'onore era molto addentro al nostro gruppo tanto che era colui che si era occupato di garantire la latitanza di mio zio Malpassotu. Il Gaetano Asaro che veniva dalla libertà ed aveva notizie "fresche" mi confermò che bisognava appoggiare il nuovo partito che Berlusconi stava creando. Disse. "Berlusconi è la nostra salvezza". Avrebbe abolito il carcere duro e la legge sui pentiti.

A.D.R: Confermo integralmente quanto ebbi a dire nel verbale del 9.5.1994 di cui ricevo lettura...omissis.

A.D.R: Preciso che il vero episodio che aveva indotto i corleonesi e quindi il Riina a ritenere che erano venuti a mancare i nostri referenti politici e bisognava fare la guerra alla stato così come ho sopra detto, era il fatto che non eravamo riusciti o meglio che non riuscivamo ad aggiustare il Maxi-processo in Cassazione. Faccio presente che fino all'estate del 1991 Pulvirenti Malpassotu stesso mi diceva che il Maxi sarebbe andato bene. Nell'autunno si acquisì la consapevolezza contraria. Come sempre mi diceva mio zio il Malpassotu. Questo fu determinante...omissis.

A.D.R: Con riferimento ai rapporti che all'epoca, esistevano fra organizzazioni criminali e massoneria, posso dirvi solo un fatto preciso e netto: nella primavera del 1992, prima delle stragi, Aldo Ercolano in persona, mi convocò per darmi un incarico. Mi disse che bisognava convincere i proprieta000ri di una certa villa dalle parti di Taormina – villa che mi sembra di avere anche indicato quando feci i primi sopralluoghi investigativi - a cederla o in affitto o in vendita. Mi spiegò che questi proprietari erano riottosi e bisognava convincerli. Sempre l'Ercolano mi spiegò che questa villa doveva diventare la sede di una sorta di associazione – una specie di Rotary o di Massoneria – che doveva comprendere sia uomini insospettabili che uomini di Cosa Nostra. Lo scopo di questa associazione era quello di fare affari insieme e soprattutto di procurare sempre nuovi affari a Cosa Nostra. Mi disse che l'elemento di spicco di questa associazione era il Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto. A detta dell'Ercolano questo Cattafi era un uomo d'onore molto vicino a Bagarella. Io accettai l'incarico ed individuai anche la villa. Non avevo ancora avvicinato i proprietari che, in seguito, l'Ercolano Aldo quando io gli dissi che ero in difficoltà a muovermi poiché avevano arrestato il mio inseparabile amico Salvatore Grazioso mi disse che non serviva più quella villa perchè disse "avevano risolto il problema" Ciò avvenne sempre in epoca precedente alle stragi siciliane del 92. In seguito seppi da Aldo Ercolano che, sempre in zona di Taormina, e poi altrove, dalle parti di Barcellona Pozzo di Gotto, si erano svolti degli incontri di questa associazione del Cattafi. Non mi disse cosa si era detto o concluso in queste riunioni. Certo è che a dire dell'Ercolano queste riunioni riservate oltre a uomini di Cosa Nostra vedevano protagonisti imprenditori, politici e uomini delle istituzioni..."

Malvagna precisava anche che Cosa Nostra catanese aveva posto in essere, nel quadro della stessa strategia, atti intimidatori nei confronti del sindaco pro-tempore di Misterbianco Antonio Di Guardo, del giornalista Claudio Fava, e perfino un attentato avente come obiettivo il Palazzo di Giustizia di Catania. Né può essere sottovalutato un ulteriore rilevante profilo delle dichiarazioni rese dal Malvagna a questo Ufficio : il riferimento ai rapporti fra Cosa Nostra e Massoneria – ampiamente evidenziati in modo convergente dal Pennino e dal Gran Maestro Di Bernardo – e soprattutto il riferimento al ruolo chiave che in tale contesto aveva Rosario Cattafi, legato ad Ordine Nuovo, che – come pure risulta dagli atti dell'indagine "sistemi criminali" – anche il collaboratore di Giustizia Maurizio Avola indicava come soggetto "esterno", suggeritore delle strategie di Cosa Nostra. Anche nel caso di Maurizio Avola, la Dda di Reggio Calabria, il 14.5.2015, provvedeva ad una nuova escussione del collaboratore, nella corso della quale, il predetto, oltre a confermare pienamente quanto aveva a suo tempo riferito, e si è sopra riportato, evidenziava due circostanze di rilievo: come, da un punto di vista criminale, i rapporti fra 'Ndrangheta – e in particolare le famiglie De Stefano-Piromalli – fossero intensi, continui ed abituali; il ruolo di Sante Mazzei, uomo di Bagarella inserito nella famiglia di Catania di Cosa Nostra per agevolare le strategie corleonesi sulle stragi. Mazzei fu protagonista del fallito attentato del 1992 a Firenze nei giardini di Boboli:

"ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal giorno 8.3.1994 venni arrestato nel marzo 1993. Nel 1997 mi è stato revocato il programma per delle infrazioni comportamentali ma ho continuato a rendere dichiarazioni alla AG.

ADR: Facevo parte di cosa nostra catanese ed in particolare facevo capo a Nitto Santapaola.

ADR: Ho già reso dichiarazioni sui rapporti fra il gruppo Santapaola e la 'ndrangheta sia alla AG catanese che a quella reggina. In particolare ho riferito dei comuni traffici di stupefacenti che vennero organizzati da Paolo De Stefano ed Ercolano Salvatore. In particolare io stesso accompagnai Ercolano Salvatore a Reggio Calabria ad incontri con il predetto De Stefano. Ciò avvenne fra il 1983 ed il 1984. Poi Nitto Santapaola mi disse che non dovevo più occuparmi di queste faccende per cui mi sono astenuto. Il problema era fra Nitto Santapaola e Salvatore Ercolano. In sostanza i rapporti fra i Santapaola e i De Stefano continuavano, ma Nitto non voleva che tali rapporti fossero portati vanti da Salvatore Ercolano. Rappresento che in quel periodo il processo per la sparatoria avvenuta a Catania a via delle Olimpiadi era stato trasferito a Reggio Calabria, non ricordo per quale ragione. Poiché erano imputati Antonino Santapaola, Salvatore Pappalardo e Natale Di Raimondo (oggi collaboratore, Nd.PM: le cui dichiarazioni saranno viste a breve), Aldo Ercolano (rappresentante all'epoca della famiglia Santapaola) ebbe contatti con Paolo De Stefano affinchè quest'ultimo cercasse di fare "aggiustare" il processo. So di questa vicenda in quanto, di questo interessamento, me ne parlò lo stesso Aldo Ercolano. Non so dire come sia andato a finire questo interessamento. Certo è che nel 1986 i tre imputati vennero scarcerati. Posso dire, inoltre, che alcuni calabresi, non so chi, chiesero, nel 1990, a Nitto Santapaola il permesso di rapire Pippo Baudo. Nitto Santapaola negò il permesso. Questo fatto mi venne riferito da Samperi Claudio oggi collaboratore.

ADR: Non sono in grado di riferire della esistenza di eventuali rapporti fra Cosa Nostra e 'ndrangheta riguardanti la cd strategia stragista.

ADR: Conosco per averne letto in un secondo momento sui giornali (all'epoca io ero già detenuto) del fallito attentato alla stadio olimpico organizzato dai palermitani, attentato che doveva colpire i carabinieri. Nulla so, però, della contestuale serie di attacchi ai CC avvenuta in Calabria nel dicembre 93 e Gennaio –febbraio del 1994. Come ho detto ero detenuto.

ADR: Come ho spiegato nel corso di più verbali la strategia della tensione che Cosa Nostra aveva pianificato contro lo Stato risaliva al 1991 più esattamente al Settembre- Ottobre 1991. Ricordo che il vice-rappresentante provinciale di Catania di Cosa Nostra, Eugenio Galea, dopo un incontro con i corleonesi, venne a comunicarci a noi di Catania che era stata stabilita, con i corleonesi, questa strategia di attacco generalizzato allo Stato. Bisognava fare attentati a tralicci, traghetti, forze dell'ordine e tutto ciò che era ricollegabile allo Stato. Prima di iniziare, però, ci disse che bisognava aspettare il via. Insomma in quel momento bisognava solo prepararsi.

ADR: Dopo la morte di Paolo De Stefano, i referenti calabresi di Cosa Nostra catanese divennero le famiglie De Stefano-Piromalli. Preciso meglio: per un periodo successivo alla morte di Paolo De Stefano i rapporti si raffreddarono. Evidentemente attesa la guerra in corso non si sapeva con chi parlare, poi dai discorsi che facevano i miei capi, mi riferisco agli Ercolano ed ai Santapaola, capivo che se c'era un problema da risolvere in Calabria i referenti erano sia i De Stefano che i Piromalli. Non so specificare chi dei De Stefano e chi dei Piromalli. Si faceva riferimento a queste due famiglie. Ritengo che Natale Di Raimondo, collaboratore di giustizia, possa conoscere meglio queste dinamiche in quanto conosceva bene la Calabria ove era stato in soggiorno obbligato.

ADR: Santo Mazzei era molto vicino ai corleonesi più esattamente era un uomo di fiducia di Bagarella. Al contempo era uno storico rivale di Nitto Santapaola. Santo Mazzei era uno dei principali fautori della strategia stragista ed era soggetto dalle forti simpatie di destra, meglio di estrema destra. Santapaola era contrario alla strategia stragista. Per questo i corleonesi volevano che Santapaola fosse sostituito da Mazzei al vertice di Cosa Nostra catanese. Questa indicazione i corleonesi – e cioè che Nitto Santapaola fosse "posato" – i corleonesi non la diedero espressamente ma la fecero capire allorquando il Mazzei, nel 1991 venne "combinato" uomo d'onore direttamente da Bagarella a Palermo (i due si erano conosciuti a Porto Azzurro), nonostante il Mazzei fino a quel momento fosse stato uno dei "cursoti" dunque soggetto estraneo a Cosa Nostra. Era una vera e propria investitura che poi, in seguito, qualche tempo dopo, venne formalizzata allorquando il Mazzei venne presentato a Catania dai corleonesi e precisamente da Bagarella in persona allo stesso Nitto Santapaola e agli Ercolano. Ciò avvenne sempre fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992, in epoca successiva alla elaborazione della cd strategia stragista ma prima di una rapina miliardaria che feci alla sede centrale della Banca di Ragusa che feci ad Aprile/Maggio 1992 proprio con uomini di Mazzei. Rappresento, poi, che nel 1992 su ordine di Bagarella collocò un ordigno a Firenze nei giardini di Boboli dopo gli attentati di Palermo. Poi alla fine del 1992 il Mazzei venne arrestato..."

Già nella seconda metà del 1991, i vertici di Cosa Nostra, nel corso delle riunioni di Enna, avevano deliberato di attaccare lo Stato per ragioni di strategia politica. I Corleonesi, si spesero presso le famiglie e le organizzazioni alleate per concertare, avere il consenso ed ottenere, da ciascuna, un apporto autonomo nella creazione di un clima di paura e terrore nel paese. Tutto ciò rappresenta una importante premessa per comprendere la coerenza, con tale modus operandi, dell'interazione fra Cosa Nostra e Ndrangheta nella complessiva strategia terroristica e nella esecuzione degli attacchi ai CC. La vicenda criminale veniva chiarita nella sua effettiva causale dal collaboratore di Giustizia Natale Di Raimondo, sulle cui dichiarazioni si sono fondate le condanne per il delitto in esame comminate dal Gup di Catania e poi confermate. Escusso il 20.4.2015, il Di Raimondo, riferiva:

"...ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal 28.10.1998. All'epoca ero detenuto al Carcere di Cosenza. Ero detenuto in questo carcere dal Luglio 1993 (fatti salvi gli spostamenti per i processi che avevo a Catania) in precedenza ero stato detenuto, da Marzo 1993 ad Augusta -Catania. Prima di marzo 93 ero libero e lo ero dal 1988. Io ero appartenente ai Santapaola dal 1980 ma non ero "combinato". Nel 1987, invece, venni fatto uomo d'onore insieme al mio carissimo amico Pappalardo Salvatore (ucciso in un agguato nel 1999 a Catania).

ADR: Non è esatto che io sia stato in soggiorno obbligato in Calabria. Lo è stato invece il mio amico Salavatore se non ricordo male in un periodo che ruota intorno al 1988. Stava a Melito Porto Salvo. Entrò in ottimi rapporti con gli Iamonte, che, peraltro, io stesso avevo conosciuto nel carcere di Reggio Calabria nel 1985. In particolare conobbi Iamonte Natale il vecchio, Vincenzo Iamonte, il genero di Natale Iamonte di cui non ricordo il cognome ma solo il nome, Pietro. Conobbi anche in quel contesto Pasquale Condello, Totò Polimeni, Pasquale Tegano, Orazio De Stefano il Libri uccisi in carcere, mi pare a nome Pasquale, tale Labbate mi sembra Pietro, come voi mi chiedete, Paolo e Mico Serraino. Io godevo di una buona reputazione criminale, in quanto ero imputato di una grave fatto di sangue, vale a dire la strage di via delle Olimpiadi. Per questa ragione i suddetti esponenti della 'ndrangheta mi diedero subito fiducia e credito, anche perché sapevano che io appartenevo ai Santapaola che mi dissero erano loro alleati ed amici, tanto da fare insieme il traffico di stupefacenti. Protagonisti di questi accordi in materia di stupefacenti erano i Ferrera – cugini dei Santapaola – da un lato e gli Iamonte ed i De Stefano dall'altra. Fu Natale Iamonte che, in carcere, mi raccontò questi affari di droga, dicendo che era grato ai catanesi che in questo ambito gli avevano fatto fare parecchi soldi. Preciso che durante la guerra di mafia seguita all'omicidio di paolo De Stefano, ovviamente non si potevano fare affari come prima e comunque mantenemmo una posizione neutrale. Tuttavia i rapporti cordiali continuammo a tenerli con i De Stefano/Tegano. Io stesso nel 1990, quando la guerra stava per finire, andai a Reggio Calabria per parlare con Tegano Domenico "Mimmo" e Pasquale Tegano di una impresa catanese a nome Palmeri che stava ristrutturando un palazzo pubblico a Reggio Calabria. Bisognava accordarsi per la tangente da pagare. Ricordo che i due Tegano avevano dei documenti da cui potevano ricostruire il margine di guadagno della ditta catanese. Non venne fatto un rapporto di particolare favore a questa nostra ditta. Spontaneamente: nel 1990/91 io Umberto Di Fazio e Salvatore Pappalardo andammo ad eseguire un omicidio nell'ospedale di Melito Porto Salvo su richiesta di Natale Iamonte. Fu Il Pappalardo che portò la richiesta dello Iamonte a Turi Santapaola. Questi autorizzò il nostro intervento. Io e Pappalardo rimanemmo in macchina sotto l'ospedale e Di Fazio, guidato da uno degli Iamonte, tale Remingo, salì in Ospedale ed uccise con colpi di pistola silenziata, la vittima che ricoverato in questo ospedale. Non sapevamo neanche all'epoca la casuale dell'omicidio. Per noi era un favore agli Iamonte e basta.

ADR: Nulla so dell'omicidio del Giudice Scopelliti.

ADR: Santo Mazzei era uomo di Bagarella. Lui venne introdotto nel gruppo Santapaola da Bagarella. Io ero presente quando, dopo Capaci, Brusca Giovanni, Gioè e Bagarella vennero a Catania e io Enzo Aiello ed Eugenio galea li portammo da Nitto Santapaola in una tenuta di Aiello. Lì venne chiesto da Bagarella a Nitto di fare il Mazzei uomo d'onore come da richiesta di Totò Riina. Disse che il Mazzei a Rimini aveva già fatto due omicidi per "loro". Questa conoscenza Mazzei-Bagarella era nata in carcere negli anni precedenti. Il Mazzei prima non era di Cosa Nostra. In effetti Mazzei venne poi fatto uomo d'onore. Abbiamo poi capito che i corleonesi volevano in seguito accantonare il Santapaola e mettere al vertice della famiglia di Catania il Mazzei. Mazzei era davvero agli ordini di Bagarella. Lo so perché ero io incaricato da Nitto Santapaola di dargli assistenza e di controllarlo. Mazzei aveva fiducia in me e per questo si confidava. Si vantò, infatti, con me di avere messo l'ordigno nel giardino di Boboli a Firenze su richiesta dei Corleonesi. La cosa la fece all'insaputa di Nitto Santapaola come lo stesso Santapaola mi disse quando io gli raccontai il fatto. Nell'occasione del loro arrivo a Catania (dopo Capaci ma prima dell'attentato di via D'Amelio) Bagarella e gli altri due chiesero a noi catanesi ed, in particolare, a Nitto di aderire alla strategia che in seguito sarebbe stata ulteriormente portata avanti da loro, contro lo Stato. Ci chiesero di uccidere magistrati, esponenti delle forze dell'ordine, di fare attentati e "fare rumore". Ciò dovevamo fare in provincia di Catania. Ricordo che Nitto e Turi Santapaola, in loro presenza, dissero che avrebbero aderito a questa strategia, poi quando i corleonesi se ne andarono, manifestarono ai noi affiliati le loro perplessità. Tuttavia bisognava fare credere ai Corleonesi che seguivamo quelle indicazioni e, per questo, nel Luglio 1992, venne ucciso, subito dopo via D'Amelio, l'Ispettore di PS Lizio. Questo Ispettore venne prescelto da noi e dai Santapaola, come vittima designata, essendo un funzionario molto chiacchierato, rispetto al cui omicidio, ritenevamo che non vi sarebbe stato il clamore che, invece, ci sarebbe stato se fosse stato ucciso un poliziotto integerrimo ed impegnato sul fronte antimafia. Insomma, con questo omicidio, volevamo, da una parte, fare credere ai Corleonesi che li seguivamo nell'azione contro lo Stato, ma, nel contempo, non volevamo fare una azione troppo eclatante che richiamasse l'attenzione dell'opinione pubblica e delle forze dell'ordine su noi catanesi. Nitto Santapaola era rimasto "scottato" per la vicenda dell'omicidio Dalla Chiesa e per l'omicidio Ferlito che determinò la strage di tuta la scorta che portava il Ferlito dal carcere di Enna a quello di Trapani o Favignana. In pratica il Santapoala era convinto che in entrambi i casi – materialmente eseguiti dai corleonesi - ci fosse lo zampino dei servizi deviati in quanto nel caso di Ferlito era evidente che vi era stata una soffiata da qualcuno interno alle istituzioni che aveva avvisato del momento della traduzione del Ferlito e nel caso di Dalla Chiesa era lo stesso in quanto risultò in seguito che era stato utilizzato lo stesso mitragliatore usato per la strage della circonvallazione in cui perì Ferlito e la sua scorta. Ripeto che questa era la convinzione di Nitto Santapaola per queste due vicende che mi esternò a suo tempo e che io mi limito a riportare alle SSVV come ho già fatto rendendo dichiarazioni alla AG di Catania, Palermo, Firenze. Dunque per questi precedenti che, ad avviso di Nitto Santapaola, deponevano per l'esistenza di collegamenti fra corleonesi ed apparati o elementi deviati dello Stato, lo stesso Nitto Santapaola diffidava dei Corleonesi. Ciò anche perché nei due precedenti casi che ho indicato (Ferlito e Dalla Chiesa) gli attentati li avevano fatti i Corleonesi e poi era stato implicato lui stesso che ne era estraneo. Nitto, quindi, temeva che così, anche per le stragi che i Corleonesi stavano eseguendo in Sicilia, poteva succedere e che cioè, noi, nostro malgrado, fossimo implicati nelle stesse a livello giudiziario..."

Il pentito Scriva: “Il procuratore Tuccio mi disse che Filippone era amico di un suo amico…”. E il nome del boss della Piana scompare dal verbale…, scrive Claudio Cordova mercoledì 26 luglio 2017 su "Il Dispaccio". Sarebbe un uomo molto influente della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, l'elemento di raccordo tra la cosca Piromalli e Cosa Nostra nella strategia stragista. Eppure per anni, Rocco Santo Filippone (arrestato oggi nell'ambito dell'inchiesta "Ndrangheta stragista") sarebbe rimasto immune alle indagini. Sono tanti i collaboratori di giustizia che parlano, ma le dichiarazioni più pregnanti arrivano dal collaboratore di giustizia Pino Scriva. Elementi utilissimi, peraltro, per comprendere che i rapporti sono diretti e di particolare rilievo fiduciario, vista la gestione di parte della latitanza del collaboratore di giustizia da parte della persona sottoposta ad indagini:

"A.D.R: Ho iniziato a collaborare con la giustizia nel 1983. Ho fatto parte di una famiglia di 'ndrangheta che porta il mio stesso nome. Anzi, posso dire che sono stato il primo a spiegare all'A.G. cosa è la 'Ndrangheta. Preciso che dal 1968 al 1983 sono stato quasi sempre detenuto salvo alcuni periodi in cui ero latitante in quanto ero riuscito ad evadere. Nel periodo in cui ero detenuto e quindi tra il 1969 e il 1983 i rapporti tra noi della 'Ndrangheta e quelli di Cosa Nostra erano cordiali, ma noi eravamo una cosa e loro un'altra. Non posso dire cosa è successo dopo il 1983 poiché ho interrotto qualsiasi rapporto con gli ambienti criminali di provenienza. Ho conosciuto tutti i principali esponenti della 'Ndrangheta della zona Tirrenica e anche Ionica. Ricordo BELLOCCO Umberto detto "asso di mazzo" cl.1937, Nino PESCE "testuni", Mommo PIROMALLI, il vecchio, morto nel 1979 che era il Capo dei Capi e la sua parola valeva in Calabria in Sicilia e altrove, Peppe PIROMALLI cl.1921, Pino PIROMALLI "facciazza". Quelli della famiglia PESCE li conoscevo praticamente tutti compreso Peppe il vecchio ed anche i MOLE'. Mi chiedete se ho conosciuto persone di 'ndrangheta a Melicucco ed io vi faccio i nomi di tali PRONESTI' e Rocco FILIPPONE. Mi chiedete di soffermarmi principalmente su quest'ultimo ed io vi dico che per la prima volta entrai in contatto con Rocco FILIPPONE quando mio cugino Rocco SCRIVA – 'ndranghetista responsabile dell'omicidio di Domenico CUNZOLO – doveva appoggiarsi in un posto sicuro per trascorrere la latitanza. Per tale ragione mio padre SCRIVA Francesco, mi disse di portare mio cugino Rocco presso il FILIPPONE. Il FILIPPONE aveva la disponibilità di una abitazione (non so se fosse sua o meno) nel Comune di Anoia vicino a Melicucco. In questa casa trascorsero la latitanza non solo mio cugino Rocco ma anche MAESANO Domenico "Mico" e Giuseppe ROTOLO di Rizziconi, compaesano del primo. Costatai la presenza di questi ultimi proprio accompagnando mio cugino in questa abitazione di FILIPPONE che a sua volta abitava dalle parti di Melicucco in un'altra casa. Ciò avvenne nel 1965. Circa dieci anni dopo, nel 1975, essendo io latitante a seguito di una evasione, costatata la disponibilità del FILIPPONE in precedenza, trascorsi circa nove mesi della mia latitanza appoggiandomi a Rocco FILIPPONE che mi "teneva" in una Masseria di campagna poco prima di Melicucco. Passavamo molto tempo insieme nel senso che lui mi accompagnava nei miei spostamenti. Tenga presente che all'epoca vi era una guerra tra le famiglie FACCHINERI e RASO-ALBANESE, tutte di Cittanova. Luigi FACCHINERI uccise il 19 marzo uno degli ALBANESE e scoppiò la faida.

Le parole di Pino Scriva sono gravissime, non solo circa l'appartenenza di Filippone alla 'ndrangheta, ma anche circa le presunte coperture di cui avrebbe goduto e, in particolare, quelle dell'allora procuratore di Palmi, Giuseppe Tuccio, oggi alla sbarra nel processo "Gotha", celebrato contro la masso-ndrangheta: "Voglio precisare un particolare su Rocco FILIPPONE: non è la prima volta che parlo di lui, feci il suo nome indicandolo come 'ndranghetista all'allora Procuratore di Palmi, dott. Giuseppe TUCCIO. Quando questi sentì questo nome, mi guardò e mi disse: "Rocco FILIPPONE è amico di un mio amico di Reggio Calabria". Capii al volo che Rocco FILIPPONE poteva dormire sonni tranquilli ed in effetti non solo non è mai stato processato negli anni a seguire per reati associativi legati alla 'ndrangheta ma, non fu scritto neanche il suo nome nel Verbale redatto dal dott. TUCCIO in occasione dell'interrogatorio che io resi al predetto negli anni 1983-1984 presso la Caserma dei Carabinieri di Tropea. Mi chiedete se dopo aver fatto il suo nome rileggendo il verbale ho notato che lo stesso non era riportato, e vi dico che così ricordo. Certo è che Rocco FILIPPONE non venne processato e il Procuratore TUCCIO mi disse chiaramente che era un amico di un amico.

A.D.R: Nel corso della mia latitanza presso il FILIPPONE ho visto con i miei occhi che lo stesso disponeva di armi, in particolare sia armi lunghe che corte.

A.D.R: Il Procuratore TUCCIO non mi disse chi era l'amico del FILIPPONE.

Stragi, l’attacco ai carabinieri e le parole su Berlusconi: così Graviano divenne l’uomo cerniera tra ‘ndrangheta e mafia. La procura di Reggio Calabria accusa il boss di Brancaccio di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria. . Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Cosa nostra proprio in quei primi giorni del 1994, scrive Giuseppe Pipitone il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".  Non solo il capomafia di Brancaccio, non soltanto il “coordinatore” delle “stragi continentali” e il boss che si era “messo il Paese nelle mani” grazie ad accordi mai dimostrati con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Quello che emerge dall’ultima inchiesta della procura di Reggio Calabria è un nuovo profilo di Giuseppe Graviano. Una ruolo interpretato dal padrino di Brancaccio fino ad oggi mai approfondito dalle indagini e dalle rivelazioni dei pentiti: quello di “uomo cerniera” tra Cosa nostra e la ‘ndrangheta. È Graviano, infatti, l’uomo che coinvolge i calabresi nella strategia stragista progettata da Cosa nostra già nell’inverno del 1991 nel caso in cui la Cassazione avesse fatto diventare definitive le condanne del Maxi processo. Cosa che avvenne effettivamente in quella che è probabilmente la data che cambia la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992 è un giovedì e a Roma la Suprema cortestabilisce per la prima volta il carcere a vita per i boss mafiosi. Da quel momento l’Italia viene stravolta da un’escalation a colpi di bombe e tritolo che prima elimina i nemici storici di Cosa nostra, e poi si concentra su obiettivi più simili ad un attacco terroristico: è quello che è stato ribattezzato come l’attacco allo Stato di Cosa nostra. Al quale, però, hanno partecipato anche i calabresi. Graviano, uomo cerniera tra due mafie – “La presente indagine ha dimostrato come, non solo la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della ‘ndrangheta tirrenica — d’intesa con esponenti reggini — diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra, che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell’ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti `ndraghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere alla organizzazione degli attacchi ai carabinieri in terra calabrese”, scrivono gli investigatori coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. La procura di Reggio Calabria, infatti, accusa Graviano (e il calabrese Rocco Santo Filippone) di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta il 18 gennaio del 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, all’altezza dell’uscita di Scilla. Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Graviano proprio in quei primi giorni del 1994.

Spatuzza e l’accordo coi calabresi – L’indagine degli investigatori calabresi, infatti, ha il merito di rileggere e mettere ordine tra un numero indefinito di episodi, racconti di collaboratori di giustizia, rivelazioni. Il risultato è un’unica ricostruzione dei fatti che – in un modo o nell’altro – portarono alla nascita della Seconda Repubblica. Un racconto ben sintetizzato dalle dichiarazioni che Gaspare Spatuzza ha messo a verbale davanti agli inquirenti, confermando l’esistenza di un accordo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta. “La conferma di un complessivo accordo tra Cosa nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi – dice – ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo, Filippo Gravianoebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla ‘ndrangheta e della camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa nostra. Filippo Graviano mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro padri”. Come dire: se il regime di carcere duro per detenuti mafiosi è stato inasprito dopo le stragi la colpa è anche dei calabresi che a quelle stragi hanno partecipato.

Il processo aggiustato e l’anello di congiunzione – Ma non solo. Perché Spatuzza è anche testimone diretto dei buoni rapporti tra piovre calabresi e siciliane. E in un caso probabilmente beneficiario. “Altro episodio che collega Cosa Nostra alla ‘ndrangheta – mette a verbale il pentito – posso riferirlo da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell’anno 1998. Successe che nell’ambito del noto procedimento Golden Market i Graviano (detenuti con lui a Tolmezzo all’epoca ndr) mi dissero che dovevo ricusare il presidente della corte d’Assise di Palermo proprio all’ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione, cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per l’associazione e qualche reato satellite con l’assoluzione per gli omicidi, dall’altra mi dissero che due franche di 500 milioni di lire l’una per il tramite di Agate Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che avrebbero ‘aggiustato‘ un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe Graviano mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano Agate esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, l’anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta”.

Il colpo di grazia e l’attacco ai carabinieri – Al netto dei rapporti tra calabresi e siciliani, però, i racconti del pentito di Brancaccio sono importanti soprattutto per un motivo: collegano tra loro i vari attentati compiuti contro i carabinieri. “Nel corso di questo incontro Graviano Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all’accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in Dell’Utri e Berlusconi, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato e i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell’attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria”, ha raccontato il killer di Brancaccio riferendosi al famoso colloquio del bar Doney, in via Veneto a Roma, il 21 gennaio del 1994. Quello in cui Graviano “era molto felice” e “fa il nome di Berlusconi” del “nostro compaesano Dell’Utri” sottolineando che “grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”. Prima, però, c’è da dare il colpo di grazia, visto che “i calabresi si erano già mossi”.  “Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla ‘ndrangheta d’intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il Graviano con quella frase che ho detto sopra – in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri“, dice l’uomo al quale era stato affidato “il colpo di grazia”: un’autobomba piena di tondini di ferro piazzata vicino all’autobus dei carabinieri che curavano l’ordine pubblico davanti allo Stadio Olimpico di Roma. Un attentato terroristico mafioso” (copyright dello stesso Spatuzza) che non verrà mai eseguito a causa del forfait del telecomando del detonatore. Il colpo di grazia salta anche per un altro motivo: il 27 gennaio vengono arrestati a sorpresa sia Giuseppe che Filippo Graviano. Il giorno prima, invece, Berlusconi aveva ufficializzato la sua discesa in campo con il famoso messaggio agli italiani. Da quel momento in poi, le stragi finiscono. L’egemonia politica e Forza Italia – A questo proposito, i pm annotano: “Ulteriore elemento di rilievo va considerato il riferimento, anche in questo caso confermativo dei passaggi dichiarativi del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, alla circostanza che, poco prima dell’arresto del Graviano, le entità superiori che avevano inteso spingere mafie sul crinale della strategia stragista, avessero, poi deciso di interromperla. Ciò si spiega ove ci si ponga nella prospettiva dell’avvenuto raggiungimento dell’egemonia politica che doveva essere acquista attraverso il sostegno al nuovo partito Forza Italia”. Insomma: l’ipotesi è che gli attentati ai carabinieri siano stati una sorta di ultimo atto di una strategia della tensione da perseguire finché un nuovo ordine non fosse stato raggiunto. E proprio sul ruolo di Forza Italia e dei rapporti tra i Graviano, Dell’Utri e Berlusconi, la procura di Reggio Calabria ha utilizzato per la sua inchiesta anche le varie intercettazioni ambientali captate dai colleghi di Palermo durante l’ora d’aria che il padrino di Brancaccio ha trascorso con il codetenuto Umberto Adinolfi.

Le intercettazioni di Graviano – Gli investigatori reggini accreditano la genuinità delle dichiarazioni di Graviano, le considerano di “assoluto interesse gravemente indiziario” e le inseriscono nella loro ricostruzione, commentandole passo passo. “Berlusconi pigliò le distanze, fece il traditore”, dice Graviano intercettato il 19 gennaio 2016. “Dato questo – si legge nell’ordinanza – che conferma la convergenza, che si determinò nel 1994, fra le mafie e Forza Italia e, quindi, il passaggio che queste fecero dal progetto separatista a quello forzista; di rilievo vanno considerati anche i passaggi della conversazione aventi ad oggetto il mancato rispetto degli accordi fra Berlusconi e le mafie”. Tre giorni dopo, invece, il boss di Brancaccio dice: “Nel 1993 ci furono le stragi e le cose migliorarono tutte di un colpo. Io poi andai a Pianosa e non ti toccavano (si riferisce al fatto che prima — nel 1992/93 – venivano malmenati nelle carceri ndr).  Nel 1994 lo stavano proprio togliendo il 41 bis c’era la Maiolo...poi arrivò Bossi”. Conversazioni che per gli inquirenti confermano “come l’accordo mafie/Forza Italia ruotasse intorno alla eliminazione del 41 bis”. Il passaggio forse più interessante delle intercettazioni di Graviano è, però, un altro. “Nel 1992 Berlusconi voleva già scendere”, dice il boss. Per gli inquirenti “si tratta di passaggio di rilievo in quanto dimostrativo dei rapporti consolidati fra Berlusconi e Graviano (evidentemente tramite Dell’Utri); rilevante anche il fatto che verosimilmente nel periodo immediatamente successivo e, comunque, in collegamento con la volontà di Berlusconi di scendere in campo, questi chiese a Graviano una cortesia; Berlusconi che aveva tutta la popolazione con lui, disse al Graviano ci vorrebbe una bella cosa e questo avveniva quando mi incontravo con lui. Il boss di Brancaccio, poi, dice anche altro. Dice, per esempio che poi loro “non volevano più le stragi”. “L’apporto dichiarativo – annotano i pm reggini – non consente di comprendere appieno se chi non voleva più le stragi (e che, quindi, prima le voleva) fosse Berlusconi”. Un interrogativo non da poco.

Il fantasma dello "stalliere" di Arcore, scrive il 27 luglio 2017 Enrico Bellavia su "La Repubblica". Per anni ci siamo concentrati tutti sul fatto dimenticandone gli sviluppi. A cosa avrebbe portato tutto il lavoro di Paolo Borsellino? Un suo fidato collaboratore che avrebbe conosciuto l’infamia di un’accusa di mafia, il maresciallo, poi tenente Carmelo Canale, ha rivelato che Borsellino avrebbe arrestato il procuratore Pietro Giammanco se solo gliene avessero lasciato il tempo. Rivelò anche che furono alcuni colleghi dell’ufficio a sconsigliare al procuratore capo di presenziare alle esequie di Salvo Lima. Stando a Canale, Paolo Borsellino avrebbe voluto farsi raccontare da Giammanco cosa sapeva dell’omicidio dell’europarlamentare. Ora fermiamoci un attimo e riannodiamo i fili. Borsellino indaga sugli appalti, a due cronisti francesi andati a intervistarlo, due giorni prima della strage di Capaci, parla a sorpresa di Vittorio Mangano, lo sconosciuto stalliere di Arcore. Il suo capo lo osteggia in ogni modo e, dopo la morte di Lima, il procuratore aggiunto confida a un suo uomo di fiducia che vuole arrestare il suo capo. Cosa aveva intravisto Borsellino tracciando un ideale filo che collegava il mandamento mafioso di Porta Nuova, a Palermo nientemeno che ad Arcore? Perché aveva chiesto a Canale di rintracciargli un vecchio rapporto sulla Duomo Connection? Perché nel suo ragionamento con i giornalisti francesi sente la necessità di far riferimento a una vicenda che riguarda molto da vicino due fratelli palermitani che hanno fatto fortuna al Nord, Marcello e Alberto Dell’Utri? L’ultima intervista di Borsellino, sepolta negli archivi della Rai, che ebbe copia di una sintesi trasmessa con ritardo per il pubblico italiano, nasconde proprio quelle domande. E se ne aggiungono altre di domande. Cosa era Palermo nel 1992? Dove erano arrivati i “contadini” di Corleone? Di quali appoggi godevano a Palazzo? Ecco se il tritolo di via D’Amelio non avesse fermato Borsellino, dove sarebbe arrivato il magistrato? Davvero avrebbe arrestato il procuratore capo Pietro Giammanco? Davvero le indagini su mafia e appalti lo avrebbero portato fino ad Arcore? Che significato dare alla inusuale telefonata a casa Borsellino fatta da Giammanco la mattina del 19 luglio del 1992? Che peso dare alle sue parole: Paolo hai la delega per Palermo, spero che questo chiuda la partita? E che peso dare alla risposta di Borsellino: “Questo riapre la partita, anziché chiuderla”. A cosa alludeva Borsellino, a quali conclusioni era giunto? Perché era così impellente fermarlo quel giornoe e a quell’ora e con quei mezzi a 57 giorni dalla strage di Capaci?

'Ndrangheta, Cosa Nostra, servizi segreti e massoneria: dalle spinte autonomiste alla scommessa su Forza Italia, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". L'indagine "Ndrangheta stragista", oltre a ricostruire gli attentati ai carabinieri sul suolo calabrese, ricostruisce le premesse criminali e politiche della stagione stragista, ma anche idee e liste autonomiste e leghiste. Apporto rilevante al costrutto accusatorio, proviene dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tullio Cannella. A suo tempo particolarmente legato a uno dei grandi capi di Cosa Nostra, il corleonese Leoluca Bagarella, cognato e massimo uomo di fiducia di Salvatore Riina, di cui, Cannella, proprio durante il periodo stragista, per un lungo periodo, garantì la latitanza. In primo luogo Cannella sapeva, per averle vissute in prima persona, delle sinergie puramente criminali fra i Graviano e la 'Ndrangheta. In secondo luogo Cannella (all'epoca insospettabile imprenditore) fu uno degli animatori e presentatori, nel 1993/94, di una movimento leghista meridionale (poi divenuto anche lista elettorale) denominata "Sicilia Libera" che era la continuatrice di analogo movimento, che, in Sicilia – fra il 1990 ed 1992 - e nel resto del paese era rappresentato dalla "Lega Meridionale" ispirata, da Licio Gelli, movimento cui, pure, Cosa Nostra aveva aderito in uno con le altre mafie. Del resto la presenza e l'influenza, anche indiretta, sulle dinamiche criminali calabresi del Maestro Venerabile Licio Gelli, veniva evocata da diverse fonti di prova: «la stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare, è quella di cui facevano parte l'Avv. DE STEFANO, Paolo ROMEO e l'on. LIGATO, ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO: tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l'Avv. Paolo ROMEO che l'Avv. Giorgio DE STEFANO[1] facevano parte della P2 di Licio GELLI che spesso si recava a Reggio Calabria: ciò mi è stato detto da Nino Lo GIUDICE e Peppe RELIQUATO». Quanto sopra veniva dichiarato dal collaboratore Consolato Villani, nel contesto delle sue propalazioni su Lodovico, che sarebbe stato «ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO» e che faceva parte della «stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare» insieme «all'Avv. DE STEFANO» e «Paolo ROMEO. Elementi di conferma all'appartenenza dei due legali (Romeo e De Stefano) alla «P2 di Licio GELLI» o, comunque della loro contiguità alla stessa, si traevano dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che, nel verbale d'interrogatorio del 24.01.1995, riferiva sull'esistenza, sin dai «primi mesi dell'anno'79», di «una loggia segreta a Reggio Calabria... a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, 'ndranghetisti». Sempre il collaboratore Barreca, dichiarava che, «loggia segreta» di «Reggio Calabria» era stata costituita inizialmente da «Franco FREDA...nel contesto di quel più ampio progetto nazionale» al quale avevano aderito «le più importanti personalita' cittadine» tra cui anche «Lodovigo Ligato, l'onorevole Paolo ROMEO, l'avvocato Giorgio DE STEFANO... e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P/2...la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale». Continuando il collaboratore chiariva che: «Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava: ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle Istituzioni a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l'aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura. Tornando, ora, alle dinamiche politiche dell'epoca, risultava che Sicilia Libera, operava in modo coordinato con analoghi movimenti leghisti meridionali (Calabria Libera, ecc) che, come il movimento siciliano, erano sostenuti dalle organizzazioni mafiose radicate nei rispettivi territori. Ed il momento più alto di questa collaborazione interleghista benignamente accompagnata da Cosa Nostra e 'Ndrangheta fu la riunione di Lamezia Terme. Tale progetto, peraltro, proprio nei primi mesi del 1994, poco prima delle elezioni politiche che si svolsero quell'anno, venne accantonato dalle mafie, che, oramai (come evidenziato non solo da Gaspare Spatuzza ma da molti altri collaboratori quali lo stesso Tullio Cannella, Angelo Siino, Giovanni Brusca, Maurizio Avola, Salvatore Cucuzza e Giuseppe Ferro) ritenevano di avere trovato altri e più solidi accordi con la nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi (che in Sicilia, per aspetti significativi, da un punto di vista organizzativo e personale aveva elementi comuni con la vecchia "Sicilia Libera"). Dunque, sotto questo aspetto, Cannella si rivelerà, non solo, fonte qualificatissima, ma, anche, depositario di specifiche informazioni dimostrative degli stretti legami che pure esistevano fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta, sul versante del comune sostegno ai medesimi soggetti politici. La strategia stragista postulava, una analisi, una convinzione da parte di chi le aveva promosse ed organizzate. Che cioè le forze politiche che governavano lo Stato non erano più affidabili. E se questa era l'analisi, meglio, il presupposto delle azioni stragiste, sempre partendo dalla ragionevole idea che chi le aveva progettate non si impegnasse, poi, su diverso fronte per raggiungere scopi opposti, deve ritenersi che, sul versante politico, gli stragisti ( o i futuri stragisti) non potessero appoggiare - facendogli conseguire una vittoria elettorale - quegli stessi politici che, in definitiva, stimavano inaffidabili, volevano mettere alle corde ed erano i destinatari ultimi del messaggio stragista. Spatuzza ed altri collaboratori di giustizia spiegheranno che, pochi mesi prima delle elezioni del 1994, i vertici di Cosa Nostra cambiarono, quasi in corsa, cavallo, abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che, in effetti, poi, avrebbe vinto le elezioni politiche) sicchè è a questo nuovo movimento, Forza Italia, che andò il loro appoggio. Ma questo dato non sposta, ma, anzi, conferma, i termini della questione che qui rileva, che cioè la strategia politico/elettorale di Cosa Nostra fu complementare e pienamente coerente a quella stragista che tendeva a mettere con le spalle al muro la vecchia classe politica. Ed è di straordinario interesse ai fini della presente indagine, rilevare che, nello stesso periodo, sul fronte calabrese e, quindi, della 'Ndrangheta (ma non solo) – rompendosi una tradizione ultra quarantennale - vennero adottate scelte politico/elettorali – a partire dall'appoggio alle leghe meridionali – in piena sintonia con quelle di Cosa Nostra e, dunque, complementari e di sostegno alla strategia stragista, che aveva la sua ragion d'essere nell'attacco alla vecchia classe politica. Insomma, se risulta dimostrato che, dopo quarant'anni di sostegno ai vecchi partiti, Cosa Nostra e 'Ndrangheta, compirono, d'improvviso, contemporaneamente ed all'unisono, non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti ma, anche, quella di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti, esclusa una involontaria e potente telepatia fra i capi dei due sodalizi, risulta evidente l'esistenza di una comune strategia di attacco e ribellione alla vecchia classe politica da parte di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, che, sul fronte più strettamente criminale, aveva come sua logica prosecuzione l'attuazione della strategia terroristica. Strategia che, in questo quadro di complessiva concertazione ed allineamento fra le due organizzazioni criminali sulla posizione da prendere nei confronti dello Stato e della vecchia classe politica, ben difficilmente, poteva essere portata avanti in assoluta solitudine da Cosa Nostra. Queste le dichiarazioni rese da Cannella il 17.10.2013: "...omissis.... ADR: circa i miei trascorsi criminali posso dire che non ho mai fatto parte come uomo d'onore di Cosa Nostra. Ero molto legato a Leoluca Bagarella sia per motivi di amicizia che per motivi di interesse nel senso che lui per me, che ero un imprenditore, era un "salvacondotto". Ho ospitato e dato appoggio a Leoluca Bagarella durante la sua latitanza durata fino al luglio del 1995. Io venni arrestato un paio di settimane dopo Bagarella. Iniziai a collaborare quasi subito, poche settimane dopo il mio arresto. La mia attività era quella di imprenditore edile e sviluppavo anche delle importanti iniziative in questo settore, fra le altre ricordo la costruzione di circa trecento villette in zona Buonfornello vicino Cefalù. Proprio nel corso di tale attività costruttiva, che ebbe inizio nel 1985, ebbi modo di entrare in contatto con Filippo, Giuseppe e Benedetto GRAVIANO, anche loro di Brancaccio come me. Avevo fino a quel momento una conoscenza superficiale dei Graviano anche se, devo dire, che furono loro a fare da tramite fra me e Leoluca Bagarella, facendomelo così conoscere nel 1993. Con riferimento alla vicenda dei villini a Cefalù, in sostanza i Graviano mi estorsero circa due miliardi e mezzo delle vecchie lire. I rapporti tra me e i Graviano potevano apparire all'esterno come di reciproca amicizia, in realtà io ero una loro vittima. A sua domanda chiarisco che sono già stato condannato per 416 bis o per concorso esterno, non ricordo, nel processo a Palermo.

ADR: con riferimento alle mie attività in ambito politico riferisco che negli anni 70 militavo nella Democrazia Cristiana ed in tale contesto ebbi a conoscere il defunto Vito Ciancimino. In seguito, tra la fine del 93 e l'inizio del 94, in ogni caso pochi mesi prima delle elezioni politiche del 94 in cui si impose Forza Italia ed anche prima delle comunali che a Palermo si tennero poco tempo prima delle Politiche di cui ho detto sopra, su richiesta di Leoluca Bagarella, fui l'organizzatore del movimento politico Sicilia Libera. Sottolineo che a Palermo fui io ad organizzare questo movimento insieme a Bagarella. Nel periodo precedente alle elezioni di cui sopra, proprio nella qualità di esponente di vertice di Sicilia Libera, partecipai alla riunione di tutte le leghe autonomistiche italiane che si tenne a Lametia Terme. Prima ancora di partecipare a tale riunione, o forse subito dopo, conobbi un esponente di rilievo della Lega Nord che era parlamentare europeo o comunque così mi fù presentato, si tratta di circostanza da verificare. Si trattava di una signora di circa 40/50 anni che conobbi in una sala di un albergo di Palermo in cui parlammo di questioni politiche e di possibili alleanze elettorali...Si dà atto che alle ore 17.15 si allontana il dr. GIANNINI.... A sua domanda preciso che questa leghista non sapeva che ero referente politico di Bagarella e di Cosa Nostra. Chi invece alla fine scoprì che io rappresentavo gli interessi di Cosa Nostra in ambito politico, fù il principe Orsini. Costui in un primo momento, fu da me avvicinato per coinvolgerlo nel nostro movimento politico. Non gli dissi nulla, naturalmente, dei miei collegamento con Cosa Nostra. Senonchè, quando si approssimarono le elezioni politiche del 94, gli proposi di candidarsi per noi nel collegio di Brancaccio-Ciaculli e zone limitrofe. A questo punto gli dovetti spiegare che lì l'elezione poteva essere assicurata con l'appoggio degli "amici" facendo chiaro riferimento Cosa Nostra. Il principe Orsini si impressionò e si fece da parte dicendomi che non era più interessato.

ADR: venendo alla riunione di Lametia Terme cui io stesso partecipai, preciso che la stessa si tenne in un luogo che adesso non ricordo esattamente, forse era una grande sala di un albergo o un centro congressi, non so essere più preciso. Alla stessa riunione parteciparono un po' tutti gli esponenti delle leghe autonomiste. Ricordo ad esempio rappresentanti di "Basilicata Libera", "Calabria Libera", della Lega Nord e di altri movimento analoghi. Della Lega Nord era presente un certo Marchioni che all'epoca si presentò come un componente della segreteria della Lega. All'esito della riunione si decise che bisognava costituire a sud una confederazione di tutte queste leghe meridionali, il cui nome non ricordo, mi si chiede se fosse "Lega Mediterranea" ed io ricordo che era proprio questo il nome. Faccio presente, anche, che a Lametia Terme erano presenti pure esponenti di "Sicilia Libera" catanesi. In particolare per Sicilia Libera catanese era presente tale dr. Platania che come ho già riferito in altri interrogatori era vicino a Cosa Nostra catanese. In particolare Leoluca Bagarella, prima della riunione di Lametia Terme, mi mise in contatto con un emissario catanese di Sicilia Libera, di cui non ricordo il nome. Costui mi disse che a Catania il punto di riferimento del movimento era certo dr. Platania, persona vicina ad un mafioso di nome Ferlito.

ADR: mi viene chiesto se a seguito di questi fatti o contestualmente agli stessi, ebbi rapporti con il defunto Vito Ciancimino. Rispondo che effettivamente ebbi ad incontrare, ma in seguito, il Ciancimino. Ciò avvenne nel corso della mia detenzione presso il carcere di Rebibbia tra luglio e Agosto del 95. Io già collaboravo con la giustizia. Ricordo che un giorno, quando le porte di legno delle celle erano aperte, rimanendo chiuse quelle di ferro, nella cella proprio di fronte alla mia vidi Vito Ciancimino. Ricordo che esclamai:" zu Vito!". Lui mi pregò di non chiamarlo così dicendomi di chiamarlo sig. Ciancimino. Mi chiedete se, come risulta da miei pregressi interrogatori ho parlato della questione delle leghe meridionali con il Ciancimino e vi dico che adesso lo ricordo. Confermo che Ciancimino allorquando io gli parlai di Sicilia Libera si mostrò al corrente di questo progetto politico. Il Ciancimino mi disse che questa Sicilia Libera gli appariva una cosa di poco conto, mentre il progetto autonomista più serio era quello ispirato da Bernardo Provenzano, quello della Lega Meridionale nella quale dovevano partecipare tutti i "nostri amici" meridionali tra cui gli amici della 'ndrangheta calabrese che erano molto influenti. Mi si rappresenta che in precedenti interrogatori ho specificato cha a detta di Ciancimino la 'ndrangheta calabrese era forte anche in virtù dei suoi rapporti con la massoneria ed i servizi segreti ed io confermo pienamente questa circostanza che ora ricordo e che all'epoca riferii immediatamente alla AG procedente avendo la memoria più fresca. Devo precisare, peraltro, che il fatto che pure dietro Sicilia Libera e comunque dietro questi progetti autonomisti ci fosse Bernardo Provenzano, io già lo avevo intuito quando con Bagarella parlavamo di organizzare sul territorio, a Palermo, Sicilia Libera. Bagarella, infatti, capitava che mi dicesse, quando sorgeva un problema relativo alla organizzazione del movimento, che doveva, prima, "parlare con un amico" e poi poteva decidere. Presumo che questo amico dovesse essere proprio Provenzano anche perché all'epoca già era stato arrestato Totò Riina e l'unico elemento di Cosa Nostra che potesse dare consigli o disposizioni a Bagarella era Provenzano.

ADR: circa i rappresentanti della "Lega Calabrese", ora mi viene in mente un nome: Di Donno o qualcosa del genere. Mi chiedete se potrebbe essere tale DONNICI e io rispondo che potrebbe essere questo il nome. Anzi penso proprio di si, mi ricordo che assai probabilmente questo DI DONNO o meglio DONNICI, aveva una carica all'interno della Regione. Non sono in grado di dire, però, se questo soggetto avesse contatti con la criminalità organizzata calabrese, certo io non mi sono presentato a lui come referente di Cosa Nostra.

DOMANDA: lei ha conosciuto il dr. Gioacchino PENNINO?

RISPOSTA: lo conoscevo fin da quando ero ragazzo. Era persona legata a Cosa Nostra ed alla massoneria come lui stesso mi disse. Era storicamente della famiglia di Brancaccio fin dai tempi di Giuseppe DI MAGGIO. In seguito naturalmente passò con i GRAVIANO. A sua domanda le dico che conoscevo anche Sebastiano LOMBARDO detto "Iano", legato ai Graviano e persona che si muoveva a suo tempo in ambienti politici democristiani quando la DC.......... Si dà atto che arriva una telefonata e si sospende il verbale alle ore 17.50....... Si riprende alle ore 17.55........ "governava" a Palermo. .......

ADR: il progetto di Sicilia Libera, che era un pò la continuazione dei precedenti progetti autonomisti delle leghe meridionali, era coltivato da Cosa Nostra e voluto da Leoluca BAGARELLA poiché già da tempo mi diceva che non si fidava più dei vecchi politici, diceva che non li controllavamo più, per cui dovevamo avere dei nostri uomini che si candidavano direttamente alle diverse cariche rappresentative fossero esse in comuni, in regioni o nel parlamento nazionale. Mi chiedete se fra questa strategia politica autonomistica, se non addirittura separatista (perché era questo il punto di arrivo, se le cose fossero andate bene) e quella delle stragi del 92-93 vi fosse un collegamento. Mi si rappresenta che in pregressi interrogatori ho riferito di tale collegamento e che in particolare la costituzione dei movimenti leghisti al sud era legata anche alla strategia stragista nel senso che entrambe servivano a creare le condizioni politiche per mettere in ginocchio lo stato unitario ed arrivare in tempi rapidi ad una sostanziale autonomia del sud rispetto al nord e che l'inaffidabilità dei politici dell'epoca era anche testimoniata dal fatto che Martelli, una volta vicino a Cosa Nostra, era diventato politico nelle mani di Giovanni Falcone. Dichiaro in proposito che non sono in grado di precisare le esatte fonti da cui poteva dedursi questo progetto complessivo, probabilmente, ho messo insieme una serie di indicazioni che adesso, essendo passati venti anni, non sono in grado di ricordare. Certamente confermo di averle riferite, ma adesso non ricordo bene. Con riferimento, quindi, a queste vicende relative alle stragi, a FALCONE e a MARTELLI, preciso che si trattava di informazioni che ho riferito all'AG di Palermo sulla base di ciò che ascoltavo in ambienti mafiosi senza che ne possa in alcun modo confermare la veridicità, in particolare il riferimento a Martelli che feci a quel tempo derivava da semplici sentito dire. Dunque si tratta di fatti tutti da verificare Tutte le altre circostanze di cui ho detto sopra, che mi hanno riferito Bagarella o Ciancimino, o che ho vissuto personalmente le confermo e posso attestarne la verità con serenità.

ADR: agli inizi del 1994, o alla fine del 93, ricordo che era il periodo durante il quale stavo organizzando Sicilia Libera anche in vista della raccolta delle firme ( mi sembra per le elezioni comunali) per presentare le liste (non ricordo esattamente quando iniziai tale raccolta), Leoluca BAGARELLA mi disse che seppure dovevo continuare in questa attività politica ed organizzativa, tuttavia, nell'immediato, Cosa Nostra riteneva fosse cosa più proficua appoggiare, alle elezioni politiche, un nuovo partito che sarebbe nato a livello nazionale, più esattamente mi disse che in questo nuovo partito sarebbero stati candidati degli "amici" (ovvio che si riferisse ad amici di lui stesso e di Cosa Nostra) che l'organizzazione avrebbe appoggiato al momento delle elezioni. Mi sembra, che, in quel momento, non mi disse il nome di questa nuova formazione politica, più probabilmente, in seguito, mi disse che si trattava di Forza Italia. Mi spiegò che il progetto di Sicilia Libera doveva considerarsi un progetto a lunga scadenza e che l'importante era aver costituito il partito e presentarlo alle elezioni. In effetti diceva che poteva sempre tornare utile avere un movimento politico su cui contare al cento per cento per evitare di trovarsi un domani con politici inaffidabili come era successo in quel periodo.

ADR: prendo atto che nel corso di pregresso verbale ho riferito di un incontro avvenuto con Filippo Graviano nel corso del quale mi fece capire, rivolgendosi a me come organizzatore di Sicilia Libera, che potevo lasciar perdere perchè c'era lui che ci pensava ad avere rapporti ad alto livello con i politici e che, grazie a tali rapporti si sarebbe risolto il problema dei pentiti. Confermo le precedenti dichiarazioni rese quando avevo la memoria più fresca. Preciso che effettivamente incontravo Filippo Graviano, anche se in quel periodo era latitante, perché i Graviano continuavano a chiedermi i soldi. Ora che ricordo bene, però, mi sono venute in mente le circostanze di cui sopra in cui Graviano mi riferì dei suoi rapporti politici e dell'inutilità dei miei sforzi organizzativi per Sicilia Libera. L'incontro non avvenne perché dovevo dargli dei soldi, ma perchè Bagarella mi disse che per il tramite di Graviano potevo ottenere uno sconto all' hotel San Paolo Palace di via Messina Marina di Palermo dove avevo svolto un convegno di Sicilia Libera. Incontrai il Graviano a Palermo, non ricordo esattamente dove, per chiedergli questo intervento ed avere, così, lo sconto e lui con tono di consiglio mi disse. "ma chi te lo fa fare......" e via di seguito, facendo poi il discorso relativo ai suoi rapporti politici ad alto livello.

Si dà atto che viene mostrato sul pc, per consentirne una migliore visione, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: non riconosco alcuna delle persone effigiate. L'album viene allegato al presente verbale.

ADR: oltre a quanto mi riferì Ciancimino in modo piuttosto generico, null'altro posso precisare sui rapporti tra 'ndrangheta e massoneria.

ADR: nulla so dirle su eventuali rapporti tra tali movimenti autonomisti e leghisti meridionali e Stefano DELLE CHIAIE, anzi, non ho mai sentito parlare di Stefano DELLE CHIAIE...omissis".

Significativa, conferma alle propalazioni del Cannella - conferma che, fra l'altro, aveva, anch'essa il pregio di evidenziare, in modo convergente, le sinergie e la comunione d'interessi che, all'epoca, anche sul piano politico, erano riscontrabili fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta – proveniva dal collaboratore di Giustizia Gioacchino Pennino, alto borghese palermitano, medico, che era stato, ad un tempo, legato alla massoneria e uomo d'onore della famiglia di Brancaccio. Famiglia, di cui, come noto, erano capi indiscussi Filippo e Giuseppe Graviano. Pennino iniziava a collaborare con la Giustizia in data 20.8.1994 Ritenuto pienamente attendibile e rilevante, specie nel descrivere i rapporti fra Cosa Nostra e i poteri esterni che alla stessa si collegavano, veniva sottoposto a programma di protezione in data 19.10.1994. Viene ascoltato dalla Dda di Reggio Calabria il 25.2.2014:

"...ADR: Ho personalmente conosciuto Rocco e Domenico "Mimmo" Musolino. Si tratta di una conoscenza che è maturata nel corso degli anni 80'. Devo rappresentare che sia io che mio fratello buonanima Aldo – deceduto pochi giorni or sono – eravamo appassionati di tiro al volo. Per tale ragione frequentavamo, fra gli altri, anche lo "stand" di Gambarie, frazione di S.Stefano d'Aspromonte. Questo stand – cioè il campo di tiro – era gestito da Mimmo Musolino, fratello più giovane di Rocco. Tramite Mimmo conoscemmo Rocco. Rocco Musolino era persona che era circondata da una vera e propria venerazione, un rispetto enorme, non solo da parte del fratello e dei familiari (era sicuramente persona che ricopriva il ruolo di vero e proprio capofamiglia) ma anche da parte di tutti coloro che frequentavano Gambarie. Da questi comportamenti capivo, comprendevo, che Rocco Musolino era un uomo d'onore della 'ndrangheta calabrese. Ho poi avuto modo di frequentare Rocco Musolino in quanto, ad esempio, insieme al predetto, al fratello, al mio amico defunto Antonino Schifaudo, ex funzionario regionale a Palermo nonché massone, a mio fratello ed altri facemmo anche, sul finire degli anni 80' un viaggio negli Usa, andando a NY e Las Vegas. Si trattava di un viaggio di piacere.

ADR: Non sono a conoscenza - anche se non posso escluderlo - del fatto che il Musolino Rocco sia massone. Ritengo che sia possibile che certo Pizza, che mi sembra che in qualche modo collaborò con la AG, essendo originario di S.Stefano d'Aspromonete possa riferire tali particolari sul Musolino Rocco. Tuttavia, come ebbi già a riferire a suo tempo, mi risulta, per averlo appreso da tale Martorano (si tratta di un imprenditore calabrese), che il Musolino Rocco unitamente all'On Misasi, uomo politico corpulento calabrese, il dott Donnici, pure lui politico calabrese, ed altri ancora, faceva parte di un comitato d'affari che era pienamente attivo in Calabria e che ricomprendeva, come mi pare volesse fare intendere il Martorano, 'ndrangheta, massoneria e politica.

ADR: Martorano o Marturano lo conobbi in quanto frequentatore del tiro al volo di Gambarie. In effetti il Martorano intendeva chiedermi una raccomandazione presso un mio conoscente, tale Alfredo Li Vecchi, professore universitario di estrazione DC. Costui era componente del CdA delle Ferrovie dello Stato. In pratica Martorano voleva ottenere degli appalti dalle FFSS. Io per la verità non me ne interessai in quanto sapevo che il Li Vecchi era uomo molto serio ed incorruttibile.

ADR: Posso dire che il rispetto di cui godeva Rocco Musolino era, per le modalità con cui si manifestava, in tutto simile a quello di cui godeva mio zio Gioacchino Pennino, uomo d'onore della famiglia di Brancaccio.

ADR: Confermo che mio zio Gioacchino Pennino mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60', ospite dei Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una "cosa sola". Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme Massoni, Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d'affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare "quel progetto di tuo zio" (il comitato d'affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l'invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo.

ADR: Giuseppe Di Maggio era il rappresentante della famiglia di Brancaccio fra i 70' e gli 80'. Dopo la morte di Bontate venne destituito da tale ruolo e in seguito ucciso. Egli sicuramente conosceva bene il Provenzano e per questo, così come dissi a suo tempo nel corso di un precedente interrogatorio, fu in grado di farmi delle confidenze sulla vicinanza del Provenzano alla destra eversiva ed ai servizi segreti nonché alla 'ndrangheta calabrese. Devo dirvi, tuttavia che era voce diffusa il fatto che il Provenzano giocasse su più tavoli, non solo quello di Cosa Nostra. In ogni caso in proposito non posso che confermare quanto disse il Di Maggio e null'altro posso aggiungere.

ADR: Conoscevo bene Tullio Cannella. Era, in origine, un democristiano come me. Se non sbaglio era consigliere circoscrizionale a Brancaccio. Unitamente ai Graviano ospitò presso un villaggio turistico nei pressi di Cefalù alcuni esponenti della 'ndrangheta. Questo a dimostrazione del rapporto molto stretto fra le due organizzazioni. Tullio Cannella era animatore del progetto politico, voluto da Leoluca Bagarella, di tipo separatista. In particolare era dirigente a Palermo di "Sicilia Libera". Cannella manteneva anche la latitanza di Bagarella. La circostanza che dietro a Bagarella, in questo progetto politico, vi fosse Provenzano era una mia mera supposizione che, verosimilmente, peraltro, alla luce, dei fatti non mi sembra neppure esatta. Confermo, invece, che proprio Vito Ciancimino inizialmente sostenne il progetto separatista/autonomista. Ciò mi venne confidato da Giuseppe Lisotta, parente di Vito Ciancimino, oltre che mio collega, con il quale ero in buoni rapporti. All'epoca se non sbaglio si faceva riferimento alla Lega Meridionale.

ADR: Sebastiano Lombardo, detto Iano, era uomo d'onore della famiglia di Brancaccio che effettivamente mi propose di andare a Lametia Terme a questo incontro fra leghe autonomiste. Egli in tale occasione si fece latore di una richiesta dei Graviano che volevano coinvolgermi evidentemente in questo progetto. Ovvio che la stessa circostanza che sia stato proprio Iano Lombardo a parlarmi di questo incontro di Lametia Terme mi fece comprendere che si trattava di una iniziativa a cui era fortemente interessata la criminalità organizzata non solo siciliana. Confermo che anche il già indicato Donnici doveva partecipare a tale incontro di Lametia Terme così come riferitomi dal Lombardo. A vostra domanda vi dico che questo Donnici non l'ho mai conosciuto.

ADR: In effetti il De Bernardo, che era stato al vertice del Grande Oriente d'Italia, a seguito delle sue dimissioni – cui seguì la creazione della Grande Loggia Regolare d'Italia – come appresi da Lisotta, Giuseppe Ciaccio (uomo d'onore e massone) e Schifaudo, disse che non poteva capeggiare una organizzazione al cui interno vi erano soggetti che organizzavano - con le organizzazioni criminali - attentati contro lo Stato. Cosa che aveva compreso svolgendo il suo ruolo. Ciò avvenne nel 1993. Sempre i predetti e forse anche altri, mi dissero che il De Bernardo disse tali circostanze anche al vertice della Grande Loggia d'Inghilterra a cui era affiliato il Grande Oriente d'Italia. All'epoca era il Duca di Kent il vertice inglese della Grande Loggia d'Inghilterra. Proprio per questo la Grande Loggia d'Inghilterra non riconobbe più il Grande Oriente d'Italia...omissis".

Vicende politiche, che si legano in maniera oscura con il mondo della massoneria. E così tanto Pennino quanto Cannella, riferivano dell'incontro strategico di Lamezia Terme, non a caso, svoltosi, per l'appunto, proprio in Calabria che, già all'epoca, era una sorta di laboratorio politico/criminal/massonico. Convergenze nelle affermazioni dei collaboratori di giustizia, ma ance in quanto racconta, il 6 marzo 2014, l'ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Giuliano Di Bernardo:

"......ADR: Entrato in massoneria nel 1961, nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal GOI (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d'Italia nel 2002 in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d'Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il GOI disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel GOI, persona che per me era il più alto rappresentante del GOI, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d'Italia ( una sorta di CdA del GOI in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro del GOI ) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l'inizio dell'indagine del dott. Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla 'ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetto situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avute dall'Ambasciatore in Italia e dai servizi di sicurezza inglese. Io feci espresso riferimento alla commistione fra criminalità organizzate e GOI. Faccio presente che in precedenza, intorno al 1990, poco dopo la mia nomina, nel corso di una mia visita in Sicilia seppi da Massimo Maggiore, palermitano presidente del più alto organo della Giustizia massonica (la Corte Centrale) che il più alto esponente della circoscrizione del GOI di Mazara del Vallo era mafioso, nonché, numerosissimi esponenti del GOI siciliani, e specie nel trapanese, erano mafiosi. Dunque, capii che davvero, come diceva Cordova, il GOI era una "palude". Fu il duca di Kent che mi suggerì di uscire dal GOI e creare un nuovo Ordine. Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata e potente di quella siciliana.

ADR: Con riguardo al periodo 1990/93, non ho elementi diretti per collegare attacco allo stato (e quindi stagione stragista) criminalità organizzata, separatismo, massoneria. Però era un collegamento che in via deduttiva facevo (e che continuo a fare). Ciò rappresentavo anche all'esterno, con le dovute cautele naturalmente, come mia argomentazione. Sicuramente al Duca di Kent feci questi ragionamenti.

ADR: Seppi dai miei referenti calabresi e non solo, di cui non ricordo i nomi, ma che potrei riconoscere, che all'interno del GOI all'inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l'origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del GOI. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del GOI era al centro di un traffico di armi con paesi extra-europei. Si dà atto che il Di Bernardo riferisce di due specifici episodi in materia, direttamente da lui constatati.

ADR: Alla riunione nella quale venne riferito della presenza della 'ndrangheta nelle logge calabresi erano presenti oltre ai soggetti sopra indicati Eraldo Ghinoi, ligure e il Gran Segretario, di origine abruzzese, di cui non ricordo il nome.

ADR: Non conosco quali massoni, tali, Lisotta, Giuseppe Ciaccio e Schifaudo. Non escludo che fossero massoni ma non li ricordo questi nomi. Sapevo che il noto Gioacchino Pennino era massone. Mi dicevano, non ricordo chi me lo disse, che era persona pericolosa in quanto legato alla criminalità organizzata. In seguito seppi che collaborò con la giustizia. Mandalari me lo volevano presentare ma io non volli conoscerlo...omissis".

Di Bernardo conferma quindi l'esistenza di intrecci criminalità organizzata e Massoneria, ma, con specifico riguardo alla criminalità calabrese, rappresentava una situazione di quegli anni che sarebbe più esatto definire come di vera e propria colonizzazione della Massoneria da parte della 'Ndrangheta, colonizzazione, evidentemente, funzionale ad interessi, affari e progetti che non potevano essere sviluppati, con le sue forze, dal solo mondo criminale (che, altrimenti, avrebbe evitato di perdere tempo ed energie nei rituali massonici) ma che, invece, necessitavano di più ampie sinergie. E certamente, fra questi progetti, per così dire, di più ampio respiro, che necessitavano di una più vasta alleanza fra diverse forze che intendevano capovolgere l'attuale ordinamento costituzionale, vi era quello separatista/autonomista, sul quale convergevano gli interessi non solo di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, ma anche di soggetti legati alla Massoneria del GOI. Le dichiarazioni del Di Bernardo, del Cannella e del Pennino, laddove evidenziavano a cavallo fra 1990 ed il 1993, sinergie 'Ndrangheta-Cosa Nostra-Massoneria-Destra eversiva, sul fronte separatista si saldano perfettamente con le propalazioni rese, in epoca non sospetta e partendo da punti di osservazione del tutto disomogenei, da due affidabili collaboratori di Giustizia calabresi, Filippo Barreca e Cosimo Virgiglio.

Partiamo da Filippo Barreca. Si tratta di uno dei principali collaboratori di Giustizia reggini degli anni 90', le cui dichiarazioni sono state utilizzate in numerosi, "storici", procedimenti contro la 'ndrangheta, fra questi il noto procedimento Olimpia. Egli era stato, per anni, il capo della locale di 'ndrangheta di Pellaro, santista e massone. Si tratta, dunque, di un soggetto perfettamente inserito in quel crocevia fra 'ndrangheta, servizi deviati, e massoneria e, come vedremo, destra eversiva, nel quale la vicenda relativa al sostegno fornito dalla 'ndrangheta per garantire la latitanza di Franco Freda era assolutamente emblematica. Voluta dalla destra eversiva e gestita dalla 'ndrangheta e mediata dai esponenti delle istituzioni deviate, la vicenda Freda è fra quelle che più di altre consentono di comprendere la peculiarità del retroterra criminale calabrese e la sua particolare e specifica attitudine ad avere interlocuzione con ambienti politici ed istituzionali. Ecco, le dichiarazioni del Barreca rese alla DDA di Reggio Calabria, utili a comprendere i rapporti fra Cosa Nostra Siciliana e 'Ndrangheta, fra entità criminali e politiche ed il cd "progetto separatista". Il 3.2.1993: "...Quando, nei verbali precedenti, ho parlato di collegamenti di alcune famiglie della 'ndrangheta reggina con Cosa Nostra siciliana, non ho inteso fare riferimento ad un rapporto di vera e propria affiliazione. In realtà io intendevo concettualizzare che le famiglie della 'ndrangheta da me indicate erano i referenti di Cosa Nostra siciliana in un rapporto di reciprocità. Chiarisco meglio il mio pensiero. Cosa Nostra siciliana è (N.d.PM: più esattamente sarebbe da dire: ha) una sorta di vertice, o Cupola, che aggrega le famiglie mafiose più prestigiose e rappresentative; pertanto, non ogni mafioso o famiglia mafiosa siciliana appartiene a Cosa Nostra bensì quel vertice che è esponenziale delle famiglie più potenti e prestigiose. Nella provincia reggina, ove opera la 'ndrangheta, fino ad alcuni anni orsono non si era riprodotta una situazione analoga, dal momento che le singole cosche operavano in proprio e, pur mantenendo fra loro collegamenti ed alleanze, non presentavano una struttura di tipo piramidale al cui vertice esistesse una cupola. Tale situazione si è ribaltata a decorrere dall'inizio del '91, come ho illustrato nei precedenti verbali, e cioè da quando, anche per dirimere la guerra di mafia in corso tra le cosche reggine, si è costituita in tutta la provincia una vera e propria cupola di modello analogo a Cosa Nostra siciliana. Tale cupola esercita poteri di intervento su tutte le organizzazioni della 'ndrangheta; controlla tutte le attività illecite ed, in generale, interferisce con l'autorevolezza di un vero e proprio potere gerarchico sopra ordinato. La costituzione, anche presso la 'ndrangheta calabrese, di una struttura di tipo piramidale modellata su quella siciliana, ha reso certamente più agevole e più pericoloso il rapporto fra le due organizzazioni, dal momento che adesso Cosa Nostra siciliana ha un solo interlocutore, di ampiezza provinciale, cui rivolgersi, laddove in passato il rapporto intercorreva invece soltanto con talune delle famiglie della 'ndrangheta che avevano assunto la qualità di interlocutori privilegiati. Il riferimento, da me fatto poc'anzi, ad una maggiore pericolosità che scaturisce dalla coesistenza di due strutture ampie, articolate e similari fra loro, deriva anche dalla circostanza che l'anello di congiunzione fra le due strutture è rappresentato (quanto meno lo è stato) da un personaggio politico che ha fatto parte della struttura Gladio e che è stato eletto nell'ultima legislatura al Parlamento con l'appoggio anche delle cosche mafiose del reggino; personaggio che ha peraltro acquisito indubbi meriti, agli occhi delle organizzazioni 'ndranghetiste e mafiose, per la sua attività di mediazione finalizzata a risolvere lo stato di belligeranza fra le cosche reggine. .......... "

Il 5 maggio 1993: "...Confermo quanto dichiarato nel verbale del 03.02. u.s. di cui mi viene data lettura. E' vero che ho parlato di un personaggio che fa od ha fatto da collegamento tra Cosa Nostra siciliana e la 'ndrangheta reggina. Sono ora disposto a fare il nome di questa persona e posso dire che si tratta dell'avv. ROMEO Paolo. A mio avviso costui rappresenta l'anello di congiunzione tra la struttura mafiosa e la politica. Volendo fare un paragone potrei dire che è il "LIMA" reggino. Il suo ruolo è sicuramente superiore a quello dell'avv. DE STEFANO Giorgio ed è stato determinante nelle trattative per il raggiungimento della pace. Non so dire con chi l'avv. ROMEO tenga i collegamenti in Sicilia ma credo che si tratti di personaggi politici che alloro volta sono collegati con Cosa Nostra. Sapevo da varie fonti che l'avv. ROMEO è massone ed apparteneva alla struttura GLADIO. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti ma non so dire in che modo. Egli però ebbe a dire ad un mio parente che aveva a disposizione i servizi. So anche che era interessato ad un progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del paese ma anche su questo non so fornire ulteriori particolari. Tale progetto era già di mia conoscenza e mi fu confermato da ROSMINI Diego in carcere nel periodo in cui eravamo insieme nel carcere di Palmi. Anche ROSMINI riferiva di tale progetto all'avv. ROMEO...omissis...Tornando all'avv. ROMEO Paolo il suo rapporto con i DE STEFANO è molto remoto e risale alla rivolta di Reggio. Probabilmente nasce dal fatto che ROMEO e DE STEFANO (intendo dire Paolo e l'avv. Giorgio) erano collegati con i servizi segreti ...... Mi risulta inoltre che l'avv. ROMEO fosse legato ai LATELLA di Ravagnese in favore dei quali spese il suo interessamento in occasione dei processi in cui erano imputati. I LATELLA in cambio favorirono elettoralmente l'avv. ROMEO procurandogli un gran numero di voti nella loro zona così come fecero i DE STEFANO-TEGANO ad Archi. Ciò spiega anche i risultati elettorali conseguiti dal ROMEO anche nella Piana di Gioia Tauro. Mi riservo di fornire ulteriori indicazioni su tutti gli argomenti sinora trattati in un prossimo interrogatorio.

A.D.R.: Mi risulta che a Reggio Calabria esiste più di una loggia massonica coperta di cui fanno parte professionisti reggini a tutti i livelli e di cui mi riservo di fare i nomi di persone che ne potrebbero fare parte. Ne potrebbero far parte anche rappresentanti di alto livello delle istituzioni e della politica...omissis Posso anche affermare con certezza, anche questa assoluta, che i sequestri di persona avevano una componente "eversiva e politica". Essi infatti erano finalizzati da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica da altre vicende criminali più importanti e dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia di questo disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi calabresi (PAPALIA) ed i gruppi siciliani...omissis...

A.D.R.: Quando mi riferisco ai PAPALIA intendo dire dei tre fratelli Domenico, Rocco, Antonio; e dico proprio Domenico quello condannato all'ergastolo per omicidio il quale pure ha sempre partecipato in una posizione di supremazia ai traffici della sua famiglia, anche quando si trovava in semi-liberta', come so benissimo...omissis....

Importante era la posizione dei PAPALIA che provvedevano a convogliare i soldi provento dei sequestri di persona per utilizzarli per gli acquisti delle sostanze stupefacenti. E' appena il caso di ricordare come la esecuzione dei sequestri di persona rispondesse ad una unica centrale, come per altri già affermato......"

Il 18.5.1993: "...Tornando alla vicenda di FREDA ed, in particolare, alla sua fuga da Catanzaro, voglio precisare che per accompagnare FREDA a Reggio Calabria furono il Dr. ZAMBONI di Modena, medico a Roma ed un Generale, direttore dell'Artiglieria del Museo di Gerusalemme in Roma. Questo generale era parente dei fratelli Dante ed Eugenio SACCA'. Non so' presso chi venne portato FREDA inizialmente. So soltanto che venne accompagnato a casa mia da MARTINO Paolo, dall'avv. ROMEO Paolo e dall'avv. DE STEFANO Giorgio. Mentre era a casa mia scrisse una lettera indirizzata a DE STEFANO Paolo, che all'epoca si trovava in carcere a Reggio Calabria. Io avrei dovuto consegnare la lettera a MARTINO Paolo perchè la facesse recapitare a DE STEFANO Paolo ma io non lo feci. Nella lettera FREDA ringraziava DE STEFANO Paolo per il trattamento ricevuto a Reggio Calabria. La lettera è stata allegata agli atti relativi all'arresto di ROMEO Paolo. Sono stato io stesso a consegnare la lettera al dr. CANALE della Questura di Reggio Calabria e servì per la comparizione della calligrafia di FREDA. FREDA rimase a casa mia per circa 4 mesi ed io protestavo perchè ero sorvegliato speciale e non volevo correre rischi, fu così che venne trasferito in una casa di VADALA' Carmelo di San Lorenzo; la casa in questione si trovava a Reggio, vicino alla caserma dell'ex 208. Dopo poco tempo FREDA venne accompagnato dallo stesso VADALA' a Ventimiglia, presso altri calabresi che avrebbero dovuto farlo espatriare in Francia. Fu lo stesso FREDA a dirmi che era stato accompagnato a Reggio dal generale e dal Dr. ZAMBONI, credo che il suo primo rifugio a Reggio fu la casa di VERNARECI Pippo, amico di ROMEO Paolo, e DE STEFANO Giorgio e MARTINO Paolo. Fu io stesso a ricevere da FREDA Franco, che a sua volta li aveva ricevuti da ROMEO Paolo e MARTINO Paolo, marchi tedeschi per un valore di circa 40.000.000 di lire italiane; io cambiai i marchi attraverso il direttore della Banca di Credito e Sovvenzioni di Pellaro, Dr. AMODEO Paolo. So' che AMODEO per ragioni tecniche cambiò i marchi a Reggio presso la Direzione dell'Istituto. Più volte FREDA mi disse che se non fosse riuscito ad uscire dal processo di Piazza Fontana avrebbe fatto saltare l'Italia intendo dire che avrebbe fatto rivelazioni sconvolgenti sul ruolo di apparati dello Stato che non so meglio specificare. Nessun alto venne a trovare FREDA in quel periodo, ma so' che era in contatto telefonico con un avvocato di Modena o di Bologna di cui non ricordo il nome...omissis...DE STEFANO Paolo era anche legato a CONCUTELLI e a quanto io ho saputo fu' lo stesso DE STEFANO a fare da delatore per il suo arresto. Ricordo adesso un altro episodio molto significativo. Nel '74 mi trovavo a Crotone insieme a DE STEFANO Giovanni che dopo poco tempo sarebbe stato ucciso al Roof Garden. In quella città' Giovanni mi presentò alcuni esponenti della massoneria tra cui un commerciante di pneumatici di cui non ricordo il nome; si trattava di persone e che mostravano di conoscere bene DE STEFANO Giovanni e probabilmente era massone anche lui. Durante quel viaggio DE STEFANO Giovanni mi disse che da lì a qualche giorno sarebbe dovuta scoppiare una bomba alla Standa o all'Upim di Reggio Calabria, cosa che avvenne veramente. La bomba doveva servire a creare una situazione di terrore, Giovanni mi disse che la bomba sarebbe stata collocata da loro su incarico di personaggi di primissimo piano...Tornando al discorso della massoneria di cui ho parlato nei precedenti interrogatori posso dire che tradizionalmente ci sono stati ottimi rapporti tra 'ndrangheta e massoneria. I rapporti erano sostanzialmente di reciproca solidarietà. Sulla Jonica tali rapporti erano tenuti da personaggi quali Don STILO e NIRTA Antonio, sulla tirrenica da BELLOCCO Giuseppe, mentre a Reggio tali rapporti erano tenuti dall'avv. DE STEFANO Giorgio e dell'avv. ROMEO. Tutte le persone da me indicate appartengono contemporaneamente sia alla 'ndrangheta anche alla massoneria. Sono sicuro che esistono logge coperte alle quali aderiscono questi personaggi..."

Ecco le dichiarazioni rese da Barreca ai magistrati di Palermo in data 12.9.1996:"...omissis...

P.M.S.: Senta signor Barreca il problema è farle alcune domande in relazione a precisazioni ed approfondimento di alcune dichiarazioni da lei già rese in data 5 Maggio 1993 alla Procura di Reggio Calabria, in particolare modo volevamo chiederle una...notizie più precise circa questo avvocato Paolo Romeo che lei in quel verbale indica come anello di congiunzione tra struttura mafiosa e politica, e la politica e inoltre come soggetto legato all'omicidio e a personaggi collegati con "Cosa Nostra". Cos'ha da riferire di preciso?

B: Dunque, dell'avvocato Paolo Romeo ho parlato ampiamente in dei verbali, svariate volte, alla procura Distrettuale di Reggio Calabria, in particolare, come ebbi già a dire, è un personaggio che io definirei il Lima reggino, il Lima reggino lo definisco perchè è il personaggio chiave della struttura della 'ndrangheta....omissis... è un uomo che passò dal mondo MSI alla Social Democrazia e prima di questo proprio per un intoppo che è avvenuto dietro una mia..., dietro la cattura di Franco Freda, la cattura di Franco Freda avviene, mi pare, se non ricordo male, nel maggio, giugno 1979, lui portò Franco Freda, lui portò a casa mia Franco Freda, che lo tenni circa...

P.M.S: Chi?

B: Paolo Romeo, l'avvocato Paolo Romeo, mi portò assieme al gruppo De Stefaniano, quindi per conto di Paolo De Stefano e di Paolo Martino, mi portarono a casa mia il famoso Franco Freda che nel maggio del 79 è stato catturato in Costa Rica. E questo tipo di... diciamo per la cattura di Freda venne incriminato il Romeo che subito dopo...

P.M.S: Per favoreggiamento...omissis...

P.M.S: Si. Senta, lei sempre in questo interrogatorio del 5 maggio, ha detto in particolare di sapere, di avere saputo da Araniti che l'avvocato Romeo è massone ed è appartenente alla struttura di Gladio, nonchè collegato con i Servizi Segreti, da chi è che ha appreso queste notizie?

B: Guardi io avevo un buon rapporto con Araniti Santo che tra l'altro è stato quello che mi... infatti c'è uno dei miei figli, Vincenzo, che eravamo imputati nello stesso procedimento, in quel famoso processo "Droga 2", dopo di che, lui essendo a casa mia... di cui... con le forze di polizia, siccome io avevo un nascondiglio, in buona sostanza, salvai l'Araniti e mi feci arrestare io...omissis.., quindi questa riconoscenza ha, come dire, permesso all'Araniti di avere una più ampia fiducia nei mei confronti, perchè in buona sostanza, avrei potuto tranquillamente rischiare anch'io e mettermi nello stesso nascondiglio, ma una volta che le forze di polizia avevano arrestato me, il problema in casa mia si era risolto....omissis...

B: Di conseguenza questo episodio, quando poi nel 1986 io sono uscito dalla...diciamo, uscito da questo processo, la Cassazione mi ha scarcerato per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare, abbiamo intrapreso nuovamente i rapporti con l'Araniti anche se lui era, diciamo, da tanto tempo latitante, dall'83. Nel 1988/87/88 e per questo errore mi mandò a chiamare perchè voleva, ha voluto, che gli dessi una mano per l'uccisione dell'Onorevole Ligato....omissis... a un certo punto mi ha, diciamo il discorso scaturì da quello che era l'andamento della situazione reggina, cioè sia reggina che nazionale, in particolare lo sunto l'abbiamo preso nel momento in cui si parlò di quello che poteva essere e che era lo scalpore che aveva suscitato l'uccisione dell'Onorevole Ligato e in particolare lì, nella zona locale della..., ma dove io ero uno dei personaggi, sicuramente, più importanti o il personaggio più importante, a un certo punto dice... dice; "La guerra, in questo frangente l'hanno persa" dice "anche perchè ora non so come si mette paolo Romeo. Il discorso scaturì su Paolo Romeo perchè secondo quello che mi dice Araniti, il Romeo era il personaggio che assieme a Ligato e assieme agli altri era il più vicino al gruppo dei Rosmini. Parlammo di un progetto che loro avevano, cioè il cugino di Araniti, Arnone Pietro, onorevole della... del partito Repubblicano passò, doveva passare, con la uccisione doveva passare alla, al mondo della Democrazia Cristiana, cioè doveva essere, una volta ucciso Ligato, il personaggio più rappresentativo dell'intera provincia di Reggio Calabria. Per quanto riguarda il progetto di separatismo che io ho parlato dei miei...

P.M.S: In quello stesso verbale lei ha fatto riferimento ad un interessamento dell'avvocato Romeo per questo...

B: Ad un interessamento di questo, l'avvocato Romeo, io so che nell'ultimo periodo, da quello che mi diceva sempre Reni, aveva preso contatti con personaggi del mondo politico, certamente io non so chi sono i personaggi.

P.M.S: Chi aveva preso contatto?

B: Il Romeo.

P.M.S: Il Romeo.

B: Il Romeo aveva preso contatti per formare delle Leghe ecc..

P.M.S: Che anno siamo più o meno?

B: ma, guardi, già nel 1990/91, questi sono i periodi, questo è il periodo.

P.M.S.: ... sempre da Araniti giusto?

B: Quindi il progetto, in poche parole, consisteva nel fatto di fare la separazione dell'Italia in tre regioni, quella del Nord, quella del Sud, e quella del Centro, questo era in sintesi...

P.M.S: E rispetto a questo progetto, cioè era un'iniziativa dell'avvocato Romeo a titolo individuale o c'erano interessi della ‘ndrangheta o di altri...?

B: Certamente, certamente l'interessamento era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento a più alto, a più ampio, diciamo, spazio. Perchè dico questo? Perchè successivamente a questi fatti anche in carcere, io siccome poi fui arrestato nel ... il 4 di gennaio del 1991, anche in carcere con il gruppo dei Rosmini, non avevamo le idee chiare sulla... su questo tipo di progetto, però il ...il più grande me ne parlò.

P.M.S: Che si chiama come?

B: Si chiama, uno dei più grandi, il più grande dei Rosmini mi pare, ora in questo momento non me lo ricordo.

P.M.S: Va be, va bene.

B: Com'è che si chiama, comunque mi pare, bè non....

P.M.S: Va bè, non ha importanza.

B: Non me lo ricordo, in questo momento non me lo ricordo.

P.M.S: Il più grande cosa le disse?

B. Parlava di un discorso dell'avvocato Romeo, della potenza che poteva avere per far tacere, dice: "Non vi preoccupate che qui l'avvocato Romeo ci mette in condizioni a tutti di potere uscire, quindi di potere essere nelle condizioni che i processi si debbono aggiustare, quindi..."

P.M.S: Ma questo in relazione alle iniziative dell'avvocato Romeo? o in relazione al progetto, cioè ci entrava o non...?

B: No, assolutamente, questo era un discorso che era la potenza dell'avvocato Romeo.

P.M.S: Ho capito.

B: Certamente su un progetto separatista, io non è che so di più, so che c'era questo interessamento da parte dell'avvocato Romeo a, diciamo, a separare l'Italia, so che l'interessamento c'era, che c'era interessata anche la massoneria su questo progetto, ma di più...

P.M.S: Che c'era interessata anche la massoneria da chi l'ha appreso?

B: Ma, sempre da Araniti, cioè parlavamo, cioè nel momento in cui abbiamo parlato, dice: "...qui c'è un discorso molto importante, cioè c'è un discorso che sono interessate alte personalità e c'è un discorso che c'è la massoneria dietro questo..." Anche per rafforzare ancora di più questo progetto c'era la massoneria.

P.M.S: E' Araniti che è un esponente di spicco della 'ndrangheta.

B: E' uno dei personaggi credo, più importanti all'interno anche della politica, perchè il cugino, non va dimenticato, che era Onorevole e Consigliere Regionale, svariate volte.

P.M.S: Dico, era Araniti, era lui personalmente interessato, quindi la 'ndrangheta era personalmente interessata a questo progetto separatista tramite l'avvocato...

B: Che era anche, era, era naturalmente, l'avvocato com'era rappresentava la ‘ndrangheta, voglio dire, voglio dire che questo l'avvocato Romeo era un personaggio che veniva portato dalla ‘ndrangheta, non è che era un personaggio che veniva così, quindi il progetto che riguardava l'avvocato Romeo, riguardava anche la 'ndrangheta.

P.M.S: Benissimo. Senta lei poi successivamente, quando poi è stato arrestato, ha saputo più nulla di questo progetto separatista, se è andato avanti, non è andato avanti, se venne abbandonato?

B: Io per quello che so, era un progetto che non poteva fermarsi, ma che doveva necessariamente andare avanti. Cioè ci furono le aspettative.

P.M.S: Perchè, ci furono momenti di contrasto all'interno della 'ndrangheta'.

B: Certo. Poi c'è stato un momento in cui si composero questi contrasti interni alla ‘ndrangheta, grazie anche all'interessamento dei Siciliani, debbo dire, perchè....

P.M.S: Questo avvenne mentre lei è detenuto?

B: Questo mentre io sono detenuto sì. Dico…

P.M.S: Quindi questo, questo favorì rapporti più stretti tra la 'ndrangheta e i Siciliani e "Cosa Nostra", lei sa se in qualche modo si è riflettuto su…sul progetto separatista? Dico... se ha avuto notizie lo accenni.

B: Io...? Notizie per quello che abbiamo parlato ripeto con il....

P.M.S:" Ma so che aveva dei rapporti anche con il mondo politico, anche Siciliano il...l'avvocato Romeo. "Con chi in particolare del mondo Siciliano?

B: All'interno so della Democrazia Cristiana era il...diciamo il rapporto che aveva era con il mondo della Democrazia Cristiana.

P.M.S: Siciliana?

B: Siciliana.

P.M.S: Lei sa con chi in particolare?

B: In particolare non lo so. Comunque della Democrazia Cristiana.

P.M.S: Sa se c'erano alcune zone in particolare della Sicilia, nella quale, nelle quali, l'avvocato Romeo, aveva rapporti più stretti? Alcune provincie, alcune zone, zona di Catania, zona di Palermo, zona di Messina.

B: Guardi sicuramente Catania come, che io ebbi a dichiarare anche nei verbali, se lei può vedere parlare proprio di un... di una loggia che è stata istituita nel momento in cui c'era il gruppo, nel momento in cui c'era diciamo il gruppo a cui faceva parte sia l'avvocato Romeo, sia altri personaggi, una loggia che veniva istituita, è stata istituita a Catania una loggia, una loggia super segreta a Catania. Questo già nel 1979…omissis...

P.M.S: senta in questo stesso verbale lei fà riferimento per quanto riguarda...le avevo fatto precedente la domanda della appartenenza alla struttura Gladio dell'avvocato Romeo, questo lo ha appreso sempre da Araniti?

B: Ma guardi, questo è uno dei fattori più diciamo, ne parlai a Vario titolo con svariati personaggi, tra questi anche Araniti. Poi io so che, anche, con altri parlammo, che in questo momento io non ricordo, anche con altri personaggi abbiamo parlato proprio in riferimento all'avvocato Romeo, in particolare proprio con uno dei miei cugini, mi parlò di un discorso di appartenenza della... diciamo che aveva nelle mani i Servizi di Sicurezza, cioè aveva rapporti di grande intimità con i Servizi e poteva manovrare come voleva all'interno, anche del... condizionale.

P.M.S: con chi in particolare, le venne detto?

B: ma guardi, in particolare non mi venne detto chi, ma so che errano interessati sia i due Servizi, che... sia il SISMI che il SISDE.

P.M.S: Il nome di Gladio glielo fece espressamente?

B: Si, il nome di Gladio si, espressamente sì.

P.M.S: E lei capì che cosa era la nostra... ma lei lo sapeva già...

B: No, era una struttura che serviva anche per...

P.M.S: Questa era una sua considerazione, o l'appresa pure da...

B: No, no era per tenere a bada nel caso in cui ci fosse un, una entrata al Governo di Comunisti, questo quello che…

P.M.S: Questo glielo disse Venuta?

B: Si.

P.M.S: E lei non lo sapeva per i fatti suoi prima.

B: Ma, nel mondo politico non è che mi interessava tanto, ma comunque ecco.

P.M.S: Senta comunque qualche accenno leggendo appunto il verbale del 5 maggio 93, lei dichiarò qualche cenno Rosmini glielo fece del progetto separatista, cioè questo progetto...

B: Con Rosmini abbiamo anche parlato del progetto separatista proprio per quel discorso che io avevo fatto precedentemente con Araniti, cioè che io innescai il discorso e lo stesso Rosmini mi disse: "Compare c'è un progetto separatista che deve essere necessariamente portato avanti, per fare in modo che dobbiamo avere più comando, più per essere qui da noi insomma ecco". Avere più controllo come si suol dire per avere più…le cose più da vicino, cioè....

P.M.S: insomma è chiaro.

B: Ma questo era il senso della...cioè che avevo il controllo della... dell'intera provincia e il controllo soprattutto del mondo politico.

P.M.S: E le spiegarono com'è che questo progetto separatista, doveva arrivare a questo obiettivo così ambizioso? Attraverso quale itinerario, perchè non è che sia facile mettere su un soggetto politico, arrivare a conquistare posizioni di potere. Quale doveva essere l'itinerario, se lei lo sa, se non lo sa, non lo sa?

B: Non lo so.

P.M.S: Non lo sa, va bene. Senta lei in questo stesso verbale ha fatto riferimento alla...rileggiamo: "Io posso affermare che... persone comprendono... eversiva e politica". Sempre nel verbale del 5 maggio 93, disse: "Finalizzato da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica dalle altre vicende criminali più importanti, dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia del disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi Calabresi... e i gruppi Siciliani. Mi rendo perfettamente conto che un disegno di questo genere non può essere esclusivamente mafioso, non so dare indicazioni sulla matrice politica": Ora la domanda è se questa considerazione, cioè, anzi queste due considerazioni, primo la componente eversiva-politica di queste persone e secondo che fosse in qualche modo anch'essa in relazione al progetto separatista, è una notizia che lei ha appreso da qualcuno o...

B: E' una ...sono delle notizie che io attraverso un mio bagaglio di conoscenze feci, io personalmente.

P.M.I: Cioè, proviamo a spiegarlo, cioè come arriva, cioè è una conclusione sua?

B: E' una conclusione che non ha assolutamente, voglio dire, è una delle mie conclusioni.

P.M.S: Che arrivano sulla base di quali dati?

B: Sulla base dei dati che... all'interno, diciamo...

P.M.S: Interrompiamo un attimo alle ore 17:19 per sostituire il nastro. Alle ore 17:27 si riprende la registrazione. Quindi la domanda che le avevo rivolto, signor Barreca, era di precisare, sulla base di quali elementi, di quali dati, cioè di conoscenze svariate, di fatto lei perveniva, lei poi è venuto alla conclusione che vi fossero... dei sequestri di persona dell'organizzazione "'ndrangheta", definita "'ndrangheta", che aveva una componente eversiva e politica in qualche modo, che sia rafforzare il progetto separatista di cui diceva prima.

B: Cioè questa è stata una mia deduzione, sulla base di quelle che erano le mie conoscenze, e le mie conoscenze anche in un mondo dei sequestri di persona che ho dedotto che potevano essere ricollegati a quel progetto, ma è solo una mia, ripeto, esclusiva deduzione, che non altro.

P.M.S: ma dico, all'interno della 'ndrangheta che vi fosse, a parte il collegamento del progetto separatista, una componente, diciamo, eversiva nei sequestri di persona. Va...

B: Veda, io su questo, va, l'ho appreso all'interno della 'ndrangheta, questo sì, ora non so con chi ne abbiamo parlato, ma....

P.M.S: Sequestri di dodici persone, commessi in quale periodo?

B: ma, nei periodi 198... dall'85 in poi... sequestro Casella, ha avuto uno dei periodi più culminanti del.... perchè? Perchè per quello che io ebbi già a dichiarare nel... nei svariati verbali il sequestro Casella è stato fatto dai... dal gruppo che facevano capo ai Papalia, ai Sergi, e poi concluso in Calabria con la mediazione dell'avvocato Romeo, omonimo dell'avvocato Paolo Romeo, e nella ... Servizi di Sicurezza.

P.M.I: E da chi' Se lei ne è a conoscenza.

B: Ma guardi, personalmente da quello che mi è stato riferito, si interessò il SISMI alla liberazione della... del ragazzo di Papalia, di quel ragazzo che, ha liberato poi, successivamente per l'avvocato Rotolo che era stato preso dai Sergi...

P.M.I: Ma lei sa in virtù di quali rapporti?

B: Ma, io so che avevano dei buoni rapporti, istauratisi prima con il…diciamo con la... con il vecchio Nirta, inteso vecchio non di età, chiamato "Due nasi", il quale era in buoni rapporti con... da quello che si diceva in carcere, che poi è stato, diciamo, riconosciuto come uno dei delatori del Generale Delfino e quindi diciamo è stato messo da parte ed è stato pure esautorato, veniva chiamato Dottore Nirta "Due nasi". E a un certo punto questo "due nasi" è stato messo da parte anche in carcere nonostante fosse il personaggio, diciamo, che era, nonostante fosse il nipote, diciamo, del vecchio Dottor Nirta, personaggio di spicco, importante nel mondo della 'ndrangheta, e perchè secondo quello che mi diceva Giovanni Vottari nel carcere di Messina, il "Due nasi" era in contato con un Generale dei carabinieri, il Generale Delfino. il quale, diciamo, faceva la doppia situazione, da una parte chiudeva gli occhi nei suoi confronti, dall'altra gli dava una mano, al "Due nasi" all'intimidazioni dei sequestrati, per quello che io so il discorso poi è ricaduto con il gruppo dei Papalia che era molto, poi da quello che si sa, era ...azienda per le...

P.M.I: Senta, lei in questo verbale ha parlato di incontri che avvenivano a Milano fra i gruppi calabresi, il gruppo Papalia e i gruppi Siciliani, ma chi si riferisce come gruppi Siciliani che si incontravano e avevano contatti a Milano con i Papalia? Cioè lo sa innanzitutto?

B: Si, da quello che mi diceva Peppe Zacco, e per quello che erano naturalmente le mie conoscenze, Peppe Zacco, che ci incontrammo nel carcere di Pisa nel 93, 92 scusi.

P.M.I: Che è originario, di dov'è?

B: Che è originario di Palermo, di, di è stato, era il compare di Paolo De Stefano, era personaggio che è stato imputato nel famoso processo "Pizza connection", con molto... che era molto vicino al mondo imprenditoriale Milanese, più precisamente al gruppo dei Socialisti, da quello che lui diceva, e che tutti gli appalti che venivamo effettuati nella zona di Milano venivano controllati da "Cosa Nostra" e dalla "'ndrangheta".

P.M.I: E quindi lei stava dicendo, Peppe Zacco fece riferimento a contatti con i Calabresi, "Cosa Nostra", ma come punti di riferimento Siciliano a Milano, che avevano questi contatti, questi rapporti intensi con i calabresi, le fece riferimenti specifici a parte, cosa le disse?

B: Io per quello che parlammo con Peppe Zacco, io mi trovavo pure nel carcere di Messina, sempre di conoscere un personaggio con cui ebbi anche un rapporto che poi l'ho già dichiarato in altri, nei precedenti verbali, con il... con il... con uno dei personaggi Siciliani vicino al... molto vicino a "Cosa Nostra" ed era... in questo momento non mi viene il nome comunque...

P.M.I: Va bè, se non le viene il nome, poi se lo ricorda me lo dirà.

B: Si in questo momento non...

P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?

B: Si, in questo momento non...

P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?

B: Si, so che fossero, che erano interessati anche il gruppo dei Papalia a questo progetto...omissis"

Il Barreca, infine, escusso dalla Dda di Reggio Calabria, in data 20.2.2014, riferiva: "...omissis....

ADR: i rapporti fra i De Stefano e Concutelli, di cui ho riferito nei verbali resi a suo tempo, si originano dai rapporti strettissimi fra i De Stefano e i servizi segreti che, non a caso avevano originato anche i rapporti fra Freda e De Stefano – Romeo. Io Concutelli non l'ho mai conosciuto ma dei rapporti fra quest'ultimo e i De Stefano e della loro genesi ho saputo direttamente da Paolo De Stefano...omissis....

ADR: Era Paolo Romeo il deputato (eletto con i nostri voti, gladiatore e che rappresentava l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta) di cui riferisco nel verbale del 3.2.1993 alla DDA di Reggio Calabria.

ADR: Confermo che a Milano – grazie ai Papalia, mi riferisco a Rocco e Domenico che ho personalmente conosciuto – si rinsaldarono i rapporti fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Ciò avvenne sulla base di comuni interessi nel settore del traffico di sostanze stupefacenti. Su questa base di rapporti oramai saldi e pienamente operativi si innestò il cd progetto "separatista" voluto e sponsorizzato da Cosa Nostra e dalla 'Ndrangheta. I collegamenti fra cosa nostra e 'ndrangheta si intrecciavano in modo coordinato a Milano grazie ai Papalia e a Reggio Calabria grazie a Paolo Romeo. Insomma Paolo Romeo e i Papalia agivano, in questo ambito, come un'unica persona, in esecuzione di un unico disegno. Tutte queste sono circostanze che appresi dai De Stefano. Al momento non ricordo da chi di loro esattamente...omissis

ADR: Fu Freda che per primo mi parlò della Massoneria mi diede anche copia dei rituali di affiliazione passaggio di grado. Esibisco tali rituali. L'Ufficio da atto che vengono esibite della pagine su cui sono riportate le "Istruzioni per il grado di Maestro" con varie formule rituali...omissis"

Dichiarazioni, rese nell'arco di un ventennio, che mostrano ancora una volta la joint venture tra 'ndrangheta e Cosa Nostra, ma anche i collegamenti istituzionali e paraistituzionali, soprattutto con il mondo della massoneria e dei servizi segreti. E, ancora, la piena adesione della 'ndrangheta al progetto separatista dell'inizio anni 90', che sappiamo, condivideva, con Cosa Nostra siciliana e, in particolare, con i Graviano direttamente incaricati di tirare le fila di tali movimenti in ambito palermitano; la finalità ultima del progetto leghista che consisteva nel creare delle macro-regioni, dove, in quella meridionale, le organizzazioni di tipo mafioso potevano meglio controllare il quadro politico di governo e godere, quindi, di una sorta di immunità e salvacondotto permanenti. Il quadro dei rapporti fra 'Ndrangheta e massoneria, veniva, infine, da ultimo compiutamente descritto dal collaboratore di Giustizia Cosimo Virgiglio. uomo di fiducia dei Molè per conto dei quali movimentava imponenti capitali che venivano investiti nel settore della contraffazione e delle importazioni tramite il Porto di Gioia Tauro, professionista colto, già massone di provata fede ( appartenente alla Loggia "Garibaldini d'Italia") ecco un estratto delle sue dichiarazioni: Virgiglio Cosimo 24.3.2015 ".....omissis...Si dà atto che a questo punto il Virgiglio riferisce dei rapporti fra la Loggia Garibaldini d'Italia, la loggia coperta di Ugolini Giacomo Maria denominata Grande Oriente di San Marino e i Molè/Piromalli. Riferisce del ruolo avuto da lui stesso e dal Cedro Carmelo ed i suoi fratelli. Riferisce che lui è uscito da tale contesto quando si stava concretizzando l'alleanza fra Garibaldini/Molè e Grande Oriente di San Marino...omissis....Riferisce del progetto di pilotare la scarcerazione di Mommo Molè per motivi di salute attraverso Cesare Previti ed il dott. Ceraudo/Ceravolo medico del Dap, Boccardelli segretario di Ugolini condannato per 416 bis c.p. in Appello nell'operazione Maestro e Balestrieri ex piduista presidente del Rotary di New York uomo di punta della loggia di Ugolini...(N.d PM: Giorgio Hugo Balestrieri, già Ufficiale della Marina Militare, già iscritto alla Loggia Propaganda 2, come risulta dagli atti della Commissione Parlamentare d'Inchiesta presieduta dall'On.le Tina Anselmi, è attualmente imputato innanzi al Tribunale di Palmi, per rispondere del delitto di concorso esterno nella cosca Molè, reato per il quale è stato raggiunto da misura cautelare, confermata in sede di gravame. Non rileva, ovviamente in questa sede l'esito del procedimento. Ciò che qui conta è l'esistenza di rapporti documentati fra il piduista e la 'ndrangheta, al di là del fatto che questi rapporti possano, o meno, essere inquadrati nella fattispecie contestata di concorso esterno). Riferisce del ruolo di grande influenza in Calabria, in quanto legatissimo a Licio Gelli, di tale ...omissis...di Cosenza, persona inserita nel contesto della loggia di Ugolini che può a sua volta considerarsi una sorta di continuazione della loggia Propaganda 2 in quanto connotata dai medesimi obiettivi di potere e soprattutto dalla struttura "coperta" e "segreta", senza contare i legami personali fra Licio Gelli, Ugolini e Balestrieri ed i medesimi legami che la loggia di Ugolini aveva, al pari della P2, con gli ambienti e la finanza vaticana ( non a caso Ugolini era ambasciatore di S. Marino presso il Vaticano, anzi decano degli ambasciatori di tutto il mondo presso il Vaticano). La 'ndrangheta utilizzava tale struttura per ripulire il denaro garantendo in cambio la gestione a favore di tale struttura segreta dei flussi elettorali a favore dei soggetti politici".

Ancora Virgiglio il 29.4.2015. "...ADR: Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni 80'. Io frequentavo l'università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nei GOI. Il tempio di Messina che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questo ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 92/93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di una indagine sulla massoneria. In quello stesso periodo Aguglia mi fece entrare nell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, che è un sodalizio organico al Vaticano. A capo di tale Ordine vi era Mons. Montezemolo. Zio di secondo grado del più noto Luca Cordero. La cerimonia di iniziazione si celebra in chiesa. All'interno dell'Ordine vi era Matacena Elio.

Virgiglio riferisce ancora che la struttura massonica calabrese era molto ampia ed era composta da una parte visibile ed una invisibile; che nel 2004/05 Franco Labate, medico di Reggio Calabria, si era rivolto a Peppe Piromalli di creare un punto di contatto con Licio Gelli. Dalle dichiarazioni del Virgiglio, che, come si è visto, oltre ad avere un comprovato rapporto organico con la cosca Molè-Piromalli, era documentatamente, un massone di lungo corso (produceva anche la sua lettera di dimissioni dalla Loggia Garibaldini d'Italia del 2006 ) dunque, oltre ad essere lui stesso la prova vivente della commistione fra le due militanze, quella massonica e quella mafiosa, era la persona che più di qualsiasi altra, era in grado di riferire dei rapporti fra le due entità, oltre confermare (sul solco di Di Bernardo, Lauro, Barreca ed altri ancora) la commistione fra le due entità, specificava come Gelli ed i suoi uomini avessero un ruolo attivo non solo nei contesti massonici che operavano in Calabria, ma anche nei rapporti con le cosche e in particolare quelle tirreniche dei Molè/Piromalli, di cui l'indagato Filippone sarebbe l'elemento di collegamento.

Fiammetta Borsellino, massoneria e verità negata sulla strage di Via D’Amelio. La “massoneria mafiosa di Stato” nelle parole dei pentiti, scrive il 27 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Amati lettori di questo umile e umido blog, continuo ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con una nuova analisi. Anche quella odierna (così come quella di ieri e quella di domani) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio, da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo,altri…». Quel riferimento alla massoneria non era casuale e ieri abbiamo visto come – nell’indagine “Sistemi criminali” della Procura di Palermo poi archiviata il 21 marzo 2001 – il ruolo della massoneria capitanata da Licio Gelli fosse stato ritenuto fondamentale nel tentativo di stravolgere l’ordine democratico del Paese, far nascere una nuova forma di Stato (anche attraverso la secessione). Un ruolo deviato che si cementava con la strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra e (per altri e più raffinati versi) della ‘ndrangheta. E vediamo, a questo punto che cosa dichiarò alla Commissione Parlamentare antimafia il 4 dicembre 1992 il pentito di San Cataldo (Caltanissetta, una provincia culla delle più raffinate strategie massonico deviate) Leonardo Messina. Il pentito parlava della riunione dei vertici di Cosa Nostra, svoltasi alla fine del 1991 nelle campagne di Enna, in cui si sarebbe parlato del progetto eversivo. «Molti degli uomini d’onore – dirà testualmente Messina – cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra». Secondo Messina, il progetto, per finanziare il quale sarebbe stata stanziata la somma di mille miliardi (di vecchie lire), fu concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere e coinvolgeva non solo uomini della criminalità organizzata e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.

Non so se è sufficientemente chiaro: delle Istituzioni e tra queste, ovviamente anche la magistratura. O si deve pensare che la magistratura (la quota marcia, ovviamente) fosse o sia ancora oggi immune? Messina va avanti come un treno e allo stesso Scarpinato, il 3 giugno 1996, dirà ancora: «Il progetto era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ’70 un’unica realtà criminale integrata». E questo lo dice nel ’96 e non si riferisce certo solo al passato. Vogliamo andare avanti con altre sponde che portano sempre alla stessa direzione? Bene (si fa per dire). Dalle dichiarazioni del pentito calabrese Pasquale Nucera è emersa una specifica conferma delle dichiarazioni dell’altro pentito calabrese Filippo Barreca, ma anche di alcuni altri collaboratori di giustizia palermitani (in particolare Gioacchino Pennino): al più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘ndrangheta appartengono anche elementi della massoneria deviata e – ha aggiunto Nucera – anche dei “servizi deviati”. Una commistione, che – sempre secondo le dichiarazioni di Nucera – sarebbe conseguenza di una iniziativa di Licio Gelli che, per controllare i vertici della ‘ndrangheta, aveva fatto in modo che ogni componente della “santa”, ovvero la struttura di vertice dell’organizzazione criminale, venisse inserito automaticamente nella massoneria deviata. Ma vorrei chiudere la puntata odierna con un finale che racchiude il senso di quanto al momento scritto e anticipa quanto scriverò domani: sapete Messina quando e con chi fece cenno, per la prima volta, della riunione di Enna, seppur senza riferire del progetto eversivo? Risposta: il 30 giugno 1992 al procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino. Poteva quel sistema massonico deviato – infiltrato ovunque, a partire dalle Istituzioni statali, magistratura, uffici giudiziari e investigativi inclusi – lasciare in vita Paolo Borsellino? La risposta la conoscete, come la conosce purtroppo Fiammetta e tutta la famiglia Borsellino. E la risposta sta tutta nella “massoneria mafiosa di Stato” – come potremmo definirla a posteriori – che all’epoca imperversava e continuò a farlo anche negli anni successivi. Ma non crediate che le cose, oggi, siano migliorate.

Quei magistrati calabresi iscritti alla massoneria. Tre dossier che scottano per un unico filone investigativo. Al centro i rapporti inconfessabili tra 'ndrangheta, politica e istituzioni all'ombra delle logge, scrive Paolo Pollichieni il 09 gennaio 2016 su ilVelino/AGV NEWS. Un filone investigativo che scotta quello che si ritrovano in mano diversi magistrati calabresi: porta a rivisitare e riattualizzare i rapporti tra l'élite della 'ndrangheta e pezzi importanti del mondo massonico. Non bastasse, ecco ricomparire anche il nodo dell'appartenenza alla massoneria, in maniera diretta o velata ("all'orecchio"), di magistrati con ruoli particolarmente delicati dentro le strutture giudiziarie della Calabria e non solo della Calabria. Singoli filoni che fin qui non hanno avuto una lettura unitaria, tracce e piste seguite dalle inchieste condotte da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda reggina, da Giuseppe Lombardo, della stessa Dda reggina, e da Pierpaolo Bruni, che invece lavora alla Dda di Catanzaro. Va ribadito che affiliarsi alla massoneria non è reato, in quanto la massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l'articolo 18 («Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»). Diverso è dimostrare che alcune logge massoniche, magari sfuggite al controllo della fratellanza universale, fanno da punto di ritrovo per rapporti e sinergie inconfessabili tra mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni. A questo lavorano le singole inchieste e su questo stanno tornando a rendere dichiarazioni importanti faccendieri che hanno rappresentato la cerniera tra nomine, affari, appalti e riciclaggio riconducibili al mondo criminale. Ma quando ci si imbatte nel nome di magistrati affiliati alla massoneria il discorso cambia, perché se pure non si può qualificare l'affiliazione massonica come reato, c'è tuttavia quanto statuito dal Consiglio superiore della magistratura che ha affermato con chiarezza «l'incompatibilità fra affiliazione massonica e l'esercizio delle funzioni di magistrato», perché le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezione a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell'immagine e del prestigio del magistrato e dell'intero ordine giudiziario». A dare manforte al Csm c'è anche una sentenza della Suprema corte: «Il giudice massone può essere ricusato dall'imputato, in quanto l'appartenenza a logge preclude "di per sé l'imparzialità" del magistrato» (la Cassazione, 5a sezione penale numero 1563 / 98), in altre parole, perché – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi a interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia». Come regolarsi, dunque, se nell'acquisizione di documenti o nella raccolta di deposizioni sotto giuramento, arriva sul tavolo del magistrato inquirente il nome di un collega indicato come affiliato alla massoneria? Se lo stanno chiedendo in queste ore all'interno delle Procure calabresi più esposte sul fonte delle indagini sui rapporti apicali tra 'ndrangheta, politica e affari. I dossier che scottano sono sostanzialmente tre. Il primo trae origine dalle denunce incrociate tra il gran maestro Gustavo Raffi e uno dei massimi esponenti storici della massoneria calabrese, il gran maestro Amerigo Minnicelli. Quest'ultimo, in sostanza, ha accusato pubblicamente il Grande Oriente di aver consentito una dilatazione delle iscrizioni in Calabria al fine di condizionare l'esito dell'elezione del nuovo gran maestro Stefano Bisi, giornalista e vicedirettore de Il Corriere di Siena, scelto da Raffi e vittorioso grazie al fatto che attorno a lui si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione, la Calabria, che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Un contenzioso interno? Non più, dopo le feroci critiche del fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l'esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere. E l'operazione "Decollo money" che ha portato in carcere nel 2011 l'imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. Illuminanti, invece, sono le parole di Pantaleone Mancuso (alias "Vetrinetta"), mammasantissima del crimine calabrese, deceduto il 3 ottobre scorso, che ha teorizzato la confluenza della 'ndrangheta nella massoneria. Una preziosa intercettazione ambientale, infatti, ci consegna il boss mentre spiega che la 'ndrangheta «non esiste più», è roba da paese, la 'ndrangheta vera si è trasferita all'interno della massoneria, anzi è «sotto la massoneria». Un poco quanto va spiegando, e siamo al secondo filone investigativo, in queste ore ai magistrati reggini un altro esponente di spicco della massoneria che ha ripreso a collaborare con la magistratura. Spiega perché, negli anni, il potere in Calabria si è concentrato sull'asse Reggio-Gioia Tauro-Vibo e nel farlo chiama in causa anche magistrati che avrebbero agito a protezione del "sistema" ogni qualvolta le inchieste si sono avvicinate pericolosamente a tale cabina di comando criminale.  Il terzo nasce dal materiale sequestrato dal pm Pierpaolo Bruni in casa e nei locali che ospitano la loggia massonica fondata da Paolo Coraci, originario di Messina e residente a Roma, ma con amicizie salde nel Vibonese e nel Reggino, tra queste quelle con alcuni magistrati calabresi. Dall'archivio del gran maestro Coraci sono saltate fuori anche le schede di valutazione e i curricula di adepti da segnalare per l'ingresso nei consigli d'amministrazione di 15 enti pubblici. Non solo, anche tre Questure sarebbero state elevate al livello di dirigenza generale attraverso un intreccio di interessi tra la loggia, un sacerdote ed esponenti politici. L'intervento della loggia massonica avrebbe riguardato due Questure del sud Italia e una in una regione del Centro. Secondo la Dda di Catanzaro, la loggia massonica fondata da Coraci aveva interesse a creare un intricato sistema di potere che portava anche alla nomina di consiglieri d'amministrazione in enti pubblici. C'è quanto basta a mettere in fibrillazione più di un "palazzo", più di una "loggia" e più di una "cosca", specialmente alla vigilia di una serie di scelte importanti che proprio il Consiglio superiore della magistratura è chiamato a compiere per via del turnover ai vertici di uffici giudiziari delicatissimi, quali ad esempio le procure di Catanzaro e Cosenza.

Strage via D’Amelio, Rita Borsellino: “25 anni di giustizia negata”, scrive Sky tg24 il 19 luglio 2017. La sorella del magistrato ucciso dalla mafia parla ai microfoni di Sky TG24 durante la cerimonia di commemorazione a Palermo: “In tanti sanno la verità. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”. Il fratello Salvatore: “Vogliamo sapere dov’è l’agenda di Paolo". “Parliamo di giustizia che non c’è, di 25 anni di giustizia negata”. Rita Borsellino, sorella di Paolo, ha partecipato alla cerimonia di commemorazione per i 25 anni dalla strage di via D’Amelio, in cui il magistrato perse la vita insieme a 5 agenti della sua scorta. Ai microfoni di Sky TG24 dice: “Vorremmo sapere perché è negata questa giustizia? Chi non vuole che questa verità venga fuori? La verità c’è e la sanno in tanti”. Rita Borsellino ha citato Fiammetta, figlia del magistrato ucciso dalla mafia, che dopo anni di silenzio ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui ha parlato di “25 anni di schifezze e menzogne”. In una recente commemorazione, ricorda Rita Borsellino, “Fiammetta, alla battuta di Grasso che disse "ci dobbiamo aspettare un altro pentito" commentò "un pentito lo vogliamo nelle istituzioni" e aveva ragione. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”.

Alla cerimonia era presente anche Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. “C’era qualcuno in questa via che aspettava l’esplosione. Qualcuno si è avvicinato alla macchina di Paolo, ha preso la borsa e si è allontanato. Non sappiamo a chi l’abbia portata. Quando quella borsa è stata rimessa nel sedile posteriore dell’auto, l’agenda non c’era più. Forse speravano che la macchina prendesse fuoco e si perdesse anche il ricordo di questa agenda. Ma non si è perso”. Salvatore Borsellino ha aggiunto a Sky TG24: “Ci sono foto che mostrano un capitano dei carabinieri che si allontana con la borsa. È stato assolto ma vogliamo sapere a chi ha portato quella borsa, chi ha preso l’agenda e dove si trova oggi. Sui contenuti dell’agenda penso si reggano i ricatti incrociati che legano il sistema di potere della seconda Repubblica, che ha le fondamenta intrise di sangue”.

IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.

Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.

Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.

La scorta?

Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».

Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?

Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.

Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.

Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio. 

Un anticipazione dei verbali di Paolo Borsellino al Csm: “Stanno smantellando il pool antimafia”, scrive il 19 luglio 2017 “Il Corriere del Giorno”. L’audizione desecretata per la prima volta dal Consiglio Superiore della magistratura a 25 anni dalle stragi. Sono parole pesanti quelle che Paolo Borsellino pronunciò il 31 luglio del 1988 davanti al Comitato antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura per spiegare alcune sue dichiarazioni, che aveva rilasciate precedentemente in un evento pubblico e due interviste. “Ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia, nè temo mi si possa rispondere che il pool è stato anzi arricchito di nuovi elementi, poichè non si arricchisce certo un pool, se la sua essenza rettamente si intende, aumentando il numero dei suoi magistrati senza gli opportuni criteri di scelta e contemporaneamente disattendendo le ragioni stesse della creazione di tale organismo”. Il giudice Borsellino come emerge dall’audizione disponibile integralmente per la prima volta, dopo la desecretazione degli atti disposta da Palazzo dei Marescialli in occasione del 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui Borsellino e la sua scorta vennero uccisi dalla mafia, così definiva il pool antimafia di Palermo, di cui aveva fatto parte prima di essere nominato procuratore capo a Marsala: “allo stato rappresenta l’unico organismo di indagine ancora efficace in materia di criminalità mafiosa, stante la carenza indubitabile delle forze di Polizia“. Ecco un’anticipazione degli atti: Borsellino accese i riflettori sul fatto che “quando un pool sostanzialmente non è messo in condizione di rispondere alla sua attività, a quelle che sono le ragioni fondamentali della sua esistenza, difficili da cogliere se maturate in lunghi anni di funzionamento, e sostanzialmente è ridotto soltanto a un numero di tre, quattro, cinque magistrati che lavorano assieme, non è più un pool”. Al termine dell’audizione durata 4 ore Paolo Borsellino disse che all’interno dell’Ufficio Istruzione “c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone”. L’audizione di Borsellino dinnanzi al CSM avvenne qualche mese dopo la nomina di Antonino Meli come consigliere istruttore a Palermo, che venne preferito a Giovanni Falcone, prendendo di fatto il posto e ruolo che era stato di Antonino Caponnetto. “Non ho riferito le confidenze dei colleghi – spiegò Borsellino in merito alle preoccupazioni che aveva espresso sullo ‘smantellamento’ del pool – ma mi sono formato una convinzione sulla base di colloqui con persone con cui ho lavorato a lungo, con le quali ho un’intesa perfetta, su quella che era la situazione”. Ed aggiunse: “ho quindi riferito questa situazione che mi sembra fosse importantissimo riferire”, affermò il giudice nella sua audizione, perchè “o parliamo per enigmi o per allusioni e diciamo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica e la gente non capisce bene che cosa significa, oppure se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: ‘c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona più“.

Borsellino, lo sfogo della figlia: i suoi colleghi non ci frequentano. Stavolta il suo 19 luglio non lo passa a Pantelleria, lontana dai riflettori, per ricordare il padre con una messa solitaria nella chiesetta di contrada Khamma. Perché Fiammetta Borsellino, dopo due clamorosi passaggi tv e Internet con Fabio Fazio e Sandro Ruotolo, si prepara oggi a una audizione in Commissione antimafia, a Palermo. Per tuonare contro «questi 25 anni di schifezze e menzogne».

Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosi Bindi?

«Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio», spiega la più piccola dei tre figli del giudice Borsellino, 44 anni.

Si riferisce ai quattro processi di Caltanissetta?

«Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».

Sottovalutazione generale?

«Chiamarla così è un complimento. Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».

Di Matteo, il pm della «trattativa», era giovane allora.

«So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».

Che cosa rimprovera?

«Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro».

E poi?

«Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».

Che idea si è fatta della trama sfociata nella strage?

«A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».

Giammanco o altri si sono fatti vivi con voi?

«Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».

Compresi i magistrati?

«Nessuno. E con la morte di mia madre, dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è più evidente».

Ha suscitato grande emozione il suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio.

«Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va. C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto». Di Felice Cavallaro Fonte Corriere della Sera Palermo, 19 luglio 2017

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare.

«Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi. Siamo arrivati a quaranta miliardi di euro». Lo dice il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso alla Zanzara su Radio 24 del 12 maggio 2012. «Poi su altre cose che avevamo chiesto, norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando». Ma chi voterà come sindaco di Palermo? «Un magistrato - dice Grasso A Radio 24 - non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Al primo turno delle comunali mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato e io le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Poi Grasso critica il pm Antonio Ingroia: «Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Come ha sbagliato ad andare a parlare dal palco di un congresso di partito (comunisti italiani). Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica». Un'intervista, quella al procuratore nazionale antimafia, che alcuni hanno letto come il preludio di un suo impegno diretto in politica. Ma la reazione dei magistrati di sinistra, (come quella di Marco Travaglio che li osanna) che sono poi quelli che detengono le redini della magistratura, o comunque che fanno più rumore, non si fanno attendere. Per Magistratura Democratica sono 'sconcertanti' le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso sulla politica del governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. «Sui sequestri -dice Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica- ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell'ordine e della magistratura. Dobbiamo ricordarci, in proposito, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia. Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune. Inoltre -continua- il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan. Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all'estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell'ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c'è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni. In altri termini -conclude Morosini- la politica antimafia del centrodestra ricorda piuttosto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza». «Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare - ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri - Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato.

Riina in carcere ordina l'attentato a Di Matteo. "Deve succedere un manicomio...", scrive “La Repubblica”. I colloqui del "Capo dei capi" con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". "Berlusconi perché si è andato a prendere lo stalliere?" Ecco le intercettazioni.

Parla il boss: "Io, il mio dovere l'ho fatto. Ma continuate, continuate... qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...". Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. E uccidere i magistrati che indagano su di lui nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Divertirsi per lui significa anche far fuori "tutte le paperelle " che stanno intorno ai giudici, gli agenti delle scorte. "Qua qua qua", ripete il capo dei capi di Cosa nostra mentre passeggia all'ora d'aria in un camminatoio del carcere milanese di Opera con un compagno detenuto, Alberto Lorusso, ufficialmente solo un affiliato alla Sacra Corona Unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi. Gli dice Riina: "Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello". Gli ribatte Lorusso: "Noi abbiamo un arsenale". Noi chi? È quello che stanno cercando di scoprire in Sicilia. Queste sono le prime intercettazioni del boss sulle minacce ai pm di Palermo, depositate agli atti del processo sulla trattativa.

SERVE UN'ESECUZIONE. Il 16 novembre 2013, alle ore 9.30, Totò Riina ordina l'eliminazione del pubblico ministero Nino Di Matteo "che deve fare la fine dei tonni". Intima: "E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più". Una telecamera nascosta riprende il boss mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. Aggiunge: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". Riina ha un odio viscerale contro questo pubblico ministero, che con i suoi colleghi (Del Bene, Tartaglia e Teresi), sta scavando dentro i misteri della trattativa: "Vedi, vedi... si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo... come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia...perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina".

LA TRATTATIVA E LO STATO. Il capomafia di Corleone -  che non ha mai perso un'udienza del processo per la trattativa -  sembra furioso per come l'hanno trascinato nell'inchiesta sui patti fra lo Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del 1992. E ancora una volta la sua ira si scatena contro il pm palermitano: "Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato ". E prevede: "Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore ucciso a Palermo nel 1970 ndr), a questo gli finisce lo stesso". Poi Lorusso lo informa di quanto ha sentito in televisione: "Dicevano che il presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti, che dicono che non deve andare a testimoniare". Gli risponde Riina: "Fanno bene, fanno bene…ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nella corna a quelli di Palermo". Lorusso incalza: "Sono tutti con Napolitano, lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina azzarda: "Io penso che qualcosa si è rotto...".

SILVIO E I GRAVIANO. Il 6 agosto, Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel "buffone" di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma "stanno vedendo come fare per salvarlo ". E a questo punto Riina si lancia in un'altra delle sue invettive: "Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo". E subito dopo: "Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto". Il 25 ottobre il boss di Corleone ritorna a parlare del Cavaliere. E anche dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio sospettati di avere avuto molti contatti economici con l'imprenditoria di Milano. Di loro dice: "Avevano Berlusconi... certe volte...". Segue un'altra parola, incomprensibile. Ma, adesso, Riina lascia intendere che ha qualche riserva anche sui suoi fedelissimi di un tempo, i Graviano.

LE RISERVE SULL'EREDE. C'è grande fibrillazione al vertice di Cosa nostra. Non sono soltanto i Graviano a preoccupare Riina. A lui non piace neanche la strategia del superlatitante Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi". È davvero un giudizio duro. "Questo fa i pali della luce -  aggiunge, riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto -  ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce". E lo accusa di interessarsi solo ai suoi affari. "Fa pali per prendere soldi", dice.

CAPACI E VIA D'AMELIO. "Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano". Sono le parole con le quali Totò Riina rievoca i giorni della strage di Capaci. "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, dall'aeroporto... siamo andati a Roma, non ci andava nessuno, non è a Palermo...fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua. Andammo a tentoni, fammi sapere quando prende l'aereo ". Ma resta un discorso a metà. Da chi i mafiosi dovevano sapere dell'arrivo di Falcone a Palermo? Lo stesso mistero resta nei discorsi che Riina fa sulla strage Borsellino: "Cinquantasette giorni dopo, minchia, la notizia l'hanno trovata là dentro... l'hanno sentita dire... domenica deve andare da sua madre, deve venire da sua madre... gli ho detto... ah sì, allora preparati, aspettiamolo lì". Chi aveva comunicato ai mafiosi che Borsellino sarebbe andato da sua madre domenica pomeriggio? Riina fa riferimento a "quello della luce... anche perché ... sistemati, devono essere tutte le cose pronte, tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: "Se serve mettigli qualche cento chili in più...". E dopo la strage del 19 luglio, il mistero della scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. "Si fottono l'agenda, si fottono l'agenda". Ma chi? Anche questo resta un mistero.

IL PAPA E LA GRAZIA. "Non gliene capiteranno più di nemici, così, come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre... gli ho fatto ballare la samba", dice Riina parlando di se stesso. Poi, scherza: "Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare? Minchia loro non sanno, non sanno, ma il Signore gliela paga, gliela ripaga pure a loro". E alla fine cita il Pontefice "Questo è buono, questo papa è troppo bravo ".

LA MAIL SEGRETA. Totò Riina e Alberto Lorusso sono a conoscenza di una mail girata riservatamente sui pc di tutti i procuratori di Palermo. Ne fanno cenno, ricordando che i magistrati - qualche mese fa -  volevano arrivare tutti in aula al processo sulla trattativa per solidarietà con Nino Di Matteo. Notizia segretissima. Eppure Totò Riina e il suo amico Lorusso, tutti e due al 41 bis, la conoscevano.

I GUAI DI BERLUSCONI. In una conversazione avvenuta il 20 settembre 2013, i due parlano dei "guai" dell'ex premier. Non si sa se guai giudiziari o di carattere politico. Rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "Se lo merita, se lo merita. Gli direi io “ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?”. Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr.) mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto".

IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.

Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.

Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.

La scorta?

Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».

Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?

Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.

Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.

Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio.

Graviano intercettato: adesso Firenze e Caltanissetta valutano se riaprire le indagini su Berlusconi per le stragi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sugli eccidi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia. I pm della procura di Palermo, infatti, gli hanno girato le intercettazioni del boss di Brancaccio in carcere. Cinquemila pagine di registrazioni in cui il padrino - secondo gli investigatori - assegna all'ex premier il ruolo di ispiratore delle bombe del primi anni '90: accusa per la quale è già stato indagato e archiviato, scrive Giuseppe Pipitone il 9 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso bisognerà vedere se la procura di Firenze o quella di Caltanissetta decideranno di riaprire le indagini su Silvio Berlusconi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sulle stragi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia.

Alfa e Beta, Autore 1 e Autore 2 – Attraverso la coordinazione della Dna, infatti, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno girato ai pm fiorentini e nisseni le intercettazioni dei colloqui tenuti in carcere dal boss Giuseppe Graviano, iscritto nel registro degli indagati per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato nel fascicolo stralcio dell’inchiesta sulla Trattativa. Più di cinquemila pagine di conversazione, tutte registrate tra il 19 gennaio 2016 e il 29 marzo del 2017 in cui il mafioso di Brancaccio si confida con il camorrista Umberto Adinolfi. Quindici mesi in cui i due malavitosi parlano di tutto, dal calcio alla politica, ma è quando Graviano apre bocca che gli investigatori della Dia sottolineano in grassetto i brogliacci riepilogativi. Sì, perché il boss condannato per le stragi del 1992 e 1993 tira in ballo spesso proprio il nome di Berlusconi. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – sono stati indagati dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri vennero iscritti nel registro degli indagati della procura nissena – indicati come Alfa e Beta – per concorso nella strage di via d’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta.

La cortesia con urgenza – Sulla base delle intercettazioni di Graviano, dunque, i pm toscani e siciliani dovranno valutare se chiedere al gip di riaprire o meno le indagini su Berlusconi. Secondo gli investigatori palermitani nelle intercettazioni in carcere il boss di Brancaccio assegna all’ex premier il ruolo di ispiratore delle stragi del 1992 e 1993. Gli investigatori hanno puntato gli occhi soprattutto su una frase pronunciata dal mafioso in carcere: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, dice Graviano il 10 aprile del 2016. Poi aggiunge: “Nel ’92 già voleva scendere. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Un linguaggio che gli inquirenti interpretano come un’allusione alle stragi del 1992, in particolare a quella di via d’Amelio, con l’allora imprenditore Berlusconi che sarebbe già stato intenzionato a scendere in campo. Una ricostruzione avanzata più volte in tutti questi anni ma mai dimostrata, come testimoniano le archiviazioni di Firenze e Caltanissetta, ma anche la sentenza Dell’Utri che assolve definitivamente l’inventore di Forza Italia per i fatti successivi proprio all’anno zero della Repubblica: il 1992. Eppure è proprio dal marzo del 1992, poco dopo l’assassinio di Salvo Lima, che Dell’Utri incarica il politologo Ezio Cartotto: dovrà cominciare a studiare l’operazione Botticelli, dalla quale sarebbe poi nata Forza Italia. Il 21 maggio 1992, invece, Paolo Borsellino rilascia la famosa intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi, quella in cui parla per la prima volta di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio del 1992 ecco il botto di via d’Amelio: a schiacciare il telecomando che fece esplodere la Fiat 126 ci sarebbe stato – secondo il pentito Gaspare Spatuzza – proprio Giuseppe Graviano. È questa la “cortesia” di cui parla il capomafia di Brancaccio? E quale sarebbe stata l’urgenza? Forse le indagini di Borsellino su Mangano?

“Non volevano più le stragi” – O forse Graviano parla di altro? “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia”, dice in un altro passaggio delle intercettazioni il boss. Ma se non erano stragi di mafia, di chi erano allora quelle bombe che vedono la piovra colpire per la prima volta fuori dalla Sicilia? Riferendosi all’epoca successiva, cioè al 1994, Graviano racconta al suo codetenuto: “Dovevamo accordare, alla fine c’erano tanti punti da risolvere invece si proseguì con questo. E intanto poi: è successo quello che è successo. Non volevano più le stragi allora io ho imboccato un altro “. Un altro chi? E chi sono quelli che non volevano più le stragi? Un passaggio che per gli inquirenti è da ricollegare ad un’altra conversazione: quando il 22 gennaio del 2016 Graviano si vanta con Adinolfi. “Lo sai cosa scrivono nelle stragi? Nelle sentenze delle stragi, che poi sono state assoluzione la Cassazione e compagnia bella: le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto”, dice portando la mano sinistra sulla pancia e indicando se stesso. E in effetti Graviano viene arrestato il 27 gennaio del 1994: da allora non un solo colpo sarà sparato nella Penisola, nuovo regno della pax mafiosa.

Il colpetto e lo stadio Olimpico – È per questo motivo che gli investigatori collegano queste conversazioni al fallito attentato dello stadio Olimpico, che doveva essere compiuto nelle prime settimane del 1994. È il “colpetto” che secondo il pentito Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti (cornuti ndr) dei socialisti”.  A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia”. Il riferimento è proprio all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che mantengono l’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio: per fortuna salta, perché a detta di Spatuzza ci fu un problema al telecomando collegato all’autobomba.

“Si preoccupava: se questo parla a me mi arrestano subito” – Nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, proprio Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto. Secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo dell’ex senatore in albergo – a circa 50 metri dal bar Doney – è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utrinegli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza? Su Dell’Utri, Graviano ricorda soprattutto un episodio recente. “Noi – racconta al compagno d’ora d’aria – eravamo a testimoniare nel processo di Dell’Utri nel 2009.  Perché si preoccupava. Dice: se questo parla a me mi arrestano subito. Umbè, ha fatto tutte cose così. Ora a me non mi interessa più niente”. Parole che fanno il paio con quello che Graviano rivolge sempre a Berlusconi. “Mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere”. Come dire: l’ex premier può stare tranquillo perché Giuseppe Graviano non è tipo da pentirsi.

“Ho messo mia moglie incinta al 41 bis” – Ovviamente c’è da capire se il boss di Brancaccio sapesse o meno di essere intercettato: se abbia cioè utilizzato le cimici della Dia a suo piacimento per inquinare le indagini.  Per i pm della procura di Palermo non è così ed il motivo è da ricercare in un particolare abbastanza angosciante: passeggiando con Adinolfi, infatti, Graviano torna più volte sull’argomento della sua paternità. Ufficialmente nel 1996 Giuseppe Graviano e il fratello Filippo – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. È in quel modo misterioso che le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro.

“Nascosta tra la biancheria” – Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano: secondo le confidenze fatte dal boss al suo compagno d’ora d’aria, sarebbe riuscito a mettere incinta la moglie all’interno del carcere. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nel penitenziario per giacere col marito. La stessa cosa sarebbe riuscita anche al fratello di Filippo. “Dormivamo nella cella assieme”, dice Graviano. “Mio figlio è nato nel ’97 – racconta – ed io nel ’96 ero in mano loro. Ti debbo fare una confidenza: prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…poi ad un certo punto … lei venne nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”.

Ragionamenti genuini – I pm della procura di Palermo hanno scoperto che effettivamente per un periodo del 1996 i due fratelli Graviano furono detenuti nello stesso carcere, l’Ucciardone di Palermo. Il 28 marzo del 2017, quando vanno a interrogare Graviano gli contestano quindi anche quelle parole sulla paternità. Il boss non ha risposto alle domande dei pm e il giorno dopo l’interrogatorio torna a passeggiare con Adinolfi. Una volta nel cortile gli racconta che gli investigatori li intercettano da 15 mesi.  “È sempre un fastidio – dice Adinolfi – ma noi non lo sapevamo, Però proprio perché non lo sapevamo, alla fine si ritrovano la genuinità dei ragionamenti che abbiamo fatto”. Poi a favore di cimice Graviano torna a parlare delle sua paternità, spiega al codetenuto che i pm “gli hanno contestato anche il fatto del figlio”. Quindi rilancia la storia delle provette e dice: “Capirono male”.

Paolo Borsellino, l'ultima intervista due mesi prima di morire. A 25 anni dall'attentato di Via D'Amelio, la trascrizione del colloquio tra il magistrato antimafia e due giornalisti francesi di Canal+. Il 21 maggio del 1992 raccontava i rapporti tra l'entourage di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Due anni dopo l'Espresso ne pubblicava la trascrizione. Che oggi vi riproponiamo, scrive Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 18 luglio 2017 su "L'Espresso". «Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta l'inquadratura – Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all’attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr]. E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità». Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «...Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...». A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti? Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «...a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.

Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?

«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e 1'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata l'autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».

Uomo d'onore di che famiglia?

«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».

E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?

«Il Mangano, di droga ... [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado... ».

Quando ha visto per la prima volta Mangano?

«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».

Per interrogarlo?

«Sì, per interrogarlo».

E dopo è stato arrestato?

«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».

Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?

«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».

Quando, in che epoca?

«Fra il '75 e 1'80, probabilmente fra il'75 e l'80».

Ma lui viveva già a Milano?

«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».

E si sa cosa faceva a Milano?

«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perché anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico cli stupefacenti».

Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?

«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero... ».

Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?

«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».

Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...

«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».

Mangano conosceva Bontade?

«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]... ».

Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D'Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.

«Non sono a conoscenza di questo episodio».

Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?

«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell’organizzazione mafiosa».

Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?

«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».

Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?

«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».

Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "Il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì non "surra"[non c'entra, ndr]”).

«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».

E Dell'Utri non c'entra in questa storia?

«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».

A Palermo?

«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».

Dell'Utri. Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].

«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».

I fratelli?

«Sì».

Quelli della Publitalia, insomma?

«Sì».

E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?

«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».

Sì, ma quella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?

«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».

In un albergo. Dove?

«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l'albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».

Ah, oltretutto.

«Sì».

C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?

«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».

Sono di Palermo tutti e due...

«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».

C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].

«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente...».

A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?

«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».

A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].

«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».

Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.

«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».

Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?

«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».

Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?

«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia, concernenti anche Mangano».

Concernenti cosa?

«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».

Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?

«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».

Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?

«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».

E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?

«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».

Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche In sequestri di persona...

«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».

A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so ...». Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.

E questa inchiesto quando finirà?

«Entro ottobre di quest'anno...».

Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?

«Certamente ...».

Perché  servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...

«Passerà del tempo prima che ...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.

Paolo Borsellino, i segreti dell’intervista su Berlusconi e gli interessi di Canal Plus. Parla l’autore: “È la mia maledizione”. Parla Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 intervistò il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. E racconta i retroscena su quel colloquio in cui si parla per la prima volta delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri. "Come nacque quell'intervista? Canal Plus era interessato ai rapporti tra il padrone della Fininvest e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq ed era entrato in concorrenza con loro. Perché non venne pubblicata? Dopo l'omicidio non vollero sentirne più parlare", scrive Giuseppe Pipitone il 19 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia”. Parola di Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 insieme al collega Jean Pierre Moscardo intervista il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. Il contenuto di quell’incontro è clamoroso e ampiamente conosciuto: a 48 ore dall’omicidio di Giovanni Falcone e a meno di due mesi dal suo, Borsellino parla per la prima volta dei rapporti tra Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Altrettanto noto è il difficile percorso che porterà quell’intervista prima ad essere pubblicata in forma scritta dall’Espresso nella primavera del 1994 (al settimanale era stata fornita una sintesi video a garanzia dell’autenticità) e poi alla messa in onda – sempre in forma breve – su Rainews 24 nel 2000 tra le polemiche e le tensioni della televisione di Stato. Per la pubblicazione integrale, invece, bisognerà attendere il 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in dvd. Quello che invece fino a oggi era meno conosciuto – se non totalmente ignoto – è il prequel di quell’intervista: come nasce, i motivi per cui venne commissionata e quindi mai mandata in onda. A venticinque anni dalla strage di via d’Amelio, Calvi ha accettato di parlare con ilfattoquotidiano.it, ripercorrendo i giorni precedenti e successivi a quell’incontro con Borsellino, che doveva fare parte di un film inchiesta da lui oggi ha definito come “la mia maledizione”.

Calvi, perché quel film è la sua maledizione?

«Perché me lo porto dietro praticamente da sempre e per un motivo o per un altro non è mai uscito integralmente. Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia».

Come nasce l’idea d’intervistare Borsellino?

«Conoscevo da anni Paolo Borsellino, lo seguivo dagli anni ’80. Me lo aveva presentato Rocco Chinnici anche prima che Borsellino facesse parte del pool antimafia. Tutti correvano dietro a Giovanni Falcone, a me è sembrata una buona idea correre dietro a Borsellino. Avevamo un ottimo rapporto. Non so se di amicizia, ma sicuramente un ottimo rapporto. Così visto che dovevamo fare un film su Silvio Berlusconi e la mafia ho pensato di andarlo a intervistare».

Quel film nasce già come un’inchiesta su Berlusconi e la mafia?

«Assolutamente sì. Io avevo avuto notizia delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri. Avevamo sentito tutti i protagonisti del blitz di San Valentino a Milano, poi siamo andati in Sicilia per ricostruire i percorsi di Marcello e Alberto Mangano».

E perché si rivolge a Borsellino?

«Io non avevo idea che lui si fosse occupato di Mangano per una storia di estorsioni. Sono andato a trovarlo in procura qualche giorno prima dell’intervista e mi dice: Sì, su Mangano ho delle cose da dire. Io ero andato spesso in procura in passato ma ricordo che all’epoca ho trovato l’ambiente un po’ cupo, pesante. Non si sapeva ancora ma col senno di poi era il momento in cui stavano cambiando le cose».

A quel punto lei propone un’intervista a Borsellino su Mangano.

««E lui accetta di farla davanti alle telecamere. Però mi dà appuntamento a casa sua. Un dettaglio che già al momento mi colpì perché di interviste a casa sua non ne avevo mai fatte».

Perché non si fece intervistare in procura?

«Onestamente, non lo so. Perché non voleva essere sentito, ascoltato o visto in procura? Questo non lo so. D’altra parte era un’intervista video».

La novità di quell’intervista è il collegamento Mangano-Dell’Utri-Berlusconi.

«Due cose mi hanno colpito di quel colloquio. La prima è che Borsellino parla di inchieste in corso a Palermo su Dell’Utri, è quella era per me era una novità. C’erano procedimenti su Mangano ma a Milano e si trattava sempre del blitz di San Valentino, che credo fosse già finito in Cassazione quindi non lo definirei in corso. Ma non si sapeva niente di indagini aperte a Palermo. Non ho mai capito cosa fossero quelle inchieste in corso».

Non si è veramente mai capito neanche dopo: la prima indagine ufficiale su Dell’Utri da parte della procura di Palermo è del 1994. 

«Quando già Berlusconi era sceso in politica. Ma lì eravamo prima della stagione di Forza Italia, anche se era il momento in cui la mafia aveva già mollato la Dc».

Quale è la seconda cosa che l’ha colpita dell’intervista?

«Il tono usato da Borsellino, lui parla in un modo molto forte e diretto: ha quelle carte davanti che sta guardando e le cita in continuazione. Poi avremmo capito che quello era il fascicolo processuale delle inchieste su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, cioè tutte le volte che erano stati citati in rapporti di polizia. Lui riguarda questo elenco e alla fine me lo dà davanti alla telecamera, dicendo: basta che non dice che gliel’ho dato io. Francamente mi ha stupito: queste cose non le faceva mai».

Era come se volesse parlare di quell’argomento a tutti i costi, cioè di Berlusconi, Mangano e Dell’Utri? Ha avuto questa sensazione?

«Lui voleva parlare, questo è chiaro. Voleva parlare e voleva parlare di questi soggetti. Perché in quella fase non sarei capace di dirlo. A Palermo era uno strano momento: di quieta inquietudine direi. Era già morto Salvo Lima, che aveva dato la disponibilità ad essere intervistato da noi e si sapeva che qualcosa si stava muovendo. Ma la città in quel momento era tranquilla anche se lui era inquieto».

Ma dopo l’omicidio Borsellino, come mai l’intervista non è stata mandata in onda? Era un documento straordinario da diffondere dopo la strage di via d’Amelio.

«Perché bisogna capire come nasce l’intervista a Borsellino».

Come nasce?

«Io lavoravo per una casa di produzione indipendente e c’era un interesse di Canal Plus per Berlusconi e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq e la voleva trasformare in una tv criptata, entrando in concorrenza diretta con Canal Plus».

Quindi c’era un interesse affaristico di Canal Plus. Sono loro a commissionarvi l’inchiesta o l’avete proposta voi?

«No, noi abbiamo proposto a Canal Plus delle storie sulla mafia. Le nostre fonti ci avevano segnalato che c’erano storie su Berlusconi e la mafia e Canal Plus ci ha detto: questa ci interessa. Il problema è che quando il film era finito, per Canal Plus non era più una storia utile: La Cinq era fallita, Berlusconi non investiva in Francia e loro non volevano più sentirne parlare».

Addirittura non volevano sentirne parlare? Ma quello, però, era comunque uno scoop. Non solo per i contenuti ma perché è probabilmente una delle ultime interviste a Borsellino prima di morire: che senso ha non volerne sentire più parlare?

«Non lo so, ma Canal Plus era ed è una televisione che si occupa soprattutto di cinema, di sport e soltanto in parte di documentari. E documentari non vuol dire attualità. E poi Canal Plus non sapeva neanche che dentro il nostro girato c’era tutta quella storia di Borsellino. Magari avevano saputo dell’omicidio, però per loro era un’operazione che non interessava più».

Come mai non ha proposto a qualche altra emittente di mandare in onda quell’intervista?

«Perché sono subito partito per girare una lunga serie sui servizi segreti nella seconda Guerra Mondiale. E quindi ho messo da parte tutto il capitolo sulla mafia. E poi onestamente non mi andava di pubblicare quest’intervista con la chiave: ecco perché Borsellino è stato ucciso. Non mi piaceva».

Ha mai pensato che uno dei motivi per cui Borsellino muore è proprio perché sapeva quelle cose su Mangano e Dell’Utri?

«Cioè per l’intervista?»

Non per l’intervista, ma per quello che dice nell’intervista.

«Ma quello che dice nell’intervista non è stato pubblicato e quindi non era pubblico. Magari qualcuno l’ha saputo ma io penso proprio di no. Io penso che l’omicidio fosse stato già deciso quando uccisero Falcone. Poi da quello che ho sentito, ma non ho seguito direttamente, so che Borsellino era stato ucciso perché si era messo in mezzo alla Trattativa».

Recentemente, però, Giuseppe Graviano – intercettato in carcere – parla di una “cortesia” fatta “al Berlusca” che voleva scendere già in politica nel 1992. Registrazioni che alcuni inquirenti collegano alla strage Borsellino. 

«L’ipotesi che lega l’intervista all’omicidio direi che non è credibile. Anche perché ho letto che Graviano sapeva di essere intercettato. Le connessioni tra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano erano già saltate fuori. La novità che portava Borsellino era una novità importante ma come documentaristica perché dà un’altra luce alla faccia di Dell’Utri e Mangano ma non è secondo me una luce fondamentale»».

In ogni caso, però, quell’intervista, non venne comunque diffusa per due anni e l’intero film non è mai uscito: non è strano?

«Sì e per questo che io considero questa storia la mia storia maledetta. L’intervista, come è noto è stata pubblicata dall’Espresso nel 1994 e poi da voi in forma integrale, mentre il film ho praticamente finito di montarlo. Negli anni successivi l’ho proposto a vari network ai quali invece non interessava. Ma se non è mai uscito è stato per una serie di circostanze che non reputo strane o inquietanti o meglio non spinte dall’alto. Varie volte ho sentito il fiato sul collo in certe storie che seguivo, ma devo dire che non è questo il caso».

Cosa c’entra Spatuzza con Berlusconi. Il mafioso che ha rivelato l'organizzazione della strage di via D'Amelio ha raccontato anche un pezzo della lunga storia di accuse sui rapporti tra Berlusconi e la mafia, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". In un interrogatorio con i magistrati del 16 giugno 2009, Gaspare Spatuzza descrisse quello che a oggi è uno degli episodi più concreti della lunga storia di rapporti reali, raccontati e presunti di Silvio Berlusconi con la mafia: stando al racconto di Spatuzza, un mafioso che si era da un anno dichiarato “collaboratore di giustizia” dopo undici anni in carcere, il suo boss Giuseppe Graviano gli diede un appuntamento all’inizio di gennaio del ’94 al bar Doney di via Veneto a Roma, alla vigilia dell’attentato poi fallito allo stadio Olimpico di Roma (e anche dell’arresto dello stesso Graviano a Milano). Questo è il racconto di Spatuzza, ripetuto in successivi processi. Aveva un’aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa. Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza, in un altro incontro a Campofelice di Roccella (…) Poi aggiunse che quelle persone non erano come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra (…) Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene (…) Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. Quando a Spatuzza fu contestato a processo di avere aggiunto questo racconto alle sue altre confessioni e testimonianze solo un anno dopo la formalizzazione del suo “pentimento” – la legge gli toglierebbe quindi ogni validità, perché per evitare mercanteggiamenti impone che un collaboratore dica le cose che ha da dire entro sei mesi – la sua spiegazione fu che si era allora appena insediato il quarto governo Berlusconi e questo lo aveva preoccupato sull’ottenimento del regime di protezione richiesto dal suo status di “collaboratore”, e che si era deciso a parlare di Berlusconi solo una volta ottenutolo, mesi più tardi. Le indagini sui rapporti con la mafia di Silvio Berlusconi hanno una storia lunga e controversa. A oggi, il loro risultato più rilevante e definitivo è la sentenza (definitiva nel 2014) che ha condannato il principale collaboratore di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e che ha stabilito che negli anni Settanta lo stesso Dell’Utri fece da tramite in una trattativa tra alcuni boss mafiosi e Berlusconi culminata in una riunione a Milano, con la quale Berlusconi acconsentì di pagare per la protezione sua e della famiglia dai sequestri che allora temeva, o da altro. Dice tra l’altro la sentenza di Cassazione: In tale occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra”, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di “cosa nostra” e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo. In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà. (…) In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione. Il tema dell' “estorsione” praticata dalla mafia nei confronti di Berlusconi è molto delicato e controverso. È quello che permette che non ci siano state fino a oggi condanne nei confronti di Berlusconi per i suoi rapporti con la mafia, malgrado la sentenza su Dell’Utri e le molte accuse che questo rapporto sia stato spesso di collaborazione complice. La storia più nota e rilevante in questo senso è quella del rapporto con Vittorio Mangano, il mafioso che in virtù dell’accordo citato sopra prese residenza nella villa di Arcore di Berlusconi negli anni Settanta (come “stalliere” dei cavalli secondo Berlusconi) e costruì con Berlusconi e Dell’Utri un rapporto molto intenso e continuato (che poi si interruppe e ha come episodio più famoso la strana telefonata tra Berlusconi e Dell’Utri dopo un attentato di cui lo credono responsabile).

Le prime indagini su Berlusconi e la mafia risalgono ufficialmente al 1996, anche se c’è una mai chiarita questione delle indagini a Palermo citate in un’intervista da Paolo Borsellino nel 1992 e di cui non c’è traccia ufficiale (l’unica spiegazione, non del tutto convincente, è che si trattasse di indagini su fatti che lo coinvolgevano senza che fosse indagato). Nel 1996 Berlusconi fu indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, e negli anni successivi fu indagato a Firenze e a Caltanissetta rispettivamente per la campagna di stragi del 1992-1994 e per quelle in cui vennero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutte le inchieste furono archiviate. Le grandi ipotesi accusatorie – mai dimostrate, mai giunte a condanne, sostenute solo da dichiarazioni non riscontrate di diversi collaboratori di giustizia – sono state fino a oggi: che Berlusconi abbia – nell’ambito degli accordi di cui sopra – usato grandi investimenti della mafia per avviare e sostenere le sue imprese, soprattutto nel settore delle costruzioni; che abbia usato il sostegno della mafia al momento della sua candidatura in politica nel gennaio 1994 e per la sua vittoria successiva; e che abbia avuto delle complicità di qualche tipo con i boss Graviano nel periodo in cui questi organizzavano la serie di attentati mafiosi in tutta Italia tra il 1992 e il 1994 (periodo in cui stando a quell’intervista di Borsellino qualcuno in Sicilia stava indagando già su Berlusconi e Dell’Utri). È realisticamente a quest’ultima ipotesi (“abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare”, dicono) che lavorano Pier Luigi Vigna e Pietro Grasso – a capo della Direzione Nazionale Antimafia – quando nel 1998 interrogano in carcere Gaspare Spatuzza e gli chiedono di un soggiorno dei Graviano in Sardegna, di una vacanza “in una barca con belle donne e la personalità”, se l’attentato contro Maurizio Costanzo avesse a che fare con Fininvest, se a Milano fosse stato ospitato da “uno che era al maneggio dei cavalli”, se “la discesa in campo di nuove forze politiche” fosse stata considerata al tempo degli attentati.

Spatuzza risponde di no o di non saperne niente: nel 2009 giustificherà con i timori per la sua famiglia il non aver parlato allora, ma per avvalorare il suo racconto su Graviano e Berlusconi sosterrà di avervi già alluso quanto secondo lui bastava in un colloquio investigativo con Pier Luigi Vigna nel 1997 (cita anche la presenza di Grasso, su cui però ha dato versioni diverse). Nel 1997, anni prima di cominciare a collaborare, durante un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, dissi “fate attenzione a Milano 2”. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito. Intendevo dare in modo soft, come avevo fatto per il furto della 126 usata per la strage di via D’Amelio, un’indicazione. Parole di cui però allora non fu comprovata la presenza in nessun verbale di colloquio investigativo (oggi non possono essere confermate da nessuno di persona: Grasso escluse di averle mai ascoltate ma non sappiamo se abbia partecipato a tutti i colloqui, Pier Luigi Vigna è morto nel 2012).

Il Csm condanna Palermo, scrive Franco Coppola su "La Repubblica" il 27 giugno 1985. La perdita di sei mesi di anzianità per Carlo Palermo, il giudice della maxi inchiesta sul traffico di armi e droga, il giudice che ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Trapani, nella sede cioè più calda d’ Italia. Una sanzione disciplinare, quella decisa a mezzanotte dopo una camera di consiglio insolitamente lunga (sette ore) dall’apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura, ritenuta troppo severa per chi vede in Carlo Palermo una sorta di Robin Hood senza macchia e senza paura, troppo blanda per quanti lo dipingono come un giustiziere-panzer, privo di scrupoli e di regole. Una sanzione, a ben guardare, che potrebbe anche essere considerata equilibrata, se su tutta la vicenda non pesasse l’ombra di una discutibile iniziativa presa da Bettino Craxi non come privato cittadino ma nella veste di presidente del Consiglio, alla quale ha fatto seguito una inusitata solerzia da parte del procuratore generale Giuseppe Tamburrino, titolare dell’azione disciplinare. Per tutta la giornata di ieri c’è stata battaglia a palazzo dei Marescialli intorno alla posizione di Carlo Palermo, un magistrato tra i più coraggiosi, scampato il 2 aprile scorso a un attentato mafioso nella sua nuova sede di Trapani, da lui stesso richiesta per continuare, in una zona quanto mai calda e al posto di Antonio Costa, giudice finito in galera per collusioni con la mafia, quella battaglia intrapresa anni prima a Trento contro la mafia della droga e delle armi. Battaglia che ha avuto come protagonisti prima Guido Guasco e Giovanni Tranfo, sostituti procuratori generali della Cassazione che ieri fungevano rispettivamente da accusatore e da difensore di Palermo, poi i nove componenti la sezione disciplinare del Csm, tutt’altro che d’accordo sulla eventuale sanzione da infliggere all’incolpato. Guasco ha parlato in mattinata per due ore sostenendo la “responsabilità” di Palermo per cinque dei sei capi d’incolpazione e sollecitando la sanzione della perdita di sei mesi d’anzianità. Secondo il Pg, infatti, il magistrato andava prosciolto dalla seconda “accusa”, quella di aver bloccato un telegramma con cui l’avvocato Roberto Ruggiero raccomandava al suo cliente Vincenzo Giovannelli, imputato nel processo per il traffico di armi e droga, di presentare ricorso per Cassazione contro il provvedimento del tribunale della libertà di Trento. Il Csm, invece, lo ha “condannato” per cinque capi di accusa prosciogliendolo dalla “incolpazione” di aver interrogato degli imputati in assenza dei loro difensori. Più o meno tutte di questo calibro – Craxi a parte – sono le incolpazioni contestate a Palermo, fatti cioè che, secondo il Pg, integrerebbero l’accusa di “essere venuto meno ai propri doveri funzionali, così compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario”: accuse all’avvocato Ruggiero di avvalersi di “metodi disonesti” e di “modalità vergognose”, interrogazioni di imputati senza la presenza dei difensori; l’arresto di un testimone per reticenza a cui è seguito il proscioglimento da parte della corte d’appello; proseguimento delle indagini sul conto di imputati dichiarati dal Pm estranei al traffico di armi e droga. Poi c’era l’ “affare Craxi”, anzi l’”affare Craxi-Pillitteri”. Siamo nel 1983. Carlo Palermo, affondando il bisturi nel magma ribollente del mercato dell’eroina, arriva alla pista bulgara, al traffico internazionale delle armi, al “SuperEsse”, alla P2. Con gli avvocati di alcuni imputati i rapporti si fanno tesi; due di essi, Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, finiscono in carcere per favoreggiamento. Palermo non c’entra. All’origine dell’accusa sono delle trascrizioni errate di intercettazioni telefoniche. Quando i due legali vengono scarcerati arriva puntuale la denuncia contro il magistrato. Si apre un’inchiesta, affidata alla magistratura veneziana che, nel febbraio scorso, rinvia a giudizio Palermo per interesse privato in atti d’ufficio. E’ questa anche la settima incolpazione di stampo disciplinare sulla quale, però, il Csm non si è pronunciato in attesa della definizione del procedimento penale. Alla fine di quell’anno, Palermo ordina la perquisizione di varie società finanziarie, alcune delle quali risultano legate al Psi o fanno capo al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein. Alcuni testimoni hanno fatto il nome di Craxi e del cognato Paolo Pillitteri. Nei decreti di perquisizione, allora, Palermo raccomanda a chi li eseguirà di fare attenzione se, nei documenti delle società in questione, compaiono quei nomi eccellenti. E’ in quel momento che Palermo si gioca l’inchiesta. Il 15 dicembre ’83, Craxi scrive al Pg Tamburrino per lamentare che il magistrato ha citato il suo nome in un mandato di perquisizione senza avvertirlo; nell’esposto, il capo del governo parla di “gravissime violazioni di legge”, di comportamento “di eccezionale gravità… inaudito”. E’ la fine dell’inchiesta sul traffico di armi e droga. Prende vigore l’indagine penale a Venezia per l’arresto degli avvocati, Tamburrino investe subito il Csm della procedura disciplinare, la Cassazione dirotta a Venezia tutte le inchieste di Palermo. Il giudice fa appena in tempo a firmare un’ordinanza di rinvio a giudizio, a spedire al Parlamento tutti gli atti relativi a Craxi e Pillitteri (e l’Inquirente archivia il “caso”, proseguendo però nell’indagine sulle società finanziarie del Psi) e a chiedere di essere trasferito ad altra sede. Infine, il procedimento disciplinare, fissato per il 12 aprile e rinviato d’autorità, senza neppure interpellare l’interessato, dopo l’attentato del 2 di quel mese.

La profezia americana sul processo Andreotti, scrive il 17 luglio 2017 "Piccole Note". Sulla Repubblica del 17 luglio, Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo pubblicano documenti riservati dell’ambasciata americana a Roma relativi agli anni delle stragi di mafia e a un incontro riservato con il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Pur se un po’ (inevitabilmente) pervaso dall’aura che circonda la figura di Andreotti, la leggenda nera alimentata da decenni di narrativa ostile, l’articolo offre spunti interessanti. Nel report dell’ambasciata si legge che l’uomo politico democristiano critica sia Luciano Violante che Leoluca Orlando, suoi grandi accusatori (particolare in realtà di secondo piano). Più interessante il cenno che inquadra le accuse a lui rivolte come risposta a sue iniziative contro la mafia, la quale quindi si starebbe «vendicando», accusando lui di collusioni con la stessa. Non solo la mafia italiana, secondo Andreotti: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Accuse più che circostanziate, soprattutto quella rivolta all’United Sates Marshall Service, un’Agenzia con compiti di vigilanza giudiziaria davvero poco nota alla cronaca. Evidentemente con quel cenno tanto particolare Andreotti vuole indicare ai suoi interlocutori di avere informazioni molto dettagliate sulle trame ordite contro di lui. Nel report americano non c’è traccia di domande da parte americana sul punto: gli interlocutori di Andreotti cioè non chiedono spiegazioni, cosa che invece dovrebbe essere più che doverosa. Semplicemente lasciano cadere la cosa, come argomento di nessuna importanza. Forse avevano paura che quelle accuse trovassero un qualche riscontro? Poi, a un certo punto, Andreotti inizia a fare domande. Così viene segnalato nel report: «“Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai”. «Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure “che è stato un errore» aver diffuso quella nota”. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi possano essere resi pubblici”. Messaggi con sue conversazioni “di alto livello e sensibili”». Accennando alla “profezia” del consolato di Palermo, Andreotti di fatto accusa gli Stati Uniti, alcuni ambiti ovviamente, di aver costruito il processo a suo carico, creando quei pentiti che lo avrebbero poi portato alla sbarra (davvero tanti i pentiti di quella stagione: un fenomeno unico, per le sue proporzioni, nella storia d’Italia; ma magari nel processo sulla trattativa Stato mafia, semmai andrà a compimento, si troverà qualche risposta a tale inspiegabile anomalia). Nella loro risposta, di fatto gli americani accusano Andreotti di aver reso noto quel documento: e ciò secondo loro sarebbe stato un “errore”. Strana protesta data la natura del documento in questione. In realtà quella americana sembra più un “avviso” rivolto al loro interlocutore a non prendere altre iniziative simili. Minaccia alla quale Andreotti risponde per le rime, accennando alla possibilità che possano sfuggirgli altre rivelazioni “sensibili”. Al di là dello scambio di battute finale, che di questo si tratta nella sostanza, resta la clamorosa vena profetica del documento del consolato Usa a Palermo, in particolare sulla genesi della legione di pentiti che avrebbero poi accusato Andreotti passando per Lima, il politico siciliano della sua “corrente” (pentiti che non potevano essere ignorati dalla magistratura). Val la pena ricordare, en passant, che già prima che iniziasse il processo Andreotti, un pentito aveva provato ad accusare Lima di collusioni con la mafia: tal Giovanni Pellegriti. Era il 1989 allora e Falcone lo accusa del reato di calunnia aggravata e continuata in concorso con ignoti. Gli ignoti evocati da Falcone non furono individuati, ma il magistrato riuscì egualmente a condannare Pellegriti per calunnia. Poi Falcone verrà assassinato… il resto è storia. Una storia ad oggi scritta dai vincitori di allora, ma che, come si evince da questi cenni, riserva ancora sorprese.

«L’Italia è incapace di reagire ai boss». I dossier segreti Usa sulle stragi di mafia, scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su "La Repubblica" il 17 luglio 2017. Il dispaccio indirizzato a Washington è del 23 luglio 1992, quattro giorni dopo l’uccisione del procuratore Paolo Borsellino: «L’ultimo massacro della mafia contro il simbolo delle speranze dei siciliani ha scioccato e ulteriormente infiammato la gente, ormai stanca dell’influenza mafiosa che pesa sul futuro». Il console generale americano a Palermo Mann nel suo messaggio (numero “P231430Z Jul 92”, from Amconsul Palermo to AmEmbassy Rome and SecState WashDc) avverte la segreteria di Stato: «Sono il governo e il sistema politico, che la gente valuta nel loro fallimento... La reputazione internazionale dell’Italia, già messa a dura prova dall’omicidio di Falcone, viene ulteriormente scalfita dall’uccisione di Borsellino e dall’apparente incapacità del governo e delle istituzioni politiche nel definire un piano d’azione contro la minaccia». Carteggi riservati sull’Italia delle stragi. Le bombe di mafia commentate dagli americani in una serie di comunicazioni che cominciano il 26 maggio 1992 – appena dopo Capaci – e si chiudono il 2 luglio 1993, quando sono passati meno di due mesi dal massacro di via dei Georgofili. Ci sono dentro i morti di mafia ma ci sono anche personaggi sospettati di mafiosità come Giulio Andreotti. Documenti riservati e recuperati al Dipartimento di Stato americano dal professore Andrea Spiri della Luiss di Roma, una ricostruzione di quei mesi di terrore vista con gli occhi degli americani. A Roma tremano, a Washington mettono in allarme tutte le sedi consolari in Italia. L’ambasciatore Peter Secchia – è il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio – incontra il nuovo procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra (il magistrato che deve indagare sulle uccisioni di Falcone e Borsellino) e riferisce al governo americano: «Non ha nascosto di essere sotto pressione…». E informa Washington che il procuratore ha chiesto l’intervento dell’Fbi nelle indagini sugli attentati. Da Palermo è ancora il console Mann che, il 20 luglio, inoltra un altro dispaccio alla segreteria di Stato: «Borsellino era stato identificato poco prima dell’omicidio Falcone come l’obiettivo di un assassinio commissionato dalla mafia stessa, stando alle rivelazioni di mafioso in carcere che sta collaborando con le autorità giudiziarie». Borsellino, un delitto annunciato. L’Italia è nel caos. Passano alcuni mesi e alla procura di Palermo mettono sotto accusa per mafia l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti. È il 27 marzo del 1993, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato è datata 14 aprile. L’uomo politico italiano più importante dal dopoguerra – 7 volte capo del governo e 21 volte ministro della Repubblica – chiede un incontro con l’ambasciata americana. Il primo luglio del ‘93, «l’incaricato d’affari riceve a pranzo il presidente Andreotti e il suo ex capo di gabinetto, Riccardo Sessa». Per gli americani, è un incontro riservato. Annotano all’ambasciata di via Veneto nel dispaccio numero P021616Z: «Abbiamo spiegato in modo chiaro che il pranzo doveva intendersi come un incontro privato e che non avrebbe dovuto essere strumentalizzato per scopi mediatici». Il report ha questo titolo: «L’accusato. Parla Andreotti». Il testo riportato è all’inizio una lunga autodifesa: «Andreotti ha fatto presente che negli anni ‘70, nelle sue vesti di presidente del Consiglio, ha fatto trasferire i principali detenuti per mafia (compreso il pentito Buscetta, uno dei suoi attuali accusatori) da Palermo in un carcere di massima sicurezza. Egli era a capo del governo anche nel momento in cui il giudice antimafia Falcone fu portato a Roma come funzionario del ministero della Giustizia. Più tardi, sulla scia dell’assassinio di Falcone, il suo governo ha varato la normativa che si è rivelata così efficace negli ultimi mesi. La mafia, ha detto Andreotti, si sta vendicando di lui». Poi gli americani annotano altre parole di Andreotti: «Questa vendetta viene sfruttata dai politici della Rete di Orlando, alcuni dei quali egli ha descritto come molto vicini alla mafia, e da vecchi comunisti implacabili come il presidente della Commissione parlamentare antimafia (Luciano Violante, ndr)...». Le accuse dell’ex presidente del Consiglio non si fermano lì: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Gli americani chiedono ad Andreotti se è ancora convinto, dopo l’esecuzione di Salvo Lima, dell’estraneità agli ambienti mafiosi del suo amico siciliano: «Lui ha risposto di non avere mai avuto prova evidente di un simile rapporto, sostenendo che le dichiarazioni sul punto rese dai pentiti non sono chiare e convincenti». Ma ad un certo punto è Andreotti a fare domande. Viene segnalato nel report: «Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai». Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure «che è stato un errore» aver diffuso quella nota. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi «possano essere resi pubblici». Messaggi con sue conversazioni «di alto livello e sensibili».

Così il Divo fregò anche gli Usa. Dai file rivelati da WikiLeaks emerge come la diplomazia americana non riuscisse a capirci molto del potente politico democristiano: e alla fine, estenuata dai suoi misteri, preferiva puntare su Forlani e Cossiga, scrive Stefania Maurizio il 7 maggio 2013 su “L’Espresso". Per tutti è l'uomo dei misteri d'Italia. E Giulio Andreotti resta un personaggio difficilmente decifrabile anche quando si hanno in mano le carte per raccontarlo. Settecentocinquantanove documenti contenuti nel giacimento dei "Kissinger Cables" di WikiLeaks, che vanno dal 1974 al 1976 e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva per l'Italia in collaborazione con "Repubblica", ne restituiscono – manco a dirlo - un'immagine enigmatica. Non è il leader democristiano che ha una strategia di lungo corso che gli americani combattono con le unghie e con i denti, com'è Aldo Moro (che la diplomazia Usa vede come fumo negli occhi per il suo dialogo con il Pci). Non è il cavallo di razza della Dc con cui gli americani hanno un rapporto di complicità, comE Francesco Cossiga, con cui via Veneto si appassiona a ragionare delle strategie migliori per evitare l'infiltrazione dei comunisti negli apparati dello Stato (dai servizi segreti all'Arma dei carabinieri). Non è «l'italiano più profondamente morale che l'ambasciata abbia mai conosciuto», come è il Dc Benigno Zaccagnini, un nemico per gli Usa perché troppo vicino a Moro e al portare al "compromesso storico". E allora chi è il Giulio Andreotti che esce dai "Kissinger Cables"? Un grigio sacerdote del potere. Intelligente, certo. Ma piatto come un contabile e sprovvisto di quell'arguzia che, da noi, lo ha reso celebre per battute memorabili. L'uomo che ha incarnato il Potere granitico e immarcescibile, il depositario dei segreti della Repubblica, esce dai "Kissinger Cables" come un personaggio evanescente. Non un file che lo sorprenda a parlare con gli americani con slancio, come fa Cossiga. Non un documento che colpisca per una sua analisi, un'invettiva o anche un commento velenoso contro un avversario politico. Dov'è il Belzebù, il luciferino custode degli arcana imperii? Nel database non c'è traccia. Tutto quello che i cablo ricompongono è un mosaico di mosse, riti e trattative quotidiane, che parcellizzano l'enorme potere del personaggio: Andreotti sembra riuscire a camuffarlo e farlo sparire anche da qui. Per gli americani, certo, è un amico. Quando nel 1974 la Grecia, appena uscita dalla stagione dei Colonnelli, minaccia di uscire dalla Nato, gli Usa si affidano alla mediazione dell'allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti: «Uno dei nostri migliori amici in Italia", scrive l'ambasciatore John Volpe al Dipartimento di stato. E poi: «Sono fiducioso che lui voglia sinceramente essere utile". Il segretario Henry Kissinger, allora, autorizza via Veneto a fare un briefing con il ministro sulla vicenda, ma senza lasciargli in mano alcun documento. Forse anche gli americani temevano i suoi archivi. Sono anni di scandali, stragi e trame. La diplomazia americana non gli perdona il suo comportamento nello scandalo del Sid, i potenti servizi segreti di Vito Miceli, al centro di mille disegni eversivi. «La gestione di Andreotti dell'affare Sid, che ha portato all'arresto dell'ex capo Miceli", scrivono, "ha provocato notevoli critiche da parte dei circoli moderati e conservatori e militari, come anche un violento attacco da parte del partito neofascista Msi". Secondo quanto riportato sui cablo, è per questa gestione che Andreotti viene fatto fuori come ministro della Difesa nel 1974. E gli americani non sembrano affatto dispiaciuti. Tutti gli arresti che ruotano intorno all'eversione di destra - da Amos Spiazzi, dell'organizzazione neofascista "Rosa dei Venti", fino quella di Miceli - irritano moltissimo gli americani, convinti che «questa caccia alle streghe in corso» avvantaggi la sinistra, che può usarla a livello mediatico. Sull'anticomunismo di Andreotti, però, gli Stati Uniti non hanno dubbi: «E' uno dei pochi leader Dc che ha la capacità di guidare nel migliore dei modi la Dc contro i piani del compromesso storico con il Pci», scrivono. Allo stesso tempo, però, sono consapevoli che, politicamente, è un realista, «un politico furbo», con cui devono relazionarsi in modo «franco ed energico». Dopo le elezioni del giugno 1976, quelle del rischio del "sorpasso storico" del Pci di Berlinguer sulla Dc, «Andreotti sottolinea che è necessario guardare alla realtà della politica italiana e che la Dc di trova ora davanti alla possibilità che il Partito comunista formi un governo con i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, i radicali e democrazia proletaria. Di fronte a questa situazione la Dc o lavora a un accordo con il Pci, o va all'opposizione o indice nuove elezioni». Ma poiché né Andreotti né i colleghi credono che le ultime vie alternative siano percorribili, «sarebbe meglio cercare di accomodarsi con il Pci in un modo che non implichi alcun ruolo di governo per i comunisti in Italia». Di fronte a questo lucido realismo, gli americani replicano in modo franco ed fermo, giocando la carta del ricatto finanziario: «Sarebbe molto difficile per gli Stati Uniti e, presumibilmente, per gli altri partner europei fornire assistenza economica e di altro tipo all'Italia nel caso in cui il Pci avesse un importante ruolo nella formazione del governo», chiarisce l'ambasciatore Usa con Andreotti, sottolineando che la politica dell'America rimarrà la stessa negli anni a venire, indipendentemente da un'amministrazione democratica o repubblicana. Giulio Andreotti ne prende atto e consiglia agli americani di coltivarsi Bettino Craxi e i socialisti in funzione anticomunista. Proprio quel Craxi che poi lo ribattezzò 'Belzebù' per le sue trame luciferine. Il database non lascia dubbi su chi sono gli uomini su cui, nel '76, punta la diplomazia americana per tenere l'Italia al riparo dai comunisti: Andreotti, Craxi e Forlani, quest'ultimo è il leader che vogliono alla guida della Dc. Non l'onestissimo Zaccagnini, pericolosamente vicino a Moro. Puntano su Forlani, ma non vogliono «appoggiarlo apertamente, perché sarebbe controproducente» e forse «verrebbe usato per confermare le speculazioni che nel 1972, quando era segretario di partito, ha avuto a che fare con la Cia». Quanto a Craxi, gli Usa sembrano prendere sul serio i consigli di Andreotti e sono particolarmente soddisfatti che «il suo [di Bettino] viscerale anticomunismo sia ben nascosto dall'occhio pubblico». Trenta anni dopo questi cablogrammi, Andreotti, Craxi e Forlani sono tramontati. E del 'divo Giulio' nei file di WikiLeaks che vanno dagli anni 2002 al 2010, si ricordano appena le sue traversie giudiziarie e che «è strettamente associato al Vaticano».

Nel labirinto delle stragi, scrive Attilio Bolzoni il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". In quei due mesi è accaduto molto ma non tutto. Dal 23 maggio al 19 luglio 1992, cinquantasette giorni, bombe e autobombe, ucciso Giovanni Falcone, ucciso Paolo Borsellino. Tanti i segreti che sono stati seppelliti in questo quarto di secolo, tante le verità che ancora l'Italia non conosce. A farci entrare nel labirinto delle stragi per il blog Mafie è Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica che con il suo sapere ci accompagna dall'Addaura ai grandi misteri che ancora si inseguono dopo venticinque anni. E' un lungo racconto ma non è solo un racconto. E' anche un ragionamento intorno a fatti e trame che portano Bellavia a un convincimento: per capire cosa è avvenuto nell'estate del 1992 non bisogna guardare indietro ma bisogna guardare avanti: «Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare». Delitti preventivi. Una ricostruzione divisa in una ventina di capitoli, vicende tutte legate una all'altra anche se lontane nel tempo. C'è l'intrigo della trattativa Stato-mafia e c'è l'oscura parentesi della dissociazione "morbida" che avrebbero voluto alcuni boss dopo la repressione poliziesca-giudiziaria che ha colpito Cosa Nostra, ci sono i retroscena di quel rapporto sugli appalti dei carabinieri dei reparti speciali con le grandi aziende del Nord in affari con Totò Riina, c'è il ricordo degli ultimi giorni del procuratore Borsellino che riceve le confidenze di Gaspare Mutolo e di Leonardo Messina. Un'estate del 1992 sospesa nel prima e nel dopo. Con eventi ancora oggi indecifrabili. Le telefonate di rivendicazione della famigerata Falange Armata. E il "suicidio" nel carcere di Rebibbia di Antonino Gioè, uno di quei mafiosi che partecipò alle fasi preparatorie dell'attentato di Capaci e che fu trovato cadavere ventiquattro ore prima delle esplosioni - il 27 luglio del 1993 - in via Palestro a Milano e davanti alle basiliche romane. Con l'apparizione improvvisa di personaggi che hanno depistato le inchieste sino ad affossarle. Come Vincenzo Scarantino, il "pupo vestito", il pentito fasullo di via D'Amelio creduto oltre ogni ragionevole limite da qualche poliziotto e da schiere di magistrati. Come Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo che ha spacciato informazioni tarocche per conto proprio o per conto terzi. Venticinque anni dopo - nonostante le inchieste giudiziarie e gli ergastoli che hanno rinchiuso per sempre nelle segrete del 41 bis i capi della Cupola - siamo ancora dentro il labirinto. Enrico Bellavia ci fornisce una guida per muoverci fra le ombre, ci fa capire qualcosa di più.

Quei delitti "preventivi", scrive Enrico Bellavia, Giornalista di Repubblica, il 16 luglio 2017. Nel rosario di sangue della Sicilia Anni Novanta è difficile rintracciare il primo dei grani. Figuriamoci l’ultimo. Ma da dove partire, però, se non dall’Addaura, dal fallito attentato a Giovanni Falcone: 21 giugno 1989. L’anno della grande delegittimazione di un bersaglio che su quella scogliera incontrò per la prima volta il tritolo: 58 candelotti in una borsa da sub. Immaginatela ora così la lenta agonia di un uomo che sa che la sua ora è arrivata con i boia, per coincidenze o deliberato calcolo, gli lasciano ancora tre anni di vita. Se vita è girare con la morte addosso. E con la danza macabra dei detrattori intorno. A Falcone avevano negato ogni cosa, una promozione, un incarico, un riconoscimento, perfino un salvacondotto. E quando, nel 1991 se lo era trovato da solo andandosene a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, direttore degli Affari Penali, ecco che il ballo era ripreso con più vigore. Archiviato in un soffio quel vento di libertà che il primo maxiprocesso, la sua creatura, frutto del suo metodo, aveva regalato al Paese, Falcone era tornato ad essere solo e unicamente un bersaglio. Dei nemici, di tanti colleghi, della politica. Mafia e antimafia erano lì a disputarsi le sue spoglie in vita. A parare e a schivare, a rispondere anche per lui, uno dei pochi, pochissimi amici, che gli fosse davvero rimasto accanto: Paolo Borselllino. Ma Falcone, era deciso, doveva morire: per il maxiprocesso, certo, ma per impedire che potesse colpire ancora e più in alto di prima. Guardiamo ai morti di mafia sposando sempre la tesi della vendetta, sicuri che al passato bisogna guardare per capire, quasi che l’omicidio trovi all’indietro la ragione della sua essenza. Non rendendocene conto, ricalchiamo ciò che accade in Cosa Nostra quando i bravi ragazzi credono o fingono di credere a ciò che i capi raccontano. Così il piombo è sempre una risposta, la reazione, legittima dal loro punto di vista, a un’offesa pregressa. E invece nelle stragi, in quella di Capaci e ancora di più in quella di via d’Amelio, è avanti che bisogna guardare per capire. Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare. Delitti preventivi, sì. Questo sono state le stragi e le premesse che le hanno rese possibili sono lì a raccontarlo. Molte, troppe domande, lungo questa storia sono senza risposta. Ma proviamo a ripassarle. Perché ogni interrogativo è uno snodo, un bivio di quel labirinto nel quale ogni anfratto è un capitolo che rimanda agli altri. Che si porta dietro dubbi collegati ad altri dubbi. Incarnati dai personaggi noti e meno noti che però hanno lasciato le loro impronte in più di un passaggio di questo dedalo. 

Talpe, spie e traditori, continua Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. L’Addaura, partiamo allora da lì, lasciando in ombra il contesto e tirando fuori alcuni fatti e alcune domande irrisolte. Chi avvertì i sicari di Cosa nostra che il giudice avrebbe fatto ritorno a casa a quell’ora - nella sua villa sul litorale di Palermo per concedersi una pausa e deliziare i suoi ospiti durante una rogatoria - con i magistrati elvetici che indagavano sul riciclaggio della mafia in Svizzera? Chi fu la talpa che corse a informare lo squadrone di sub pronti all’attacco che sì il tritolo poteva essere piazzato a quell’ora in riva al mare, nel punto in cui, Falcone si sarebbe immerso? Sappiamo adesso, perché lo disse Falcone, che a salvargli la vita fu un giovane poliziotto che lavorava al commissariato San Lorenzo. Si chiamava Nino Agostino. Lo uccisero il 5 agosto 1989, quarantasei giorni dopo il fallito attentato dell’Addaura. Dal suo armadio sparirono delle carte importanti che un collega confessò al telefono di aver distrutto. Il padre si ricordò di aver visto una settimana prima nei pressi di casa del figlio uno strano personaggio, uno con "la faccia da mostro", presentatosi a cercarlo insieme con un collega poliziotto. Bisogna tenere bene a mente questo particolare perché avremo modo di tornarci. Con Agostino morì la moglie incinta, Ida Castelluccio. E, uccidendola, eliminarono con ogni probabilità l’unica testimone diretta dell’avventura umana di un servitore dello Stato al lavoro nell’avamposto più ostile e infido che si potesse immaginare.Talpe e spie dappertutto intorno ad Agostino, pronte a impedirgli di rivelare in che modo si fosse imbattuto nella notizia che gli permise di evitare la strage dell’Addaura. Un altro ragazzo ci rimise la vita: si chiamava Emanuele Piazza. Lavorava già nei "servizi". Ma i suoi capi per lungo tempo hanno negato. Era agli inizi, in prova, e si era gettato nell’impresa di dare la caccia ai latitanti. Faceva base al commissariato San Lorenzo, lo stesso in cui lavorava Agostino. In palestra, Piazza aveva agganciato Francesco Onorato, il pugile, superkiller della cosca dei Madonia di San Lorenzo e dei Galatolo, loro fidi alleati: due piedi nella mafia ma, come vedremo, molte orecchie tra gli sbirri. Ligio al dovere, Piazza, passava le informazioni ai superiori. Dopotutto era stato il superpoliziotto Luigi De Sena, al vertice del Sisde, poi anche parlamentare del Pd, a ingaggiarlo. Glielo aveva presentato il suo autista, un ispettore che finirà condannato per aver favorito i Graviano di Brancaccio. Un giorno di marzo del 1990, Piazza lasciò la porta di casa aperta come se fosse uscito con qualcuno che conosceva per rientrare poco dopo. Non tornò più. Chi tradì Piazza? Chi tradì Agostino? E chi aveva tradito una prima volta Falcone?

Speciale Via D'Amelio. Storia di un colossale depistaggio, scrive il 17 Luglio 2017 Gea Ceccarelli su "Articolo 3". E' passato alla storia come il più grande depistaggio avvenuto in Italia, e non è un'iperbole. Si tratta della ragnatela di mezze verità, omissioni e menzogne che, dal '92 a oggi, hanno vorticato attorno alla strage di Via D'Amelio, avvenuta il 19 luglio di quell'anno. Lì, sotto la casa della madre del giudice Paolo Borsellino, un'autobomba esplose, facendo saltare in aria il magistrato e gli uomini della scorta. Si trattava del secondo attentato dinamitardo in meno di due mesi: cinquantasette giorni prima, a Capaci, moriva nel cosiddetto “attentatuni” il collega e amico di Borsellino, Falcone. E' in questo contesto che bisogna immaginare sia nata l'idea del depistaggio. Il tentativo di coprire probabilmente i veri responsabili e, al contempo, tranquillizzare la popolazione. Il come era semplice: trovando un capro espiatorio perfetto. Le indagini sulla strage di via D'Amelio vennero subito assegnate al “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera. Capo della squadra mobile di Palermo, con un passato all'interno del Sisde, con il nome in codice di Catullo. Una personalità controversa, quella di “Arnold”, come lo chiamavano in Questura. Quando morì, nel 2002, per un tumore al cervello, i giornali non persero tempo a dipingerlo come uomo tutto di un pezzo. Almeno finché, con nuovi processi, nuovi procedimenti e nuove indagini, alcune ombre cominciarono a intaccarne l'integrità morale. Secondo quanto ricostruito dal collaboratore di giustizia Franco Di Carlo, per esempio, La Barbera era uno dei tre agenti segreti che si recarono da lui in visita, in carcere, per chiedere un aiuto atto ad allontanare Falcone da Palermo, dove “stava facendo troppi danni”. Una visita che si colloca temporalmente poco prima del fallito attentato all'Addaura, il 21 giugno dell'89. Una provocazione o un tentativo di omicidio, quello, di cui si occuparono anche i “cacciatori di latitanti” Emanuele Piazza e Nino Agostino, uccisi poco dopo, entrambi in circostanze misteriose. Il secondo, in particolare, venne freddato assieme alla moglie incinta: subito si parlò di delitto passionale, pista avallata anche da La Barbera, ma clamorosamente falsa. Agostino, nei giorni prima di morire, stava indagando su quei candelotti esplosivi rinvenuti sulla spiaggia di fronte alla villa di Falcone: secondo il pentito Oreste Pagano, pertanto, venne ucciso poiché “aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura”. Chi siano questi “componenti” non è dato saperlo: certo è che subito dopo l’assassinio dell’agente, La Barbera inviò un suo uomo di fiducia a compiere una perquisizione non autorizzata in casa della vittima, facendo sparire documenti che Agostino stesso aveva indicato come importanti al fine dell’emersione della verità. Ma di tutto questo, nel '92, non si sapeva nulla. E il superpoliziotto venne incaricato di indagare proprio sulla strage di via D'Amelio. Indagini frenetiche, talvolta grottesche, certo anomale: diversi testimoni non vennero ascoltati, il consulente informatico Gioacchino Genchi venne estromesso dalle indagini improvvisamente, nessuno si interrogò su dove fossero finite la borsa e l'agenda rossa di Paolo Borsellino. Ciononostante, a settembre, venne fatto per la prima volta il nome del colpevole della strage: Vincenzo Scarantino, 27 anni, nipote di un boss della Guadagna: era stato lui a rubare la Fiat 126 poi detonata. Giustizia compiuta. O quasi: più iniziavano a emergere dettagli sulla figura di Scarantino, più tutto appariva incredibile. Era un piccolo delinquente, non affiliato a Cosa Nostra, che si era auto-accusato della strage, cambiando diverse volte versione. I pm di Palermo, che lo ascoltarono per altri procedimenti, lo giudicarono totalmente inattendibile; diversa opinione per quelli di Caltanissetta, che lo giudicavano perfettamente credibile. E così fu. La sua versione venne, nonostante tutto, avvallata in tre diversi processi: il Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino ter. Nove persone vennero condannate per la strage. E a nessuno, o quasi, importò più che, nel frattempo, Scarantino avesse cominciato a rendere pubbliche le sue denunce: era stato costretto a mentire, anche da La Barbera, era stato vessato e torturato affinché sostenesse di essere lui il colpevole.

Nel frattempo, La Barbera proseguì nella sua scalata professionale, fino alla prematura morte. Un eroe, per tutti, almeno fino al 2008, quando, sulla scena non comparve Gaspare Spatuzza. Fu lui a squarciare il velo: era stato lui a organizzare la strage di via D'Amelio. La verità, quella vera, riemerge dal passato. Lo fa, stavolta, in maniera inattaccabile. Spatuzza ricostruisce tutto in maniera precisa, decisa, fornisce prove e riscontri alle proprie dichiarazioni. Grazie a lui, gli innocenti vengono scarcerati, sebbene si sia dovuto attendere fino al 13 luglio scorso, prima che venissero definitivamente assolti nella revisione del processo a loro carico. Nel frattempo, ad aprile, il Borsellino Quater, avviato nel 2012 proprio a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Spatuzza, si conclude con una sentenza quantomeno storica: Scarantino è stato “indotto a mentire” da “apparati di polizia”. Il timore è che, adesso, tutta la responsabilità verrà scaricata su La Barbera, dimenticando gli altri. Colleghi e sottoposti del superpoliziotto, certo, ma anche giudici e pm che hanno, di fatto, avallato per decenni una menzogna. Per Salvatore Borsellino, due nomi su tutti: Tinebra e Palma. Per altri, più che altro detrattori del processo sulla trattativa Stato-mafia, anche il giudice Di Matteo. Ma era stato proprio Salvatore Borsellino, mesi fa, a denunciare come i primi due avessero impedito a Scarantino di raccontare la verità al terzo pm, ricordando anche le dichiarazioni di questi al processo: “Lo dicevo sempre che non sapevo niente sulla strage e Tinebra mi disse che questa storia della collaborazione dovevo prenderla come un lavoro”, aveva spiegato il falso pentito della Guadagna, in quell'occasione.

E riguardo Annamaria Palma, che, secondo le dichiarazioni dell'uomo, avrebbe consegnato ad uno dei poliziotti addetti a Scarantino dei verbali d'interrogatorio con espliciti appunti? Anche lei: lo avrebbe rassicurato di non preoccuparsi di accusare innocenti in quanto “se non hanno fatto questo hanno fatto altro”. Il falso pentito, ascoltato dai giudici in aula, aveva anche raccontato di aver avuto i numeri di cellulare dei due magistrati: “Li sentivo. Avevo i numeri di cellulare di Tinebra, della Palma, di Petralia”. Ma non di Di Matteo. Lui, (Di Matteo ndr) aveva rivelato Scarantino, “l’ho incontrato una volta e non gli ho mai detto che gli imputati erano innocenti”. D'altronde, “non è che ho fatto tanti interrogatori con lui perché li facevo sempre con Palma e Petralia. Per quello che ricordo però a Di Matteo non dissi nulla, anche perché lo vedevo più rigido e meno disponibile degli altri”. Escluso Di Matteo, resta comunque lunga lista di presunti responsabili, i cui nomi - si spera - riemergeranno dal passato grazie a nuove indagini. Nel frattempo, altri due ne sono già spuntati, anche se piuttosto in sordina. Li cita Enrico Deaglio, sul Post, ricordando un episodio eclatante del 2013, quando, durante un'audizione del processo Borsellino Quater, il legale Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, controinterrogò Spatuzza, domandandogli, tra l'altro, se avesse già raccontato a qualcuno, prima del 2008, l'estraneità di Scarantino alla strage. Il collaboratore negò e, in quel momento, Sinatra estrasse un verbale di interrogatorio datato 1998, in cui l’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e il suo vice, Piero Grasso, raccoglievano diverse informazioni da parte di Spatuzza. Tra queste, appunto che Scarantino era un falso pentito, inventato dalla polizia.

Proprio come confermato dall'ultima sentenza; solo, 19 anni dopo.

Borsellino, la trattativa e il più grande depistaggio di sempre, scrive ancora Gea Ceccarelli su "Articolo 3" a luglio 2016. Ventiquattro anni. Tanto tempo è passato da quel 19 luglio 1992, quando, in via D'Amelio, a Palermo, una 126 imbottita di tritolo fece saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e cinque ragazzi della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. A tanti anni di distanza, però, i motivi della strage, così come i veri colpevoli, sono ancora nell'ombra. Per anni si sostenne che Borsellino fosse stato ammazzato perché scomodo, perché giudice antimafia, perché, come Giovanni Falcone, perseguiva un ideale di giustizia. Perchè troppo esposto, magari proprio da chi, come Scotti, l'aveva candidato pubblicamente al vertice della Superprocura Antimafia. Ed è vero. Ma sono anche tanti, ora, che si domandano se non c'entri, in quell'eccidio così frettoloso, anche qualcosa riguardante la trattativa Stato-mafia: era possibile, infatti, che Paolo Borsellino avesse scoperto come lo Stato avesse contattato Cosa Nostra per raggiungere un accordo, e si fosse messo di traverso? Non appare un'eventualità così impossibile. Paolo Borsellino il giorno prima di morire, parlando con la moglie Agnese, rivelò di sapere che, a ucciderlo, non sarebbe stata soltanto la mafia. In un'altra occasione, in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio, venne trovato a piangere, sostenendo di esser stato tradito da un amico. E ancora: al ritorno da un viaggio a Roma (in quel periodo si moltiplicarono), si sfogò spiegando di aver visto, nella capitale, il vero volto della mafia. C'è, in particolare, uno di quei viaggi nella città eterna, a restar impresso più di altri. Lo racconta il pentito Gaspare Mutolo, che, quel giorno, era interrogato da Borsellino. Era il primo luglio e il giudice venne interrotto da una telefonata dal Ministero dell’Interno: il neoministro Nicola Mancino, subentrato a Scotti, voleva conferire con lui. Secondo quanto riportò Mutolo, all’incontro Mancino e Borsellino non erano soli: “Borsellino tornò dopo circa due ore – ricordò infatti – non commentò niente, ma era molto arrabbiato. Io mi misi a ridere perché aveva due sigarette accese contemporaneamente, una in bocca e l’altra nel posacenere, tanto era agitato. Poi ho capito perché mi disse che dopo aver parlato con il ministro incontrò Vincenzo Parisi (allora capo della Polizia) e Bruno Contrada (numero tre nella catena di comando del Sisde ndr) che gli avevano detto di sapere del mio interrogatorio. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Anzi gli disse: so che è con Mutolo, me lo saluti”. Mancino, però, negli anni successivi, smentirà il tutto, sostenendo di non aver mai incontrato il magistrato e che, a quel tempo, non sapeva nemmeno che faccia avesse. Ancor prima, nell'ultima settimana di giugno, il capitano del Ros De Donno avvicinò Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone, per informarla dei contatti presi con Vito Ciancimino tramite suo figlio Massimo nell'ottica di creare un canale di dialogo con Cosa Nostra. Da parte sua, la Ferraro riferì il tutto al ministro della Giustizia Martelli e a Paolo Borsellino, il quale organizzò subito un incontro con i carabinieri del Ros, De Donno, ma anche Mori, che si tenne il 25 giugno. Di cosa parlarono, è impossibile saperlo. Certo è che pochi giorni dopo, a Palermo, venne denunciato il furto di una 126. E' quindi possibile che, dietro la strage, ci siano ombre istituzionali? Di questo era convinto per esempio Totò Riina che, nel 2009, riferendosi a Borsellino, sosteneva: "L'hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d'Italia". Quando poi tornò a parlare, nel 2013, con il suo compagno d'aria Alberto Lorusso, aggiunse: "L'agenda rossa?", diceva, intercettato.  "I servizi segreti, gliel'hanno presa". L'agenda rossa è un altro dei misteri che gravitano attorno la strage di via D'Amelio. Per quasi due mesi Borsellino non fece altro che ripetere di voler essere interrogato dalla Procura di Caltanissetta, quella titolare delle indagini sulla strage di Capaci. Voleva riferire quanto aveva scoperto, quanto sapeva e che non poteva render pubblico, per il segreto d'inchiesta. Nessuno lo volle ascoltare. E' presumibile che avesse comunque segnato tutto sulla sua agenda, che aveva con sé anche quel 19 luglio, e che non fu mai più ritrovata. Ma, oltre a Riina, anche Gaspare Spatuzza ha parlato di servizi segreti. Lui, uno dei veri esecutori della strage, sostenne infatti che, all'interno del garage in cui era stata portata la 126 per imbottirla di tritolo, si trovava anche un uomo estraneo a Cosa Nostra, un agente dei servizi. Fu una delle tante, importanti, rivelazioni che Spatuzza offrì, permettendo di riscrivere la storia giudiziaria di via D'Amelio e smantellare il più grande depistaggio di sempre, quello del falso pentito Vincenzo Scarantino, che aveva portato alla condanna di innocenti. Successivamente, Scarantino sostenne di esser stato costretto a mentire, dal super poliziotto Arnaldo La Barbera -colui che, secondo l'ex boss Di Carlo si recò nelle carceri inglesi in cui si trovava recluso per avere un contatto con Cosa Nostra per allontanare Falcone- e magistrati, tra cui Palma e Tinebra: questi, raccontò Scarantino, lo avrebbero anche invitato a prendere "questa cosa della collaborazione come un lavoro", e di star tranquillo, nell'accusare innocenti, perché "se non hanno fatto questo, hanno fatto altro". Le ultime dichiarazioni, Scarantino le ha rilasciate qualche anno fa, dagli studi di Servizio Pubblico. Fuori dallo studio, però, lo attendevano le forze dell'ordine per arrestarlo. Ha parlato e, con tempistiche quantomeno anomale, è finito con l'essere arrestato con l'accusa di stupro; una storia di cui non s'era mai avuta notizia prima e che, l'anno scorso, s'è conclusa con la sua assoluzione. Intanto, però, il messaggio di tacere era stato inviato.

La storia del depistaggio su Via D’Amelio, scrive Enrico Deaglio il 13 luglio 2017 su “Il Post". Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un'accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all'attentato a Paolo Borsellino. Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia). E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso.

Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso. La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni. Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.

La prima versione sulla strage di via D’Amelio. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm. L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia. Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni. Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.

La seconda versione sulla strage di via D’Amelio (quella vera). Nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi – un parroco ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo – toccato improvvisamente dalle fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino (in sostanza, non avevano riscontrato un bel niente: alla prima verifica sul campo di quello che disse Spatuzza sul furto dell’auto si capì che quella verifica non era mai stata fatta sulla versione di Scarantino). Così facendo, Spatuzza sta quindi dando dei fessi – nel migliore dei casi – ad alcune decine di magistrati. Comunque, pur nell’imbarazzo, gli ergastolani vengono scarcerati (alcuni hanno invece addirittura già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato): ma non assolti, si badi. Nove anni dopo, la revisione del loro processo si è conclusa oggi, 13 luglio 2017 con l’assoluzione di tutti gli imputati. A Caltanissetta, nel 2012, inizia invece il “Borsellino quater”, nato dalle confessioni di Spatuzza e terminato il 18 aprile scorso con alcuni altri ergastoli e la conferma della condanna per calunnia (nei confronti dei suoi coimputati) a Scarantino, prescritta grazie all’attenuante di «essere stato indotto a commettere il reato» da non meglio identificati «apparati di polizia». Si aspettano, dopo 25 anni, le motivazioni, ma probabilmente le aspettative saranno deluse: la colpa delle ingiuste condanne precedenti sarà addossata al defunto La Barbera, nessun magistrato complice del depistaggio – in buona o cattiva fede – sarà coinvolto. Dei poliziotti si dirà che sì, forse, avranno torturato un po’, ma che le accuse contro di loro non avrebbero retto in aula. La gran parte dell’informazione giornalistica continua a raccontare il depistaggio come “una serie di bugie” del “falso pentito” Scarantino, che avrebbe ingannato decine di esperti poliziotti e magistrati. Questo è lo scenario al momento del “venticinquennale” e della serata RAI.

Intanto si aggiungono ancora cose. Ma intanto la procura di Palermo, dopo aver scovato un super pentito in Massimo Ciancimino (infine completamente screditato, lui e il fantomatico “signor Franco”, malgrado l’estesa promozione ricevuta da una affezionata parte dell’informazione), dopo aver raccolto propositi implausibili dal vecchio Riina, accusato il presidente della Repubblica di losche manovre (fino ad andare a interrogare in modo inaudito il presidente al Quirinale), all’inizio di giugno 2017 diffonde un altro scoop. Breaking news su tutti i telefonini: Giuseppe Graviano, il dimenticato boss di Brancaccio, è stato intercettato per ben un anno nel solito cortiletto della cella del 41 bis, mentre colloquia con il solito “detenuto civetta” incaricato di farlo parlare. E cosa dice? Prima di tutto che ha messo incinta sua moglie in cella – mentre era in teoria severamente ristretto al 41 bis – e poi che Silvio Berlusconi è un ingrato traditore. Che lui lo ha fatto ricco, e poi gli ha fatto un “gran favore”. Ma poi venne arrestato, proprio a Milano, pochi giorni prima delle elezioni del 1994 e quell’ingrato non è stato in grado di farlo uscire di galera, mentre invece spendeva i suoi soldi (forse i soldi di Graviano stesso) con le puttane. Pronta la smentita dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini, e le ricostruzioni che in gran parte concordano sul fatto che Graviano sapesse di essere intercettato e quindi va’ a sapere cosa fosse vero e cosa no: ma intanto nei giorni scorsi quelle conversazioni registrate sono state ammesse agli atti del processo in corso sulla cosiddetta “trattativa tra Stato e Mafia”, e Graviano sarà ascoltato. Il processo sulla “trattativa Stato-mafia” si trascina da anni, ne durerà ancora molti e ha diviso l’opinione pubblica, in queste proporzioni: il 90 per cento se ne frega; il 5 per cento pensa che il pm Nino De Matteo che la conduce sia il nuovo Falcone e un perfetto ministro nel prossimo governo Cinque Stelle; il restante 5 per cento pensa sia una cialtronata (chi scrive appartiene all’ultima categoria). E comunque, dopo decenni si riparla delle stragi, dei Graviano e di Berlusconi: di cui parlava Borsellino nella sua ultima intervista nel 1992, di cui parlarono nel 1998 due importantissimi magistrati con Gaspare Spatuzza.

La cosa che era successa in mezzo, e non si sapeva. E arriviamo a un elemento centrale della storia, nuovo o seminuovo, che infatti in parte raccontai così sul Venerdì di Repubblica nel luglio del 2013, durante il processo “Borsellino quater”, che la stampa aveva seguito molto svogliatamente. Il 12 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un “incidente”. L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. “Non ricordo”. Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo. La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Il presidente del Senato chiese allora al Venerdì che si facesse chiarezza sul documento (era, più esattamente, un verbale di “colloquio investigativo”) e una corretta interpretazione dei fatti venne affidata all’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, raccolta dal giornalista Piero Melati per il Venerdì: «Copia del verbale e il file della registrazione sono stati trasmessi a Caltanissetta nel dicembre 2008 dal procuratore antimafia Grasso per verificare l’attendibilità dello Spatuzza che, come noto, nel giugno del 2008 aveva cominciato a collaborare. Per un mero disguido il verbale e il file con la registrazione sono stati inseriti nel fascicolo del pm del processo Borsellino Quater, piuttosto che nel fascicolo della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) dove andavano custoditi gli atti non processualmente utilizzabili sulle stragi del 1992». E della cosa non si parlò più. Alcuni mesi fa, però, dopo 4 anni (i processi durano molto, in Italia), l’avvocato Sinatra è tornato alla carica e questa volta – eravamo nelle fasi finali del dibattimento – la Corte gli ha dato ragione: il verbale non è stato più considerato impresentabile, ma è ufficialmente entrato a far parte degli atti pubblici (il file pare di no, piuttosto illogicamente). Troppo tardi per discutere del loro contenuto (almeno in quel processo), però almeno questo permette ora a chi scrive di pubblicare quei testi senza essere accusato di violazione di alcunché; a chiunque di poter leggere e farsi un’idea; e a chi riesca a ottenere la registrazione audio di far ascoltare al vasto pubblico quanto possa essere drammatico un colloquio investigativo, del quale qui pubblichiamo la trascrizione.

Cosa sappiamo e cosa manca, nel 2017. Stiamo parlando di una cosa piuttosto importante. Siamo nel 1997. Arnaldo La Barbera lascia la Questura di Palermo e si trasferisce a quella di Napoli. Il suo posto viene preso da Antonio Manganelli. Sotto la sua direzione avviene l’arresto di Gaspare Spatuzza, il terribile killer di don Puglisi, il 2 luglio 1997. Un arresto anomalo per la città di Palermo: scontro a fuoco, cento bossoli sul terreno, lo stesso arrestato ferito. Secondo alcune ricostruzioni, Spatuzza parla subito e racconta dei legami tra il suo capo, Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, oltreché della strage di via D’Amelio. Secondo altre, lo fa solo qualche mese dopo. Chi l’abbia ascoltato, non si sa. L’unico reperto storico che abbiamo è proprio il famoso verbale, “colloquio investigativo” a cui Spatuzza partecipa (ma non firmerà) nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998. Lo interrogano Pier Luigi Vigna, procuratore generale antimafia e Piero Grasso, suo vice. In realtà, il colloquio sembra svolgersi secondo certi riti siciliani, ed è quindi condotto quasi esclusivamente da Grasso. Si capisce che non è la prima volta che i tre si parlano. E anche che non sarà l’ultima. Nel colloquio Vigna e Grasso cercano conferme su una serie di cose che hanno in testa («abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare») legate alla campagna di attentati mafiosi tra il 1992 e il 1993: La logistica dei vari attentati a Roma, Milano, Firenze.

I legami dei boss Graviano con Fininvest, Dell’Utri, Berlusconi (sui rapporti tra la mafia e Berlusconi e Dell’Utri si indagava già da alcuni anni). Le modalità dell’arresto dei fratelli Graviano a Milano, ritenuti mandanti delle stragi, per capire se l’arresto sia stato deciso e accelerato da qualcuno in quel determinato momento. Spatuzza non risponde a tutte le domande. Sta trattando. Nel 2014 spiegherà in aula che «allora la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto». Ma sulla strage di via D’Amelio offre notizie assolutamente inedite e che anni dopo verranno confermate: – l’esplosivo usato non è Semtex, ma un residuato bellico fornito da un pescatore palermitano, recuperato in mare dove ce n’è molto. Lo stesso esplosivo è stato usato anche per la strage di Capaci e per altri attentati. – Scarantino è un falso pentito inventato dalla polizia. Le persone che Scarantino ha accusato e che sono state condannate non c’entrano con la strage di via D’Amelio. Il colloquio si chiude con il rifiuto di Spatuzza a controfirmarlo – a ulteriore garanzia della sua informalità – e con il rinvio della discussione a un prossimo appuntamento, che non sappiamo se ci sia stato. Cosa è successo, dopo? Tutto e niente: tutto, intorno alle indagini e ai processi che hanno ribaltato in quasi vent’anni le tesi e le condanne iniziali; niente intorno a quelle rivelazioni di Spatuzza del 1998, sparite fino al ritrovamento del verbale, quasi un fossile riemerso da un’altra era, per un «mero disguido», sedici anni dopo nelle carte di un pm di Caltanissetta.

In concreto – nei dieci anni trascorsi tra il 1998 e il 2008 – nulla è successo per impedire che il depistaggio proseguisse. La magistratura di Caltanissetta non ha preso la minima iniziativa, anzi ha semplicemente passato gli anni a cercare di impedire che il depistaggio (e il suo ruolo in esso) venissero rivelati. Anche nei successivi altri nove anni (dal 2008, data del pentimento ufficiale di Spatuzza ad oggi, 2017), è successo molto poco. I magistrati che avevano sposato la falsa pista si sono tutti autoassolti. I poliziotti accusati di torture sono stati “archiviati”. E nessun particolare passo avanti – indagini patrimoniali, ricerche di conferme, uso di intercettazioni, collocamento di microspie o quant’altro e neppure altri “colloqui investigativi” – risulta sul contesto del delitto Borsellino e della campagna delle stragi indicati da Spatuzza. Le indagini hanno piuttosto preso – incredibilmente – altre strade. La mancanza di indagini e di risultati – in ben 19 anni – mi fa concludere che il depistaggio sia riuscito perfettamente e sia ancora in corso.

Quegli ''innominati'' dietro la scomparsa dell'agenda rossa, scrive il 17 Luglio 2017 Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. L'imputazione coatta nei confronti di Arcangioli viene accolta dalle aspre polemiche dei suoi difensori. Il 27 febbraio 2008 gli avvocati Diego Perugini e Sonia Battagliese depositano una memoria difensiva con la richiesta di audizione di numerosi uomini delle istituzioni tra cui l'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, i generali dei carabinieri Antonio Subranni e Domenico Cagnazzo, l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e molti altri. I legali di Arcangioli premono per risalire ai nominativi degli uomini dei Servizi presenti in via d'Amelio il giorno della strage e chiedono ugualmente di sentire pentiti del calibro di Gaspare Mutolo, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè ed altri. Il 5 marzo 2008 i pm avanzano la richiesta di rinvio a giudizio per Arcangioli. Martedì 1° aprile 2008 si svolge l'udienza preliminare davanti al Gup di Caltanissetta, Paolo Scotto Di Luzio. A metà pomeriggio viene emessa la sentenza di non luogo a procedere «per non avere commesso il fatto». Un mese dopo le motivazioni sono depositate in cancelleria. Tra le 27 pagine del documento il Gup traccia un'ombra ambigua sull'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Per il giudice la circostanza che Arcangioli sia stato filmato nell'atto di portare la borsa appartenuta a Borsellino non consente di stabilire «che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta scomparire», poi poche righe più sotto rimarcando che «nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione». Il 13 maggio la procura nissena impugna la sentenza e ricorre in Cassazione. I pm Renato Di Natale e Rocco Liguori, firmatari del ricorso, illustrano le contraddizioni espresse in sentenza, così come la illogicità delle motivazioni e soprattutto il travisamento della prova. In merito alla considerazione alquanto azzardata del Gup che mette in dubbio la presenza dell’agenda rossa all’interno della borsa del giudice, vengono poste di contraltare le dichiarazioni (rese nel corso della fase istruttoria) della signora Agnese Piraino Leto, del figlio Manfredi e della figlia Lucia che in particolare ricorda nettamente come l’agenda rossa del padre, quel mattino poggiata sulla sua scrivania, non vi era più quando questi si era recato a Villagrazia di Carini. Di Natale e Liguori smontano pezzo per pezzo le evidenti incongruenze della sentenza di proscioglimento per Arcangioli. L'ipotesi ventilata dal giudice della «presenza simultanea di due borse, entrambe nella disponibilità del Dr. Borsellino» contrasta decisamente con le testimonianze dei familiari che mai ne hanno denunciato la scomparsa, come al contrario hanno fatto per l’agenda rossa. L'eventualità ipotizzata dal Gup che Paolo Borsellino avesse potuto stringere in una mano l'agenda rossa nel momento stesso che si accingeva a citofonare alla madre viene contraddetta dalla logica dei fatti. «Dalla corretta (e in questo caso non controversa) ricostruzione degli eventi - scrivono i magistrati nel documento - si ricava, infatti, come il Dr. Borsellino si trovasse alla guida della vettura blindata (era di domenica pomeriggio e quindi non c'era l'autista del Ministero della Giustizia) mentre la borsa si trovasse nel pianale posteriore (dove fu poi ritrovata dopo l'esplosione)»; «Ne consegue - sottolineano i magistrati - che risulta alquanto improbabile (oltre che complicato) che il magistrato abbia fatto uso della borsa (o peggio abbia estratto l'agenda dalla borsa) durante il tragitto per Via d'Amelio (mentre si trovava alla guida), né tanto meno si spiegherebbe perché il Dr. Borsellino avrebbe dovuto portare con sé l'agenda rossa (che di certo non utilizzava per gli appunti quotidiani, quali appuntamenti, spese ed altro) una volta arrivato in via d'Amelio, considerato che era sceso dall'autovettura solo per citofonare alla madre che avrebbe dovuto accompagnare da un medico per una visita prenotata da tempo». In un dedalo di interpretazioni e travisamenti della prova il dott. Paolo Scotto Di Luzio mette in dubbio le stesse riprese televisive che inquadrano Arcangioli mentre si allontana da via d'Amelio. Per il Gup le immagini non sarebbero in grado di restituire con esattezza il preciso percorso del tenente. «Seppur non essendo dato conoscere, sulla base del filmato, la destinazione finale del percorso di Arcangioli - scrivono i pm nel loro ricorso - né il tempo esatto del possesso della borsa, è ancora errato e illogico trarne conclusioni in termini indiziari assolutamente neutri, senza considerare sia il luogo dell'ultima immagine dell'Arcangioli (già di per sé fortemente sospetto), sia la direzione (altrettanto sospetta), che la circostanza che per sottrarre un'agenda da una borsa (possibilmente consegnandola a terzi) non necessitano né ore, né minuti, ma solo pochi secondi». La procura nissena smonta ulteriormente il teorema del Gup sulla possibile presenza di «due borse» appartenenti a Borsellino e sull'eventualità che Arcangioli potesse essere giunto successivamente all'assistente di polizia, Francesco Paolo Maggi. «Tale assunto - ribadiscono i pm Di Natale e Liguori - travisa completamente il dato probatorio e contrasta inevitabilmente sia con gli accertamenti della Dia di Caltanissetta, che hanno concluso per l'identità della borsa trovata dal Maggi con quella raffigurata nella foto dell'Arcangioli, che con le dichiarazioni dei familiari del Dr. Borsellino che hanno riconosciuto in quella repertata l'unica borsa di cuoio utilizzata quel giorno dal magistrato»; «Inoltre - sottolineano i magistrati nisseni - la ricostruzione cronologica riportata in sentenza si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni dei soggetti venuti in qualche modo a contatto con la borsa del magistrato». Nel ricorso in Cassazione vengono messe a confronto tutte le contraddizioni emerse dalle dichiarazioni di Giuseppe Ayala e lo stesso Arcangioli a dimostrazione della necessità assoluta di celebrare un dibattimento per chiarire definitivamente ogni dubbio su una materia tanto delicata come la sparizione dell'agenda di Paolo Borsellino. I giudici nisseni concludono affermando che la sentenza del Gup «ha avuto la pretesa di giudicare sulla colpevolezza/innocenza dell'imputato come se si trattasse di un giudizio abbreviato, e ha concluso tentando di porre una pietra tombale su una delle vicende giudiziarie più inquietanti degli ultimi tempi». Ma quella «pietra tombale» sul mistero della scomparsa dell'agenda rossa verrà messa proprio dalla VI sezione Penale della Corte di Cassazione, presieduta da Giovanni De Roberto il 17 febbraio 2009. Pochi minuti basteranno agli ermellini per scrollarsi di dosso una vicenda ritenuta decisamente fastidiosa. Un caso da seppellire al più presto nei caotici archivi di una cancelleria istituzionale. Nell'aula austera del «palazzaccio» la presenza di un carabiniere in borghese, qualificatosi come «colonnello», non passa inosservata. In un luogo normalmente inaccessibile per chiunque non sia coinvolto nel processo celebrato, quell'uomo è lì ed assiste al pronunciamento della sentenza. Il procuratore generale, Carlo di Casola, chiede inaspettatamente il rigetto del ricorso della procura nissena. Identica richiesta viene avanzata dal difensore di Arcangioli l'avv. Adolfo Scalfati. L'avvocato di parte civile, Francesco Crescimanno, è l'unico a chiedere la possibilità di avere un regolare processo per chiarire il mistero del furto dell'agenda rossa. Ma rimane in minoranza. La Corte dichiara inammissibile il ricorso della procura di Caltanissetta. E il proscioglimento del colonnello Arcangioli diventa definitivo. L'ombra di una «ragione di Stato» si allunga sulla sentenza di un processo abortito ancor prima di iniziare. Nelle quattro paginette della motivazione della sentenza l'ignominia di uno Stato che non vuole processare se stesso prende forma. Il punto più alto dell'indecenza lo si raggiunge nel momento in cui viene messa nuovamente in dubbio l'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Nel citare le testimonianze dell'ispettore Maggi, dell'appuntato Farinella, del dott. Teresi e dell'on Ayala, gli ermellini sottolineano come da «nessuna di queste fonti, i cui contributi vengono puntualmente riportati e criticamente analizzati, è desumibile l'esistenza dell'agenda nella borsa maneggiata dall'Arcangioli e meno che mai si può ritenere la sottrazione ad opera di quest'ultimo dall'interno della borsa». L'evidente strumentalizzazione delle relative testimonianze assume i contorni di una decisione già concordata e che doveva essere solo formalizzata. Nella motivazione della sentenza di Cassazione il presidente della VI sezione penale si avvale per buona parte delle motivazioni del Gup di Caltanissetta concludendo che «gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima ai fatti portavano addirittura ad escludere che la borsa presa in consegna dal Capitano Giovanni Arcangioli contenesse un'agenda». Sconcerto, delusione e soprattutto rabbia quella di Salvatore e Rita Borsellino alla notizia del proscioglimento di Arcangioli con una simile motivazione. «A questo punto - scrive provocatoriamente Salvatore Borsellino sul suo sito - non resta che trarre le inevitabili conseguenze da questa sentenza della Corte di Cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa testimonianza e processare tutti i familiari del Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l'occultamento dell'Agenda». «Dato che Paolo non se ne separava mai - rimarca con sdegno e rabbia il fratello di Borsellino - solo i suoi familiari possono averla sottratta e occultata. Contro la madre del Giudice non si potrà procedere per sopravvenuta morte dell'imputato». «Il momento attuale è peggiore del '92 - dirà successivamente Rita Borsellino - allora sapevano chi erano gli amici e chi i nemici, con tutti i limiti del caso si sapeva a chi affidare la propria fiducia. Oggi non è così. Sappiamo che non possiamo fidarci praticamente di nessuno. Per anni ci sono state dette bugie proposte come verità. Oggi sappiamo che non c'è verità. La caparbietà dei magistrati che continuano a cercarla è il modo più bello per raccogliere l'eredità di Paolo». Nei computer dei magistrati nisseni restano archiviati i file delle dichiarazioni dei protagonisti di questa vicenda incredibile. Chiuse nelle cartelline rimangono scritte le loro ambigue contraddizioni. Ed è rileggendole che il fumo nero di via d'Amelio si dipana. Dietro quelle nebbie si intravedono ora i volti degli «innominati» di questa epoca. Ma anche questa volta è una questione di tempo. E il timer è già scattato.

“Già si cominciava a parlare della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. Lavoravamo al nostro archivio, volevamo catalogare le immagini più emblematiche delle stragi di mafia. Quella foto in realtà era una diapositiva, con le lenti d’ingrandimento passavamo in rassegna gli scatti di via D’Amelio prima di scansionare e conservarli in formato digitale. La nostra attenzione si fissò su quella borsa, invitammo alcuni colleghi a visionarla. Il responso fu unanime, poteva trattarsi della borsa di Borsellino. Non si fece in tempo a venderla (la foto, ndr), avevamo contatti con L’Espresso, Panorama e Repubblica per la cessione in esclusiva ma un collega giornalista ci tradì, la notizia uscì su Antimafia 2000 a firma di Lorenzo Baldo. Pochi giorni dopo bussarono alla porta dello studio gli uomini della Dia e sequestrarono la foto. Ci fu proibito persino di parlare del sequestro”. A parlare al Gazzettino di Sicilia è il fotografo Michele Naccari, collega di Franco Lannino (colui che materialmente ha scattato la foto che ritrae l’allora capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli). Una precisazione: il primo lancio della notizia di quella fotografia non è uscito sul nostro giornale, bensì su l’Unità. La vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, che ci ha visto testimoni diretti per quanto riguarda il ritrovamento dell’immagine di Arcangioli, merita quindi di essere raccontata per intero. A futura memoria. «Esiste una foto dove si vede un ufficiale dei carabinieri che si allontana da via d'Amelio pochi minuti dopo lo scoppio della bomba reggendo la borsa di Paolo Borsellino». Per un attimo rimango in silenzio**. Ma poi torno alla carica. «E chi sarebbe questo carabiniere?». «Giovanni Arcangioli, nel '92 aveva il grado di capitano». Sono gli ultimi mesi del 2004 quando ricevo questa segnalazione da una persona decisamente attendibile che conosciamo da diversi anni. Gli chiedo altri dettagli. Voglio vederci chiaro. «La foto è custodita dal fotografo palermitano Franco Lannino». La conversazione finisce lì. Dopo una rapida consultazione in redazione telefono al funzionario della Dia di Caltanissetta Ferdinando Buceti. Il vice questore si occupa delle nuove indagini sui mandanti occulti nelle stragi del '92 sotto il coordinamento della procura nissena. Non mi interessa fare alcun tipo di “scoop” per Antimafia Duemila. La precedenza va all'autorità giudiziaria. Punto. Buceti prende nota per poter verificare gli elementi ricevuti. Nel frattempo mi accorgo che Giovanni Arcangioli è lo stesso ufficiale che nell'estate del 2004 ha freddato a Roma il serial killer Luciano Liboni, soprannominato «il lupo». Un osso duro, Arcangioli, che nel frattempo è diventato tenente colonnello. Successivamente il funzionario della Dia scopre da riscontri incrociati che il 19 luglio 1992 risulta confermata la presenza di Arcangioli in via d'Amelio. Ma è il secondo passo quello determinante. In una sorta di «irruzione» vera e propria cinque agenti della Dia piombano nello studio dal fotografo Franco Lannino. Devono visionare il suo archivio. Subito. La cartellina delle immagini della strage di via d'Amelio viene analizzata minuziosamente fotogramma per fotogramma. La foto del carabiniere che regge la valigetta di Borsellino esce fuori dall'album. E' stata scattata tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992. E' lui. E' Giovanni Arcangioli, all'epoca comandante della sezione Omicidi del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo. Il reperto fotografico viene acquisito immediatamente dall'autorità giudiziaria. E' la prova documentale della segnalazione giunta in redazione. La macchina investigativa ha acceso i suoi motori. E' l'alba del 27 gennaio 2005 quando parto per Roma. L'appuntamento è per le ore 11 agli uffici della Dia. La verbalizzazione ufficiale della nostra segnalazione sulla fotografia di Arcangioli è prevista per quella mattina. L'indicazione fornita telefonicamente poche settimane prima al dott. Buceti viene trascritta in un verbale che confluisce nel fascicolo sulla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. In quel momento l'opinione pubblica ignora ancora la notizia del ritrovamento della foto. Ma è solo questione di un paio di mesi. Il 26 marzo l'Unità pubblica un articolo a firma di Marzio Tristano. Il ritrovamento della foto del carabiniere con la valigetta di Paolo Borsellino diventa di dominio pubblico. Da un dispaccio Ansa del 19 maggio si scopre che Giovanni Arcangioli è stato interrogato un paio di settimane prima per una foto che lo ritrae con in mano la borsa del giudice Borsellino. Domenica 5 febbraio 2006 le agenzie diramano la notizia che la Dna ha segnalato alla procura di Caltanissetta l'esistenza di un vecchio verbale del 1998 di Giuseppe Ayala sul ritrovamento della borsa del giudice Borsellino. I dispacci riportano che Ayala e Arcangioli sono stati sentiti sul punto specifico dall'autorità giudiziaria. Passano solamente quattro ore e le agenzie battono la notizia di un nuovo interrogatorio di Giovanni Arcangioli previsto nei giorni successivi. Ed è nella data di martedì 8 febbraio che quell'interrogatorio avviene negli uffici romani della Dia. Quello stesso giorno viene sentito nuovamente anche Giuseppe Ayala. I due verranno messi a confronto e le rispettive versioni non coincideranno. Inizia così una sfida a colpi di memoria. Giocata su più tavoli. Primi vagiti di un depistaggio. Consapevole o non. Ma di certo non innocente. Cinque mesi dopo, nell'edizione delle ore 20, il Tg1 trasmette un servizio di Maria Grazia Mazzola sulla strage di via d'Amelio. Per la prima volta in assoluto un canale nazionale, nell'edizione di punta del proprio telegiornale, manda in onda il video di quel frangente. Nel filmato il capitano dei carabinieri avanza spedito reggendo in mano la borsa di cuoio di Borsellino. Dietro di lui si intravedono le auto in fiamme e i pompieri che si affannano a spegnerle. La telecamera insiste implacabile sull'ufficiale. Ma è questione di pochi secondi. Con grandi falcate Arcangioli esce dal quadro delle riprese allontanandosi da via d'Amelio. Riparte il filmato, questa volta a rallentatore. Il volto del carabiniere non tradisce alcuna emozione. La valigetta è stretta nella sua mano destra. Poi più nulla. Nel servizio l'intera vicenda viene sintetizzata sotto la scure dei tempi televisivi. Ma è la novità di quel video ad attirare tutta l'attenzione. La consacrazione definitiva a livello pubblico della scomparsa dell'agenda rossa è avvenuta. Nell'immaginario collettivo la figura di colui che preleva la valigetta di Paolo Borsellino ha finalmente un volto, un corpo e un'anima.

La pietra tombale sulla scomparsa dell'agenda rossa. “Etica è innamorarsi del destino degli altri e Palermo è uno dei pochi luoghi etici rimasti in questo Paese perchè si è costretti a scegliere: o stai con gli assassini, oppure no, o stai da una parte oppure dall'altra, anche se poi è difficile vivere questa scelta”. Un cielo grigio avvolge la città di Caltanissetta. Ripenso a quelle parole pronunciate diversi anni fa da Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di quella città, mentre mi dirigo verso il palazzo di giustizia. E' il 24 febbraio 2006, alle ore 11 è prevista la mia audizione come persona informata sui fatti. L'inchiesta sulla scomparsa dell'agenda rossa procede in un percorso a ostacoli. Il procuratore capo Francesco Messineo e l'aggiunto Renato Di Natale si fanno ripetere sostanzialmente tutto l'iter della segnalazione giunta in redazione. Passano poi agli approfondimenti. Ma l'interrogativo che pesa maggiormente nella sala riunioni della procura nissena riguarda l'identificazione della «fonte». Il procuratore intende sapere se quella segnalazione provenga da ambienti «istituzionali» o meno. Ribadisco ai magistrati la provenienza «non istituzionale» della segnalazione. Sono però costretto a ricorrere al «segreto professionale» sull'identità dell'autore per una precisa volontà dello stesso. Messineo e Di Natale non battono ciglio e procedono alla verbalizzazione. Sabato 25 febbraio il quotidiano La Repubblica anticipa l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli per false dichiarazioni al pubblico ministero. La miccia è stata accesa. E' come se una scintilla cominciasse a percorrere un lungo filo prima di arrivare all'esplosivo. Non passa nemmeno un mese e i difensori di Arcangioli chiedono di spostare la competenza dell'indagine a Roma. Secondo i legali il reato ipotizzato sarebbe stato commesso a Roma e di conseguenza i giudici naturali sarebbero quelli della Capitale. La procura di Caltanissetta oppone un fermo rifiuto in quanto i reati sarebbero stati commessi nel territorio di competenza della procura nissena. Un braccio di ferro che termina con un risultato a favore della procura. L'inchiesta resta a Caltanissetta. Il fascicolo in cui si ipotizza il reato di furto resta a carico di ignoti; l'ufficiale dei carabinieri viene iscritto nel registro degli indagati per false dichiarazioni ai pm. Nel mese di ottobre del 2006 si conclude l'indagine su Arcangioli. Da quel momento attorno al caso della sparizione dell'agenda rossa si apre una danza schizofrenica a suon di carte giudiziarie. Il 3 novembre del 2006 i pm titolari dell'inchiesta, Renato Di Natale e Rocco Liguori, chiedono per l'ufficiale dei carabinieri una prima archiviazione. L'istanza viene rigettata dal Gip Ottavio Sferlazza che, il 21 luglio 2007, ordina di integrare il quadro probatorio con ulteriori accertamenti. Il 28 settembre 2007 una nuova richiesta di archiviazione da parte della procura nissena viene depositata in cancelleria. Poche pagine che racchiudono tra le righe una piccola nota in fondo al testo che apre ulteriori scenari. «Da indagini parallele in altro procedimento penale - si legge nel documento - emergeva comunque come la borsa (di Paolo Borsellino, nda) fosse stata consegnata al Dr. Giovanni Tinebra il giorno dopo l'attentato dal Dr. Arnaldo La Barbera». Il 5 novembre il Gip rigetta nuovamente la richiesta di archiviazione e ordina un supplemento di indagine. Il 14 gennaio 2008 viene reiterata dalla procura la terza richiesta di archiviazione. Il giorno 1° febbraio 2008 il Gip impone ai Pm l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli con l'accusa di furto pluriaggravato. Nell'ordinanza il Gip Sferlazza illustra una per una le gravi contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Arcangioli mettendole a confronto con le testimonianze di Giuseppe Ayala, altrettanto altalenanti, così come con quelle di Vittorio Teresi. «Contrariamente all'assunto del ten. col. Arcangioli - si legge nel documento - a nessuno dei magistrati presenti, chiamati in causa dal predetto ufficiale, fu affidata, anche temporaneamente, la borsa in questione». «L'allora capitano Arcangioli - che in un determinato contesto spazio-temporale certamente si trovò ad operare da solo - rimase per un apprezzabile lasso di tempo nella disponibilità della borsa, come documentalmente provato dai fotogrammi che lo ritraggono con la borsa in mano nell'atto di allontanarsi fin quasi l'incrocio con Via Autonomia Siciliana dove la telecamera cessa di inquadrarlo». Secondo il Gip Giovanni Arcangioli si allontana «ingiustificatamente di ben 60 metri dalla zona maggiormente interessata dall'esplosione (portineria e cratere) e dai rilievi in corso».Per Ottavio Sferlazza la direzione di marcia dell'ufficiale sembra piuttosto «funzionale all'esigenza di allontanarsi da quello spazio per controllare personalmente la presenza dell'agenda lontano da occhi indiscreti e per farla sparire, affidandola ad altri o nascondendola in una autovettura parcheggiata nei pressi, per poi fare ritorno verso via d'Amelio dove la borsa potè essere agevolmente riposta nell'autovettura del Dr. Borsellino ma ormai priva del suo prezioso documento». In totale antitesi con le registrazioni video che lo smentiscono in pieno Arcangioli aveva invece detto di essersi spostato «sul lato opposto della via d'Amelio rispetto alla casa del Dr. Borsellino» dove avrebbe aperto la borsa per esaminarne il contenuto. Per il Gip di Caltanissetta «appare evidente che, fallito clamorosamente il tentativo di precostituirsi una prova “autorevole” e “tranquillizzante” proveniente da fonte qualificata - costituita dalla asserita verifica da parte dei magistrati presenti, nell'immediatezza del prelievo della borsa dall'autovettura e sotto il loro controllo visivo, dell'assenza di una agenda all'interno della borsa stessa - all'Arcangioli, ripreso dalle telecamere in quell'atteggiamento univocamente indiziante, non rimaneva che negare di “avere mai superato, portando la borsa, il cordone di polizia che sbarrava l'accesso alla via d'Amelio”». Sferlazza sottolinea che in realtà c'era una sorta di corridoio libero che non era sbarrato da alcun cordone di polizia e che comunque per Arcangioli, munito di distintivo al petto, non era certo difficile attraversare quel tratto di strada per dirigersi verso la via Autonomia Siciliana «dove certamente sostavano molte autovetture di servizio in cui ben potè operare indisturbato, e fare poi ritorno in via d'Amelio senza destare alcun sospetto». Il Gip nisseno definisce «alquanto singolare» che il capitano Arcangioli non abbia redatto alcuna relazione di servizio «su un episodio di indubbia rilevanza investigativa, quale il rinvenimento di una borsa appartenuta al Dr. Borsellino», nemmeno «l'asserita consegna della borsa ai magistrati presenti […] avrebbe giustificato l'omessa redazione di una annotazione di servizio su un episodio tanto significativo». Nel documento viene riportata la dichiarazione di un superiore di Arcangioli, il ten. col. Marco Minicucci il quale, sul punto specifico, sottolinea che «sarebbe stato normale per un ufficiale che preleva la borsa che era contenuta nell'auto di Paolo Borsellino immediatamente dopo la strage redigere una relazione di servizio». Ma Arcangioli misteriosamente non redige alcun rapporto. Per il Gip «non può dubitarsi della esistenza dell'agenda all'interno della borsa né della attribuibilità al solo Arcangioli, almeno in una prima fase, di una condotta di sottrazione della stessa». Sferlazza evidenzia le circostanze dei diversi ritrovamenti della borsa di Paolo Borsellino all'interno della sua auto. La prima persona che recupera la borsa «sul sedile posteriore» è l'agente di scorta di Giuseppe Ayala, Rosario Farinella. Successivamente l'ispettore Francesco Paolo Maggi asserisce di averla trovata «sul pianale posteriore dietro il sedile passeggeri». I due diversi ritrovamenti costituiranno i pilastri del mistero che ruota attorno alla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Secondo il Gip nisseno la sparizione dell'agenda «va collocata in una fase certamente precedente all'intervento dell'ispettore Maggi ed appare chiaramente ascrivibile all'ufficiale dell'Arma dei carabinieri Arcangioli Giovanni». «E quale altra funzione - scrive Sferlazza nell'ordinanza - può avere avuto la successiva ricollocazione della borsa all'interno dell'autovettura se non quella di consentirne un successivo recupero, dopo averla fraudolentemente privata di quel documento approfittando della confusione che regnava in quella fase concitata e confidando sul fatto che il successivo repertamento della stessa avrebbe destato ben minori sospetti rispetto ad un suo eventuale e definitivo mancato rinvenimento?!». In merito ai risvolti legati a quanto vi possa essere scritto nell'agenda scomparsa il Gip di Caltanissetta punta dritto verso quegli organi di Stato «infedeli». «E' evidente - ribadisce Sferlazza - che il suo contenuto (dell'agenda rossa, nda) dovette subito apparire di estremo interesse al punto di suggerirne una definitiva e deliberata sottrazione ad ogni possibile sviluppo e/o doveroso approfondimento investigativo da parte dell'A.G. funzionalmente competente, mentre fu privilegiata, in sedi che non è dato conoscere ma certamente da parte di organi dello Stato infedeli, la definitiva espunzione di quel documento da un quadro probatorio complessivo, fin dall'inizio di difficile ricostruzione e lettura, che avrebbe potuto essere arricchito e reso più decifrabile». «Diversamente opinando - conclude il Gip - non si comprenderebbe perché quell'agenda non sia stata - si ribadisce, neppure tardivamente - mai più restituita alla famiglia Borsellino, sia pur, in ipotesi, dopo averne fotocopiato ed acquisito “clandestinamente” il contenuto, al di fuori delle corrette regole procedurali, tanto più ove si consideri che ciò avrebbe potuto essere fatto anche soltanto il giorno dopo senza destare alcun sospetto, mentre si è scelta la strada della criminosa e definitiva sottrazione del documento a qualunque verifica probatoria».

«Non ho un ricordo molto nitido, però, relativamente alla borsa ho un flash che posso spiegare in questi termini». Le parole dell'ispettore Giuseppe Garofalo, in servizio il 19 luglio 1992 alla Sezione Volanti della Questura di Palermo, infittiscono le nubi su via d'Amelio. I magistrati lo ascoltano attentamente. «Ricordo - racconta Garofalo - di avere notato una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi. Sul soggetto posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori. Ritengo che se mi venisse mostrata una sua immagine potrei anche ricordarmi del soggetto». I funzionari della Dia sottopongono quindi all'attenzione dell'ispettore Garofalo il video che riprende Giovanni Arcangioli. Ma l'ispettore esclude che si tratti della stessa persona in quanto l'abbigliamento del personaggio appartenente ai Servizi era completamente diverso dallo stile casual di Arcangioli. Il 16 novembre 2005 davanti agli inquirenti Garofalo ravvisa «forti somiglianze tra l'Adinolfi (il tenente colonnello del Ros di Palermo Giovanni Adinolfi, nda) e il soggetto qualificatosi in forza ai Servizi ed interessatosi della borsa», poi però in data 20 gennaio 2006, visionando nuovamente insieme agli investigatori le immagini dell'attentato Garofalo «non riconosceva nessuno (neanche l'Adinolfi) ravvisando somiglianze con un soggetto (non meglio identificato) non corrispondente alla figura dell'Adinolfi». Dal canto suo il col. Adinolfi ribadirà quanto già riferito all'autorità giudiziaria di Caltanissetta nell'aprile del 2006 in ordine alla sua presenza in via d'Amelio il 19 luglio 1992 ma «seppur riconoscendosi nel soggetto con giacca e occhiali scuri più volte ripreso vicino al col. Arcangioli». I magistrati riportano che nelle successive deposizioni lo stesso Adinolfi «nulla aggiungeva (rispetto alle precedenti dichiarazioni) con riferimento a qualsivoglia circostanza attinente la presenza della borsa appartenuta in vita al Dr. Borsellino». Le asserzioni dell'isp. Garofalo si intersecano in maniera inquietante con quelle dell'agente della Volante San Lorenzo, Salvatore Angelo, tra i primi ad arrivare in via d'Amelio. In mezzo a quella bolgia l'agente Angelo riconosce il collega Salvatore Mannino in servizio fino a qualche tempo prima al commissariato San Lorenzo. Mannino era stato poi trasferito a Firenze poiché una nota del Sisde lo aveva descritto come in pericolo di vita perché minacciato dall’organizzazione mafiosa, ma era anche sospettato di essere stato una «talpa» del commissariato. Non appena individuato Mannino, Salvatore Angelo resta interdetto. «Mi ha colpito addirittura un abbigliamento consuetudinario a lui - ricorda l'agente Angelo - giacca e pantaloni colore cammello e questo ha fatto scattare l’interrogativo di dire: ma 'sta persona qua che ci fa? Proprio perché il soggetto era quello che io ricordavo da sempre. Io poi l’ho perso con lo sguardo, perché come lui ha attraversato ancora c’era il fumo, c’erano le... le auto in fiamme, cioé non era facile seguire le persone all’interno della via D’Amelio. Ripeto, sono attimi in cui la cosa era ancora abbastanza fresca». Successivamente le dichiarazioni dell'artificiere antisabotaggio, Francesco Tumino, all'epoca in servizio presso il Nucleo Operativo del Comando Provinciale dei carabinieri di Palermo, creano ulteriore confusione nelle indagini degli investigatori. «Per il mio specifico compito cominciai ad attenzionare il cratere provocato dall’esplosione - racconta Tumino - se ben ricordo erano le 19.00 circa, allorquando notai la borsa che mi mostrate in foto in mano ad un tale ben vestito che, attraversato il cratere, si diresse verso un capannello di persone ove vi erano i più alti esponenti delle forze dell’ordine. Tale circostanza mi colpì poiché la borsa risultava per un lato bruciata e per l’altro integro e bagnata. Non conosco il tale che teneva in mano questa borsa e non mi sono accorto a chi l’abbia consegnata. Escludo, tuttavia, che potesse trattarsi di un nostro ufficiale poiché l’avrei riconosciuto». Viene quindi verbalizzata una ricostruzione alquanto discordante dalle altre testimonianze. Ma Francesco Tumino è lo stesso artificiere dei carabinieri coinvolto nei misteri del fallito attentato all'Addaura del 1989. Ed è lo stesso brigadiere che verrà condannato in appello per calunnia nell'ambito dell'inchiesta sul fallito attentato a Falcone per aver accusato l'allora capo della Criminalpol di Palermo, Ignazio D'Antone, di essersi appropriato di alcuni reperti recuperati dopo la disattivazione dell'ordigno esplosivo. Tumino morirà nel mese di gennaio del 2006 portando con sé ambiguità e segreti. Nel frattempo i misteri si intensificano. La relazione di servizio del ritrovamento della valigetta di Borsellino viene inspiegabilmente redatta dall'ispettore Maggi il 21 dicembre 1992 e consegnata al magistrato titolare delle indagini, Fausto Cardella, otto giorni dopo. Per cinque mesi non esiste quindi alcun atto di polizia giudiziaria inerente il ritrovamento della borsa del giudice. Un'incomprensibile e irragionevole vuoto temporale. Un enigma che alcuni protagonisti dell'epoca riescono ulteriormente a ingarbugliare con i propri vuoti di memoria. Il funzionario della Mobile di Palermo, Paolo Fassari, viene indicato da Francesco Maggi come il comandante che gli ordina di portare la valigetta di Borsellino in questura. Fassari, sentito successivamente dall'autorità giudiziaria, riferisce di non ricordarsi bene della presenza di Maggi in via d'Amelio, né tanto meno rammenta di avergli impartito l'ordine di recarsi in questura una volta rinvenuta la borsa del giudice. Fassari tuttavia non esclude che si siano verificate tali circostanze «in considerazione del notevole tempo trascorso e della grandissima confusione che era scaturita, in quei frangenti, in via d'Amelio». Dal tenente colonnello Marco Minicucci (all'epoca Comandante del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri Palermo I, nda), dipendevano cinque Sezioni Operative, a capo di una delle quali, la prima, era il capitano Giovanni Arcangioli. Ed è proprio Minicucci, interrogato dagli inquirenti nel 2005, a fornire un'ennesima versione dei fatti. «Ricordo in merito alla valigetta, molto vagamente, atteso i tredici anni trascorsi, che il collega (Giovanni Arcangioli, nda) fu incaricato da uno dei magistrati presenti sul posto, del quale non ricordo il nome, di prelevare dall’interno dell’auto del Procuratore Borsellino la valigetta dello stesso all’interno della quale mi ricordo che era contenuto un Crest araldico, se non erro dell’Arma, questo sulla base dei racconti che mi erano stati fatti dal Capitano Arcangioli». «In merito alla valigetta - specifica Minicucci - non ricordo altro e ritengo di potere escludere che siano stati redatti verbali da personale dipendente poiché l’attività tecnica sul luogo fu lasciata nelle competenze della Polizia di Stato in segno di rispetto per le perdite subite. Non so aggiungere altri particolari e dettagli in merito alla valigetta poiché non ho vissuto materialmente il prelievo ed il controllo della stessa ma ne sono venuto a conoscenza dal collega successivamente e limitatamente alla parte che ho appena narrato». Gli investigatori confrontano le diverse dichiarazioni e tornano a sentire l'appuntato Farinella che non ha alcun problema a confermare quanto precedentemente riferito. «Io ricordo perfettamente - ribadisce Farinella - che appena notata la borsa il vigile ha cercato di spegnere le fiamme esterne ed insieme abbiamo tentato, fino a riuscirci, di aprire la portiera che permetteva di prendere la borsa. Ricordo altrettanto bene - sottolinea l'appuntato dei carabinieri - che abbiamo aperto una delle portiere posteriori, ma non so dire se la sinistra o la destra, proprio perché abbiamo fatto diversi tentativi. Inoltre, quando io ho prelevato la borsa la stessa era perfettamente asciutta, diversamente sarebbe dovuta essere inzuppata d’acqua». L'ipotesi della borsa bagnata è uno dei punti nevralgici delle contraddizioni emerse dalle differenti dichiarazioni dei testimoni. In totale contrapposizione alle affermazioni di Rosario Farinella, Francesco Maggi riferisce che la borsa era inzuppata d'acqua in quanto un pompiere l'aveva bagnata per impedire il principio di un incendio che si stava formando all'interno dell'autovettura. Di fatto Farinella e Maggi prelevano la borsa in tempi diversi. Nel primo caso non c'è alcun incendio all'interno della Croma, così come testimonia il pompiere che aiuta l'appuntato Farinella ad aprire l'auto. Mentre quando Maggi preleva la valigetta un altro pompiere ha appena colpito con un getto d'acqua l'interno della vettura. Ad avallare le dichiarazioni di Farinella si aggiungono quelle del vigile del fuoco Giovanni Farina che materialmente lo aiuta ad aprire la portiera della macchina blindata di Borsellino. «Il giorno della strage - racconta Farina agli inquirenti il 26 ottobre 2005 - ero funzionario di servizio e subito dopo la richiesta d'intervento sono stato tra i primi ad intervenire in via d'Amelio. Al momento del nostro arrivo, al quale seguiva immediatamente l'arrivo di una squadra dei Vigili del Fuoco del distaccamento portuale, ho notato che sul posto vi erano già delle auto delle forze dell'ordine che impedivano l'accesso alla gente che sopraggiungeva». «Preciso che in quella prima fase - sottolinea il vigile del fuoco - non sapevamo ancora quali fossero lo cause di quello scenario che si presentava davanti a noi. Ricordo, però che quando siamo arrivati ciò che c'era in via d'Amelio era completamente oscurato dal fumo. Inizialmente, accorgendoci che diverse macchine erano in fiamme abbiamo provveduto a spegnerle». A quel punto Giovanni Farina mette a fuoco il ricordo della macchina del giudice. «In tale circostanza ho notato che vi era una Fiat Croma di colore blu scuro alla quale non riuscivamo ad aprire le portiere. Nel tentativo di rompere un deflettore posteriore mi sono accorto che era un'auto blindata». «Successivamente - evidenzia il pompiere Farina - grazie all'intervento di qualcuno appartenente alle forze dell'ordine siamo riusciti ad aprire le portiere e verificare che non vi fosse nessuno al suo interno. Preciso che l'autovettura in questione era posizionata quasi al centro della strada, quasi all'altezza del portone d'ingresso della madre del giudice Borsellino». Il vigile del fuoco spiega successivamente agli inquirenti di aver appreso direttamente da Giuseppe Ayala, circa 30 minuti dopo «che si era trattato di un attentato al giudice Borsellino». Quando i magistrati mostrano a Rosario Farinella la foto del capitano Arcangioli per un'identificazione, l'appuntato dei carabinieri dichiara di non essere in grado di riconoscere la persona nella fotografia. «Posso aggiungere però - conclude Farinella - che non ricordo assolutamente che la persona alla quale ho consegnato la borsa avesse una placca metallica di riconoscimento; di questo particolare ritengo che mi ricorderei». Dai principali protagonisti della scena del prelevamento, Giovanni Arcangioli e Giuseppe Ayala, si susseguono una serie di affermazioni, rivedute e corrette fino allo sfinimento. Arcangioli chiama addirittura in causa magistrati che non ci sono mai stati in via d'Amelio quel 19 luglio come Alberto Di Pisa (che minaccia querele per essere stato citato inopportunamente), e cita ugualmente chi vi è arrivato solamente nel tardo pomeriggio come Vittorio Teresi. Il 12 luglio 2005 il procuratore aggiunto di Palermo racconta agli investigatori la sua versione dei fatti. «Non posso precisare l'ora in cui arrivai in via d'Amelio - dichiara Teresi agli investigatori - ma probabilmente era trascorsa un'ora e un quarto o un'ora e mezza dall'esplosione. Mi fermai per qualche minuto ad osservare il terribile spettacolo dei corpi straziati tra i quali quello di Paolo Borsellino, e poi, mi andai a collocare sul marciapiede opposto alla cancellata del palazzo, in posizione però spostata verso l'imbocco di via d'Amelio». «Nel medesimo luogo - sottolinea il magistrato palermitano - credo di ricordare di avere visto i colleghi Ingroia e Natoli e forse Patronaggio e Ayala. Ricordo anche che altri colleghi erano sul posto ma non riesco a ricordare chi fossero». A quel punto gli inquirenti chiedono a Vittorio Teresi se ricorda di aver incontrato in quella circostanza Giovanni Arcangioli. «Non ricordo, in quella circostanza - replica Teresi - di essere stato avvicinato dal capitano Arcangioli né di avere comunque parlato con lo stesso. Chiarisco che io conoscevo e conosco benissimo il capitano Arcangioli con il quale avevo svolto alcune indagini, ma non ricordo che in via d'Amelio lo stesso mi abbia avvicinato o in qualsiasi modo interpellato». «Naturalmente - evidenzia il procuratore aggiunto di Palermo - non mi sento neanche di escludere che ciò sia avvenuto, perché, come ho detto, mi trovavo in uno stato di grande confusione e prostrazione psichica». Ai magistrati presenti Vittorio Teresi illustra minuziosamente la sua versione sul ritrovamento della valigetta di Paolo Borsellino. «Escludo in modo più assoluto come fatto materiale - sottolinea Teresi - che il capitano Arcangioli abbia esibito qualsivoglia borsa ed a maggiore ragione che io abbia aperto tale borsa, o comunque che una borsa sia stata aperta in mia presenza o anche da un altro. Peraltro io non avevo alcuna veste istituzionale, non essendo il sostituto di turno e quindi non avrei potuto ricevere alcun reperto, cosa questa che il capitano Arcangioli assai esperto doveva sapere». Prima di concludere il verbale di interrogatorio Vittorio Teresi dichiara agli investigatori di ricordarsi della presenza dell'agenda rossa del giudice assassinato «sul tavolo di Paolo Borsellino sino a venerdì o sabato (prima della strage, nda)», ma di non poter sapere se tale agenda fosse quella scomparsa. Il 13 dicembre dello stesso anno gli investigatori interrogano Mario Bo, funzionario della Squadra Mobile di Palermo nel '92 (all'epoca dirigente della II° sezione investigativa antirapina e successivamente componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino coordinato da Arnaldo La Barbera), che cinque anni dopo sarebbe stato indagato nella nuova inchiesta sul depistaggio nelle indagini per la strage di via d'Amelio. Mario Bo racconta agli investigatori di avere ricevuto la notizia della strage di via d'Amelio mentre si trovava al mare all'Addaura. Bo specifica di essersi immediatamente recato sul posto, ma di esservi rimasto per poco tempo a causa del suo abbigliamento troppo informale, di essere quindi passato a casa sua per cambiarsi prima di recarsi agli uffici della Mobile e solo successivamente in via d'Amelio. Gli investigatori mostrano a quel punto alcune fotografie della borsa di Paolo Borsellino e chiedono all'ex funzionario della Mobile se ricordi averla vista in via d'Amelio. «Dopo aver visionato le foto - risponde il dott. Bo agli inquirenti - debbo dire che, nonostante l'enorme lasso di tempo intercorso, sarebbe assai improbabile non aver mantenuto il ricordo di un oggetto così particolare. In effetti, non posso escludere di avere avuto modo di vederla, ma non riesco a contestualizzare il latente ricordo». «La mia difficoltà, in questo momento - evidenzia l'attuale capo della Squadra Mobile di Trieste - è accentuata dal fatto di non averne memoria neppure in relazione alle indagini sull'attentato in questione ed alle quali io ho partecipato a partire dal mese di giugno 1993, allorquando entrai a far parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, diretto dal dott. La Barbera». In ultimo gli investigatori chiedono a Bo se l'assistente Maggi gli abbia mai parlato della borsa in questione. Dal funzionario di polizia giungerà l'ennesima risposta negativa. Dal canto suo Giuseppe Ayala cambierà versione progressivamente. Come una tela di Penelope il racconto del ritrovamento della valigetta di Borsellino assumerà forma e sostanza mutevole. A seconda della testimonianza si allungherà in dettagli fuorvianti, o si accorcerà dietro inquietanti omissioni. Tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (G. Bongiovanni e L. Baldo, Aliberti) 

Graviano: un messaggio che nasconde i destinatari, scrive il 10/06/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Il nastro si riavvolge e il film comincia daccapo. Le stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 hanno rappresentato per 25 anni e rappresentano ancora l’autentico tormentone che ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Un tormentone che ruota attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi e alla nascita di Forza Italia. Quest’ultima rivelazione di Giuseppe Graviano, curiosamente tanto istupidito da non sospettare di essere intercettato in carcere, arriva proprio nel momento in cui la storia italiana del ‘92 e del ‘93 sembra essere già archiviata e relegata persino al ruolo di fiction, come abbiamo avuto modo di vedere seguendo l’ultima serie tv su Sky. Di Berlusconi e di Dell’Utri (quest’ultimo in carcere per concorso esterno) hanno parlato schiere di pentiti. Lo stesso Graviano, alla udienza in cui testimoniò a Torino il collaboratore Gaspare Spatuzza, si diede molto da fare nel lanciare messaggi e minacciare ricatti. Facendo intendere anche di essere pronto a qualche “sacrificio” (lui e forse il fratello, Filippo) pur di ricevere un allentamento del carcere duro. Sono passati otto anni e non sembra esser accaduto nulla, se non il “beneficio” di aver potuto ingravidare le rispettive mogli. Si era pensato che questo “evento” potesse essere stata conseguenza di una complicità del suo avvocato, immaginato come “trasportatore” del loro seme dal carcere ad un laboratorio per l’inseminazione. Apprendiamo oggi, per bocca di Giuseppe Graviano, che l’inseminazione avvenne per contatto diretto. Un “premio” per il suo silenzio, mentre gli si chiedeva di confermare le dichiarazioni di Spatuzza a proposito dei rapporti tra la mafia di Brancaccio e Berlusconi e Dell’Utri? Questo, Graviano non lo dice ma lo fa intendere. Ecco forse è questa la chiave dei colloqui intrattenuti in carcere, con un detenuto che non è neppure mafioso. Una sorta di replay dell’ “incidente” occorso a Totò Riina che si è fatto sorprendere dalle “cimici” carcerarie mentre parlava con un altro “signor nessuno”, appartenente ad una improbabile mafia pugliese. Insomma, questi boss quando hanno qualcosa da dire, da suggerire, da sussurrare e finanche da ammettere, sembrano voler scegliere la strada del “parlare” ma senza pentirsi. Una bella intercettazione e via. Resta da capire chi sono i destinatari dei messaggi. Berlusconi non sembra in grado di poter dare grandi aiuti a chicchessia, soprattutto se non si tratta di soldi. Dell’Utri sta anche peggio, immobilizzato in un reparto di cardiologia del carcere di Parma. Forse ci sono verità che ancora faticano a guadagnare la luce. Nel ‘92 certamente è accaduto qualcosa di poco commendevole nella terra di mezzo fra politica e alta finanza. Il proliferare delle Leghe, a Nord e a Sud, la svolta stragista di Cosa nostra, la fine dei partiti storici italiani. Le paure di Ciampi che, la notte delle bombe, convoca lo Stato Maggiore e si chiude a Palazzo Chigi. Se Graviano ha qualcosa da chiedere, potrebbe cominciare a parlare sul serio.  

La verità per disguido, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". Non è possibile che la storia delle stragi mafiose sia scritta a forza di documenti nascosti, sentenze sbagliate e sensazionalismi giornalistici (ovvero: Cos'è questo speciale). Alcune settimane fa Enrico Deaglio ha proposto al Post di raccontare di nuovo, per i 25 anni della strage di via D’Amelio, la storia più recente delle tante legate a quell’attentato e ai suoi misteri: quella di un documento investigativo rivelato per un “disguido” nel 2013 che mostrava delle cose nuove e gravi sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della strage. La storia di quel documento era già stata raccontata, ma senza grandi attenzioni o rilievi, anche dallo stesso Deaglio, anche sul Post. Ci siamo convinti che la scarsa attenzione fosse dovuta a una generale indifferenza e stanchezza nazionale nei confronti dei grandi “misteri d’Italia”; a una retorica commemorativa benintenzionata ma in cui restano imballati e sepolti fatti, spiegazioni, ricostruzioni; a un’incapacità dei media di rinnovarli e trasmetterli, nel groviglio di versioni e processi e cose false e vere che sono stati questi 25 anni. Come se non ce ne importasse più, per umane fatica e rimozione, anche se non lo ammetteremmo mai. Così abbiamo pensato di fare su quella storia il lavoro che al Post viene più spesso riconosciuto e richiesto, quello della spiegazione, della ricostruzione, del mettere in ordine storie e informazioni daccapo. E quello che pubblichiamo in questo speciale – una serie di diversi articoli legati tra loro – è il risultato di questo lavoro che abbiamo provato a fare per mettere quella storia in un contesto che aiuti a capirla, senza sconfinare negli ambiti più estesi e approfonditi su cui hanno scritto in tanti ed esperti. Ma mentre leggevamo ricostruzioni, articoli, verbali, e ascoltavamo registrazioni di udienze, e guardavamo video di interviste o di rovine di bombe, abbiamo anche iniziato a riflettere sulla contraddizione tra la tanto ripetuta “ricerca della verità” da parte delle istituzioni e da parte delle persone, e la continua sottrazione di pezzi di verità da parte delle istituzioni e da parte delle persone. Sono passati 25 anni da quando vennero uccisi il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 25 anni in cui si è chiesta mille volte “la verità” e quello che si è ottenuto è:

1. Una storia falsa spacciata per vera dal 1992 fino al 2008, col concorso di magistrati e ufficiali di polizia, su chi avesse compiuto quell’attentato: che ha prodotto, oltre a una falsificazione storica, la condanna e la detenzione per molti anni di nove persone estranee all’attentato (per le quali si è conclusa oggi la revisione del processo, con tutti gli imputati infine assolti, dopo 25 anni). Per quella falsificazione – una volta rivelata, nel 2008 – sono stati condannati solo gli imputati che avevano dichiarato il falso, malgrado siano certe le pressioni e le violenze da parte degli investigatori per ottenere quelle confessioni, confermate persino da una sentenza e da queste parole recenti del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paci: “C’è traccia di abusi, di contatti irrituali e connivenze tra investigatori e indagati per la ricerca di elementi che sostenessero una pista investigativa che all’epoca era plausibile, ma si ignorarono i campanelli di allarme che arrivavano dalle dichiarazioni contraddittorie di Scarantino sulla strage di via D’Amelio”.

2. La ripetuta dimostrazione dell’ostilità da parte dei magistrati che avallarono e difesero quella falsificazione a prendere in considerazione le molte prove che la dimostravano tale, e i pareri in questo senso di altri magistrati.

3. Una nuova versione divenuta pubblica solo nel 2008 e che ha portato alle condanne degli organizzatori ed esecutori della strage, senza chiarire le ragioni di quello e degli altri attentati di cui la mafia fu responsabile tra il 1992 e il 1994, in una campagna di violenze unica e anomala nella storia della mafia.

4. Una serie di indizi e dichiarazioni mai riscontrati sui rapporti dei boss organizzatori delle stragi con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, a tutt’oggi in bilico tra il credibile, l’incredibile, il molto raccontato e il poco provato.

Come si vede, su tutti questi quattro fronti nessuna “verità” è arrivata senza lasciarne altrettante da spiegare.

Chi e come ha indotto i “falsi pentiti” ad accusarsi e accusare altri falsamente, in un gravissimo e criminale depistaggio? Quali responsabilità, omissioni, intenzioni, hanno avuto i magistrati che hanno difeso con insistenza una storia falsa e fuorviante? Quali obiettivi ebbe, e quali sviluppi, la campagna di attentati tra il 1992 e il 1994? Hanno qualche fondamento le accuse contro Silvio Berlusconi? Quattro anni fa c’è stato un piccolo fatto nuovo che ha rivelato delle cose e ha fatto sospettare ce ne siano altre ancora rivelabili: un documento altrimenti “segreto” perché destinato solo alle indagini e non utilizzabile a processo, è diventato pubblico per un “disguido”, e ha svelato che Gaspare Spatuzza, il “collaboratore di giustizia” che svelò e fece smontare la falsificazione nel 2008, l’aveva già dichiarata falsa nel 1998, seppure con meno riscontri alla sua versione: ma nessuna indagine fu fatta sulle sue dichiarazioni. Quel documento è pubblico da tre anni ma è stato molto trascurato nelle ricostruzioni e nelle narrazioni, forse perché sembra certificare ulteriormente l’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nel proteggere la versione falsa. Ma quel documento è anche una traccia solo parziale di tutto quello che può essere stato già evocato e raccontato vent’anni fa ed è stato taciuto e mai verificato: ci sono altre cose dette in quello e in altri “colloqui investigativi” con i magistrati che continuano a essere riservate. Il Presidente del Senato Pietro Grasso, che da magistrato è stato uno dei personaggi di queste storie, ed è stato protagonista di grandi impegni giudiziari contro la mafia, ha appena pubblicato un libro sulle sue esperienze e sulla sua amicizia con i magistrati Falcone e Borsellino. Tra le altre cose, Grasso ricorda del suo auspicio, appena eletto senatore, di “una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi”: Ci sono troppi profili di quel tragico disegno stragista che restano ancora oscuri. Bisogna insistere perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature. Le dichiarazioni rilasciate dal pentito e gli elementi da lui forniti alle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo hanno consentito di ristabilire finalmente alcune verità sulle stragi. Occorre seguire un metodo preciso nella ricostruzione delle vicende, lo stesso metodo che ha ispirato la mia carriera di magistrato: credere solo a quello che è riscontrabile, provato, offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro, senza cadere nella tentazione di dipingere scenari opinabili, anche se suggestivi, ipotetici e non dimostrabili. Se si vuole chiarezza, si deve partire da ciò che è accertato, senza smettere di sollevare interrogativi e sottolineare i punti oscuri che richiedono un’ulteriore riflessione. Grasso ha ragione su entrambe le cose: la legislazione sui collaboratori di giustizia ha prodotto risultati riconosciuti e fondamentali ma anche disastri e inganni, come ogni regola emergenziale. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è frutto per prima cosa di un abuso di quelle regole, mentre il loro uso più coerente ha prodotto lo svelamento di quel depistaggio. E la confusione tra presunte verità giornalistiche e verità giudiziarie è alla base di storture quotidiane nell’amministrazione della giustizia, della politica e della società italiane. Sono tutte ragioni per essere cauti. Però Grasso ha ragione anche quando parla di “offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro” (la storia del documento di cui parliamo è uno di questi) e quando chiede di continuare a “sollevare interrogativi”. La prudenza non può diventare silenzio. È già successo una volta, con un pezzo di questa storia, che informazioni utili a capire come fossero andate le cose siano state trascurate e che si sia lavorato con insistenza a una falsificazione: e se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, visto che per 11 anni in carcere non aveva mai voluto farlo? E se non avesse potuto esibire il riscontro sulla riparazione dei freni dell’autobomba che lo ha reso credibile a processo? Sarebbero rimaste solo le sue parole del 1998, nascoste in un archivio, non indagate, ignote, rimpiazzate da una sentenza sbagliata su una delle stragi più gravi e importanti della storia italiana. Quelle parole le abbiamo conosciute poi per un “disguido”: forse è meglio che per tutte le altre che sono state dette si creino allora le condizioni per conoscerle legalmente, deliberatamente, completamente. I “segreti di Stato” sono connaturati agli stati, però non bisogna farli diventare una condizione ordinaria e permanente: ma nemmeno investire i magistrati del ruolo degli storici – idea che ha fatto già, e fa tuttora, abbastanza danni – o per contro aspettare gli storici del XXII secolo col loro utile distacco. Può darsi che debba essere la commissione Antimafia, o la commissione chiesta da Pietro Grasso, ad avere accesso a tutti i documenti e a trovare il modo di rispondere pubblicamente a quelle domande: o può darsi che chiunque sia stato protagonista del bene o del male di questi 25 anni debba decidersi a raccontare delle altre cose, con prudenza ma senza omertà. Noialtri intanto facciamole, le domande, poi facciamo il punto di quello che sappiamo, e stiamo in guardia su falsificazioni e depistaggi di ogni genere.

I falsi pentiti e i loro portavoce: Pm e giornalisti, scrive Tiziana Maiolo il 20 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’inaudito caso di Enzo Scarantino, costretto a “collaborare” a calci e pugni, ad autoaccusarsi e ad accusare deviando le indagini. Gli incredibili “errori” dei magistrati, tra i quali Di Matteo. Adesso lo dicono tutti, anche Sergio Mattarella: nel 1992, quando fu ucciso Paolo Borsellino, ci fu qualcosa di sbagliato nelle indagini e nei processi che seguirono. In realtà non ci fu nessun “errore”, ma il fatto banale che nessuno si curò della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Magistrati vanesi e investigatori senza scrupoli volevano in fretta una qualunque verità. Persino quella di Enzo Scarantino. Il “pentito” costruito a tavolino, come dice oggi la figlia del magistrato ucciso. Erano passati pochi giorni dal “pentimento” di Enzo Scarantino quando la moglie Rosalia mi scriveva una lettera nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture a confessare un delitto che non aveva commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino. Ci sono voluti venticinque anni e una sordità colpevole e senza precedenti da parte delle istituzioni per arrivare alle parole di una donna coraggiosa come la figlia di Borsellino che denuncia i “pentiti costruiti a tavolino”. E fa nomi e cognomi, senza paura. Quei nomi e cognomi che non ha potuto fare (se non su personaggi non di primo piano) la corte d’assise di Caltanissetta che nei mesi scorsi, nella sentenza al quarto processo per la strage di via D’Amelio, ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori. Quali investigatori? Fiammetta Borsellino ricorda chi erano i procuratori dell’epoca: il capo Tinebra, i sostituti Annamaria Palma. Carmelo Petralia, Nino di Matteo… Questi sono i magistrati ingenui, quelli che hanno creduto (creduto?) che un picciotto della Guadagna, un piccolo spacciatore vanitoso e ignorante e un bel po’ spaccone, potesse aver partecipato, con il furto di un’auto da imbottire con 90 chili di tritolo, a una delle stragi del secolo. Hanno continuato a credere (credere?) a quelle prime parole del “pentito” anche quando lui stesso, anche a costo di rinunciare alla libertà, aveva continuato a dire che quella specie di verità gli era stata estorta. Estorta come? La moglie di Scarantino aveva puntato il dito contro Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che conduceva le indagini sulle stragi e gestiva i collaboratori di giustizia. E del resto sarebbe bastato ascoltare le testimonianze (o magari rispondere alle interrogazioni parlamentari che nel corso degli anni deputati come me e Enzo Fragalà presentavano caparbiamente) di chi aveva constatato sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture, per capire in che modo si costruivano i “pentiti”. I magistrati non volevano vedere e tiravano dritto, osannati da una grande fanfara mediatica e sostenuti da un partito, il Pds, che voleva fare dell’” antimafia”, di quell’antimafia messa all’indice da Leonardo Sciascia, la propria identità. Di quel che succedeva nelle carceri, pochi si curavano. I radicali e qualche “matto” isolato in Parlamento e nell’opinione pubblica. La storia veniva scritta dai “pentiti” attraverso i loro portavoce, Pm e famosi giornalisti. Scarantino raccontava che prima di ogni interrogatorio, di ogni udienza, veniva ammaestrato, nomi e cognomi delle persone da accusare e far arrestare gli venivano suggeriti. Proprio come era già capitato con i 17 finti pentiti che accusavano Enzo Tortora. Ma nel caso Scarantino si è fatto di peggio, perché si scopriranno anni dopo addirittura appunti vergati a mano dalla grafia di qualche inquirente. E si andrà avanti così, di processo in processo, per anni e anni, fino al 2008. Con gli ergastoli che erano fioccati nei confronti di persone innocenti. Quando arriva il “pentito d’oro” Gaspare Spatuzza a dire che tutto era sbagliato, che i colpevoli erano altri, solo allora si era sbaraccato tutto il castello costruito in 16 lunghi anni. Oggi lo dicono tutti, che era stato tutto sbagliato. E sarebbe facile prendersela con persone che non ci sono più, come Arnaldo La Barbera o Tinebra. Ma dove sono tutti gli uomini di governo che hanno chiuso gli occhi, tutti i giudici delle corti d’assise che facevano i portavoce dei Pubblici ministeri e gli investigatori che svolgevano colloqui riservati nelle carceri e gli “sbirri” delle squadrette di picchiatori? C’è una responsabilità collettiva in tutto ciò. Basta fiaccolate, commemorazioni e agendine rosse. Facciamo nomi e cognomi per favore (come ci sta insegnando Fiammetta Borsellino), magari anche di qualcuno che nel frattempo ha fatto carriera o sta sognando di diventare ministro di giustizia.

Da Lima al bacio di Andreotti tutte le invenzioni dei pentiti, scrive Stefano Zurlo, Sabato 28/11/2009, su "Il Giornale". L'alfa e l'omega dei pentiti. E delle bugie a distanza di tanti anni. Le storie si ripetono e si inseguono. Inquietanti, come i doppifondi che nascondono. Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura entrano nel libro mastro dei collaboratori che hanno spacciato menzogne come, a suo tempo, Giovanni Pellegriti, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a passare dalla parte dello Stato. Pellegriti accusa, nientemeno, Salvo Lima, a quel tempo proconsole di Giulio Andreotti a Palermo, di essere il mandante di uno dei tanti omicidi eccellenti, quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Giovanni Falcone, sempre evocato e qualche volta pure a sproposito, corre nel carcere di Alessandria a interrogarlo e capisce subito che il pentito mente. Non sa nulla di Mattarella né dei suoi assassini. Dovrebbe far arrestare Lima e mandare un avviso di garanzia ad Andreotti, invece incrimina per calunnia Pellegriti e lo fa condannare a quattro anni. Quattro anni per aver venduto menzogne allo Stato. Un caso unico che ora potrebbe ripetersi. Tanti anni e tanti pentiti dopo. Falcone, purtroppo, non c’è più, ma c’è un nuovo dichiarante - strana crisalide sul punto di trasformarsi a tutti gli effetti in pentito doc - che porta acqua al mulino delle accuse a Silvio Berlusconi. È Gaspare Spatuzza, il killer di don Puglisi, pentito, convertito e addirittura aspirante teologo. Spatuzza riporta le confidenze dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, sui rapporti di Cosa nostra col premier: dunque diventa importante, credibile, persino autorevole. Ma, incidentalmente, sconfessa anche Candura e Scarantino che si erano accusati di aver rubato la 126 usata per la strage di via DAmelio e la morte di Paolo Borsellino. Che fare? Tagliare a fette, come un prosciutto, il racconto di Spatuzza? No, non si può avallare lo Spatuzza che parla del premier e cancellare lo Spatuzza che riscrive via D’Amelio. E allora si buttano nel cestino Scarantino e Candura, anche se i racconti dei due sono serviti per costruire una verità processuale che ha retto a tutti i gradi di giudizio. Per via DAmelio sono fioccate condanne, condanne pesantissime. Non importa. Ora la coppia Scarantino-Candura è indagata per calunnia e autocalunnia. Ma le prove dov’erano? E i riscontri? E gli elementi oggettivi a cui ancorare quelle pagine? Non c’erano, ammettono oggi i giudici. Ma ieri, con l’illustre eccezione del pm Ilda Boccassini, nessuno aveva seguito per via D’Amelio il metodo Falcone. Quei verbali erano tappeti volanti che portavano i magistrati lontano, dove non sarebbero mai arrivati. E si faceva la gara per salirci sopra. Certo, era più semplice dare la parola come fosse un conferenziere, a chi raccontava e riaggiustava a ruota libera la storia d’Italia. Un innamoramento sconsiderato, come è stato spesso eccessivo, senza filtri critici, l’amore dei nostri investigatori per le nuove tecnologie scientifiche, per i test del Dna, per le elaborazioni alla Csi. Col risultato di avere un alto numero di delitti irrisolti. Il pm di Bologna Libero Mancuso ha composto una sorta di fenomenologia del pentito, o almeno di un certo pentitismo, incarnato da Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo, uno dei più fecondi inventori di storie a cavallo di criminalità comune e criminalità organizzata: «Si intuiva la volontà di soddisfare chi lo interrogava, al di là di quello che lui sapeva. Era come se prevedesse quello che l’inquirente voleva sentirsi dire e si adeguasse a questa previsione, per far contento il magistrato». Come un cinico seduttore che ha fatto i suoi calcoli. Così è proprio Izzo a ispirare Pellegriti che però trova sulla sua strada Falcone. Altri hanno fabbricato di tutto pur di continuare a coltivare, come tanti dottor Stranamore, i propri affari criminali sotto il velo del pentimento. Per cinque anni nessuno si accorge della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio che non ha mai smesso di gestire gli interessi della sua cosca. Giacomo Lauro, padrino della ndrangheta, da pentito si dedica al narcotraffico e, colto con le mani nel sacco, si giustifica candidamente: «Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovrei fare, non dovrei aiutarlo?». Come si fa a prendere a scatola chiusa, come pure talvolta è accaduto, personaggi di questo spessore? Giuseppe Ferone fa di più: nel 96 ordina addirittura una strage vicino al cimitero di Catania. E Balduccio Di Maggio, il principe dei collaboratori, quello del bacio da fiction tra Andreotti e Riina, andrà avanti per anni a organizzare indisturbato, se non sotto protezione, attentati, estorsioni, persino consulenze per un traffico di droga. L’unica chance con i pentiti è quella di pesarli, con le loro verità e le loro menzogne, sulla bilancia dei riscontri. Come insegna una memorabile udienza del processo Andreotti, dove un grappolo di collaboratori - perché uno non basta mai - ipotizzava un abboccamento fra il sette volte presidente del Consiglio e il capo della mafia catanese Nitto Santapaola. Alla fine, messi alle strette dopo un estenuante batti e ribatti, i collaboratori indicarono la data del presunto summit. Peccato che quel giorno Andreotti avesse stretto la mano a Mikhail Gorbaciov.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno...Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si chiama «Lady Mafia», è una serie a fumetti noir che vede protagonista una donna del Sud a metà tra mala, sete di vendetta e voglia di giustizia. Il fumetto è in edicola da neanche 48 ore ed è già diventato un caso, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Tanto da essere bocciato dalla commissione parlamentare Antimafia che, per bocca del deputato Pd Davide Mattiello, parla di «operazione editoriale offensiva che deve essere sospesa», siamo davanti a un albo «che non trova di meglio che esaltare la violenza mafiosa come una risposta alla violenza mafiosa». Dello stesso tenore il comunicato di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Ciotti. «Ancora una volta si gioca con le parole e si sfrutta il “fascino” della mafia per un’attività commerciale che di educativo e formativo non ha nulla». Ma cos’è Lady Mafia? L’albo ammicca alle suggestioni del fumetto noir anni Sessanta/Settanta, Diabolik in testa. Formato bonelliano, 132 pagine bimestrali. Una programmazione di 10 uscite. Pubblicato dalla «Cuore Noir Edizioni», casa editrice pugliese che ora prova l’esperimento dell’edicola. Per ora Lady Mafia ha ricevuto recensioni e anticipazioni lusinghiere dalle riviste specializzate. La storia è quella di una ragazza del Sud, che nella fantasia dell’autore, Pietro Favorito, prende il nome di Veronica De Donato. Una storia dura, una saga familiare che mescola sangue e violenza. Alle spalle una famiglia distrutta dalla mafia in modo truce. E un presente volto a cercare una giustizia che sa molto di vendetta. Feroce. Libera però ritiene l’uscita di questo albo «un’operazione che ferisce la memoria di tante donne vittime delle mafie e dei loro familiari, impegnati a promuovere con le loro testimonianze il valore della giustizia contro la barbarie anche culturale della vendetta». Non solo. «Nel paese di Lea Garofalo e di tante donne come lei che hanno scelto, anche a prezzo della vita - si legge in un comunicato - il coraggio della denuncia, il fumetto Lady Mafia rappresenta un vero e proprio insulto alla loro memoria». Lo sceneggiatore dell’albo Favorito replica così alle accuse: «Innanzitutto teniamo a precisare che non è nelle nostre intenzioni ferire nessuna delle tante donne vittime della mafia - dice a Corriere.it - né tantomeno oltraggiare la loro memoria. Ma certe accuse arrivano da chi il fumetto non lo ha nemmeno letto. La violenza? Il nostro obiettivo è quello di demistificarla raccontandola». L’autore spiega che «Lady Mafia è un fumetto noir, che si tinge di tinte forti come previsto dal filone narrativo cui fa capo, e le parole Lady Mafia altro non vogliono essere che un sostantivo femminile della parola boss. Se invece di chiamarlo Lady Mafia, il nostro fumetto l’avessimo chiamato mister mafia, avremmo fatto lo stesso scalpore?».

Berlusconi come Riina: «Pedinate chiunque passi per Arcore», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Così la Guardia di Finanza controllava gli amici del Cavaliere: si appostavano davanti villa San Martino con microcamere a infrarossi nascoste in un auto civetta. «Interesse investigativo». In questi termini, senza aggiungere altro, il maresciallo della guardia di finanza di Milano Emiliano Talanga, rispondendo ad una domanda della difesa, ha spiegato il perché del pedinamento del generale dei carabinieri Vincenzo Giuliani che andava ad incontrare Silvio Berlusconi ad Arcore. La circostanza è emersa la scorsa settimana durante l’udienza nel processo in corso davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Milano, presidente Giulia Turri, a carico del consigliere regionale lombardo Mario Mantovani (FI), imputato per reati contro la Pubblica amministrazione. Nel mese di ottobre del 2013, all’epoca dei fatti contestati, Mantovani ricopre la carica di vice presidente ed assessore alla Salute della Regione Lombardia, nonché quella di coordinatore regionale del Popolo delle Libertà. Il suo telefono è intercettato. Come anche quello del suo segretario particolare Giacomo Di Capua. I finanzieri del gruppo Tutela Spesa Pubblica di Milano, coordinati dal sostituto procuratore Giovanni Polizzi, sospettano che i due, fra le tante cose, condizionino alcuni appalti nella sanità lombarda. Agli inizi di ottobre di quell’anno, Di Capua viene contattato dal colonnello dei carabinieri Giovanni Balboni, aiutante di campo del generale Vincenzo Giuliani. I due si conoscono da diverso tempo. Giuliani è al massimo della carriera. Nominato generale di corpo d’armata, è stato appena mandato a comandare l’interregionale carabinieri “Pastrengo”, uno degli incarichi più prestigiosi d’Italia, con competenza sul Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Di Capua e Balboni decidono di organizzare un incontro fra Giuliani e Berlusconi ad Arcore. Mantovani, in qualità di coordinatore regionale del Pdl, si occuperà di prendere un appuntamento con lo staff di Berlusconi. I carabinieri sono di casa ad Arcore, svolgendo ininterrottamente dal 2000 un servizio di vigilanza fissa intorno a villa San Martino. Servizio che non è stato interrotto neppure quando Berlusconi non era più Presidente del Consiglio. Sono telefonate frenetiche quelle fra Di Capua e Balboni. L’agenda di Berlusconi è fitta di impegni. I due si vedono anche presso la sede del comando interregionale “Pastrengo” in via Marcora nel centro di Milano. Tramite il cellulare intercettato di Di Capua, Giuliani parla in diverse occasioni direttamente con Mantovani. Ad uno di questi incontri fra Di Capua e Balboni si presentano anche i finanzieri. Nascosti nel parcheggio antistante la sede di via Marcora, registrano e fotografano tutto. Uno spazio nell’agenda di Berlusconi si libera per il 14 ottobre. Nel pomeriggio. Recarsi ad Arcore è un sorta di “porta fortuna” per i comandanti dell’interregionale “Pastrengo”: i predecessori di Giuliani, il generale Luciano Gottardo e il Generale Gianfrancesco Siazzu, dopo quell’incarico furono nominati comandanti generali dell’Arma. Per il 14 ottobre è tutto pronto. La finanza organizza nei confronti di Giuliani un servizio che nel gergo tecnico si chiama Ocp (osservazione, controllo e pedinamento). Con delle micro telecamere ad infrarosso nascoste in un’auto “civetta”, i finanzieri si appostano davanti villa San Martino e riprendono il generale che arriva nei pressi della residenza dell’ex premier con l’autovettura di servizio. Fino a quando, come si legge nel verbale, parcheggiato il veicolo nei pressi della villa, «scendeva dalla propria auto in dotazione all’Arma ed entrava nella auto Bmw grigia con a bordo l’assessore Mantovani, la quale ripartiva per entrare» nella residenza. Il filmato integrale, con tanto di audio, è agli atti d’indagine. Cosa si siano detti Giuliani e Berlusconi non è dato sapere visto che le riprese si interrompono davanti al cancello di villa San Martino. Difficilmente si saprà qualcosa dai diretti interessati in quanto sia Giuliani che Berlusconi non sono nella lista testi. Giuliani, però, quando alcuni atti di questo incontro finirono sui giornali, diede la sua versione dell’accaduto. «Quando arrivai in Regione, Mantovani (che conoscevo in Piemonte quando era sottosegretario alle Infrastrutture) mi chiese se avessi piacere di salutare Berlusconi. Io accettai anche perché avrei voluto dire al presidente che era appena cambiata tutta la catena gerarchica, e indicare gli interlocutori per qualunque inconveniente relativo ai servizi dell’Arma attorno alla villa». Ma perché il trasbordo sull’auto di Mantovani? «Si offrì lui di portarmi sulla sua auto, che presumo fosse più conosciuta dai guardiani di Arcore. Io valutai di entrarvi non in divisa e non sulla mia auto per non allarmare nessuno: questione di riservatezza, non di carboneria. Non chiesi alcunché a Berlusconi, né l’ho più incontrato». Tranne, appunto, il 14 ottobre del 2013 in un incontro definito dai finanzieri di Milano di “interesse investigativo”.

La mafia è cosa seria: non lasciamola all’antimafia…scrive Piero Sansonetti il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Diceva Georges Clemenceau, statista francese di inizio novecento: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari». Già, aveva ragione. Con la mafia – anzi, con la lotta alla mafia – più o meno è la stessa cosa. È roba troppo seria per lasciarla all’antimafia. La mafia è una organizzazione criminale potente e strutturata che ha dominato – nelle sue varie espressioni l’economia, e in parte anche la politica, nel Mezzogiorno d’Italia, per almeno per un secolo. Negli anni ottanta fu combattuta a fondo da un gruppo coraggiosissimo di magistrati e da settori onesti e seri della politica, e subì una sconfitta dalla quale non si è ripresa. Oggi la mafia non è più la feroce e potente organizzazione che era trent’anni fa, tuttavia esiste ancora e controlla la parte maggiore dell’attività criminale in quasi tutte le regioni del Sud. Ha perso molto del suo potere militare e della sua egemonia culturale, gode di protezioni assai più limitate di un tempo, ha difficoltà a permeare la società civile. La mafia è una cosa seria, non lasciamola all’antimafia. Però è viva, è pericolosa, funziona ancora molto bene e ancora dispone di legami sociali forti e anche di agganci politici. Sarebbe una follia smettere di combatterla. Sul piano giudiziario e sul piano politico. È possibile oggi combattere la mafia, così come negli anni ottanta la combatterono Falcone e Borsellino? È possibile, ma c’è un ostacolo nuovo: l’antimafia. Capisco che è un paradosso, ma è così. Esiste un settore molto largo dell’intellighenzia, dell’informazione, della politica, della magistratura, della Chiesa, e anche della società civile, che da una ventina d’anni ha messo in piedi un apparato ramificato di organizzazioni antimafia, le quali hanno trasformato in un grande affare il lavoro di quelli che trent’anni fa erano in prima linea. Oppure lo hanno trasformato in ideologia, o in un’occasione di lotta politica. Questa antimafia, che pure trae origine dalla lotte aspre e coraggiose combattute tanti anni fa, è diventata il primo ostacolo alla lotta alla mafia, perché ha smesso di occuparsi della mafia come fenomeno sociale e criminale, e l’ha trasformata in “bersaglio ideologico”, da usare per finalità del tutto diverse dalla lotta per ristabilire la legalità. La stessa legalità è diventata una specie di feticcio, oppure di clava, che si adopera per lo svolgimento di battaglie politiche puramente di potere. Il primo a denunciare questo fenomeno, in tempi non sospetti, e molto prima che il fenomeno assumesse le dimensioni larghissime e di massa che ha oggi, fu Leonardo Sciascia. E Leonardo Sciascia era stato precedentemente l’intellettuale italiano che aveva lanciato nel deserto, nel silenzio generale, i primi anatemi contro Cosa Nostra. «Il Giorno della civetta» è un romanzo che Sciascia scrisse nel 1961. In quel periodo i giornali non parlavano mai di mafia. Molti negavano che esistesse. Molti politici e molti magistrati avevano la stessa posizione: la mafia è un’invenzione della letteratura. Leonardo Sciascia, che la Sicilia la conosceva bene, sosteneva il contrario e, come sempre nella sua vita, era ascoltato quasi da nessuno. Il suo libro diventò un film solo sette anni dopo la sua pubblicazione, per merito di un regista come Damiano Damiani. Il film ebbe successo, ma come film di avventura non come film di denuncia. Beh, è stato proprio Sciascia, quasi trent’anni più tardi, a indicare il fenomeno emergente dei professionisti dell’antimafia. E, quando lo fece, rimase di nuovo isolato.

Oggi esistono due modi sbagliati per fare antimafia. Il primo è politico, il secondo è giudiziario.

L’antimafia politica è quella della retorica e della criminalizzazione. Ci sono dei gruppi che si autoproclamano sacerdoti del tempio, e dispensano condanne e assoluzioni. Pretendono l’esclusiva dell’autografo antimafia. Se ne infischiano della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usano la lotta alla mafia per ottener vantaggi politici, per colpire gli avversari, per scomunicare, per guadagnare potere. Qualche esempio? Basta seguire l’attività dell’antimafia della Bindi, che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto, molto spregiudicato. Com’era l’Inquisizione.

L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosità” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, naturalmente, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato- mafia. Un processo che sul piano giudiziario non sta in piedi neppure con il vinavil, ma che ha reso celebri i Pm che ne sono stati protagonisti e ne ha irrobustito le carriere. Il processo sulla trattativa inesistente, per anni, fino ad oggi, ha preso il posto alle grandi e vere inchieste antimafia. Che sono scomparse. Se pensate alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite sul lavoro duro, e che portarono alla condanna di tutto il gotha di Cosa Nostra, e le confrontate con la messa in scena dello Stato- Mafia, capite bene quale è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia- spettacolo. E qual è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia- Barnum. Poi c’è un secondo modo sbagliato di usare l’antimafia. Certo più sostanzioso, meno vanesio, ma anche questo scorretto. È l’abitudine di usare comunque l’aggravante mafiosa, anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. È la famosa questione del doppio binario della giustizia. L’abbiamo vista bene anche in occasione del processo di Roma (mafia capitale), quello che si è concluso l’altroieri con molte condanne ma con la proclamazione che la mafia non c’entra. Il fine giustifica i mezzi? No, almeno nel campo del diritto, il fine non giustifica i mezzi. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale, non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia. Cioè alle cosche reali. Quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile. Per riprendere questa battaglia bisogna avere il coraggio di dire apertamente che l’antimafia professionale va spazzata via – nelle Procure, nei partiti e soprattutto nel giornalismo – e che l’uso dell’antimafia come strumento per lotte politiche di potere è un atteggiamento devastante per la società, più o meno come lo è l’atteggiamento della mafia. A chi tocca aprire questa battaglia? Alla politica. Toccherebbe alla politica e all’intellettualità. Voi vedete in giro qualche esponente politico che abbia il coraggio di avviare una battaglia di questo genere? O qualche intellettuale? 

PARLIAMO DI MASSONERIA E DI CHI COMANDA IL MONDO.

Caccia agli elenchi degli iscritti. La mossa di Bindi agita i massoni. Grande Oriente d’Italia, Antimafia pronta al sequestro. Loro: «I nomi saranno tutelati?», scrive Fabrizio Caccia il 19 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ora i «fratelli» sono tutti preoccupati, dice Stefano Bisi, Gran maestro del Grande Oriente d’Italia, la comunione massonica più vasta del nostro Paese, con le sue 850 logge e i quasi 23 mila iscritti. Rosy Bindi, la presidente della commissione parlamentare Antimafia, sembra decisa a far sequestrare entro fine mese (dalla Guardia di Finanza) gli elenchi del Grande Oriente d’Italia per chiarire i rapporti tra mafia e massoneria, specie in Sicilia, dalle parti di Castelvetrano, la terra di Matteo Messina Denaro, il capo dei capi di Cosa Nostra, dove da anni, insieme alle zagare, fioriscono anche le logge. «Ma chi ci garantisce che tutti i nomi presenti nei nostri elenchi verranno effettivamente tutelati? — protesta il Gran maestro Bisi —. Se uno è massone e lo vuole dire pubblicamente, d’accordo. Ma se uno non lo vuol dire, perché dev’essere obbligato? In Italia, mi pare, esiste il diritto alla privacy...». Già, diritto sacro e inviolabile. Anche se i massoni del Terzo Millennio ormai vanno in televisione, scrivono libri, organizzano convegni e appongono grandi targhe sui loro portoni («Avete visto la scritta che abbiamo messo davanti alla sede di Milano, vicino alla Stazione Centrale? Se la batte con la pubblicità dello Stock 84...», Bisi dixit). Insomma, la segretezza è diventata un optional. Tanto che quando è stato arrestato il «fratello» Giulio Occhionero con l’accusa di aver rubato migliaia di file dalle mail di politici e manager di Stato, oltre a essere entrato nei sistemi informatici di numerose aziende, in molti hanno sentito il bisogno di rilasciare interviste a giornali e tv. Ora invece si dicono preoccupati: «Se escono gli elenchi, specie in una città papalina come Roma, con un’antica tradizione antimassonica, sono in tanti a temere conseguenze, qualcuno potrebbe finire addirittura licenziato...», afferma l’ingegner Giacomo Manzo, 90 anni, membro del Goi del Lazio, che dopo lo scandalo dei presunti cyber spioni non ha voluto comunque lasciare la loggia «Paolo Ungari-Nicola Ricciotti – Pensiero e azione» di Roma, di cui era stato «maestro venerabile» proprio Occhionero, ancora a Regina Coeli.

L’accostamento massone-mafioso, però, lo trovano offensivo: «Noi a Castelvetrano - dice il Gran maestro del Goi - abbiamo una sola loggia, la “Francisco Ferrer”, composta di 40 fratelli. E sono già stati loro, spontaneamente, a consegnare alla Digos i registri. Ma io non mi posso portare il peso sulle spalle anche di quelli che non conosco: in Italia ci sono almeno un’ottantina di altre obbedienze massoniche e sta alla polizia, alla magistratura, andare a scandagliarle. Noi che c’entriamo?».

Si mette sulla stessa lunghezza d’onda Gioele Magaldi, Gran maestro del Grande Oriente d’Italia Democratico, movimento massonico d’opinione, di natura più trasversale e sovranazionale: «Le comunioni massoniche sono tutte associazioni legali — obietta Magaldi, autore nel 2014 del libro Massoni società a responsabilità illimitata — e lo stato di diritto che si vuole garantire con la lotta alla mafia si tutela pure con il rispetto della privacy di chi troppo spesso in Italia è stato oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe. I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste...». «E già — ancora il Gran maestro Bisi — ci vedono come tanti piccoli Licio Gelli che stanno sempre a tramare nell’ombra coi loro guanti e coi loro grembiulini. Invece non sapete niente di noi, delle nostre raccolte fondi per illuminare il campo sportivo di Norcia o per ricostruire il liceo musicale di Camerino. E non ci sono logge, badate!, a Norcia e a Camerino. La fratellanza, da sempre, vuol solo dare una mano al mondo e lavorare per la gloria del grande architetto dell’universo, il Dio che ogni massone si porta dentro...».

Addirittura si vanta perché c’è una nuova iniziativa, quella del camper odontoiatrico dei «fratelli dentisti» pronto a partire oggi stesso da Torino per girare l’Italia offrendo cure gratis ai profughi, «ma la burocrazia ce lo impedisce». E tanto basta a dimostrare che di segretezza neanche a parlarne visto che gli appuntamenti sarebbero nelle piazze.

La verità sull’articolo censurato da Caccia riportata dal Sito “Grande Oriente d’Italia Democratico”. Intervista integrale concessa dal Gran Maestro Gioele Magaldi al Corriere della Sera su perquisizioni e demonizzazioni antimassoniche propugnate da Rosy Bindi e dalla Commissione antimafia. GOD diffida Rosy Bindi e la Commissione antimafia dal proseguire nella caccia alle streghe contro i massoni peones delle Comunioni ordinarie e invita piuttosto ad indagare i livelli massonici sovranazionali neoaristocratici, che hanno devastato e devastano l’interesse pubblico e popolare mediante leggi costituzionali nefaste e attività bancarie verminose. Caccia antimassonica alle Streghe di Rosy Bindi e Commissione antimafia: l’intervista di Gioele Magaldi al Corriere della Sera, e rendiamo pubblico, per la prima volta, il testo integrale dell’Intervista concessa dal Gran Maestro del GOD al giornalista Fabrizio Caccia, del Corriere della Sera. Testo integrale che non è stato mai pubblicato, limitandosi, il suddetto Caccia, nel corpo dell’articolo: “Caccia agli elenchi degli iscritti. La mossa di Bindi agita i massoni”, articolo di Fabrizio Caccia per il Corriere della Sera. A riportare queste sintetiche e incomplete valutazioni:

Si mette sulla stessa lunghezza d’onda Gioele Magaldi, Gran maestro del Grande Oriente d’Italia Democratico, movimento massonico d’opinione, di natura più trasversale e sovranazionale: «Le comunioni massoniche sono tutte associazioni legali — obietta Magaldi, autore nel 2014 del libro Massoni società a responsabilità illimitata — e lo stato di diritto che si vuole garantire con la lotta alla mafia si tutela pure con il rispetto della privacy di chi troppo spesso in Italia è stato oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe. I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste...».

Invece, il testo delle dichiarazioni integrali rilasciate da Magaldi era il seguente e faceva seguito a queste domande, inviate per iscritto, da Fabrizio Caccia:

(FABRIZIO CACCIA) “Allora: viene prima il diritto alla privacy del massone o l’interesse dello Stato a sapere se negli elenchi si cela un mafioso? E’ possibile dire quanti sono i massoni in Italia? Quante obbedienze? Si è prevenuti verso i massoni? C’è una sorta di pregiudizio negativo o è colpa della troppa segretezza? Guanti, grembiuli, squadra e compasso non sono un po’ superati?

(GIOELE MAGALDI): “Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al GOI e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali e lo stato di diritto che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi - i massoni ordinari e per lo più inoffensivi - troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe. I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste. Piuttosto, inviterei Rosy Bindi a chiedere conto al senatore a vita Mario Monti e all’ex presidente Giorgio Napolitano delle influenze nefaste che le loro rispettive superlogge di appartenenza “Babel Tower” e “Three Eyes” hanno avuto sulla vita istituzionale e socio-economica dell’Italia. In effetti, citando esplicitamente e mettendo agli atti il mio libro “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges, Chiarelettere, senatori (Laura Bottici in particolare) e deputati M5S hanno presentato interrogazioni parlamentari sugli inquietanti legami massonici sovranazionali di ispirazione neoaristocratica che hanno ispirato l’incarico di governo dato dal ‘fratello’ Napolitano al ‘fratello’ Monti nel 2011, inaugurando uno degli esecutivi più rovinosi della storia della repubblica. Le principali Comunioni massoniche in Italia sono il GOI, la Gran Loggia d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia e la Camea, guidata dal mio fraterno amico Roberto Luongo. Poi vi sono una moltitudine di Comunioni/Obbedienze minori, per un totale di qualche decina di migliaia di massoni ordinari. Ma, in Italia, come altrove, a contare davvero non sono più queste Comunioni (federazioni di logge su base nazionale), bensì le reti delle superlogge sovranazionali (Ur-Lodges). Di tali reti ho parlato nel best-seller “Massoni”, edito nel novembre 2014 in Italia, che il 7 febbraio 2017 verrà pubblicato in traduzione spagnola da Kailas Editorial e in via di pubblicazione anche in lingua francese, inglese, tedesca, russa, cinese, araba, ecc. Per capire la natura e le ragioni storiche dei pregiudizi italioti verso la Massoneria e soprattutto per comprendere come i massoni delle reti sovranazionali abbiano costruito la contemporaneità, le società aperte, libere, democratiche, laiche, tolleranti e fondate sullo stato di diritto, oltre che l’attuale società globalizzata (nel bene e nel male), e infine per capire come il back o high-office del potere globale sia tuttora costitutivamente massonico, invito alla lettura di “Massoni”, il cui sottotitolo “Società a responsabilità illimitata” lascia intuire qualcosa su cui i media faranno bene a riflettere con minore superficialità di quella adottata sinora”.

Massoni: Società a Responsabilità Illimitata - Libro. La Scoperta delle Ur-lodges, Laura Maragnani, Gioele Magaldi. Gioele Magaldi è uno storico, politologo e filosofo, ex Maestro Venerabile della loggia "Monte Sion di Roma" (Goi), già membro della Ur-Lodge "Thomas Paine”, è Gran Maestro del movimento massonico “Grande Oriente Democratico” (God). Fautore di un impegno solare e progressista della massoneria, ha dato vita anche a “Democrazia Radical Popolare” (Drp) e al "Movimento Roosevelt" (Mr). Esperto di filosofia e cultura rinascimentale, è anche studioso delle correnti spirituali eterodosse ed esoteriche nell’Europa moderna e contemporanea. Tra le sue pubblicazioni: Ut Philosophia poesis (Pericle Tangerine) e Alchimia. Un problema storiografico ed ermeneutico (Mimesis).

Descrizione. Sedetevi e fate un bel respiro: qui trovate storia, nomi e obiettivi dei massoni al potere in Italia e nel mondo, raccontati da autorevolissimi insider del network massonico internazionale, che per la prima volta aprono gli archivi riservati delle proprie superlogge (Ur-Lodges). Le liste che leggerete sono sconvolgenti. Una battaglia per la democrazia. Tra le Ur-Lodges neoaristocratiche, che vogliono restaurare il potere degli oligarchi, e quelle progressiste, fedeli al motto "Liberté Égalité Fraternité", è in corso una guerra feroce. L'ultimo atto è già iniziato, come rivela Magaldi con la rottura della pax massonica stilata nel 1981: il patto "United freemasons for globalization". Una rilettura esplosiva del Novecento nei suoi momenti più drammatici - la guerra fredda, gli omicidi dei fratelli Kennedy e di M. L. King, gli attentati a Reagan e a Wojtyla - arrivando fino al massacro dell'11 settembre 2001 e all'avanzata dell'Isis. "Massoni. Società a responsabilità illimitata. "La scoperta delle Ur-Lodges" è il primo volume di una trilogia che offre un'inedita radiografia del potere.

Sedetevi e fate un bel respiro: qui trovate storia, nomi e obiettivi dei massoni al potere in italia e nel mondo, raccontati da autorevolissimi insider del network massonico internazionale, che per la prima volta aprono gli archivi riservati delle proprie superlogge (ur-lodges). Le liste che leggerete sono sconvolgenti. Lo sapevate che Angela Merkel e Vladimir Putin sono stati iniziati alla stessa ur-lodge, la golden eurasia? e che l’isis è manipolato da superfratelli assolutamente indifferenti all’islam? da Barack Obama a Xi Kimping, da Mario Draghi a Giorgio Napolitano, da Christine Lagarde a Pier Carlo Padoan, passando per Gandhi, Reagan, Mandela, Agnelli, Clinton e Blair, ecco i grembiulini che hanno segnato la storia del novecento e dei primi anni duemila. Una battaglia per la democrazia. Tra le ur-lodges neoaristocratiche, che vogliono restaurare il potere degli oligarchi, e quelle progressiste, fedeli al motto liberté égalité fraternité, è in corso una guerra feroce. L’ultimo atto è già iniziato, come rivela magaldi per la prima volta, con la rottura della pax massonica stilata nel 1981: il patto united freemasons for globalization. Una rilettura esplosiva del novecento nei suoi momenti più drammatici – la guerra fredda, gli omicidi dei fratelli Kennedy e di M.L. King, gli attentati a Reagan e a Wojtyla – arrivando fino al massacro dell’11 settembre 2001 e all’avanzata dell’isis in questi giorni. Massoni società a responsabilità illimitata. La scoperta delle ur-lodges è il primo volume di una trilogia che offre un’inedita radiografia del potere.

Massoneria, libro shock del gran maestro Magaldi: “Ecco i potenti nelle logge”. Centinaia di nomi, tra cui Napolitano, Obama, Draghi, Bin Laden e Papa Giovanni XXIII. Tutti "fratelli" secondo l'autore del volume presentato domani a Roma. Che però dice: "Le prove le esibiscono soltanto se me le chiede il giudice", scrivono Gianni Barbacetto e Fabrizio Desposito il 19 novembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Gioele Magaldi, quarantenne libero muratore di matrice progressista, ha consegnato all’editore Chiarelettere (che figura tra gli azionisti di questo giornale) un manoscritto sconcertante e che sarà presentato domani sera alle 21 a Roma, a Fandango Incontro. Il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, è intitolato Massoni società a responsabilità illimitata, ma è nel sottotitolo la chiave di tutto: La scoperta delle Ur-Lodges. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico, in polemica con il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro Paese, in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli. I documenti che mancano sono a Londra, Parigi e New York. Prima però di addentrarci nelle rivelazioni clamorose di Massoni è d’obbligo precisare, come fa Laura Maragnani, giornalista di Panorama che ha collaborato con Magaldi e ha scritto una lunga prefazione, che l’autore non inserisce alcuna prova o documento a sostegno del suo libro, frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti depositati in studi legali a Londra, Parigi e New York. Detto questo, andiamo al dunque non senza aver specificato che tra le superlogge progressiste la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha. Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges e finanche i vertici della fu Unione Sovietica, a partire da Lenin per terminare a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario. In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: “Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi. E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti”. Altri affiliati: Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie. “Il vero potere è massone”. E descritto nelle pagine di Magaldi spaventa e fa rizzare i capelli in testa. Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici, persino Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista. L’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: “Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi”. Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Ecco l’elenco degli italiani nelle Ur-Lodges: Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago. Bisognerà aspettare le “contestazioni”, per vedere le carte di Magaldi. Da Il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2014

Giuseppe Garibaldi, mercenario dei due mondi. Scritto da Alessandro Lattanzio, il 24/6/2011 su “Aurora”. Per mettere un pietra tombale sul mito di Garibaldi. I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, e per il 150° anniversario dallo sbarco a Marsala e dalla proclamazione della cosiddetta Unità d’Italia, pur con tutto lo stantio corteo di corifei e apologeti, non hanno suscitato dibattiti né analisi sul processo di unificazione dell’Italia. Questi eventi non sono diventati occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente. Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall’Unità ad oggi. Anzi, il General Intellect italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di ‘memorie’ dei garibaldini, veri o presunti poco importa, spacciandola come lavoro storico e di analisi storica. Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l’Italia è la patria delle ‘memorie’ scritte per secondi fini politico-personalistici. Inoltre, voler costruire la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria… appunto parziale, ha più il sapore dell’opera di indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica. Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell’Italia quale nazione unica, e dell’italianità quale sentimento patriottico, alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto risorgimento sentano il bisogno di ravvivare un patriottismo nazionale che almeno salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità unitaria. Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell’Italia. La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento di forze superiori, ma non sto parlando della Storia con la S maiuscola, ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali, commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti imperialismi, l’equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini sull'eroe dei due mondi e sul Cincinnato di Caprera. Partiamo, quindi, dall’analizzare il ruolo e la posizione dell’obiettivo principe della più notoria spedizione dell’avventuriero nizzardo: la Sicilia. La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata, almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale, sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave siciliana la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e gli Stati Uniti d’America. Marineria avanzata per sostenere una avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana arretratezza feudale. Ma il fiore all’occhiello dell’economia siciliana era rappresentata da una risorsa strategica, all’epoca, ovvero lo zolfo. Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato per la produzione di sostanze chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti, insetticidi; oltre che per produrre beni di uso quotidiano, come i fiammiferi. Era insomma il lubrificante del motore dell’imperialismo, soprattutto di quello inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e non solo, ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Perciò, i processi produttivi connessi richiedono sempre più ampie quantità di zolfo; cosi come la richiedono l’economia moderna tutta, industriale e commerciale. Tipo quella dell’Impero Britannico. La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà dell’800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l’Isola possedeva 400 miniere di zolfo che, all’epoca, coprivano circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini. Come poteva, l’Isola, essere ignorata dai centri strategici dell’Impero di Sua Maestà? Come potevano l’Ammiragliato e la City trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l’arteria principale dei traffici commerciali e marittimi dell’Impero Britannico. Come potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari d’Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all’epoca, il Regno di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta commerciale inglese? Come potevano? Il General Intellect dell’imperialismo inglese, il maggiore dell’epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo italidiota dei cantori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi trascurabili elementi. La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o di certe ‘storiche’ contemporanee venete che, invece delle vicende dell’assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo. Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che attuarono quella vera e propria False Flag Operation detta Spedizione dei Mille, giova ricordare che Garibaldi, dopo la riuscita missione (covert operation), venne accolto presso la Loggia Alma Mater di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-scozzese. La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito scrisse un testimone diretto dell’evento. Un tal Karl Marx. Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso utile alla causa dell’impero britannico. In America Latina, quando gli inglesi, tramite l’Uruguay, favorirono la secessione della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul dall’impero brasiliano, alimentandola guerra civile in Brasile, Garibaldi venne assoldato per svolgere il ruolo di raider, ovvero incursore nelle retrovie dell’esercito brasiliano. Il suo compito fu di sconvolgere l’economia dei territori nemici devastando i villaggi, bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete dei suoi uomini. Durante quelle azioni, Garibaldi ebbe la guida delle forze navali riogradensi. “Il 14 luglio 1838, al comando della sua nave, la Farroupilha, affrontò la navigazione sull’Oceano Atlantico, ma a causa del mare in tempesta e dell’eccessivo carico a bordo, la Farroupilha si rovesciò. Annegarono sedici dei trenta componenti dell’equipaggio, tra cui gli amici Mutru e Carniglia; il nizzardo fu l’unico italiano superstite.” Dimostrando, così, il suo vero valore sia come comandante militare, che come comandante di nave. Per la sua inettitudine e crudeltà, tanti di coloro che lo circondavano morirono per causa sua. Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita della repubblica-fantoccio del Rio Grande do Sul, rientrava nel processo di controllo e consolidamento del flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del Rio de la Plata; la regione economicamente più interessante per la City. Escludere l’impero brasiliano dalla regione era una carta strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, al soldo dell’Uruguay, provocò la guerra civile brasiliana. La borghesia compradora di Montevideo era legata da mille vincoli con l’impero inglese. Ivi Garibaldi svolse sufficientemente bene il suo compito. Divenne un bravo comandante militare, sia grazie ai consigli di un carbonaro suo sodale, tale Anzaldo, e sia perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria, che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria. Ma alla fine la guerra fu persa, e nel 1842 Garibaldi si rifugiò in Uruguay, dove ottenne il comando della insignificante flotta locale. “Il diplomatico inglese William Gore Ouseley lo assolda assieme ad altri marinai per fare razzie e impedire i traffici marini degli stati latinoamericani. Erano tutti vestiti con camicie rosse.”  Tentò di pubblicare il Legionario Italiano, ma la sua distribuzione venne vietata in Uruguay: si era attirato l’odio della popolazione locale; per i continui massacri di inermi cittadini veniva visto come il demonio. E’ grazie agli articoli di quel giornale, da lui stesso pubblicato, che nacque la leggenda dell’Eroe dei due mondi. Tra l’altro, l'anticlericale Garibaldi, nel 1847 scrisse al cardinal Gaetano Bedini, nunzio in Brasile, per “offrire a Sua Santità (Pio IX) la sua spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa cattolica” ricordando “i precetti della nostra augusta religione, sempre nuovi e sempre immortali” pur sapendo che “il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. La sua proposta di mettersi al soldo del cupolone venne respinta. Qualche anno dopo, l’eroe dei due mondi venne richiamato a Londra, distogliendolo dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire l’‘emancipazione’ semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankees. Coloro che richiesero l’intervento di Garibaldi, in Sicilia, effettivamente furono due siciliani, Francesco Crispi e Giuseppe La Farina. Crispi venne inviato a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l’allarme al gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte, le miniere e la produzione dello zolfo. Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni proprietari delle miniere, stante l’alto margine di profitto ricavato dal lavoro non retribuito, e timorosi che l’interventismo economico della ‘arretrata amministrazione borbonica’, potesse sottrarre loro il controllo dell’oro rosso, decisero di chiedere l’intervento britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del capitale imperiale inglese. Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro eroe dei due mondi. E i ‘carusi’ delle miniere solfifere devono ringraziare Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione semischiavista si è protratta fino agli anni ’50 del secolo scorso. Le due navi della Rubattino, della Spedizione dei Mille, arrivarono a Marsala l’11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della marina napoletana o una compagnia del corpo d’armata borbonico, forte di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Landi. In compenso era presente una squadra della Royal Navy, la Argus e l‘Intrepid, posta nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come previsto. I 1089 garibaldini, di cui almeno 19 inglesi. In realtà, erano solo l’avanguardia del vero corpo d’invasione; tra giugno e agosto, infatti, sbarcò in Sicilia un’armata anglo-piemontese di 21000 soldati, per lo più mercenari anglo-franco-piemontesi, che attuarono, già allora, la tattica di eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze armate. Il corpo era costituito, in maggioranza, da carabinieri e soldati piemontesi, momentaneamente posti in congedo o disertori riarruolati come volontari nella missione d’invasione, e anche da qualche migliaio di ex zuavi francesi, che avevano appena esportato la civiltà nei villaggi dell’Algeria e sui monti della Kabilya. Anche nei pressi di Pachino, sbarcò un piccolo corpo di spedizione garibaldino, costituito da 150 uomini, che trasportavano in Sicilia i quattro cannoni acquistati a Malta dagli sponsor inglesi dell’invasione. Inoltre, erano presenti dei veri e propri volontari/mercenari, finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi; si trattava di un misterioso reggimento di uomini in divisa nera, comandati da tal John Dunn. Infine, i 21000 invasori furono protetti da ben quaranta tra vascelli e fregate della Mediterranean Fleet della Royal Navy. Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e l’8.vo battaglione cacciatori napoletani, del 15 maggio, si risolse ufficialmente nella sconfitta di quest’ultima. Fatto sta che nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite dell’esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di feriti, i garibaldini vennero letteralmente sbaragliati, subendo circa 30 morti e 100 feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i soldati napoletani che cozzarono con l’avventuriero Garibaldi dovettero sì abbandonare il campo, ma perché il comandante di Palermo, generale Landi, aveva loro negato l’invio di rifornimenti e di munizioni, costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l’impeto con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l’avanzata su Palermo. L’armata di Landi, di circa 16000 uomini, era accampato nei pressi di Calatafimi, ma il generale napoletano preferì ritirarsi e rinchiudersi a Palermo. A Palermo, il 28 maggio 1860, dopo due gironi di scontri presso Porta Termini, nell’allora periferia della capitale siciliana, contro un centinaio di soldati napoletani, i garibaldini entrarono in città. Il comandante della guarnigione borbonica, Generale Lanza, sebbene avesse il comando di ben 24000 uomini e fosse sostenuto dall’artiglieria della pirofregata Ercole, li fece invece asserragliare nel palazzo del governatore, e quando parte delle truppe napoletane respinsero i garibaldini, arrivando a cento metri dal posto di comando di Garibaldi, ricevettero l’ordine di ritirata dal Lanza stesso, che l’8 giugno decise di consegnare la città agli anglo-garibaldini. Contribuì alla decisione, probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di piastre d’oro turche. La moneta franca del Mediterraneo. Il 31 maggio, a Catania, sebbene i garibaldini occupassero la città, nell’arco di ventiquattrore vennero sloggiati dalle truppe napoletane comandate da Ruiz-Ballestreros. Ma anche costui ricevette l’ordine di ritirata dal comandante della piazza di Messina, generale Clary, che a sua volta, col pieno appoggio del corrotto e fellone ministro della guerra di Napoli, Pianell, abbandonò Messina il 24 luglio. Rimase a resistere la cittadella, che cadde quando cedette anche Gaeta. L’avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d’invasione che li seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo. Qui, il 20 luglio, la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 120 morti tra i napoletani guidati dal Colonnello Beneventano del Bosco, le ‘camicie rosse’ al comando del primo luogotenente di Garibaldi, Medici, subirono ben 800 caduti in azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con l’onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando, all’orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo d’invasione mercenario, e dopo che la pirocorvetta ex-napoletana Veloce, ribattezzata Tukory, al comando del disertore Amilcare Anguissola, bombardasse parte delle truppe napoletane schierate sulla spiaggia. Inoltre, le navi napoletane, lasciarono che il corpo anglo-piemontese sbarcasse alle spalle della guarnigione nemica di Milazzo. Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli dell’esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito sabaudo. Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave statunitense carica di non meglio identificati soldati (i notori mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto di Messina, la squadra napoletana (pirofregata Ettore Fieramosca, pirocorvette L’Aquila e Fulminante) evitò di ostacolare, ai garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a Garibaldi e a Bixio, a bordo dei piroscafi Torino e Franklin (battente bandiera statunitense), di sbarcare il 18 agosto, a Mileto Porto Salvo, in Calabria. La guarnigione di Reggio si arrese senza sparare un colpo, mentre il generale napoletano Briganti venne fucilato a Mileto dalla sua truppa, per fellonìa. Dal reggino in poi, fu una corsa fino all’entrata ‘trionfale’ a Napoli, dove Garibaldi fece subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: i suoi ufficiali fecero sparare sugli operai di Pietrarsa, poiché si opponevano allo smantellamento delle officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire dall'arretrata amministrazione borbonica. Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise il prosperare, nell’ambito della proprio apparato amministrativo e di governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola delle guerre. In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l’esercito piemontese a nord. E quindi l’assedio di Gaeta e Ancona, e poi la guerra civile nota come Guerra al Brigantaggio. Una guerra che costò, forse, 300000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d’Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana. La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa; poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta Rivolta del Sette e mezzo, che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si riscattò dalla sconfitta di Lissa, subita qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Poco dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli yankees contro gli indiani nativi d’America. Migliaia e migliaia di morti in Sicilia. Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni; la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l’emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall’ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo forse legato al battaglione Vega della X.ma MAS, e che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto Milazzismo e a una certa professionalizzazione dell'antimafia (che va a braccetto con quella di certo antifascismo) dei giorni nostri. Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto. Rendiamoci conto di una cosa; Garibaldi non agiva in quanto massone, ma in quanto agente dell’impero inglese. Tra l’altro come afferma Lucy Riall, Garibaldi era una aderente alla setta cristologica di Saint Simon. Ora, come spiega benissimo lo Storico dell’Economia Paul Bairoch, la setta cristologica (nemica del papato) guidata dal guru Saint Simon, aveva come scopo occulto il favoreggiamento dell’imperialismo londinese. Nel saggio di Bairoch, Economia e Storia Mondiale Garzanti, a pag. 38 si può leggere: “Quel che i protezionisti francesi (…) chiamarono Coup d’état fu rivelato da una lettera di Napoleone III al suo ministro di stato. Ciò rese pubblici i negoziati segreti, che erano cominciati nel 1846, con l’incontro a Parigi tra Richard Cobden (apostolo inglese del libero scambio, legato all’industria inglese) e Michel Chevalier, seguace di Saint Simon e professore di economia politica. Il trattato commerciale tra Inghilterra e Francia venne firmato nel 1860 (notare la data), e doveva durare 10 anni. Fu trovato il modo di eludere la discussione al parlamento (francese), che probabilmente sarebbe stata fatale per il progetto di legge. Perciò un gruppo di teorici riuscì a introdurre il libero scambio in Francia e, di conseguenza, nel resto del continente, contro la volontà della maggior parte di coloro che guidavano i diversi settori dell’economia. La minoranza a favore del liberoscambismo, che era energicamente sostenuta da Napoleone III (un vero utile idiota, NdR), il quale era stato convertito a questa dottrina durante le sue lunghe permanenze in Inghilterra e che vedeva le implicazioni politiche del trattato. Il trattato anglo-francese, che fu rapidamente seguito da nuovi trattati tra la Francia e molti altri paesi, condusse a un disarmo tariffario dell’Europa continentale… Tra il 1861 e il 1866, praticamente tutti i paesi europei entrarono in quella che fu definita ‘la rete dei trattati di Cobden’.” Garibaldi, seguace della setta di SaintSimon, a sua volta legata ai circoli dominanti inglesi, effettuò l’azione contro il Regno delle Due Sicilie, con il preciso scopo sia di possedere un’Isola (la Sicilia) strategica sia sul piano geo-economico che geo-strategico, ma anche di eliminare un concorrente, Napoli, che aveva le carte in regola per non cadere nella rete di Cobden. Il resto, sulle gesta di Garibaldi, dell’assassino schiavista Nino Bixio, ecc., è solo fuffa patriottarda italidiota.

Quando Garibaldi, i garibaldini e l’Unità d’Italia legittimarono mafia e camorra, scrive il 26 agosto 2016 Ignazio Coppola su "Time Sicilia". Ieri, nella quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille, abbiamo sottolineato il ruolo di Garibaldi e dei garibaldini in quella che, alla fine, è stata la prima trattativa tra Stato italiano allora nascente e mafia. Oggi approfondiamo l’argomento avvalendoci della testimonianza di storici e valenti magistrati che si sono occupati di mafia e di rapporti tra la stessa mafia e lo Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860 infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice; i fratelli Sant’Anna di Alcamo; i Miceli di Monreale; il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo,  Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con  le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.  E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia dei primi anni ’80 del secolo passato, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo – ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte, tra gli altri, gli allora giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione, a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e, successivamente, con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, ha insanguinato la nostra terra per iniziare con  la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Su Paolo Borsellino le nuove risultanze processuali hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi. Così abbiamo appreso che si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia”. Per essersi opposto alle connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgente continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro. Connivenze criminali che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

La politica usa la storia tra feste nazionali e memoria "di Stato". La proliferazione di ricorrenze e leggi chiude la porta a letture differenti dei fatti. E lo dice un uomo che ha subito il peso della Shoah..., scrive Francesco Perfetti, Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". Alcuni anni or sono Pierre Nora, il grande storico accademico di Francia e capostipite di un filone storiografico basato sui «luoghi della memoria», fu l'animatore insieme a René Rémond di un'associazione chiamata «Liberté pour l'histoire» che promosse un appello contro i rischi della «moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale». Quel documento, firmato da un gruppo di studiosi di formazione diversa da Pierre Milza a Mona Ozouf, da Marc Ferro a Paul Veyne , sosteneva che «la storia non deve essere schiava dell'attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti» e si rivolgeva ai politici di ogni schieramento perché comprendessero che «se hanno l'obbligo di custodire la memoria collettiva, con devono istituire, con una legge e per il passato, delle verità di Stato la cui applicazione giudiziaria» avrebbe potuto avere «gravi conseguenze per il mestiere dello storico e per la libertà intellettuale in generale». Il documento suscitò molte polemiche ma riscosse anche molti consensi, ed era un autorevole atto d'accusa contro ogni forma di «storia ufficiale» o ideologica, contro la gestione politica della memoria collettiva. Nora è uno studioso di origine ebraica che ha saputo coniugare l'attività di ricerca accademica con il lavoro di direttore editoriale di una importante casa editrice francese. La sua preoccupazione principale è sempre stata quella di contribuire al recupero del senso di appartenenza nazionale da parte dei francesi, troppo a lungo indottrinati dalla versione resistenziale della guerra imposta alla memoria collettiva e nazionale dal generale Charles de Gaulle in un famoso discorso in cui aveva sostenuto che, con l'eccezione di poche pecorelle smarrite, tutta la Francia era entrata nella Resistenza. Per Nora ciò non era vero perché un tale approccio metteva in ombra o sottovalutava tradizioni storiche diverse. Il punto fondamentale, tuttavia, era che l'imposizione di questa vulgata implicava una «politicizzazione della storia» sotto «il peso della contemporaneità» e con una «chiusura nel presente»: si consumava un «allontanamento dal passato» e si realizzava «il consumo generalizzato di una storia senza nessun possibile ricorso alla minima forma di discriminazione critica». In un piccolo ma succoso libro, introdotto da Antoine Arjakosky, dal titolo Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato (La Scuola, pagg. 96, euro 8,50), Nora sottolinea, con riferimento alla Francia (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi), come fossero apparsi nell'ultimo ventennio due fenomeni, paralleli e in certa misura collegati, rivelatori della tendenza mistificatrice a leggere e considerare il passato con gli occhi della contemporaneità e della visione politica dominante. I due fenomeni sono la proliferazione delle ricorrenze nazionali e le leggi sulla memoria storica. Nora ricorda come, fra il 1880 e il 1990, fossero state istituite soltanto sei festività a carattere nazionale (tra le quali quella del 14 luglio e quella dedicata a Giovanna d'Arco), mentre nel solo periodo 1990-2005 ne fossero state create altre sei (come quelle che ricordano le persecuzioni antisemite o la fine della guerra d'Algeria). La differenza tra le prime e le seconde è, a parere dello studioso, netta e sostanziale: «le sei grandi manifestazioni nazionali del XIX e XX secolo costituivano grandi momenti collettivi di tregua nazionale; le sei più recenti non mobilitano che gruppi ristretti ed esprimono soltanto la pressione sul potere da parte dei militanti e il successo delle rivendicazioni sostenute dalle loro associazioni». Il discorso potrebbe essere traslato nella realtà italiana con riferimento a date si pensi, per esempio, al 25 aprile o al 2 giugno che per molti potrebbero apparire più divisive che unificanti. Il secondo fenomeno denunciato da Nora è quello delle cosiddette «leggi sulla memoria» volute o dalla sinistra o dalla destra, gli interventi legislativi cioè che puniscono la negazione del genocidio degli ebrei o condannano lo schiavismo e la tratta degli schiavi e via dicendo. Si tratterebbe, secondo Nora, di una deriva legislativa inquietante e pericolosa, sia perché rischia di «paralizzare la ricerca» e di «ricordare in modo spiacevole le logiche totalitarie», sia perché appare contraria a ogni forma di approccio storiografico. Scrive Nora che questa deriva legislativa esprime «la tendenza a leggere e a riscrivere l'intera storia dal punto di vista esclusivo delle vittime e una propensione, inaccettabile, a proiettare sul passato dei giudizi morali che non appartengono che al presente, senza tenere nella minima considerazione quella differenza tra periodi storici che è lo stesso oggetto della storia, la ragione del suo apprendimento e del suo insegnamento». Naturalmente Nora, la cui esistenza è stata marcata profondamente dalla Shoah, pur diffidando della legislazione francese contro il negazionismo, non propone una messa in discussione di tale normativa, perché questa ipotesi potrebbe essere vista come un incoraggiamento per chi nega il genocidio. Avverte però che il rapporto fra storia e politica è molto delicato. I politici, a suo parere, hanno il dovere di interessarsi del passato per comporre la memoria collettiva riparando i torti subiti dalle vittime e onorandone la memoria, ma «non attraverso leggi che definiscano i fatti e ne scrivano la storia». Il compito di stabilire i fatti e di cercare la verità è essenzialmente dello storico. Quella di Nora è una riflessione sofferta da parte di uno studioso di grande e riconosciuto spessore il quale, partito dalla storiografia delle Annales, è approdato, attraverso la critica alla storiografia positivistica e a quella marxista, ai lidi di una Nouvelle Histoire dai confini più ampi che recupera l'insegnamento di Marc Bloch. È una riflessione che, rifiutando le vulgate storiografiche di ogni colore e volendo liberare la ricerca dai condizionamenti del potere politico, nasce da profondo di uno spirito autenticamente libero e liberale.

Il plebiscito del Veneto fu una truffa ma la sinistra non vuole dirlo. Un saggio diffuso dalla Regione Veneto dice la verità sul plebiscito di annessione del 1866. Ed è subito polemica, scrive Carlo Lottieri, Venerdì 02/09/2016, su "Il Giornale". È polemica: ed è bene che sia così. La diffusione di un volume di Ettore Beggiato (1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia, Editrice Veneta) sul modo in cui il Veneto 150 anni fa è stato «italianizzato» dopo la terza guerra d'indipendenza, a seguito di un referendum truffaldino, disturba gli intellettuali progressisti. Sul quotidiano veronese L'Arena ieri si riportavano alcune prese di posizione negative nei riguardi del libro. Secondo Carlo Saletti saremmo di fronte a «un uso distorto della storia», piegata a ragioni politiche. Una tesi condivisa da Federico Melotto, direttore dell'Istituto veronese della storia della Resistenza, per il quale con questo volume «si vuole dare un messaggio politico partendo dal plebiscito per lanciare una critica all'Italia di oggi». Il tono è di contestazione, ma con ogni probabilità l'autore sarebbe in parte d'accordo. Già assessore regionale e appassionato cultore della storia della Serenissima, Beggiato si propone di smontare la lettura tradizionale di una popolazione veneta ben felice di lasciare l'Impero asburgico per unirsi alle popolazioni italiche. Il volume è tutt'altro che paludato: vuole interessare e farsi leggere. Chi l'ha scritto, per giunta, non cela in alcun modo la propria speranza che Venezia e gli altri territori possano presto decidere del proprio futuro (con un referendum democratico), tornando indipendenti come furono per secoli. Beggiato ha insomma esaminato il passaggio storico del 21 e 22 ottobre 1866 per illuminare l'attualità: per far comprendere ai veneti di oggi per quale motivo devono pagare le tasse a Roma, e non a Vienna. Guarda il passato per criticare il presente, senza dubbio. Ma dove sarebbe il problema? Non è forse utile leggere la storia per capire il nostro tempo? I due studiosi evocano controverse questioni di metodologia, ma le loro parole lasciano perplessi: specie pensando che per Benedetto Croce ogni storiografia è contemporanea, dato che il passato ci interessa in quanto esso ha di tuttora vivo. Una cosa non viene detta da Saletti, né da Melotti: che Beggiato racconti falsità. Il libro, in effetti, è inattaccabile e il plebiscito fu un inganno da ogni punto di vista. Non fu garantito l'anonimato, votarono soggetti che non ne avevano titolo (i soldati italiani di stanza in Veneto, ad esempio) e, soprattutto, i dati resi noti non possono corrispondere ai voti reali. È significativo che gli storici «accademici» nulla contestino, sul piano dei fatti, a quanto Beggiato afferma, né difendano la regolarità del referendum: anche perché si renderebbero ridicoli. Di fronte a risultati ufficiali che parlano di 647.246 voti favorevoli e solo 69 voti contrari (l'equivalente del 99,9%), chi conosce cosa sia l'errore statistico sa che l'annessione del Veneto all'Italia fu costruita su un imbroglio. Un argomento è usato dai due storici contro il volume di Beggiato: ed è la decisione della Regione di regalarlo alle biblioteche del Veneto, anche scolastiche. La critica potrebbe avere una sua plausibilità (può un ente pubblico sostenere un'iniziativa culturale di parte?) se solo non sapessimo che le scuole pubbliche sono «apparati ideologici di Stato», per usare la formula del marxista Louis Althusser: sono da sempre realtà schierate a difesa del potere vigente e delle sue retoriche (dal Risorgimento alla Resistenza, dall'ecologia all'Europa, dalla solidarietà alla legalità). È allora soltanto positivo che una pecora nera come Beggiato trovi spazio tra tante pecore bianche, che belano tutte nello stesso modo. È poi interessante rilevare come per Melotto il referendum fosse sì ridicolo, ma perché tale doveva essere: «L'annessione fu decisa dal punto di vista diplomatico», dato che «il plebiscito serviva a sancire una situazione di fatto». Fu insomma una truffa, come dice Beggiato, ma «non può essere definito scandaloso questo modo di procedere perché nell'800 era la diplomazia a prendere le decisioni, non il popolo». Per Melotto non ci si deve proprio scandalizzare se nell'Ottocento la gente non contava e neppure a questo punto se in varie parti del mondo c'era ancora la schiavitù. Se però i veneti conoscessero meglio la loro storia, forse anche certa retorica nazionalista avrebbe assai meno presa. E questo sarebbe solo positivo.

Così l'Italia vinse la guerra perdendo tutte le battaglie. Grazie alla Prussia ottenemmo il Veneto e parte del Friuli. Ma il disastro militare ci segnò per sempre, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 20/07/2016 su "Il Giornale". Si può vincere una guerra perdendone quasi tutte le battaglie. Si può anche scatenare, a cose fatte, uno psicodramma che trasformi due scontri finiti male, ma senza reali conseguenze, in un dramma nazionale con tanto di processi eccellenti, e privi di qualunque equità. Poi si può continuare a sentirsi defraudati per anni della dignità nazionale e mascherare il tutto sotto un'enorme dose di retorica che esalti il sacrificio, senza però prendersi la briga di indagare sulle magagne della propria macchina bellica. Andò così nella Terza guerra di indipendenza italiana (durata dal giugno all'ottobre 1866) di cui ricorrono i 150 anni. Una bella e approfondita analisi di quel conflitto la compie Hubert Heyriès (storico militare dell'università Montpellier III) nel suo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 348, euro 25). Il saggio racconta come l'Italia fu abile diplomaticamente a intuire le potenzialità della montante tensione tra l'Austria e la Prussia del cancelliere Bismarck (1815-98). Era l'occasione giusta per liberarsi della presenza asburgica nella Penisola. Con i buoni uffici di Napoleone III, il conte Giulio Cesare di Barral e il generale Giuseppe Govone apposero la loro firma, in nome dell'Italia, su un trattato offensivo valido unicamente per 3 mesi. Era l'8 aprile 1866. L'Austria si sarebbe trovata chiusa in mezzo a una tenaglia di ferro. Combattere su due fronti l'avrebbe quasi di sicuro costretta alla sconfitta. Sin qui la parte logica del piano, a prescindere delle immediate diffidenze tra Firenze (allora era la capitale) e Berlino. Così il 20 giugno Vittorio Emanuele II diede ottimisticamente il via alle ostilità: «Voi potete confidare nelle vostre forze, italiani, guardando orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina...». E su questo ottimismo si allineò subito tutta la nazione. L'entusiasmo portò con sé - come spiega Heyriès - due ulteriori buoni risultati. La mobilitazione fu rapidissima e Garibaldi si vide piombare addosso un gran numero di volontari che usò nel modo che gli era più consono: attaccare verso in Trentino in un territorio frastagliato e montagnoso. Per un genio indiscusso della guerriglia era l'ideale. Ma fuori dalle montagne trentine la macchina bellica italiana iniziò a mostrare tutti i suoi limiti. La Prussia premeva per un attacco rapido. Per colpire efficacemente a nord le serviva che le truppe austriache fossero impegnate a sud. Ma gli italiani si trovavano di fronte le fortezze del Quadrilatero e nessuno aveva sviluppato un vero piano per superarle. Un attacco dal mare con sbarco, a partire dalla netta superiorità navale italiana, era un qualcosa di cui si era solo fantasticato. Le nostre navi erano eterogenee (quanto gli equipaggi nati fondendo tre marine) e non certo adatte a un attacco di questo tipo. Così l'enorme esercito italiano (per la prima volta il Paese aveva un esercito di massa) nel dubbio e senza un chiaro piano d'attacco fu schierato in due tronconi. Centoventimila fanti e 7mila cavalieri sul Mincio comandati dal generale La Marmora. Altri 64mila fanti e 3500 cavalieri affidati invece al generale Enrico Cialdini sulla linea del Po. Gli Austriaci erano in netta minoranza numerica ma ebbero così la possibilità di giocare sulla velocità per colpire uno dei due tronconi. A questo si sommò la deficienza logistica degli italiani. Risultò un problema persino fornire le coperte. Oltre il fatto che molti soldati non avevano mai combattuto, o soltanto contro i «briganti». In più, la litigiosità degli alti ufficiali...Le truppe di La Marmora, mentre cercavano di sorprendere gli austriaci oltre l'Adige, si fecero sorprendere dal nemico appena passato il Mincio. Ne nacque uno scontro disordinato: la seconda battaglia di Custoza. Nonostante tutto gli italiani si batterono bene. Gli Ulani del battaglione «Conte di Trani» e la brigata di Cavalleria di Ludwig von Pulz vennero massacrati a Villafranca dal quadrato di fucilieri comandato dal principe Umberto. I granatieri sul Monte Torre e sul Monte Croce fecero pagare agli austriaci ogni palmo di terra. Ma nel momento più critico alcuni ufficiali, come il generale Della Rocca, non inviarono rinforzi, seppur richiesti nella zona più a rischio, Custoza. Il risultato fu che le truppe italiane dovettero ritirarsi. Gli austriaci non le inseguirono: avevano subito colpi altrettanto gravi. Gli italiani avevano perso tra morti, feriti, e prigionieri 7.403 uomini. Gli austriaci 7.956. Ma era il morale degli italiani a essere crollato. E le cose peggiorarono ancora quando i Prussiani travolsero gli austriaci a Sadowa, il 3 luglio. Ne nacque una sorta di psicosi: bisognava vincere «qualcosa» al più presto. E così ci si rivolse alla Marina. Gli italiani cercarono di attirare la flotta del contrammiraglio Tegetthoff verso Ancona. L'austriaco sapeva fare il suo mestiere e non uscì dal porto. Allora il ministro Depretis piombò ad Ancona e «sobillò» contro l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano i suoi diretti e gelosissimi sottoposti, l'ammiraglio Vacca e l'ammiraglio Albini. Il risultato fu che venne allestito in fretta e furia l'attacco all'isola di Lissa che era ben fortificata e per di più collegata via telegrafo. Fu lì che la flotta austriaca subito allertata piombò sulle navi italiane. Anche in questo caso lo scontro (l'anniversario è oggi, 20 luglio) non era perduto a priori, anzi, alcune navi austriache come la «S.M.S. Kaiser» se la videro brutta. Ma se i rapporti tra Persano, Albini e Vacca erano pessimi in condizioni normali, si rivelarono tragici in battaglia. Le reazioni di Persano furono confuse, ma anche quando diede ordini chiari i suoi sottoposti si sforzarono di eluderli. Bilancio di 37 minuti di battaglia: l'affondamento della «Re d'Italia» e della «Palestro» e la morte di 638 marinai. Se Custoza era una quasi sconfitta trasformata in disfatta dalla stampa, Lissa fu una sconfitta senza se senza ma. Lo choc fu fortissimo e non bastarono i successi di Garibaldi in Trentino ad anestetizzarlo. Men che meno l'annessione del Veneto e del Friuli sprezzantemente ceduti dall'Austria alla Francia e dalla Francia a noi (a mezzo plebiscito) che pure fu indubitabilmente un grandissimo passo verso la completa unificazione del Paese. Gli italiani incorporarono un senso di fragilità militare che non hanno mai smesso di portarsi dietro. E per colmarlo misero sotto processo l'ammiraglio Persano che fu radiato dalla Marina. Ma quale fosse la differenza tra lui e gli altri ammiragli che gli avevano messo i bastoni tra le ruote nel bel mezzo dello scontro non fu mai chiarito. Sulle responsabilità degli ufficiali del Regio esercito invece ci si limitò alle polemiche velenose. Anche questo lavacro di coscienza collettivo a mezzo capro espiatorio si trasformò in una brutta prassi nazionale. Anzi forse è il cascame, sociologico, più grave di questa guerra vinta senza vincere.

La truffa dell’Unità d’Italia. La propaganda è sempre esistita ogni qual volta c'è stato un potere organizzato che ha operato su una massa di popolazione relativamente concentrata. Poteva trattarsi o d'integrare maggiormente i gruppi e gli individui nella società, o di stabilire la legittimità del potere politico, o di ottenere un determinato numero di comportamenti e di adesioni, o infine di lottare contro le influenze esterne. La propaganda delle società tradizionali, tuttavia, non presentava gli stessi caratteri della propaganda moderna. Si trattava allora di una propaganda generalmente legata a una persona, un capo carismatico, un propagandista che agiva per intuizione, per abilità personale. Era dunque un fenomeno occasionale e limitato, che appariva e scompariva a seconda delle circostanze. Si trattava sempre d'interventi circoscritti, fondati spesso su sentimenti religiosi, e che non presentavano nessun carattere di razionalità o, ancora meno, di tecnicità. (Enciclopedia Traccani)

Si dice che Mazzini sia stato anti monarchico e anti Savoia, scrive Giovanni Greco, su questo nutro dubbi in quanto lo reputo un massone per conto della Regina in Gran Bretagna! Un paradosso tutto Repubblicano; comunque Mazzini, ad esempio, appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Quindi si giungerà all'Unità d'Italia. In seguito numerosi repubblicani confluiranno nei Fasci di combattimento di epoca ormai Mussoliniana. E se ho ricostruito bene i fatti - mi auguro di non sbagliare - il progetto mazziniano era teso a favorire gli interessi inglesi nei traffici commerciali del tempo, che erano legati ai cavalli, alle carrozze, alle mongolfiere, alle navi e ai treni. Infatti il predominio nelle comunicazioni era di fondamentale importanza per l'epoca oltre ad essere stata una decisione iniziale delle famiglie di banchieri ebreo/tedesche/americane dei Rothschild e dei Rockefeller, i quali avevano finanziato la Regina inglese per l'invasione del Regno dei Borbone. Bene Mazzini, dopo la conquistata del Regno delle Due Sicilie, potè favorire i commerci della famosa "Valigia delle Indie"; e il re Borbone e le sue terre infatti erano l'unico impedimento al progetto originario dei Rothschild. Gli stessi Rothschild che con il gruppo Bilderberg regnano tutt'ora le pagine della real politik e delle primavere arabe e degli autunni italiani del III millennio.

Ciò che la storia ha sempre cercato di insabbiare. Tutti noi siamo soliti considerare l’Unità d’Italia una grande impresa e Giuseppe Garibaldi un grande eroe. Ma è davvero così? Scrive Enrico Novissimo per Collana Exoterica. Il processo che portò all’Unità d’Italia vide come protagonisti una lunga fila di uomini più o meno celebri, i cosiddetti padri del Risorgimento. Ancora oggi infatti, se si va dal nord al sud dell’’Italia, troviamo piazze o vie principali che si fregiano di nomi illustri come Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele ecc … Consideriamo infatti questi personaggi dei veri eroi, raffigurati dagli artisti che ne esaltano il loro valore in maniera da rafforzare il mito che li circonda; innumerevoli sono infatti le opere d’arte che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo, ora in piedi che impugna alta la sua spada, alcune volte indossando la celebre camicia rossa, altre volte reggendosi su un paio di stampelle come un martire. Tuttavia un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone, Giuseppe Garibaldi (ebbene sì, che lo crediate o no era massone, così come Cavour e forse Mazzini), privo dei lobi delle orecchie. Sembra incredibile eppure la vicenda sembra vera. Al nostro “falso” eroe furono davvero mozzate le orecchie; la mutilazione avvenne esattamente in Sud America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame. Dunque il grande Garibaldi, icona della spedizione dei Mille e dell’’Unità italiana sarebbe stato un ladro di cavalli? Difficile crederlo. Naturalmente nessuna fonte ufficiale racconta questa vicenda. È dunque lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto, quale fu il ruolo dei banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia? La Banca Nazionale degli Stati Sardi era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato; difatti era l’unica banca ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia. Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni di lire, ma questa somma ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento: una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo dei mercati. Cavour e gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo mascherato però come un movimento patriottico. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. La storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei banchieri Rothschild; attraverso i soldi dei Rothschild, infatti, i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia. Neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il Sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza: in questa situazione gli stupri, le esecuzioni di massa e le violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa per scampare a questo fu l’emigrazione. Il popolo cominciò così a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti; si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione. A 150 anni di distanza si parla ancora di “questione meridionale”. Enrico Novissimo per Collana Exoterica

Cavour e gli stessi Savoia avevano messo in ginocchio l’economia piemontese, indebitata verso i Rothschild per svariati milioni, scrive Enrico Novissimo. Divennero due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo sotto mentite spoglie. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. "I Mille" guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre. Stupri, esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione.

La spedizione dei Mille è stato uno degli eventi cruciali per l’unificazione d’Italia. Ai tempi non c'era internet ma il telegrafo, Parigi era la Borsa di riferimento e i prestiti erano erogati dalle grandi famiglie dei banchieri e non dall’Fmi. Eppure mercati finanziari e debito pubblico ebbero un ruolo nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini. E, col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild, scrive Luciano Canova. Studiando la serie storica delle quotazioni del debito pubblico borbonico, durante il 1860, è possibile rispondere a una domanda assai interessante, anche per i suoi riflessi attuali: i mercati finanziari dell’epoca avevano scontato la spedizione dei Mille? Indubbiamente, i mercati anticipano accadimenti incerti, che valutano attraverso la lente deformante delle aspettative. Se, però, nell’era di Internet, i mezzi di comunicazione consentono un aggiornamento immediato di quello che avviene ai piani alti, è lecito chiedersi se le cose funzionassero in modo simile anche in passato, in particolare per un evento che ha segnato la storia di questa penisola. Un’analisi è possibile andando a recuperare le quotazioni giornaliere della rendita di Sicilia del 1860, pubblicate sulla pagina commerciale del quotidiano dei Borbone, Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, conservate presso l’Archivio storico municipale del comune di Napoli e presso l’Archivio storico della Fondazione Banco di Napoli. Come riportato dal lavoro La borsa di Napoli di Maria Carmela Schisani, anche nel diciannovesimo secolo esisteva una borsa valori in cui venivano negoziati titoli, prevalentemente del debito pubblico, dei vari stati. La borsa venne istituita a Napoli nel 1788 da Ferdinando I di Borbone e attraversò la storia del regno delle Due Sicilie fino al 1860, con la caduta di Francesco II. Il titolo del debito pubblico era emesso in ducati, la moneta del regno, e aveva una rendita fissa del 5 per cento alla scadenza. Parigi costituiva la Wall Street dell’epoca e sui suoi valori risultavano agganciate le quotazioni dei titoli napoletani. Come a dire che lo spread si sarebbe misurato sui titoli francesi. La finanza, allora, era organizzata attorno a grandi famiglie: un ruolo di primo piano, in particolare, fu esercitato dai Rothschild, che erogarono ai Borbone diversi prestiti nel corso della loro storia. In sostanza, la famiglia di banchieri agiva come una sorta di Fondo monetario internazionale ante litteram, che garantiva prestiti onerosi dietro l’impegno ad approvare riforme politiche e fiscali rigorose da parte dei beneficiari. Non è un caso se Ferdinando II, re di Napoli dal 1830, iniziò un programma radicale di modernizzazione del regno proprio in concomitanza con uno di questi prestiti. E non è un caso che, dopo il 1848, il regno cominciò a sfaldarsi, anche per via del disimpegno dei Rothschild stessi dalle finanze partenopee. Tornando all’avventura garibaldina, poco prima dell’inizio della spedizione, il titolo del debito pubblico borbonico raggiunse il suo massimo: 120,06 ducati nel 1857. Si tratta di una fase che potremmo considerare come una sorta di bolla speculativa. Prima dell’inizio della spedizione dei Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile. Si trattava soltanto di capire di che morte il regno dovesse morire, un po’ come capitato con la fine del governo Berlusconi. Il grafico in alto (visibile qui) mostra l’andamento della serie delle quotazioni giornaliere del debito pubblico borbonico durante il 1860. La retta verticale segna l’inizio della spedizione. Come è possibile evincere, le quotazioni del debito crollano con l’avanzare dei garibaldini. La spedizione di Garibaldi è un’impresa decisamente non lineare, che procede per salti discreti. Indubbiamente, da un punto di vista numerico, lo scontro appariva impari: un migliaio di volontari, male armati e peggio equipaggiati, contro le 100mila unità di cui contava, almeno sulla carta, l’esercito regolare di Francesco II. Seguire la spedizione attraverso le contrattazioni sul mercato ci consente di fare luce, in un modo assai originale, sull’evento... Dallo sbarco avvenuto a Marsala l11 maggio alla battaglia di Calatafimi, quattro giorni dopo (il primo grosso smacco per l’armata borbonica) il titolo perse 4,4 punti percentuali. Dopo Calatafimi, i Mille puntarono verso Palermo, dove, a protezione della città, stava il grosso del contingente borbonico sull’isola (25 mila unità). In pratica, Garibaldi conquistò la città senza combattere, sfruttando insieme la sua abilità tattica e la disorganizzazione delle truppe regie, guidate da Ferdinando Lanza. Al 19 giugno, data di caduta della città, il titolo aveva perso 10 punti percentuali, fermo a 103 ducati. Luglio fu sostanzialmente un mese di stasi: i garibaldini si organizzarono in Sicilia mentre, allo stesso tempo, pianificavano lo sbarco in continente; i borbonici, a Napoli, preparavano invece la controffensiva. Questa incertezza si concretizzò, non casualmente, in un periodo di immobilismo delle contrattazioni, con il titolo che reagisce, sì, alla battaglia di Milazzo (19 luglio) perdendo altri 5,5 punti percentuali (96 ducati), ma rimane, poi, sostanzialmente stabile, un po’ come lo spread italiano oggi, fermo da giorni sulla soglia dei 500 punti. Dallo sbarco in Calabria e fino alla caduta di Napoli e del Regno, con la battaglia del Volturno che si conclude il 1° ottobre 1860, e l'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano il 26 ottobre, il valore del titolo scese a 87 ducati, con una perdita di altri 9,2 punti percentuali. Il crollo si arrestò nel momento in cui i Savoia proclamarono ufficialmente che, con l'istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico, avrebbero onorato il pagamento del debito anche degli Stati pre-unitari annessi, da vero e proprio last resort lender. Il titolo borbonico, da quel momento, andò assestandosi sui valori della rendita sabauda. La scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino, dapprima informalmente ostili all'avventura garibaldina e, successivamente, pronti a sfruttare l'opportunità politica offerta dal successo della spedizione, si riflesse nei corsi del debito, che fotografano come in un elettrocardiogramma le pulsazioni della finanza dell'epoca, pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore Savoia. A nulla valsero le promesse di riforma costituzionale di Francesco II, dopo il 25 giugno 1860. A nulla servì la controinformazione del regno, ben evidenziata dal Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che parlava di brillanti successi dell'esercito regio contro una masnada di filibustieri, proprio mentre i buoni del tesoro, inesorabili, cadevano sotto gli occhi della casa regnante in crisi. Uno degli aspetti più interessanti di questa straordinaria vicenda è appunto l'informazione, che aumentò l'incertezza attorno all'evento e, con essa, le fibrillazioni del mercato internazionale. I bookies dell'epoca avrebbero avuto le loro difficoltà a scommettere sugli eventi. Era chiara, da un lato, la decadenza del regno borbonico; meno chiara, la via d'uscita: un trionfo elettorale della coalizione Garibaldi-Mazzini o un governo tecnico Cavour, per rassicurare i mercati? Col senno di poi, è un po come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild.

LUCIANO CANOVA. Docente e ricercatore alla Scuola Enrico Mattei, dove insegna i corsi di Economia Sperimentale e di Comunicazione Scientifica al Master MEDEA (Management dell’Economia dell’Ambiente e dell’Energia). Ha studiato Economia a Milano, laureandosi al DES in Bocconi nel 2002. Ha conseguito un master in Development Economics alla University of Sussex e il dottorato in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per due anni, è stato post-doc alla Paris School of Economics. iProf di Economia della felicità su Oilproject.org, collabora con diverse testate di divulgazione scientifica.  

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

LADRI ED ASSASSINI. MAFIOSI E MASSONI.

Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni...La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell'uomo. Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini...L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza...Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad...Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma...Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno...Chiunque è in grado di esprimere qualcosa deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire, non si può chiedere perché. Non si può chiedere ad un alpinista perché lo fa. Lo fa e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali....Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia...Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato...Se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del suo partito, che invece risulterebbe un suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso... La certezza è che così non si fa un passo avanti nella dura lotta alla mafia...Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere...L'impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull'opinione pubblica...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere...Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?...Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l'Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba...Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e P.M.) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del Magistrato, un nostalgico della...La magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un'autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di un'autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente...Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale..Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?... La mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l'infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno...Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente»...Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi...La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell'adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l'uso dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa...“Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela...»

Paolo Borsellino: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità...Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo...Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno...Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell'aldilà. Ma l'importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento... Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno...È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola...La paura è umana, ma combattetela con il coraggio...Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare...Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene...A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l'esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato...Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano"... È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti...L’impegno contro la mafia, non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi subito al punto di partenza...I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile».

Le parole. Le sue, con quella cadenza ellittica della lingua siciliana, davanti a un gruppo di studenti dall’accento vicentino. «Volevo sapere, giudice, se si sente protetto dallo Stato e ha fiducia nello Stato stesso», chiede un ragazzo. «No, io non mi sento protetto dallo Stato», risponde Paolo Borsellino. È il 26 gennaio del 1989, il video è in Rete grazie all’Archivio Antimafia. 

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia, scrive "L'Infiltrato" il 19 luglio 2016. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Ricordiamo che Mannino è stato assolto per “non aver commesso il fatto”. Su quell’anonimo, si scopre dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”. Il documento dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, quando si è deciso di assolvere Mori e Obinu, anche in appello nel 2016. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine. Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti, hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”. Nel lancio Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.

Trattativa, ecco i documenti sul presunto patto fra lo Stato e Cosa nostra. La lettera a Scalfaro scritta nel 1993 dai familiari dei boss detenuti al 41bis. L'appunto in cui il direttore del Dap Nicolò Amato suggerisce l'alleggerimento del carcere duro. E l'elenco completo dei mafiosi che ne beneficiarono. Ilfattoquotidiano.it pubblica le carte al centro dell'inchiesta di Palermo sui presunti accordi segreti per fare cessare la stagione delle stragi, scrive Marco Lillo il 26 giugno 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Oggi pubblichiamo i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei graziati di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet di ilfattoquotidiano.it (guarda in fondo all’articolo) che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della Repubblica si sono intrecciate inscindibilmente. Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del Ros, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma.

Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento amministrazione penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit (leggi il documento integrale). I familiari chiedono al presidente: “Quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato, direttore del Dap allora (leggi l’appunto di Amato sul 41 bis). A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del Dap Adalberto Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza. A novembre del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti (leggi l’elenco completo). Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava. Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all’ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell’epoca Mario Mori e all’allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato. Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra. La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti liberati dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi. Da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2012.

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su “L’Espresso”. Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare. 

Un giorno chiesi a Borsellino, un altro che conosceva la lingua siciliana, scrive Giorgio Bocca il 22 maggio 2002 su “La Repubblica”: "Che rapporto c'è tra politica e mafia?". Mi rispose: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui possono accordarsi è la spartizione del denaro pubblico, il profitto illegale sui pubblici lavori". La frase detta da Paolo Borsellino  “Mafia e Stato sono due poteri su uno stesso territorio, o si combattono o si mettono d’accordo.” Racchiude un’amara verità e riassume bene la storia del nostro Paese. Storicamente si può dire che di trattative Stato-mafia ce ne sono state varie. Sono iniziate dal 1861, con la nascita della Stato. Le indagini a ritroso della Procura di Palermo sono arrivate fino ai torbidi intrecci degli alleati con il bandito Salvatore Giuliano, che dopo la liberazione nazi-fascista è stato anche utilizzato dalle correnti filo-americane contro il “pericolo comunista”. La prima strage stato-mafia fu a Portella della Ginestra e rientrava in questi piani.

SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.

Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010 

Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive “Cumasch”. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA ED ANTIMAFIA.

Il caso Cucchi e i segreti della massoneria. Del collegio di esperti che dovrà fare la nuova perizia sul corpo di Stefano fa parte un professore ex massone. "In sonno" dal 1983. Sulla vicenda è stata aperta un'indagine, ora archiviata. Ma la procura ha acquisito i documenti ufficiali della Loggia di Bari. Dal giuramento alla costituzione massonica. Materiale inedito e segreto che apre le porte del Grande oriente, scrive Giovanni Tizian il 12 aprile 2016 su "L'Espresso". «Certificato di apprendista numero 33547. Loggia Saggezza Trionfante 984 Bari. Grande Oriente d'Italia. Con fraterni saluti». Il documento del 1980 attesta l'affiliazione di Francesco Introna, ordinario di Medicina Legale dell'Università di Bari. Perito in importanti processi, come il caso Claps, consulente di parte per Raffaele Sollecito. E nominato nel collegio dei periti per l'incidente probatorio nell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi che vede indagati cinque carabinieri. E proprio in quest'ultima sede, durante la prima udienza, l'avvocato Fabio Anselmo della famiglia Cucchi ha sollevato la questione dell'incompatibilità di Introna vista la sua presunta fede massonica e la passata candidatura nel 2009 nelle fila del Pdl alle comunali di Bari. Fazione politica che su Stefano Cucchi ha dimostrato, con dichiarazioni e prese di posizione, una profonda ostilità. L'affiliazione massonica del perito è finita così in una denuncia presentata in procura dalla famiglia del geometra romano. Dopo un'approfondita verifica di atti e documenti, l'indagine è stata chiusa e per Introna è stata richiesta l'archiviazione: «L'accusa non potrebbe essere sostenuta in giudizio per evidente carenza dell'elemento soggettivo del delitto ipotizzato». In pratica, Introna, ha sì dichiarato il falso davanti al giudice, affermando di non essere nemmeno più “in sonno”, ma l'ha fatto senza dolo. Perché convinto di quella sua affermazione. Introna è stato un libero muratore ufficialmente fino al 1983. Poi, come emerge dai documenti acquisiti dai magistrati, risulta “assonnato”. Non c'è dunque motivo per dubitare della buona fede del professore. Potrà così continuare a fare parte del pool che dovrà svolgere una nuova perizia sul corpo di Stefano Cucchi, morto nell'ottobre 2009 dopo l'arresto per possesso di droga. Messa da parte la vicenda specifica, il materiale inviato dal Grande Oriente ai pm del caso Cucchi apre le porte di un mondo misterioso e segreto. Tessere di iscrizione, codici scritti, la costituzione massonica, elenchi, simboli esoterici e timbri ufficiali di maestri venerabili. Tutto materiale che “l'Espresso” ha potuto consultare. «Mi laureai nel 1979, e quell'anno all'interno dell'istituto di Medicina Legale di Bari conobbi due colleghi, i quali erano iscritti alla Loggia Saggezza Trionfante. Uno di questi si chiamava Roberto Gagliano Candela (medico luminare ndr). Sentendoli parlare della Loggia ritenni l'argomento interessante e, presentato, da questi due colleghi mi iscrissi alla medesima nel 1980». Francesco Introna ripercorre davanti ai magistrati romani i giorni del reclutamento massonico. «Aggiungo che la mia convinzione di essere stato espulso dalla massoneria risultava confermata dal fatto che un paio di anni fa ricevetti l'onorificenze di Commendatore per meriti professionali e in questo caso la mia persona fu oggetto di accertamenti da parte dei carabinieri su incarico della prefettura. Perciò ritengo che se io fossi stato in “sonno” questa circostanza sarebbe venuta fuori. Invece i carabinieri non mi chiesero nulla». Sul significato dell'essere “assonnato” gli inquirenti chiedono spiegazioni al gran maestro del Goi, Stefano Bisi. Convocato a piazzala Clodio negli uffici della procura risponde dettagliatamente alle domande. «La collocazione in “sonno” viene comunicata con raccomandata con ricevuta di ritorno. I fratelli attivi partecipano alle riunioni e pagano una quota, il fratello in “sonno” e quello depennato hanno comunque l'obbligo di lealtà nei confronti degli altri fratelli, così come risulta dall'articolo 9 della Costituzione del Grande oriente d'Italia». Poi, Bisi, riferisce delle quote d'iscrizione: «L'importo dovuto è predeterminato, non si tratta comunque di importi considerevoli, vari da 400 a 500 euro l'anno, a seconda della singola loggia. «Io Francesco Introna liberamente, spontaneamente, con piano e profondo convincimento dell'animo, con assoluta e irremovibile volontà, alla presenza del Grande Architetto dell'Universo, sul mio onore e in piena coscienza solennemente giuro: di non palesare i segreti dell'iniziazione muratoria, di aver sacri l'onore e la vita di tutti; di soccorrere, confortare e difendere i miei fratelli; di non professare principi che osteggiano quelli propugnati dalla Libera Muratoria». Il giuramento è impresso su una pergamena con la firma del venerabile maestro. E risale al 1980. L'atto ufficiale è successivo alla votazione, con scrutinio delle schede su cui ogni fratello vota il “gradimento” del nuovo adepto. A seguire il testamento, altro passaggio fondamentale per entrare a far parte della loggia. Si tratta di una seconda pergamena in cui l'iniziato risponde alle domande sulle regole di comportamento generale che i fratelli devono tenere: «Quali sono i doveri dell'uomo verso se stesso? Migliorarsi in continuazione; Quali sono i doveri verso la Patria? Amarla. Rispettarla; Quali sono i doveri verso l'umanità? Porsi al suo servizio per essere utile». Di Dio e la religione; Del magistrato civile supremo e subordinato; Delle Logge; Dei maestri, sorveglianti, compagni e apprendisti; Della condotta dell'Arte nel lavoro; Del Comportamento. Questi sono i titoli generali della Costituzione della libera muratoria del Goi. Al punto 3 del capitolo sul Comportamento è spiegato l'atteggiamento da tenere nel caso in cui due “fratelli” si incontrano non in una loggia e senza estranei: «Vi dovete salutare l'un l'altro in modo cortese, chiamandovi fratello l'un l'altro, liberamente fornendovi scambievoli istruzioni che possano essere utili, senza essere visti o uditi e senza prevalere l'uno sull'altro o venendo meno al rispetto dovuto a ogni fratello». Al punto successivo, invece, le istruzioni sul come comportarsi in presenza di non massoni: «Sarete cauti nelle vostre parole e nel vostro portamento affinché l'estraneo più accorto non possa scoprire o trovare quando non è conveniente che apprenda; e talvolta dovrete sviare un discorso e manipolarlo prudentemente per l'onore della rispettabile Fratellanza». Ma cosa fare davanti a uno straniero? «Lo esaminerete cautamente, conducendovi secondo un metodo di prudenza, affinché non siate ingannati da un ignorante falso pretendente, che dovrete respingere con disprezzo e derisione». Se lo straniero è degno di affiliazione, invece, cambia tutto: «Dovete allora rispettarlo e se egli ha bisogno dovete aiutarlo se potete oppure indirizzarlo dove possa venire aiutato: dovete occuparlo per qualche giornata di lavoro oppure raccomandarlo perché venga occupato. Ma non siete obbligato a fare oltre la vostra possibilità». Può anche succedere però un litigio tra fratelli o tra affiliati e “stranieri”. Che fare? Anche per questo il regolamento è chiaro: «Non consentite agli altri di diffamare qualsiasi onesto fratello...E se qualcuno vi ingiuria dovete rivolgervi alla vostra o alla sua loggia e dopo appellarvi alla Gran Loggia annuale, come è stato l'antico lodevole costume dei nostri antenati in ogni nazione. Non dovete intraprendere un processo legale a meno che il caso non possa venire risolto in altro modo e pazientemente affidatevi all'onesto e amichevole consiglio del Maestro e dei Compagni, allorché essi vogliono evitare che voi compariate in giudizio contro estranei...Amen così sia». Insomma, le questioni è meglio risolverle in Loggia. Tra fratelli. I liberi muratori una volta giurato sono sottoposti alla giustizia massonica dell'Ordine: «E vi restano soggetti anche se non più attivi». È l'articolo 56 del titolo X, “Della Giustizia massonica”, della costituzione del Goi. I fratelli possono sbagliare, come tutti gli esseri umani. Perciò il regolamento prevede delle “colpe massoniche” e pene collegate. «Costituiscono colpa massonica: ogni azione contraria alla lealtà, all'onore o alla dignità della persona umana». I provvedimenti sono tre: Espulsione, censura solenne e censura semplice. A giudicare i cattivi massoni sono gli organi interni: il tribunale della loggia; tribunale dei Colleggi dei maestri venerabili; la corte centrale del Grande oriente. Fidarsi l'uno dell'altro. Per chi è dentro una loggia, questo è un presupposto imprescindibile. La fiducia deriva dalla modalità “sicura” di affiliazione. Il neofita è sempre presentato da almeno tre fratelli anziani. Ognuno dei quali deve mettere per iscritto, su un modulo, le motivazioni della scelta. Tendendo però presente le regole del buon massone: «Moralità, costumi e reputazione; probità costante nel corso della vita; esattezza nel disimpegno dei doveri del proprio stato; fermezza di carattere nei principi professati; cultura, impegno, attitudini a penetrare e assimilare la dottrina massonica». Inoltre, chi presenta il nuovo arrivato deve specificare se questo appartiene «ad associazioni di carattere ricreativo, filantropico, benefico, religioso, politico, culturale o di altra natura; se ha avuto eventuali cariche in enti e altre notizie eventuali sulla persona». La radiografia del pretendente è approfondita. Ma spesso, come ha insegnato la storia passata e recente, non è stata sufficiente a rintracciare “l'intruso”, con interessi che poco hanno a che fare con la il rispetto dell'umanità.

Papà Boschi e l'ombra della massoneria. Da vicepresidente di Etruria per scegliere il suo dg incontrò Carboni, coinvolto nel caso P3. Ma ha sostenuto di non avere deleghe operative, scrive Massimo Malpica, Domenica 17/01/2016, su "Il Giornale". Non bastasse il caos prodotto dal crac di Banca Etruria e dal successivo decreto salva banche del governo che ha lasciato in mutande i risparmiatori, ora saltano fuori anche le «consulenze» a Bpel in odore di grembiulini e servizi richieste e ottenute - da papà Boschi per individuare il nuovo dg dell'istituto da nominare al posto di Luca Bronchi. L'ex vicedirettore di Banca Etruria e papà del ministro per le riforme Maria Elena, a metà 2014, chiese dunque una mano nientemeno che a Flavio Carboni, uomo di affari (spesso chiacchierati), indagato per la presunta loggia P3 e il cui nome è emerso in tutti i gialli del Bel Paese degli ultimi lustri. L'altro consulente non ortodosso era un caro amico comune, che risponde al nome di Valeriano Mureddu. Vicino di casa della famiglia Renzi a Rignano e figlio di un pastore sardo emigrato in Toscana a fine anni '60, anche Mureddu che sostiene tra l'altro di aver lavorato per la nostra intelligence - ha qualche magagna con la giustizia, sia per una sospetta maxievasione fiscale (con tanto di dossieraggio a carico di vari personaggi ritrovati nella sede aretina della sua società che si occupa di materie plastiche) risalente all'inizio del 2014, che per violazione della legge Anselmi. A Repubblica, Mureddu nega di essere Massone, mentre intervistato dalla Nazione ammette di aver «lavorato» per conto delle nostre barbe finte. Nel 2010, peraltro, di Mureddu si parlò già per un abbocco con il suocero di Fini, Sergio Tulliani, relativo agli affari nel fotovoltaico (tra l'altro proprio il settore al centro di uno dei filoni delle indagini sulla presunta P3). Quando nell'estate del 2014 Boschi senior si affida a questo curioso duo, incontrando Mureddu nell'ufficio romano a disposizione di Carboni, il nome che salta fuori è quello di Matteo Arpe. A suggerirlo a Carboni sarebbe stato l'ex leghista Gianmario Ferramonti. Ma la consulenza al gusto di massoneria (per la verità non certo una novità per Bpel, sempre divisa tra cattolici e grembiulini) non porterà frutti, visto che ad agosto dello scorso anno la poltrona di dg andò a Daniele Cabiati, rimasto in carica fino allo scorso giugno.Zero risultati, appunto, ma nuovi scenari imbarazzanti per il governo a margine del patatrac di Banca Etruria. Boschi senior, più che un vicepresidente senza deleghe e senza potere, appare come uno dei capi effettivi della banca, proprio come indicato dalle relazioni di Bankitalia che parlavano di un «direttivo» ristretto che di fatto comandava dentro Bpel. Tanto che, stando ai racconti di Carboni e dello stesso Mureddu, il papà della Boschi s'era messo a lavorare informalmente all'individuazione di un ruolo chiave per l'istituto di credito che stava affondando. Incaricando dopo una cena proprio Mureddu, che sarà anche figlio di un pastore e dunque coerente con il quadretto bucolico tracciato dalla figlia nella appassionata autodifesa di famiglia in occasione del voto di sfiducia ma che è anche vicino di Tiziano Renzi, amicissimo di Carboni e legato, secondo quanto Carboni ha raccontato a Libero, anche dell'ex presidente di Bpel Lorenzo Rosi. Sempre Carboni, precisando che a darsi da fare sarebbe stato soprattutto Mureddu, aggiunge anche che oltre alla nomina del direttore generale ci sarebbe anche stata una richiesta per individuare «qualche stato estero che intervenisse a favore di questo gruppo».Si delinea insomma un nuovo fronte temporalesco per il governo, in particolare per la Boschi, che appena qualche mese fa al capogruppo M5S Gianluca Castaldi che evocava «indicibili accordi massonici» dietro alla riforma costituzionale, urlò: «Massone lo dici a tua sorella». Beccandosi una bacchettata del Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Stefano Bisi: «Frase sgradevole, mi sorprende che sia stata proprio lei a pronunciarla». Ma oltre ai guai per l'esecutivo, sembrano confermati anche gli scenari ancora in parte oscuri celati dietro ai freddi numeri (fallimentari) che raccontano la storia di Banca Etruria. Da sempre, come detto, divisa tra l'anima cattolica e quella massonica che per anni, durante la gestione di Elio Faralli, aveva imperversato nel governo della ex mutua dell'oro, prima di lasciare le redini al gruppo dirigente espressione della ex democrazia cristiana. Ma, a quanto pare, le cointeressenze non si sono mai spezzate.

La strana loggia top secret dell'amico dei papà illustri. Il massone Mureddu è legato ai padri di Renzi e della Boschi. E la sua società occulta è nel mirino dei pm di Perugia da 2 anni, scrive Luca Fazzo, Lunedì 18/01/2016, su "Il Giornale".  Ci sono logge e logge: quelle che al primo inciampo in una inchiesta finiscono in prima pagina sui giornali, e altre la cui esistenza viene invece tenuta rispettosamente lontano dai riflettori, anche dopo il loro ingresso in un fascicolo processuale. A restare a lungo sotto traccia è stata, per esempio, la associazione segreta che ruota intorno all'imprenditore aretino Valeriano Mureddu, buon amico sia del padre di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, che di quello di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme.Degli intrecci tra Mureddu e i due illustri papà si parla finalmente da qualche giorno, e negli ambienti governativi l'imbarazzo è pari solo al silenzio. Ma ora si scopre che da quasi due anni, da marzo 2014, la procura di Perugia ha in mano tutte le carte relative alla società occulta guidata da Mureddu, avendole trovate nel corso di una perquisizione presso la sua azienda a Civitella Val di Chiana, una dittarella di nome Geovision specializzata nel commercio di sacchetti e altri articoli in plastica. Ma la modestia dei suoi affari ufficiali non impedisce a Mureddu di allacciare amicizie importanti. Con Tiziano Renzi è praticamente compaesano, avendo vissuto a lungo a Rignano sull'Arno, mentre con Pierluigi Boschi ha stretto amicizia quando il padre di Maria Elena invece che di banche si occupava di vini e cantine sociali. E nei due anni trascorsi dalla scoperta delle carte segrete, gli amiconi di Mureddu hanno continuato a fare carriera. Compresi Tiziano Renzi, Pierluigi Boschi, e soprattutto i loro brillanti figlioli. Eppure nella carte dell'inchiesta della procura umbra compaiono nomi che sono presenze fisse delle indagini che periodicamente, dagli anni '80 in poi, portano alla ribalta l'esistenza di consorterie segrete. Nei contatti di Mureddu c'è per esempio quel Gianmario Ferramonti, politico di insuccesso in area leghista, che esattamente 20 anni fa fu indicato in una indagine della procura di Aosta (battezzata Phoney Money, e finita in nulla) come uomo-cerniera di affari leciti e illeciti che coinvolgevano mezzo firmamento politico dall'Italia all'America; e tra i contatti c'è anche quel Flavio Carboni che era già nelle liste P2, che fu condannato per il crac del Banco Ambrosiano, e che a 84 anni continua a mantenere buoni rapporti con l'Italia che conta: compreso uno dei grandi alleati di Renzi, l'ex coordinatore di Forza Italia Denis Verdini, imputato insieme a lui nel processo P3. Cosa facciano tutti insieme Mureddu, Ferramonti, Carboni e i loro amici, quale sia il core business della nuova loggia scoperta dalla procura di Perugia, è tema un po' fumoso: Mareddu si proclama massone e si vanta di avere lavorato per i servizi segreti, non si capisce per quali e in che veste. «Ho relazioni in giro per il mondo - dice di sé - mi vengono proposti degli affari e io a mia volta li propongo a chi penso che possa portarli a termine». Un faccendiere, insomma. Affari non sempre fortunati e cristallini, visto che anche la procura di Arezzo ha messo il 46enne sardo nel mirino per evasione fiscale. E tra gli affari di Mureddu, quello che ora lo ha portato alla ribalta è quello combinato per conto di Pierluigi Boschi, all'epoca in cui il padre della ministra cercava un direttore generale da piazzare nella Banca dell'Etruria. Come e perché babbo Boschi si sia ridotto a cercare la consulenza di uno come Mureddu è allo stato inspiegabile, e ancora di più lo è la circostanza che si sia fatto convincere a partecipare a un summit nell'ufficio romano di Carboni. E ad accogliere l'idea suggerita dalla coppia Mureddu-Carboni, quella del banchiere Fabio Arpe, portata all'esame del cda, ma bloccata poi dall'ufficio di vigilanza della Banca d'Italia.

L'imprenditore Starace a Libero: "Vi spiego come Flavio Carboni lavorava per papà Boschi", scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano del 20 gennaio 2016. Da ragazzo spaccava ossa giocando a rugby nelle Fiamme oro della Polizia di Stato, oggi le aggiusta nei centri di riabilitazione di cui è proprietario. La voce è gioviale: «Premetto: non sono massone. Io non c’entro nulla». Inizia così la conversazione con il quarantaduenne romano Riccardo Starace, l’uomo che avrebbe dovuto trovare un direttore generale e un fondo arabo per salvare la Banca dell’Etruria. 

Lei conosce Valeriano Mureddu, il «grembiulino» indagato a Perugia per associazione segreta e amico di Flavio Carboni?

«Non l’ho mai visto. Carboni invece lo avevo conosciuto, due settimane prima degli incontri dell’estate del 2014 di cui voi di Libero state scrivendo in questi giorni, al Piccolo mondo antico, un ristorante vicino al suo ufficio romano di via Ludovisi. Il proprietario del locale mi presentò questo signore anziano... era con la figliola». 

Lei sapeva chi fosse Carboni?

«All’inizio no, ammetto la mia ignoranza (ride ndr). Il mio amico mi disse: “Guarda Riccardo è una persona con una grande esperienza, ti può essere utile conoscerlo”. Ho detto: “Va bene”. È cominciata così questa storia».

Perché è rimasto in contatto con Carboni?

«Chiacchierando gli dissi che avevo rapporti con un fondo impegnato nel settore della sanità, l’Enterprises di Sheikh Bin Ahmed Al Hamed. Allora mi parlò subito di un suo progetto, il grafene, un materiale rivoluzionario che dovrebbe servire a pulire e rendere potabile l’acqua, risolvendo il problema della sete in Africa, e mi disse di andare a trovarlo in ufficio. Il suo fu in pratica un monologo. Però prima di andare controllai su Internet chi fosse e vidi che era una persona di un certo peso per la storia dell’Italia, nel bene e nel male».

Ha una condanna di tipo definitivo per il crac del Banco Ambrosiano ed è imputato per la P3...

«Ecco... appunto. Si trattava di cose abbastanza delicate e visto che io ho lavorato sette anni nella Polizia di Stato, ci andai cauto. In ufficio mi coinvolse subito riparlandomi di questa storia del grafene e chiedendomi informazioni sul fondo di Abu Dhabi. Poi mi disse che c’era una banca in difficoltà finanziaria e io gli risposi: “M’informo con gli arabi”».

Non doveva andarci cauto?

«La verità è che io non ho avuto nemmeno il coraggio di parlare di questa cosa a Sheik Alamed, ma con Carboni non potevo essere scortese. Con me fu subito gentilissimo, avvolgente, non avevo motivo per essere scortese con lui. L’avevo visto dieci minuti al tavolo e improvvisamente mi chiedeva di salvare una banca. Le sembrerò un ballista, ma è andata così».

Però lei non parlò solo del fondo con Carboni, ma anche del nuovo direttore generale...

«A un certo punto, in quella chiacchierata di mezz’ora, Carboni mi accennò a una nomina da fare per la banca. Quindi mi chiese il numero di telefono e io a una persona tanto gentile come potevo negarlo? Pensavo che avrei saputo difendermi dalla sue avances... Invece iniziò a bombardarmi di telefonate, anche la domenica: mi chiedeva di questo fondo e poi di ritornare nel suo ufficio. Mia moglie in quel periodo non mi telefonava così tante volte. Poi un giorno ci siamo rivisti, casualmente, in via Ludovisi, subito dopo pranzo. Mi acchiappò sul marciapiede e mi disse: “Come stai carissimo, sali un attimo con me, ti devo parlare della posizione della banca”. E io salii con lui...».

In ufficio c’era anche lo scienziato russo, il presunto coinquilino di Carboni?

«Non ho mai incontrato russi in quello studio. Quando entrammo mi disse: ho delle persone che mi attendono, vieni che te le presento. Io ero nell’imbarazzo più totale».

Chi c’era insieme a Carboni in ufficio?

«Tutti quelli che ha raccontato nell’articolo, così facciamo prima».

L’ex presidente Lorenzo Rosi, il suo vice Pier Luigi Boschi e l’imprenditore Mauro Cervini?

«Sì c’erano loro tre».

E Gianmario Ferramonti, l’imprenditore amico di Licio Gelli?

«Non in quell’occasione, forse in altre...»

Dove erano Boschi e Rosi?

«Erano seduti amabilmente in una grande sala riunioni e Carboni mi ha presentato come un amico imprenditore con ottimi contatti con un fondo arabo».

I due banchieri che persone le sembrarono?

«Timidi e taciturni. Ricordo che erano vestiti elegantemente, con l’abito. Sembravano stupiti, quasi imbarazzati per la mia età. Probabilmente non si immaginavano un “salvatore” così giovane. Quando Boschi mi ha detto il suo cognome, visto che la figlia era appena stata nominata ministro, ho fatto due più due e ho intuito chi fosse».

Che cosa vi siete detti?

«Ci siamo solo salutati. Anche in quell’occasione ci fu quasi un monologo di Carboni».

Perché hanno chiesto a lei il nome del direttore generale?

«Non ne ho idea, ma la cosa mi lasciò incredulo. Era come se mi dicessero: tu ci trovi il fondo che porta i soldi e noi facciamo un favore a un tuo amico».

Lei propose il vicedirettore generale della Popolare del Frusinate Gaetano Sannolo...

«L’ho conosciuto quando era direttore della filiale della Cassa di risparmio di Firenze di cui ero cliente. Con me è sempre stato carino e corretto. Io feci il suo nome così, in modo quasi goliardico, anche se pensavo che fosse una persona giovane e dinamica. Inizialmente non avevo dato peso a quella richiesta».

Neanche quando le presentarono Pier Luigi Boschi?

«In quel caso rimasi veramente stupito. Dentro di me pensai: “Andiamo bene”, perché non aveva senso tutto quello che stava accadendo. Capisco che le possa sembrare assurdo, ma andò così».

Che spiegazione si è dato?

«Forse venni presentato a Rosi e Boschi come una persona più importante di quella che in realtà fossi. A Carboni, invece, devo essere entrato in simpatia e per questo fatto del fondo mi si era pure un po’ attaccato, questo sì».

Quanto durò l’incontro con Boschi e Rosi?

«Pochi minuti, meno di una decina. Poi andai via».

Avete discusso anche del direttore generale?

«Sulla questione venne fatto un accenno, ma non ne parlammo approfonditamente in quell’occasione».

E quando lo avete fatto?

«In un terzo incontro, in cui presentai il mio amico Gaetano al dottor Carboni. Sorridendo gli dissi: “Dai andiamo a sentire”. Ma successivamente Sannolo fu chiamato davvero a fare il colloquio ad Arezzo. Non ci potevamo credere. In quei giorni ci sentivamo in continuazione per scherzare. Gli suggerii di chiedere un super stipendio, pensavamo che il mondo si fosse capovolto. Il suo nome è uscito pure sul Sole24ore».

Quella mi risulta sia stata una fuga di notizie orchestrata all’interno della banca per bruciare il nome del suo amico...

«Lo immaginavo. In ogni caso Carboni improvvisamente cambiò atteggiamento».

Forse perché lei gli aveva detto che il fondo non era disponibile...

«Infatti. Da quel momento iniziò a diradare le chiamate, quindi ha proprio smesso. Non lo vedo e non lo sento più dalla fine di quell’estate».

Non la stupì che Rosi e Boschi si fossero messi nelle mani di Carboni?

«Molto. Mi sembrò una situazione surreale».

Quando capì che il padre della ministra era lì a farsi consigliare il direttore generale della sua banca da lei che cosa pensò?

«“Non è possibile”. Non ci volevo credere, era inverosimile...».

Ha conosciuto Ferramonti l’uomo che consigliò il nome dell’altro candidato alla direzione generale, il banchiere Fabio Arpe?

«Sì, nel 2014, a Roma, mentre ero impegnato nel lancio di un neonato movimento politico. Si presentò lui, mostrandosi interessato a quella mia iniziativa. L’ho rivisto qualche volta nella Capitale. In una di quelle occasioni incontrammo casualmente Carboni nel solito ristorante. Sembrava che i due non si vedessero da tempo e si scambiarono il numero di telefono davanti a me. Parlarono anche di questa cosa della banca».

In pratica la Popolare dell’Etruria era una delle ossessioni di Carboni?

«Con me ha discusso solo di quella e del grafene».

E per salvarla si è affidato a due che aveva incontrato al ristorante?

«Lei ride, ma all’epoca ho riso di più io. Certo non vorrei apparire come una persona incapace di intendere e di volere, ma è andata proprio così». Di Giacomo Amadori.

Il terreno di papà Boschi in odore di 'ndrangheta. Il manager nel 2010 venne indagato per estorsione e riciclaggio per l'acquisto di una fattoria: il pm Rossi archiviò tutto ma adesso rischia un'azione disciplinare. La strana compravendita e quei 250mila euro in nero, scrive Anna Maria Greco, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Il procuratore di Arezzo Roberto Rossi ha fatto di tutto per non farsi salvare dal Csm. La prima bugia su Pier Luigi Boschi e Banca Etruria gli è stata perdonata, ma la seconda fa riaprire il suo caso, che sembrava avviato all'archiviazione. E non rischia solo il trasferimento d'ufficio, ma anche un'azione disciplinare. Il procuratore generale della Cassazione ha infatti chiesto gli atti al Csm, evidentemente per una preistruttoria disciplinare. Rossi, infatti, potrebbe aver violato l'obbligo di astensione dall'inchiesta su Banca Etruria ed essere accusato di dichiarazioni infedeli al Csm. Ma i suoi guai potrebbero non fermarsi qui. Perché sembra che da Arezzo stia uscendo nuovo fango dalle vecchie inchieste sul padre del ministro Maria Elena e il pm ha fatto archiviare, forse con troppa facilità. Prima di diventare procuratore e di diventare consulente di Palazzo Chigi. A cambiare le carte in tavola sono le notizie di Panorama sul fatto che il titolare dell'inchiesta su Banca Etruria quando era sostituto procuratore ha indagato Boschi nel 2010 per turbativa d'asta e riciclaggio, poi per estorsione nel 2013. A febbraio il papà viene iscritto nel registro degli indagati e Maria Elena diventava ministro, a luglio Rossi inizia la consulenza con il governo, a novembre archivia tutto. Eppure al Csm Rossi, sotto esame per la possibile incompatibilità tra il suo ruolo di inquirente del padre del ministro e la consulenza con Palazzo Chigi, disse di non conoscere nessuno della famiglia. Ieri il pm è corso ai ripari inviando una lettera a palazzo De' Marescialli, spiegando: «L'ho indagato, ma non lo conoscevo». Troppo tardi. La prima commissione aveva creduto alle sue giustificazioni quando aveva negato che papà Boschi facesse parte del consiglio «informale» della banca che rifiutò l'opa della Banca Popolare di Vicenza senza informare il Cda, mentre Bankitalia sosteneva il contrario. Una confusione tra la prima gestione Forsasari e la seconda Rosi, aveva assicurato. Ma stavolta, la fiducia ottenuta al Csm evapora. E tra i consiglieri c'è molta irritazione per la sua seconda e più pesante bugia. Ha taciuto di aver già indagato Boschi, un personaggio molto noto ad Arezzo anche al di là del ruolo politico della figlia. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico di un ennesimo equivoco in cui sembra essere caduto il procuratore», ironizza il laico di Fi Pier Antonio Zanettin. È lui, che aveva voluto l'apertura della pratica su Rossi a chiedere ora una nuova istruttoria. La delibera assolutoria, che aspettava solo l'ok del plenum, viene sospesa. «A tutela della trasparenza e della credibilità dell'operato della magistratura la prima Commissione ha deciso all'unanimità un ulteriore approfondimento sulla vicenda Rossi, alla luce di circostanze che emergerebbero da articoli di stampa», spiegano i togati di Area Piergiorgio Morosini (relatore) e Antonello Ardituro. Gli atti sono già stati inviati al Pg della Cassazione per gli accertamenti disciplinari, mentre per verificare l'incompatibilità il Csm ha chiesto informazioni al procuratore generale di Firenze. La relazione potrebbe arrivare per la riunione di lunedì. E si potrebbe anche convocare di nuovo Rossi. Dovrà spiegare come mai ha dimenticato che 6 anni fa ha indagato Boschi (con altre 8 persone) per irregolarità nell'acquisto della grande tenuta Fattoria di Dorna per 7,5 milioni (era valutata almeno 9), da parte della coop Valdarno superiore che presiedeva, poi diventata una società di cui Pier Luigi aveva il 90 per cento e il resto era del crotonese Francesco Saporito, in odore di 'ndrangheta. E anche di aver indagato una seconda volta nel 2013 Boschi, perché un certo Apolloni che acquistò un podere della tenuta lo accusò di essersi fatto pagare in nero 250mila euro su 460 mila.

Pier Luigi Boschi, già indagato (e prosciolto) sei anni fa. Le archiviazioni per le accuse di turbativa d'asta e estorsione, furono del pm che oggi indaga su Banca Etruria: lo scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. La posizione di Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria, è al vaglio della Procura di Arezzo insieme a quella di altri membri del disciolto consiglio d’amministrazione. Non sarebbe comunque la prima volta che il padre del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, si trova indagato. Nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio, il settimanale Panorama ricostruisce nei dettagli una vicenda giudiziaria risalente a sei anni fa, nella quale Boschi padre fu indagato ad Arezzo per i reati di turbativa d’asta ed estorsione, e venne per due volte prosciolto su richiesta del magistrato Roberto Rossi, oggi divenuto procuratore della città toscana, nonché lo stesso magistrato che oggi indaga sul dissesto di Banca Etruria e che è stato consulente del governo Renzi. La vicenda, che fino al 2014 coinvolse Pier Luigi Boschi e altri otto indagati, riguardava la compravendita, nel 2007, di una grande tenuta agricola posseduta dall’Università di Firenze. Malgrado il proscioglimento, restano senza risposta due domande, relative a 250 mila euro in contanti che un successivo acquirente di parte della tenuta affermò di avere personalmente consegnato a Boschi. Da una parte non si sa dove siano effettivamente finiti quei soldi, ma non si sa nemmeno perché la Procura di Arezzo non abbia mai indagato per calunnia chi affermava fossero stati versati.

Boschi: si riapre l'istruttoria sul pm Roberto Rossi, dopo l'inchiesta di Panorama. Il Csm vuole chiarire la posizione del magistrato che, come riportato dal nostro giornale, archiviò le accuse nei confronti del padre del ministro, scrive "Panorama" il 21 gennaio 2016. Giornata nera per il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare delle inchieste su Banca Etruria. Il comportamento del pm è finito al vaglio del Procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. E la Prima Commissione del Csm ha riaperto l'istruttoria sul suo conto. A mettere nei guai il procuratore, le indagini svolte negli anni passati su Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria. Procedimenti conclusi con due richieste di archiviazione ma di cui il pm non aveva fatto cenno nelle sue audizioni davanti ai consiglieri del Csm, ai quali aveva invece assicurato di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi". Poi è arrivato il servizio di copertina del nostro giornale, in edicola da oggi, in cui si racconta delle indagini di Rossi su Pierluigi Boschi per turbativa d'asta e estorsione, andate avanti dal 2007 sino al 2014 e che sarebbero state legate alla compravendita di una grande tenuta agricola dell'Università di Firenze. Venuto a conoscenza del nostro servizio, Rossi ha pensato di giocare d'anticipo inviando una lettera al Csm in cui ha scritto di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria, ma ha confermato di non aver mai avuto occasione di incontrarlo. Nella sua lettera Rossi parlerebbe di più procedimenti, sui quali ora la Commissione (che solo due giorni fa aveva deciso di archiviare il fascicolo che lo riguarda) intende fare approfondimenti, accogliendo all'unanimità la richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin: verificare quali vicende hanno riguardato e che esito hanno avuto. Il primo passo sarà a richiesta di informazioni e della documentazione relativa al Procuratore generale di Firenze, l'organo di vertice del distretto. "Ascoltare di nuovo il procuratore Rossi? Per ora no: lo abbiamo sentito due volte e abbiamo ricevuto da lui tre comunicazioni scritte". Lo dice il presidente della Prima Commissione del Csm Renato Balduzzi, che spiega come la lettera fatta recapitare a Palazzo dei Marescialli, in cui Rossi parla di precedenti procedimenti penali riguardanti Pierluigi Boschi dei quali aveva avuto occasione di occuparsi sia il "fatto nuovo", che ha spinto oggi la Commissione a "sospendere la delibera di archiviazione e a procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori". "Dobbiamo conoscere quali sono queste vicende e quale esito hanno avuto" dice Balduzzi, precisando che nella lettera il procuratore fornisce anche chiarimenti sul "disallineamento" tra quanto sta emergendo e le sue dichiarazioni nell'audizione di dicembre davanti al Csm. L'ottica dell'intervento della Commissione non cambia: "garantire la massima serenità alla procura di Arezzo". "Non solo Banca Etruria e massoneria deviata. Ora su papà Boschi arrivano anche le ombre, carte della DDA alla mano di aver fatto affari con uomini legati alla 'ndrangheta. A questo punto il ministro Maria Elena Boschi deve rassegnare le dimissioni, perché una pesantissima e insopportabile ombra politica aleggia sulla sua famiglia ed anche su tutte le false riforme che hanno distrutto la Costituzione repubblicana. Del resto la deforma Boschi non sarebbe mai passate senza gli accordi ed i voti del plurinquisito Denis Verdini". Lo scrive in una nota il capogruppo M5S Senato Mario Giarrusso, "dopo la pubblicazione delle notizie che nel 2007 Pierluigi Boschi portò a termine un grosso affare immobiliare insieme a un socio calabrese, Francesco Saporito, che secondo la DDA di Firenze era legato alla 'ndrangheta crotonese". Il senatore pentastellato fa riferimento ad un'inchiesta pubblicata dal settimanale Panorama. "Di questo argomento se ne dovrà far carico anche la Commissione d'inchiesta parlamentare antimafia", conclude il capogruppo M5S. 

Solita sinistra a senso unico...La denuncia di Rosy Bindi: "C'è una mafia che usa l'antimafia". Il j'accuse della presidente della Commissione d’inchiesta nell'intervista esclusiva rilasciata a l'Espresso. Troppi interessi sfruttano la lotta ai clan. Che spesso diventa una facciata per la conquista di potere, scrive Marco Damilano il 28 gennaio 2016 su "L'Espresso". Inchieste, scandali, scontri intestini. Magistrati che accusano le icone antimafia di «monopolio» dei beni confiscati. Il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, garante della legalità dell’associazione degli imprenditori a livello nazionale, indagato e perquisito e il presidente del Senato Piero Grasso che parla di «antimafia infangata». È la stagione del malcontento per il movimento anti-mafia, a trent’anni esatti dall’apertura del primo maxi processo a Palermo, voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con il sospetto che siano gli stessi campioni dell’anti-mafia a infangare se stessi. A Palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare che indaga sui legami tra la criminalità e la politica, la presidente Rosy Bindi non è sorpresa, come spiega a Marco Damilano nell'intervista sull'Espresso in edicola da venerdì 29 gennaio 2016. «Quando un anno fa annunciai a Caltanissetta che avremmo avviato un’inchiesta ci furono molte ironie (l’antimafia che indaga sull’antimafia!) da parte di quei commentatori interessati semplicemente a indebolire il movimento. E invece il nostro obiettivo è riaffermare il valore dell’impegno di associazioni, cittadini, istituzioni e imprenditori che per venti anni ha dato un contributo fondamentale alla lotta contro la criminalità mafiosa. C’è chi vuole delegittimare queste presenze preziose. I soliti negazionisti e chi non ammette che la forza della mafia continua a essere fuori dalla mafia. Nel silenzio, nelle complicità, nelle sue relazioni sociali. Vogliamo rilegittimare l’antimafia. Ma possiamo farlo soltanto smascherando alcune ambiguità che obiettivamente esistono». Quali ambiguità? Fino a qualche mese fa si pensava all’antimafia come a un movimento monolitico. E incontaminato. «Ci muoviamo su più fronti. C’è una mafia che usa l’antimafia per prosperare, l’aspetto più grave e pericoloso. Una mafia, ad esempio, che utilizza la comunicazione per infangare chi lotta contro la mafia. Anche Roberto Saviano ne è stato vittima. C’è poi un’antimafia che dietro l’obiettivo manifesto di combattere i mafiosi nasconde la cura di altri interessi. È quanto sembra emergere in Sicilia, un caso che va approfondito. Al di là dei risvolti penali, lì c’è un movimento antimafia che si è trasformato in un movimento di potere. Cerca di determinare la formazione delle maggioranze in regione, di influenzare le scelte politiche ed economiche. C’è, infine, un’antimafia che diventa un mestiere. Una professione, ma non come intendeva dire Leonardo Sciascia».

C’è del marcio in antimafia. Ma sul “caso Libera” la Bindi fa la gnorri, scrive Francesca De Ambra venerdì 15 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. C’è del marcio in antimafia. Ma l’unica che riesce a non vederlo è proprio l’on. Rosy Bindi. Non che la presidente dell’omonima commissione manchi d’iniziativa, tutt’altro. Se lo ricorda bene Enzo De Luca che a 24 ore dal voto che lo avrebbe eletto governatore della Campania si ritrovò in una lista di “impresentabili” redatta in fretta e furia proprio dall’organismo da lei guidato. O il deputato forzista Carlo Sarro, invitato dalla Pasionaria a dimettersi dall’Antimafia dopo aver ricevuto una richiesta di arresti ai domiciliari poi demolita da un micidiale uno due Riesame-Cassazione. Dove invece la Bindi segna il passo è sulla sempre più inquietante vicenda della gestione dei beni sottratti alle mafie, deflagrata a fine estate con l’inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto. Prima della Procura nissena era stato però l’ex-direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, a denunciare, i presunti conflitti d’interesse dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’amministratore giudiziario cui la Saguto aveva affidato la gestione di tutti i beni confiscati ricevendone – secondo la tesi dei pm – consulenze per il proprio marito. Nessuno, però, ringraziò Caruso. Neppure la Bindi, che anzi gli rinfacciò di aver innescato un «effetto delegitttimazione» attraverso «un’accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Quando scoppia la bomba dell’inchiesta di Caltanissetta, Caruso si toglie la soddisfazione dell’“avevo detto io” e intervistato da Liberoquotidiano.it rilascia una replica al curaro: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi…». Ogni riferimento, ancorché implicito, è puramente voluto. La lezione, tuttavia, non è servita. Tanto è vero che la Bindi rischia ora di ripetere lo stesso errore di superficialità commesso con Caruso. Solo che questa volta a dare l’allarme non è un prefetto ma Catello Maresca, il pm in forze alla Dda di Napoli che ha fatto arrestare boss del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine, cioè proprio uno di quei «magistrati che rischiano la vita». Intervistato da Panorama, Maresca ha contestato il sistema che regola la gestione dei beni sottratti ai boss esprimendo più di una riserva su Libera di don Luigi Ciotti. Che ha annunciato querele. E la Bindi? Prima ha rivendicato il progetto di riforma della normativa sulla gestione dei patrimoni mafiosi per poi defilarsi rispetto ai rilievi mossi dal pm: «Se Maresca – ha detto – continua a spiegare e magari si incontra con Libera si fa una cosa buona». Davvero? E la commissione Antimafia che ci sta a fare? Non ha forse il dovere di capire e approfondire? O dobbiamo forse pensare che le pesanti critiche mosse da Maresca a don Ciotti siano dovute a vecchie ruggini personale, pronte però a svanire davanti al buon vino che sempre riconcilia i veri amici? Non scherziamo: la faccenda è fin troppo seria per consentire alla presidente Bindi di voltarsi dall’altra parte.

Don Ciotti e Libera osannato da tutta l'Antimafia di Facciata.

Bindi: "Don Ciotti non resterà solo. Pieno sostegno dall'Antimafia", scrive il 31 Agosto 2014 "Live Sicilia". La solidarietà della presidente della commissione parlamentare Antimafia al sacerdote fondatore di Libera. D'Alia: "Minacce da non sottovalutare". Vendola: "Cosa nostra vada all'inferno". Grasso: "Tutti al fianco di don Ciotti". Gelmini: "Non sarà mai solo". "Don Ciotti non è solo e non resterà solo nella battaglia contro i poteri mafiosi". Lo dichiara il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi commentando le intercettazioni riportate dal quotidiano 'La Repubblica', in cui Totò Riina accosta la figura di don Luigi Ciotti a quella di don Puglisi e dice:" Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo". "E' malvagio e cattivo - aggiunge il padrino al boss Lorusso suo compagno di passeggiate nell'ora d'aria - ha fatto strada questo disgraziato". "A don Luigi la mia affettuosa vicinanza e il pieno sostegno della Commissione parlamentare Antimafia - dice Bindi - Le minacce di Riina intercettate nel carcere di Opera lo scorso anno vanno prese sul serio, soprattutto per l'inquietante accostamento al martirio di don Pino Puglisi". "A don Ciotti - aggiunge - va assicurata tutta la protezione e il sostegno necessari, molti mesi sono passati da quando i magistrati hanno esaminato le intercettazioni e si deve capire che tipo di messaggio vuole inviare il capo di Cosa Nostra mentre inveisce contro un sacerdote così esposto sul fronte della lotta alla mafia". "So che le raccapriccianti parole di Riina - dice ancora Bindi - non faranno arretrare il suo appassionato servizio cristiano per la giustizia e la promozione della dignità umana e da oggi saremo al suo fianco con più determinazione". "L'impegno che insieme a tanti con Libera don Ciotti da anni profonde per promuovere la cultura della legalità, la memoria delle vittime innocenti e lo sviluppo solidale nelle terre confiscate alle mafie - prosegue - sono ormai punto di riferimento della coscienza civile del paese". Ed è proprio il lavoro di Libera che scatena l'odio di Riina, preoccupato per i tanti sequestri di beni alla mafia che poi vengono gestiti dalle cooperative di Libera. "La scomunica di Papa Francesco - aggiunge Rosy Bindi - ha tracciato una linea invalicabile tra la Chiesa e le mafie che dà a tutti, credenti e non credenti, più forza e coraggio nel combattere la cultura dell'omertà e della sopraffazione. Ma non possiamo abbassare la guardia, c'è una mafia silente che moltiplica affari e profitti e penetra in ogni settore della vita del paese approfittando della crisi economica. E c'è - conclude - una mafia violenta che continua a tenere sotto scacco con l'intimidazione e la paura buona parte del Mezzogiorno, dove pesano povertà e disoccupazione ma dove sono anche più vitali e preziose le esperienze di libertà e resistenza create da Libera per strappare il territorio al controllo della criminalità organizzata".

"Un abbraccio affettuoso e di vera solidarietà a Don Luigi Ciotti, ogni giorno in prima linea nella lotta alla mafia. Le minacce di Riina nei suoi confronti non possono essere in alcun modo sottovalutate. Il suo impegno quotidiano, non ultimo quello per i testimoni di giustizia che ho avuto modo di apprezzare da vicino nella mia attività di ministro, merita sostegno e protezione". Lo afferma il deputato e Presidente dell'Udc Gianpiero D'Alia.

"Un forte abbraccio don Luigi! All'inferno la mafia! L'impegno di Don Luigi ci dice che per la lotta alla mafia non servono proclami o moralismi. Bensì ogni giorno, con un umile coraggio, serve condurre la battaglia per affermare i diritti dei più deboli e affermare la legalità con fatti concreti, che anche la politica deve compiere". Così Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà, su Twitter esprime la propria solidarietà al fondatore di Libera coop dopo le minacce di Riina.

Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un messaggio di solidarietà a don Luigi Ciotti in riferimento alle minacce di Riina emerse dagli organi di informazione. "Caro Luigi - si legge nel testo - sono più di venti anni che sfidi la mafia con coraggio e passione. Le minacce di Riina emerse oggi sono l'ennesimo attacco ad una storia di impegno e di memoria che coinvolge ogni anno migliaia di cittadini e che ha contribuito a rendere il nostro Paese più libero e più giusto. Ti conosco da anni e so che non ti sei lasciato intimorire nemmeno per un attimo: continuerai sulla strada della lotta alla criminalità, e tutti noi - conclude Grasso - saremo al tuo fianco. Un abbraccio, Piero".

"Le minacce di Totò Riina all'amico Don Ciotti, preoccupano certo, ma non sorprendono. Un uomo come Luigi, che da anni promuove la cultura della legalità e combatte contro le mafie attraverso azioni concrete, non può che essere un nemico per un boss di Cosa Nostra. Una persona da temere, per aver dimostrato, insieme con Libera, che i beni della criminalità possono essere riutilizzati a scopi sociali". Lo scrive sul suo profilo Fb Laura Boldrini, Presidente della Camera.

"Le parole di Riina sono inquietanti e ci dicono che non bisogna mai abbassare la guardia soprattutto nei confronti di chi si trova in prima linea nella lotta alle mafie, come il magistrato Nino Di Matteo e don Luigi Ciotti ai quali esprimo il mio pieno sostegno". Lo dice il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia, commentando le intercettazioni delle conversazione in carcere tra il boss di Cosa nostra ed il boss pugliese Alberto Lorusso. "A Riina - aggiunge - lo Stato deve dare una risposta chiara e netta con l'approvazione in tempi rapidi di un pacchetto di norme che consentano alla lotta alle mafie di far fare un salto di qualità. Alcune di queste, ad esempio il rafforzamento delle misure di prevenzione, l'autoriciclaggio ed il falso in bilancio, sono già contenute nella riforma della giustizia, ma ce ne sono tante altre da adottare. Ecco perchè - conclude Lumia - torno a chiedere una sessione dedicata in Parlamento".

"Don Ciotti non sarà mai solo: fra lui e Riina l'Italia civile ha scelto da che parte stare. Sempre contro la mafia!". Lo scrive su Twitter Mariastella Gelmini, vicecapogruppo vicario di Forza Italia alla Camera.

La capriola della Bindi su don Ciotti prova che Libera è anche una lobby, scrive Venerdì 15 Gennaio 2016 Giuseppe Sottile su Il Foglio. I beni dei mafiosi sono diventati un Tesoro Maledetto. E la bufera della polemica ha investito in pieno anche la creatura di don Ciotti. Ma la politica, prodiga di riverenza, ha preferito squadernare solidarietà incondizionata. Che cosa racconterà questo sanguigno prete torinese ai bambinetti di mezz’Italia che, sotto la sua ala benefica e protettiva, andranno a rendere omaggio anche quest’anno alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Con quali preghiere, o con quali giaculatorie, don Luigi Ciotti, uomo di fede e di misericordia, tenterà di allontanare i sospetti che ormai da qualche tempo scuotono e avviliscono il meraviglioso mondo di Libera, l’associazione che, come i bambini forse non sanno, è anche la più potente e denarosa lobby antimafia? E come potrà questo buon sacerdote spiegare, a tutti quei ragazzi, così innocenti e già così innamorati della legalità, che Libera dopo un inizio come sempre difficile è poi diventata troppo grande e si è trovata spesso a giocare col fuoco sugli stessi terreni, sugli stessi feudi, sugli stessi patrimoni sui quali per anni padrini e picciotti avevano sparso sangue e nefandezze? Parliamoci chiaro. Sull’impegno di don Ciotti contro ogni mafia e contro ogni boss nessuno potrà mai sollevare alcun dubbio: come Papa Francesco, il fondatore di Libera conosce la strada e i problemi degli umili; con il suo Gruppo Abele ha fatto il volontariato duro e sa come si aiuta un infelice nel disperato labirinto della droga. Sa anche come si combattono le violenze, come si contrasta una intimidazione, come si restituisce dignità civile a un giovane senza lavoro e tragicamente affascinato dalla vie traverse. Ed è per questo che, dopo le stragi degli anni Novanta, è nata Libera: per sollevare Palermo dallo scoramento, per ridare fiducia a una terra segnata dal martirio e dalle lacrime. Un progetto ambizioso. Che certamente trovava sostegno e conforto in un altro torinese: in quel Gian Carlo Caselli che, di fronte alle mattanze di Capaci e via D’Amelio, aveva chiesto con coraggio al Consiglio superiore della magistratura di trasferirsi nel capoluogo siciliano e di insediarsi come procuratore in un Palazzo di giustizia sventrato prima dalle faide tra gli uffici e poi dalle bombe di Totò Riina, detto ‘u Curtu. Sono stati certamente anni eroici e straordinari quelli di Palermo. E Libera, la cui missione principale (il core business, stavo per dire) è quella di creare cooperative di lavoro sui beni confiscati alla mafia, non ha mai incontrato ostacoli. Anzi: non c’è stata istituzione che non abbia preso a cuore la causa; non c’è stato potere che non abbia guardato con riverenza ai buoni propositi di don Ciotti e non c’è stato partito politico, soprattutto a sinistra, che non abbia mostrato orgoglio nell’accettare candidature ispirate direttamente dall’associazione. Troppa grazia, sant’Antonio, si sarebbe detto una volta. Ma la troppa grazia non sempre è foriera di prosperità. Spesso, troppo spesso, dietro un eccesso di grazia c’è anche un’abbondanza di grasso. E Libera davanti a quella montagna di soldi, oltre trenta miliardi di euro, sequestrati dallo stato alle mafie, non ha saputo atteggiarsi con il necessario distacco né con la necessaria misura: era una semplice associazione antimafia ed è diventata una holding; era fatta da poveri e ora presenta bilanci milionari; era animata da un gruppo di volontari e si ritrova governata da tanti manager e, purtroppo, anche con qualche spregiudicato affarista tra i piedi. Poteva mai succedere che a margine di tanta ricchezza, piovuta come manna dal cielo, non nascessero invidie e risentimenti, gelosie e prese di distanza, storture e due o tre storiacce poco chiare? Sarà doloroso ammetterlo ma i beni dei mafiosi, sia quelli sequestrati in via provvisoria sia quelli confiscati dopo una sentenza definitiva, sono diventati una sorta di Tesoro Maledetto. Una tomba faraonica dentro la quale viene ogni giorno seppellita – cinicamente, inesorabilmente – la credibilità dell’antimafia: non solo di quella che avrebbe dovuto riaccendere una speranza politica ed è finita invece in una insopportabile impostura; ma soprattutto di quella che, dall’interno dei tribunali, avrebbe dovuto garantire rigore e legalità e ha consentito invece a un gruppo di magistrati infedeli di intramare i beni sequestrati con i propri interessi privati: certo l’inchiesta aperta questa estate dalla procura di Caltanissetta è in pieno svolgimento e le responsabilità personali sono ancora tutte da definire, ma le intercettazioni, come sempre ottime e abbondanti, ci dicono con desolante chiarezza come si amministravano fino all’altro ieri le misure di prevenzione a Palermo; con quali disinvolture e con quali coperture i figli e i fraternissimi amici dei più alti papaveri del Palazzo di giustizia affondavano le mani nei patrimoni, ricchi e scellerati, che la dottoressa Silvana Saguto, presidente della sezione, aveva strappato, con mano decisa e irrefrenabile, alla potestà di Cosa Nostra. La maledizione, e non poteva essere diversamente, ha finito per colpire anche Libera, cioè la macchina più grande ed efficiente aggrappata alla grande mammella dei beni confiscati: 1.500 tra associazioni e gruppi collegati, 1.400 ettari di terreno sui quali coltivare ogni ben di dio, 126 dipendenti e un fatturato che supera i sei milioni. Con una aggravante: che le accuse, chiamiamole così, non vengono tanto, come sarebbe persino scontato, dal maleodorante universo mafioso; arrivano piuttosto dai compagni di strada, da personaggi che rivendicano, al pari di don Ciotti, il diritto di parlare a nome dell’antimafia: come Franco La Torre, figlio del segretario del Pci ucciso a Palermo nel 1982, che non ha sopportato il silenzio di Libera sullo scandalo della Saguto e delle altre cricche nascoste dentro le misure di prevenzione; o come Catello Maresca, pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia di Napoli e nemico numero uno del clan dei casalesi, il quale, intervistato dal settimanale Panorama, ha lanciato parole roventi: ha detto che “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili” e ha aggiunto, senza indulgenze di casta, che forse è venuta l’ora di smascherare “gli estremisti dell’antimafia”, cioè quegli strani personaggi accucciati nelle associazioni nate per combattere la mafia ma che “hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione e tendono a farsi mafiose esse stesse”. Queste associazioni, spiega Maresca, “sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti”; e Libera, in particolare, gestisce i patrimoni “in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale”. Inevitabile e inevitata, ovviamente, la risposta di don Ciotti: “Menzogne: Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità”. Più sorprendente, se non addirittura imbarazzante invece l’atteggiamento con cui la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, si è posta di fronte alla polemica aperta da Maresca, un magistrato antimafia unanimemente apprezzato sia per il suo equilibrio che per il suo coraggio. Il pm napoletano, nel suo lungo colloquio con Panorama, ha sollevato questioni non secondarie: a suo avviso Libera, dopo avere scalato i vertici della montagna incantata, non ha lasciato e non lascia spazio a nessun altro; e se c’è un concorrente da stroncare lo fa senza problemi: tanto, lavorando su un bene non suo, non ha gli stessi costi del rivale. Non solo: è mai possibile che questo immenso patrimonio, continuiamo a parlare di oltre trenta miliardi di euro, non possa essere sfruttato in termini strettamente imprenditoriali per dare la possibilità allo Stato di sviluppare le aziende e ricavarci pure un ulteriore valore aggiunto? Di fronte a interrogativi così pesanti, ma anche così pertinenti, la commissione parlamentare avrebbe dovuto a dir poco avviare un dibattito, magari ascoltando oltre a don Ciotti, sentito a lungo mercoledì proprio mentre le agenzie di stampa diffondevano l’anteprima di Panorama, pure il magistrato napoletano. Quantomeno per verificare l’eventuale necessità di una modifica alle intricatissime leggi che regolano la materia. Invece no: Rosy Bindi ha preferito definire “offensive” le affermazioni di Maresca e l’ha chiusa lì. Don Ciotti certamente non avrà tutte le colpe che Maresca, più o meno volontariamente gli attribuisce. Ma la solidarietà assoluta e incondizionata squadernata l’altro ieri a San Macuto dalla presidente Bindi, e dai parlamentari che man mano si sono a lei accodati, è la prova provata che Libera è anche e soprattutto una lobby.

Beni confiscati, associazioni, coop. Libera, impero che muove 6 milioni, scrive Lunedì 16 Marzo 2015 Claudio Reale su "Live Sicilia". L'associazione raduna 1.500 sigle, ma il suo cuore economico è "Libera Terra", che fattura 5,8 milioni con i prodotti dei terreni sottratti ai boss e li reinveste per promuovere la legalità e assumere lavoratori svantaggiati. E mentre si prepara il ventesimo compleanno, don Ciotti apre alla collaborazione con il movimento di Maurizio Landini. Vent'anni da compiere fra pochi giorni. E circa 1.500 sigle radunate sotto il cartello dell'“associazione delle associazioni”, con un modello che in fondo richiama la tradizione storica dell'Arci. “Libera” è formalmente un'organizzazione non governativa che si occupa di lotta alle mafie, di promozione della legalità e di uso sociale dei beni confiscati alle mafie: sotto la sua bandiera, però, si muovono attività diversificate nello scopo e nello spazio, coprendo quasi per intero il Paese e con ramificazioni internazionali. Un mondo il cui cuore economico è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. Un impero sotto il segno della legalità. Che fa la parte del leone nell'assegnazione per utilità sociale dei beni confiscati e che non si sottrae allo scontro fra antimafie, in qualche caso – come ha fatto all'inizio del mese don Luigi Ciotti – facendo aleggiare l'imminenza di inchieste: "Mi pare di cogliere – ha detto il 6 marzo il presidente dell'associazione – che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di antimafia”. Uno scontro fra paladini della legalità, in quel campo minato e denso d'insidie popolato dalle sigle che concorrono all'assegnazione dei terreni sottratti ai boss.

Un mondo che, nel tempo, ha visto in diverse occasioni l'antimafia farsi politica. E se Libera non è stata esente da questo fenomeno - Rita Borsellino, fino alla candidatura alla guida della Regione e poi all'Europarlamento, dell'associazione è stata ispiratrice, fondatrice e vicepresidente – a tenere la barra dritta lontano dalle identificazioni con i partiti ci ha sempre pensato don Ciotti. Almeno fino a qualche giorno fa: sabato, infatti, sulle colonne de “Il Fatto Quotidiano”, il carismatico sacerdote veneto ha aperto a una collaborazione con il nascente movimento di Maurizio Landini. Certo, don Ciotti assicura nella stessa intervista disponibilità al dialogo con tutto l'arco costituzionale ed esclude un coinvolgimento diretto di Libera. Ma le parole di “stima e amicizia” espresse a favore del leader Fiom, osserva chi sa cogliere le sfumature degli interventi del sacerdote antimafia, sono un assoluto inedito nei vent'anni di storia dell'associazione. Ne è passato di tempo, da quel 25 marzo 1995. A fondare il primo nucleo di Libera furono appunto don Ciotti, allora “solo” numero uno del Gruppo Abele, e Rita Borsellino. Da allora l'associazione si è notevolmente diversificata: al filone principale, riconosciuto dal ministero del Welfare come associazione di promozione sociale, si sono via via aggiunti “Libera Formazione”, che raduna le scuole e ne coordina quasi cinquemila, “Libera Internazionale”, che si occupa di contrasto al narcotraffico, “Libera informazione”, che si concentra sulla comunicazione, “Libera Sport”, che organizza iniziative dilettantistiche, “Libera ufficio legale”, che assiste le vittime di mafia, e appunto “Libera Terra”, che raduna le cooperative impegnate sui campi confiscati ed è l'unico troncone a commercializzare prodotti. In Sicilia le cooperative sono sei. Dell'elenco fanno parte la “Placido Rizzotto” e la “Pio La Torre” di San Giuseppe Jato, la “Lavoro e non solo” di Corleone, la “Rosario Livatino” di Naro, la castelvetranese “Rita Atria” e la “Beppe Montana” di Lentini, alle quali si aggiungono le calabresi “Terre Joniche” e “Valle del Marro”, la brindisina “Terre di Puglia” e la campana “Le terre di don Peppe Diana”: ciascuna è destinataria di almeno un bene sottratto alla mafia e produce su quei terreni vino, pasta e altri generi alimentari commercializzati appunto sotto il marchio unico “Libera Terra”. Fuori dal mondo agroalimentare, poi, c'è la new-entry “Calcestruzzi Ericina”, confiscata a Vincenzo Virga e attiva però – col nuovo nome “Calcestruzzi Ericina Libera” – nella produzione di materiali da costruzione. A questa rete di cooperative si aggiunge la distribuzione diretta. Un network fatto di quindici punti vendita, anch'essi ospitati per lo più in immobili confiscati a Cosa nostra, sparpagliati in tutta Italia: a Bolzano, Castelfranco Veneto, Torino, Reggio Emilia, Bologna, Genova, Firenze, Pisa, Siena, Roma, Castel Volturno, Napoli, Mesagne, Reggio Calabria e nel cuore di Palermo, nella centralissima piazza Politeama, dove la bottega ha sede in un negozio confiscato a Gianni Ienna. Non solo: nel pianeta “Libera Terra” trovano posto anche una cantina (la “Centopassi”), due agriturismi (“Portella della Ginestra” e “Terre di Corleone”), un caseificio (“Le Terre” di Castel Volturno), un consorzio di cooperative (“Libera Terra Mediterraneo”, che dà lavoro a nove dipendenti e cinque collaboratori) e un'associazione di supporto (“Cooperare con Libera Terra”, onlus con 74 cooperative socie). Ne viene fuori un universo che nel 2013 ha dato uno stipendio a 126 lavoratori, 38 dei quali svantaggiati, ai quali si sono aggiunti 1.214 volontari. Tutto per produrre circa 70 prodotti – venduti nelle botteghe Libera Terra, ma anche nei punti vendita Coop, Conad e Auchan – che spaziano dalla pasta all'olio, dal vino alla zuppa di ceci in busta: ne è venuto fuori, nel 2013, un fatturato di 5.832.297 euro, proveniente per più di un quinto dalla commercializzazione all'estero. Numeri che fanno delle cooperative il cuore pulsante dell'economia targata Libera: basti pensare che l'intero bilancio dell'associazione-madre muove 2,4 milioni di euro, meno della metà del flusso di denaro che passa dai campi confiscati. Denaro che però non finisce nelle tasche dei 94 soci: se una royalty – nel 2013 di 157 mila euro – viene girata a “Libera”, il resto viene utilizzato per attività sociali come la promozione della legalità, il recupero di beni sottratti ai boss e i campi estivi. Già, perché nei terreni confiscati il clou si raggiunge d'estate. Nei mesi caldi, infatti, le cooperative siciliane (ma anche quelle pugliesi) accolgono giovani da tutta Italia per attività di volontariato sui beni sottratti ai capimafia. Il momento centrale della vita dell'associazione, però, si raggiungerà fra pochi giorni: il 21 marzo, infatti, “Libera” organizza dal 1996 una “Giornata della memoria e dell'impegno” durante la quale vengono ricordate le vittime di mafia. Quest'anno l'appuntamento è a Bologna, con una kermesse iniziata venerdì e destinata a concludersi il 22. A ridosso dei vent'anni dell'associazione. E in un momento di grandi conflitti per le antimafie.

"Fatti di inaudita gravità". Beni confiscati, una ferita aperta, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Anno giudiziario. Nel giorno in cui i magistrati presentano i risultati di un anno di lavoro, a Palermo e Caltanissetta tiene banco l'inchiesta sulle Misure di prevenzione. Nel capoluogo siciliano il ministro Andrea Orlando dice: "La mafia non è vinta". È il caso Saguto a tenere banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudizio a Palermo e Caltanissetta. Palermo è la città dove lavorava l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale finita sotto inchiesta. A Caltanissetta, invece, lavorano i pubblici ministeri che con la loro indagine hanno fatto esplodere la bomba giudiziaria della gestione dei beni sequestrati alla mafia. A Palermo, davanti al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ha fatto al sua relazione il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli. "Se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione dovessero essere confermate - ha detto Natoli - occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Il magistrato ha recitato il mea culpa a nome dell'intera categoria, spiegando che "la prevenzione di certi episodi parte dai controlli a cominciare dalla valutazione della professionalità" e ammettendo che nella gestione della sezione c'erano "criticità e inefficienze nella durata dei procedimenti, nell'organizzazione e nella distribuzione degli incarichi". E il ministro è stato altrettanto duro: "E' necessario perseguire le condotte che hanno offuscato il lavoro di tanti valenti magistrati. Quello dell'aggressione ai beni mafiosi è uno dei terreni che ha dato maggiori risultati nel contrasto a Cosa Nostra". Il ministro, anche richiamando la recente normativa sui tetti ai compensi degli amministratori giudiziari, ha auspicato "una riduzione dei margini di discrezionalità in cui si sono sviluppati fenomeni allarmanti".  Poi, un passaggio dedicato alla lotta a Cosa nostra: "La mafia è stata colpita, ma non è battuta, né si tratta di un'emergenza superata anche se altre se ne profilano all'orizzonte". Nel frattempo, a Caltanissetta, interveniva il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: "I magistrati della Procura di Caltanissetta, con un'indagine coraggiosa e difficile che è tuttora in corso, hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che la prima Commissione e la sezione disciplinare del Csm potessero sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ecco perché Legnini ha detto di avere “scelto di essere presente a Caltanissetta, per testimoniare la mia gratitudine è quella di tutto il Csm verso i magistrati che prestano servizio in questo distretto”. Sulla stessa lunghezza d'onda le parole del procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari: "Gli scandali che hanno visto coinvolti i magistrati, pur trattandosi di episodi isolati, non possono essere sottovalutati e dimostrano come la massima attenzione debba essere posta alla deontologia ed alla questione morale nella magistratura, essendo inammissibili, soprattutto in un'epoca così degradata in altri ambiti istituzionali, cadute etiche da parte di chi deve svolgere l'alto compito del controllo di legalità".

L’antimafia di facciata ai pm non piace più. Apertura dell'anno giudiziario a Palermo. Il procuratore Lo Voi: persegue affari e carriera, scrive Luca Rocca il 31 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Che un giorno anche la procura di Palermo potesse destarsi e puntare il dito contro l’«antimafia di facciata», accusata di perseguire solo «affari e carriera», ci credevano in pochi. Forse nessuno. E invece è accaduto ieri in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando il procuratore capo Francesco Lo Voi si è scagliato proprio contro chi, nascondendosi dietro l’intoccabilità di chi quella categoria l’ha usata come una corazza, ha pensato di poter coltivare i propri interessi con la certezza di non essere sfiorato nemmeno dal sospetto. D’altronde, dopo i casi di Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo per la gestione dei beni confiscati indagata per corruzione, abuso d'ufficio e riciclaggio; quello di Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo arrestato per estorsione dopo anni di proclami contro il pizzo; o ancora di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità di Confindustria Sicilia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa; oppure Rosy Canale, condannata a quattro anni di carcere per truffa e malversazione dopo aver vestito i panni della paladina anti ’ndrangheta col «Movimento donne di San Luca»; dopo questi «colpi al cuore» al professionismo dell’antimafia, dicevamo, dalla procura che più di ogni altra ha incarnato la lotta alla mafia, «slittando», da un certo momento in poi, verso mete fantasiose e poco concrete, una parola di condanna non poteva più mancare. E così ieri Lo Voi (la cui nomina a capo della procura palermitana è stata resa definitiva, pochi giorni fa, dal Consiglio di Stato, che si è espresso sui ricorsi di Guido Lo Forte e Sergio Lari, procuratori rispettivamente a Messina e Caltanissetta) non ha taciuto, non ha voluto tacere: «Forse c'è stata – ha affermato il procuratore capo di Palermo - una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità, a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere». Lo Voi non ci ha girato intorno, e pur senza citare, ovviamente, casi specifici, ha preso di petto la deriva di quell’antimafia che, dopo la sconfitta della mafia stragista, come sostiene da tempo lo storico Salvatore Lupo, ha perso la sua ragione d’essere: «La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità – ha scandito il procuratore -, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi e opinioni diverse». Parole inequivocabili. Proprio come quelle pronunciate subito dopo e che chiamano in causa le stesse toghe: «E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato». Dato a Cesare quel che è di Cesare, il procuratore capo non poteva, infine, non concedere qualche distinguo: «Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere. Gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso».

Lo Voi e l'antimafia di facciata: "È servita per affari e carriere", scrive Sabato 30 Gennaio 2016 "Live Sicilia". Intervento del procuratore all'inaugurazione dell'anno giudiziario di Palermo: "A questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale". Poi, una frecciata agli imprenditori che "pretendono" la restituzione dei beni che sono stati sequestrati per mafia. (Nella foto il procuratore Francesco Lo Voi". "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. L'antimafia di facciata, che serve a scalare posizioni sociali e fare carriera, finisce "sotto attacco" del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi nel corso dell'inaugurazione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ed ancora: "La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari; ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". Eppure, secondo Lo Voi, basterebbe poco: "Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere; gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente". Poi ha lanciato un monito: "Da un lato dobbiamo essere estremamente vigili, tutti, per evitare che vi siano non soltanto infiltrazioni e sostenendo e supportando coloro che fanno, anziché quelli che dicono di fare. Dall'altro lato, dobbiamo evitare il danno peggiore, che è quello della generalizzazione. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso". "Mettere nel nulla i risultati ottenuti sarebbe assurdo. Pretendere, solo per fare un esempio, la restituzione dei beni sequestrati o confiscati ai mafiosi, addirittura costituendo associazioni ad hoc sarebbe ancora più assurdo", ha concluso riferendosi all'associazione costituita dopo il caso Saguto da imprenditori indiziati di contiguità mafiose ai quali erano stati sequestrati i patrimoni. 

Mea culpa di politica e magistratura, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 di Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". La gestione dei beni confiscati alla mafia tiene banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. A Palermo come a Caltanissetta autorevoli voci confermano che lo scandalo andava e poteva essere evitato, ma sono mancati i controlli. Dell'antimafia di mestiere, tutta chiacchiere e distintivo, restano le macerie. Persino la magistratura siciliana ammette i propri errori. E lo fa scegliendo il giorno della parata delle toghe. Per una volta non c'è solo retorica nei discorsi dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. È il caso Saguto ad imporlo, senza se e senza ma, sia a Palermo, la città dello scandalo che ha travolto la sezione Misure di prevenzione del Tribunale, che a Caltanissetta, dove lavorano i pm che lo scandalo hanno fatto esplodere con le indagini. Sarà l'inchiesta e l'eventuale processo a stabilire se l'ex presidente Silvana Saguto e gli altri componenti del vecchio collegio che sequestrava i beni ai mafiosi e li assegnava agli amministratori giudiziari abbiano davvero commesso i reati che i finanzieri ipotizzano. Reati pesanti che includono la concussioni, la corruzione e il riciclaggio. Dalle indagini è, però, già emerso uno spaccato di favori e clientele che fa a pugni con l'imparzialità che ci si attende da chi indossa una toga. È Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, l'organo di autogoverno della magistratura, oggi a Caltanissetta, a parlare di “fatti di inaudita gravità”. La magistratura ammette gli errori. È lecito chiedersi, però, cosa abbia fatto per evitarli. A Palermo il presidente della corte d'appello Gioacchino Natoli ha spiegato “che se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione di Palermo dovessero essere confermate, occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Insomma, secondo Natoli, chi doveva controllare non lo avrebbe fatto. A livello locale, così come anche nei palazzi romani. Sempre Legnini si è complimentato con "i magistrati della Procura di Caltanissetta” che grazie alla loro indagine "coraggiosa e difficile hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che il Csm potesse sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ripristinare, appunto, qualcosa che è venuta meno e non prevenire che ciò accadesse. E la politica? Anch'essa ammette, per bocca del ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi a Palermo, “la timidezza della politica negli anni passati sulla magistratura. Avere lasciato spazi di discrezionalità ampia, per esempio, non regolando attraverso norme i compensi e le modalità di affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari o in altre procedure che prevedano incarichi con ampio margine di discrezionalità, ha consentito che si creassero zone d'ombra. La stagione nuova che si è aperta - conclude il ministro - ci consente di ragionare, grazie anche al rinnovato dialogo con la magistratura, su questi temi allo scopo di tutelare il prestigio della giurisdizione". E così la politica e la magistratura, per bocca dei suoi stessi autorevoli rappresentanti, hanno finito per contribuire a rendere vuota di significato la parola antimafia. L'intervento più duro della giornata è arrivato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che fotografia le macerie dell'antimafia: "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità o magari a riscuotere consensi. Spiace registrarlo a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". 

L’Antimafia? Una, nessuna, centomila, scrive Salvo itale il 24 gennaio 2016 su Telejato. C’È QUALCOSA CHE NON FUNZIONA NEL MONDO DELL’ANTIMAFIA, DI SICURO NON FUNZIONA IL FATTO CHE CI SIA IN MEZZO IL DENARO. La vera antimafia, come sosteniamo da anni, tirandoci addosso le ire di tutte le associazioni antimafia, dovrebbe essere gratuita, in nome degli alti ideali cui fa riferimento e in nome di tutti coloro che sono morti per mano della mafia senza avere lucrato una sola lira. Recentemente lo stesso concetto è stato “scoperto” e ripetuto dal garante anticorruzione Raffaele Cantone e da un altro magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta, Nicola Gratteri. Un altro magistrato napoletano, Maresca, ha scatenato le ire di tutta la commissione Antimafia, a partire dalla sua presidente Rosy Bindi, e naturalmente anche di Don Ciotti, per aver affermato che anche in Libera “C’è del marcio”, ovvero che la più prestigiosa associazione antimafia dovrebbe stare un po’ più attenta nella scelta di coloro cui viene affidata la gestione di alcuni affari e di alcuni terreni confiscati alla mafia. La notizia di oggi è che il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, bandiera dell’antiracket e strenuo sostenitore del fatto che bisogna denunciare gli estortori, è stato sottoposto a perquisizioni domiciliari disposte dalla procura di Caltanissetta ed è sotto inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’indagine era partita da un articolo di Riccardo Orioles, scritto qualche anno fa, su “I Siciliani giovani” nel quale si denunciava che Montante era stato testimone di nozze del boss di Serradifalco. Montante, difeso a spada tratta dalla Procura Nazionale Antimafia e da tutti i suoi colleghi industriali, cammina sotto scorta, essendo ritenuto un soggetto esposto a ritorsioni mafiose per la sua costante attività in favore della legalità. Per anni è stato l’anello di collegamento con prefetti, questori, esponenti del governo, magistrati, industriali, tutti d’accordo ad esaltare le sue scelte antimafia e il suo coraggio. Addirittura era stato scelto da Alfano come componente dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati e quindi avrebbe potuto facilmente disporne l’assegnazione agli industriali suoi amici: per fortuna, dopo le polemiche sorte, non ha accettato. Ma Montante ha una serie di precedenti che dimostrano il fallimento dell’Antimafia di facciata, spesso scelta per non avere grane, per non essere sottoposto a indagini o, qualche volta, per coprire certi affari poco puliti. Il caso Helg, anche lui bandiera dell’antimafia, colto con le mani nel sacco, non è diverso da tutta una serie di altri casi che puntano alla spartizione di fondi governativi o europei al mondo delle associazioni antimafia, privilegiando quelle più vicine politicamente a certi uomini di potere. Nell’albo prefettizio, sono iscritte, solo per l’Italia meridionale oltre cento associazioni antiracket. Ma già nel marzo del 2012 le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva, mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. Allora i fondi del Pon erano stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ottenne finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro erano finiti a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta, quella di Montante. Allora si trattava di 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che facevano parte del Pon-Sicurezza, al fine di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del Mezzogiorno. Quei soldi furono distribuiti, con la benedizione dell’allora ministro Cancellieri e dall’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, del commissario antiracket Giosuè Marino, poi assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia e del presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto dallo scandalo sugli appalti pilotati dal Viminale. È cambiato qualcosa in questi anni? Niente: un mare di denaro pubblico finisce per finanziare progetti di “educazione alla legalità” preparati dalle associazioni antimafia e antiracket che vanno per la maggiore, ma i risultati sono pochi, contraddittori e senza risvolti. Per non parlare dell’antimafia da tribunale, della quale abbiamo detto tante cose, quelle legate alla gestione di Silvana Saguto e dei suoi collaboratori, con una caterva di persone che hanno succhiato a questa mammella senza ritegno, cioè magistrati, amministratori giudiziari curatori fallimentari, avvocati, affaristi, cancellieri, collaboratori a vario titolo, consulenti ecc. Per tornare alla Confindustria, dalle varie situazioni giudiziarie è uscito indenne Catanzaro, altro antimafioso che gestisce la discarica di Siculiana, scippata al comune, assieme al fratello, vicepresidente, sempre di Confindustria Sicilia. Si potrebbe dire ancora tanto, ma facciamo solo un cenno ai politici che dell’antimafia hanno fatto una loro bandiera, che sono presenti a tutte le manifestazioni e agli anniversari, che hanno costruito le loro fortune grazie a questa bandiera, ammainata quasi sempre, ma pronta a sventolare nelle grandi occasioni. Qualcuno direbbe che siamo nella terra di Sciascia, quella dei professionisti dell’antimafia, qualche altro direbbe che siamo in quella del Gattopardo, in cui si fa vedere l’illusione del cambiamento per non cambiare, o nella terra di Pirandello, dove il caciocavallo ha quattro facce, o meglio ne ha una, nessuna, centomila.

Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo". Il presidente dell'Anticorruzione interviene nella polemica sui beni confiscati alle mafie. E su Libera dice: "Ha fatto tanto ma è diventata un brand", scrive il 25 gennaio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". “C’è chi usa l’antimafia e va smascherato”. Questo dice Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato attivo a Napoli nella lotta alla camorra. In questa intervista, Cantone parla della opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia ha lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, proprio il pm che di Cantone è stato il successore alla Procura di Napoli.

Dottor Cantone, il pm Maresca attacca “gli estremisti dell’antimafia, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato”. Le sue accuse sono molto gravi. Lei è d’accordo con lui?

«Ho letto l'intervista di Catello Maresca, cui mi legano rapporti di affetto e amicizia, e anche le precisazioni dopo che è scoppiata la polemica con Libera. Condivido gran parte dell’analisi svolta da Catello e ritengo sia stato giusto e opportuno richiamare l’attenzione su cosa sta accadendo in generale nel mondo dell’Antimafia sociale e nella gestione dei beni confiscati».

Che cosa sta accadendo, secondo lei, in quel mondo?

«Si stanno verificando troppi episodi che appannano l’immagine dell’antimafia sociale e troppe volte emergono opacità e scarsa trasparenza sia nell’affidamento che nella gestione di beni confiscati. Questi ultimi, invece, di rappresentare una risorsa per il Paese, spesso finiscono per essere un altro costo; vengono in molti casi affidati a terzi gratuitamente e a questi affidamenti si accompagnano spesso anche sovvenzioni e contributi a carico di enti pubblici. Cosa che può essere anche giusta e condivisibile in astratto ma che richiede un controllo reale in concreto su come i beni e le risorse vengano gestite per evitare abusi e malversazioni. Non sono, però, d’accordo nell’aver individuato quale paradigma di queste distorsioni Libera; e il mio giudizio in questo senso non è influenzato dai rapporti personali con Luigi Ciotti né dal fatto che come Autorità anticorruzione abbiamo avviato una collaborazione con Libera, che rivendichiamo come un risultato importante».

Su Libera, Maresca ha dichiarato a Panorama: «Libera gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Ha torto o ha ragione?

«Sono sicuro che in questa parte il ragionamento di Catello sia stato equivocato; non mi risulta che Libera abbia il monopolio dei beni confiscati e che li gestisca in modo anticoncorrenziale; conosco alcune esperienze di gestione di beni da parte di cooperative che si ispirano a Libera (per esempio, le terre di don Peppe Diana) e li ritengo esempi positivi; beni utilizzati in una logica produttiva e che stanno anche dando lavoro a ragazzi dimostrando quale deve essere la reale vocazione dell’utilizzo dei beni confiscati. Condivido, invece, l’idea di fondo di Catello; è necessario che le norme prevedano che anche l’affidamento dei beni confiscati debba seguire procedure competitive e trasparenti, non diverse da quelle che riguardano altri beni pubblici. Ovviamente tenendo conto delle peculiarità dei beni che si affidano».

Ma lei, che alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli occupava proprio la stanza che oggi è di Maresca, che cosa pensa di Libera?

«Libera è un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo paese; le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini; e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui gli siamo grati. Certo Libera è un’associazione che è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventato anche un “brand” di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato. E’ però il rischio di un’associazione che cresce ed è un rischio che ha ben presente anche Luigi Ciotti che in più occasioni non ne ha fatto nemmeno mistero in pubblico».

Don Ciotti ha annunciato querela contro Maresca. Viene un po’ in mente la polemica di Leonardo Sciascia del gennaio 1987 sui «professionisti dell’antimafia»: è possibile criticare l’antimafia?

«Spero che Ciotti possa rivedere la sua posizione. Sono certo che, se parlasse con Maresca, i punti di contatto sarebbero maggiori delle distanze. E lavorerò perchè questo accada. Credo che la reazione a caldo di Ciotti però si giustifichi anche perché in questo momento ci sono attacchi a Libera (che non sono quelli di Catello, sia chiaro!) che giustamente lo preoccupano. Ciò detto, l’antimafia può ben essere criticata se è necessario e parole anche dure, come quelle dette anni fa da Sciascia, non possono essere semplificativamente respinte come provenienti da “nemici”. Sciascia con quella sua frase dimostrò di essere in grado di guardare molto lontano e di aver capito i rischi della professionalizzazione di un impegno civile, anche se aveva sbagliato nettamente l’obiettivo immediato; quelle critiche si riferivano a Paolo Borsellino ed erano nei suoi confronti ingiuste ed ingenerose».

Maresca dice anche che «è necessario smascherare gli estremisti dell’antimafia». La frase è forte: ha ragione?

«Si, anche se io preferisco dire che bisogna smascherare chi l’antimafia la usa e la utilizza per fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni di contrasto alla mafia. E negli ultimi tempi di soggetti del genere ne abbiamo visto non pochi!»

Lo scorso settembre il «caso Saguto» ha fatto emergere a Palermo lo scandalo della cattiva gestione dei beni confiscati. Il procedimento è in ancora corso. Ma lei che opinione s’è fatto?

«Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, come è giusto che sia; lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche soprattutto quando passano per incarichi lucrosi e discrezionali a terzi professionisti, con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali. Da presidente dell’Anac ho chiesto formalmente al Governo di fissare le tariffe per gli amministratori (a cui sono legati gli emolumenti per gli amministratori dei beni da noi commissariati) proprio perchè certe discrezionalità in questo settore possono aprire la strada ad abusi.»

Certi Uffici misure di prevenzione dei Tribunali sono forse diventati "enclave" con troppo potere?

«Può forse essere accaduto in qualche caso, ma le generalizzazioni rischiano di far dimenticare quanto sia stato importante il ruolo di quelle sezioni del tribunale nella lotta alla mafia. La natura temporanea di questi incarichi, prevista opportunamente da regole interne introdotte dal CSM, è un antidoto utile a favore degli stessi magistrati per evitare eccessive personalizzazioni. Ed aggiungo, io non sono affatto favorevole alla norma, in discussione in parlamento, secondo cui le sezioni in questione devono obbligatoriamente occuparsi solo di prevenzione».

Già nel marzo 2012 l’ex direttore dell’Agenzia beni confiscati Giuseppe Caruso diceva che "i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente". Possibile che per altri tre anni sia prevalso l’immobilismo?

«L’affermazione di Caruso ha un che di vero, ma è comunque esagerata. È vero che ad oggi lo Stato non è riuscito ancora a cogliere l’occasione di utilizzare in modo più proficuo i beni confiscati e che è indispensabile un cambio di passo. Non va, però, dimenticato quanto siano state importanti le confische per indebolire le mafie. Non vorrei che qualcuno pensasse di utilizzare queste criticità per indebolire la lotta alla mafia, che ha invece assoluta necessità di utilizzare le misure di prevenzione patrimoniale».

Più di recente, nel 2014, Caruso aveva denunciato l’esistenza di amministratori giudiziari "intoccabili", di "professionisti che hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi" e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. Era stato criticato ferocemente da sinistra: Rosy Bindi disse che aveva "delegittimato i magistrati e l’antimafia". Eppure Caruso aveva ragione: allora, perché è stato isolato?

«Con il senno di poi non si può dire altro che avesse ragione. Non conoscendo, però, con precisione le sue dichiarazioni non so se avesse fornito indicazioni precise che, ovviamente sarebbe stato compito della commissione antimafia approfondire, o avesse fatto affermazioni generiche che potevano essere considerate effettivamente delegittimanti. Del resto Caruso, era un prefetto ed un pubblico ufficiale e se aveva conoscenza di fatti illeciti non doveva limitarsi a segnalarli all’Antimafia, ma denunciarli alla Procura competente!»

Anche l’Associazione nazionale magistrati nel 2014 aveva criticato il prefetto: "I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori" si leggeva in un comunicato "operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro". Un comunicato che oggi grida vendetta, vero?

«Spesso scatta una sorta di riflesso condizionato, di difesa della magistratura e dei magistrati “a prescindere”. Ma io non voglio altre polemiche con l’Anm. Credo che l’Anm possa e debba svolgere un ruolo importante anche per tenere alta la questione morale in magistratura. Ho fatto parte alcuni anni fa del collegio dei probiviri dell’Anm ed ho verificato quanto fosse difficile applicare le regole deontologiche. Disponemmo un’espulsione di un magistrato dall’associazione ed avviammo altri procedimenti analoghi e per capire anche come stilare il provvedimento di espulsione cercammo precedenti che non trovammo. Fummo sicuramente noi poco diligenti nel non reperirli».

Una domanda da 30 miliardi di euro (tanto si dice sia il valore dei patrimoni sequestrati): che cosa dovrebbe fare lo Stato per gestire al meglio i beni confiscati alle mafie?

«Lo Stato deve capire quale sia la destinazione migliore e farlo anche grazie ad esperti indipendenti. In qualche caso ho avuto l’impressione che certe attività, che funzionavano chiaramente solo perchè gestite da mafiosi, siano state tenute in vita senza una logica e abbiano finito per creare solo inutili perdite. Bisogna preferire le destinazioni economiche dei beni, incentivando l’utilizzo in funzione produttiva piuttosto che destinazioni poco utili.

Per esempio?

«Quante ludoteche e centri per anziani abbiamo in passato aperto in beni confiscati? È per questo che credo che iniziative come quelle citate prima, dell’utilizzo di terreni da parte di cooperative di giovani siano assolutamente da favorire. È un segnale importante che deve dare lo Stato, di essere capace di utilizzare i beni per produrre ricchezza, non lasciandoli deperire. Quando nel mio paese vedo un immobile oggi confiscato, nel quale prima operava una scuola, e oggi è completamente vandalizzato, mi chiedo se questa non sia l’immagine peggiore che riesce a dare l’istituzione pubblica».

Non sarebbe meglio vendere tutto quel che è possibile vendere, come suggerisce Maresca?

«La vendita deve essere ammessa, ma considerata comunque eccezionale e riguardare beni che non possono essere destinati in alcun modo. Il primo impegno deve essere quello di utilizzarli per fini di utilità sociale o per avviare attività economiche a favore di giovani e soggetti svantaggiati».

Come si evita il rischio che poi, a ricomprare, siano gli stessi mafiosi o loro teste di legno?

«Il rischio è reale; ma se si fanno controlli veri, attraverso la Guardia di finanza, su chi li compra e si stabilisce, per esempio, un vincolo di non alienazione per alcuni anni, questo rischio si riduce. Eppoi questo rischio non può giustificare il lasciar andare in malora qualche bene. Meglio è, come provocatoriamente più volte ha detto Nicola Gratteri, abbatterli e destinare per esempio i terreni a parchi pubblici!»

Certo, è più facile alienare beni mobili e immobili confiscati. Lo è meno nel caso delle aziende: qui quale soluzione prospetta?

«È molto più difficile gestire un’impresa appartenuta ad un mafioso, che come ho accennato sopra, spesso si è imposta nel mercato e ha utilizzato il know-how mafioso per ottenere risultati economici. Perciò va fatta una valutazione immediata e preliminare per capire se un'impresa è in grado di funzionare. Se no è meglio chiuderla ed eventualmente vendere i beni che di essa fanno parte. Se l’impresa è sana o comunque riportabile nella legalità, lo Stato può pensare di creare condizioni favorevoli (per esempio esenzioni fiscali e crediti di imposta) per consentirle di operare secondo le regole».

Perché tante aziende mafiose confiscate falliscono (creando tra l’altro un malessere sociale di cui poi le mafie inevitabilmente si approfittano)?

«Perché gli imprenditori mafiosi utilizzano regole diverse nello svolgimento dell’attività; utilizzano i canali mafiosi per imporre i loro prodotti; non hanno bisogno di farsi dare soldi in prestito dalle banche; non devono andare in tribunale per riscuotere i crediti; né rivolgersi a sindacati per i problemi con i lavoratori. Sono imprese "drogate" e quando viene meno il doping criminale non reggono il mercato! Il loro fallimento crea sicuramente malessere sociale ma bisogna stare attenti a salvarle a tutti i costi e fare un’attenta prognosi come dicevo prima. Spesso in esse lavorano persone direttamente collegati alle cosche e si rischia, salvandole a spese pubbliche, di foraggiare indirettamente i clan».

Nel luglio 2015, due mesi prima dell’emersione dello scandalo Saguto, lei aveva chiesto al governo d’intervenire sulle elevatissime retribuzioni degli amministratori giudiziari. Aveva intravisto qualche criticità?

«Ho fatto il pubblico ministero antimafia per otto anni e pur non essendomi occupato di misure di prevenzione, mi era chiaro come un sistema con regole non chiare rischiava di aprire il varco ad abusi. In qualche caso mi era capitato di vedere liquidazioni che mi erano sembrate eccessive. Ammetto, però, che sono sobbalzato quando ho sentito di alcune liquidazioni di onorari fatti ad amministratori giudiziari».

Le leggi e la prassi permettono effettivamente agli amministratori giudiziari dei beni confiscati di raggiungere retribuzioni elevatissime: è un errore da cancellare, oppure con un calo dei compensi nessuno accetterebbe?

«Il rischio c’è: le tariffe introdotte dal provvedimento del governo sicuramente renderanno meno appetibili le amministrazioni e probabilmente allontaneranno alcuni professionisti di valore dal settore. C’è pero una certa elasticità che consente di adeguarle e forse sarà l’occasione per dare spazio a giovani professionisti che non sempre hanno avuto l’occasione di operare in tale ambito».

Non sarebbe più corretto ordinare il sequestro di un bene soltanto quando si è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa?

«No. Il sequestro resta un provvedimento necessario per togliere subito i beni ai mafiosi. Bisogna invece fare in modo che duri il meno possibile e che sia sostituito da provvedimenti definitivi di confisca».

Non sarebbe bene, anche, svincolare le competenze sui decreti di sequestro e di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato, per attribuirla a tutti i magistrati di un pool antimafia?

«Già è competenza collegiale del tribunale, quantomeno nei casi di confische di prevenzione. Il sistema prevede controlli sufficienti anche da parte dei vertici degli uffici. Basta che tutti gli attori siano realmente attenti e scrupolosi rispetto ai loro compiti. Non sempre può dirsi dopo “non me ne ero accorto” o “non avevo capito”.»

Il nuovo Codice antimafia, varato dalla Camera e in attesa di approvazione al Senato, è la soluzione?

«Va nella giusta direzione per molti aspetti. Vuole migliorare la capacità di lavoro dell’Agenzia, un’entità utile che ad oggi ha dovuto fare sforzi enormi, per difficoltà oggettive. Prevede regole più chiare sulla destinazione dei beni. Ci sono delle criticità in quella normativa, come ad esempio l’estensione automatica delle regole della prevenzione ai fatti corruttivi che rischia di creare più problemi di quanti ne risolve. Complessivamente comunque un provvedimento positivo, ma probabilmente saranno opportuni interventi modificativi da parte del Senato».

È una soluzione il divieto giacobino di affidare beni confiscati a un «commensale abituale» del giudice che decide?

«Come magistrato lo sento gravemente offensivo; non avrei mai pensato, anche senza questa regola, di affidare un incarico ad un mio commensale abituale. Certe vicende, però, giustificano persino regole che dovrebbero rientrare nella deontologia minima. Quelle vicende, però, sono l’eccezione, per fortuna, perché di queste regole la maggior parte dei magistrati non ha certo bisogno!»

Torniamo a Catello Maresca: non crede che ora rischi parecchio (e non sto parlando, ovviamente, della querela di Don Ciotti…)?

«Lo escludo. I rischi che ha corso e corre Catello sono legati al suo eccezionale impegno giudiziario e ai risultati ottenuti, quale la cattura del più importante boss dei casalesi. E su quell’aspetto non è stato lasciato solo. Nè lo sarà, assolutamente».

I guai dei paladini antimafia. Rosy Canale condannata a quattro anni. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio..., scrive L.R. il 23 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio e Pelle-Vottari regolarono i conti in Germania con uno scontro a fuoco che provocò sei morti, fondò, nel piccolo centro aspromontano scenario della faida, il «Movimento donne di San Luca». Un barlume di luce, in apparenza, una speranza, ci si illudeva, che si chiude, tristemente, con la condanna a 4 anni per truffa e malversazione, a fronte dei 7 chiesti dal pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Francesco Tedesco. Dunque, per il Tribunale di Locri che l’ha processata, Rosy Canale, per anni considerata un’icona della lotta alle cosche, ha davvero utilizzato finanziamenti pubblici destinati all’attività del «suo» Movimento per scopi personali. La storia, che getta altre ombre sul mondo dell’antimafia di professione, scosso negli ultimi mesi da micidiali colpi d’immagine, inizia il 12 dicembre del 2013, giorno in cui la Dda reggina, coordinata dal procuratore Federico Cafiero de Raho, fa scattare le manette ai polsi di alcuni ex amministratori comunali, imprenditori e boss. La donna simbolo dell’antimafia, alla quale non viene contestata l’aggravante mafiosa, finisce ai domiciliari. L’inchiesta, non a caso denominata «Inganno», appare subito solida. Alla Canale i magistrati contestano di aver utilizzato 160mila euro per comprare vestiti delle più note marche e una minicar alla figlia, arredamento per la casa e oggetti di lusso. Quando il Tribunale del Riesame revoca l’arresto, la Canale va in tv a parlare di «grande montatura». La sentenza di ieri toglie, per ora, ogni dubbio. Eppure lei, la donna simbolo di San Luca, nei panni della paladina antimafia ci si era calata alla perfezione: vergando libri per raccontare la sua ribellione alla ’ndrangheta, ricevendo il premio «Paolo Borsellino» (poi ritirato). Persino il Los Angeles Times dedicò un reportage alle donne di San Luca. La pessima figura dell’«antimafia di professione», stavolta, ha varcato pure i confini nazionali.

Rosy Canale, 4 anni per truffa alla paladina della lotta alla ’Ndrangheta. La fondatrice delle «Donne di San Luca» accusata d’aver utilizzato 160 mila euro di fondi pubblici per comprare vestiti e beni di lusso: «Me ne fotto, non sono soldi miei», scrive Carlo Macrì il 22 gennaio 2016. Era considerata un'icona dell'Antimafia Rosy Canale, l'imprenditrice reggina condannata venerdì dal tribunale di Locri a quattro anni di carcere, più l'obbligo di risarcire gli Enti che ha truffato attraverso la sua Fondazione «Donne di San Luca». È proprio attraverso questo movimento che la Canale, 42 anni, riuscì a ritagliarsi un ruolo nell'Antimafia, «parlando» alle donne del centro preaspromontano all'indomani della strage di Duisburg (sei morti) dell'agosto 2007. La procura distrettuale di Reggio Calabria l'aveva arrestata a dicembre del 2013 con l'accusa di truffa aggravata e peculato per distrazione. La donna, infatti si era impossessata dei fondi pubblici comunitari e italiani erogati per finanziare la sua fondazione antimafia. Centosessanta mila euro che anziché foraggiare il laboratorio dei saponi artigianali a San Luca, sarebbero finiti nelle tasche dell'imprenditrice che li avrebbe utilizzati per l'acquisto di abiti firmati e un'auto per la figlia, vestiti per il padre e beni di lusso. E quando la madre ha cercato di fermarla - come hanno ascoltato le microspie dei carabinieri - Rosy replicava: «Me ne fotto, non sono soldi miei». Un passato da imprenditrice alle spalle, attività abbandonata dopo aver subito la violenza delle cosche reggine e un futuro da attrice. La sua storia, infatti, è diventata Malaluna, un'opera teatrale con la regia di Guglielmo Ferro e le musiche di Franco Battiato. Nel 2013, proprio per il suo impegno antimafia, aveva ricevuto il premio Borsellino. Quel giorno disse: «Vorrei che Papa Francesco venisse fra gli ultimi e i dimenticati di San Luca». Quando Rosy Canale arrivò a San Luca era una sconosciuta.  Ascoltando in chiesa il perdono di Teresa Strangio che nella strage di Duisburg perse il figlio e il fratello, l'imprenditrice capì che le donne di San Luca alla fine erano propense a rinnegare ogni violenza e a ripartire. La Prefettura le affidò un bene confiscato alla famiglia Pelle per dare inizio alle sue attività culturali. Ricami, cucina tipica, ogni donna a San Luca sembrava muoversi verso una nuova vita.  Tutto svanì. Perchè con «Inganno» l'operazione dei carabinieri che aprì le porte del carcere alla Canale, sfumarono le idee e la rinascita di un popolo per far posto all'arricchimento di una donna considerata sino a quel momento una paladina dell'Antimafia.

Condannata a 4 anni Rosy Canale, fondatrice di "Donne di San Luca". L'ormai ex simbolo dell'antimafia calabrese riconosciuta colpevole di aver utilizzato a scopi privati gran parte dei fondi pubblici destinati al suo movimento, scrive Alessia Candito il 22 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Rosy Canale Era divenuta un nome e un volto noto dell'antimafia per le sue campagne in favore delle donne di San Luca, ma con i soldi di enti e fondazioni si viziava con vestiti e borse di marca, mobili per la propria casa, viaggi e persino un'automobile. Per questo motivo, i giudici del Tribunale di Locri hanno condannato a quattro anni di carcere l'ormai ex stellina dell'antimafia Rosy Canale, smascherata dall'inchiesta della procura di Reggio Calabria che ha svelato come la donna tenesse per sé gran parte dei fondi destinati al "Movimento delle donne di San Luca". Ex titolare di una discoteca, dopo anni trascorsi tra gli Stati Uniti e Roma Rosy Canale torna in Calabria all'indomani della strage di Duisburg, l'uccisione di sei persone vicine al clan Pelle-Vottari di San Luca, che nel 2007 svela alla Germania il volto della violenza mafiosa. Anche in Italia, l'episodio impone la 'ndrangheta al centro dell'attenzione nazionale. E Canale fiuta il business. Accreditandosi come imprenditrice "con la schiena dritta", vittima di un pestaggio per aver sbarrato il passo agli spacciatori quando gestiva un noto locale reggino, la donna si precipita a San Luca dove fonda un movimento che - almeno ufficialmente - avrebbe dovuto dare speranza e lavoro alle donne del piccolo centro nei pressi di Reggio Calabria storicamente soffocato dalla 'ndrangheta. In realtà, puntava solo ad arraffare quattrini. Grazie a una strategia mediatica abilmente pianificata, condita da diverse denunce di minacce fasulle, ma strombazzate - scrivono i magistrati - "con l'unico scopo di cavalcare l'allarme sociale in modo da acquisire credibilità sia in campo politico che nel contesto dei rapporti con soggetti istituzionali", Canale si accredita in fretta. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore" le inviano finanziamenti per centinaia di migliaia di euro. Al centro di San Luca, ottiene anche un immobile confiscato che sarebbe dovuto diventare una ludoteca per le sue "donne di San Luca", ma dopo l'inaugurazione non entrerà mai in funzione. Canale sforna un libro, gira l'Italia con il suo spettacolo teatrale e spende senza freni. A chi, come la madre, le raccomanda prudenza e moderazione - raccontano le intercettazioni - la donna risponde, arrogante: "Me ne fotto". Ma forse, alla luce della sentenza delle Tribunale di Locri, avrebbe fatto meglio a dare ascolto a quei consigli.

La verità di Rosy Canale: "Non ho preso soldi, ma ora sono una persona finita, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” del 23 giugno 2014. "Io sono una persona finita perché è stata intaccata la mia credibilità a 360 gradi su quello che io, Dottore, ho lavorato per anni ed ho creduto con tutta me stessa". E, ancora: "Ho una sola amarezza, che ho stimato tante – col cuore, persone che lavorano qua dentro e persona che lavorano qua dentro si sono permessi di dire delle cose che non erano vere, non avevano prove documentali screditandomi a livello nazionale e internazionale". Due interrogatori. Uno al cospetto del Gip Domenico Santoro, l'altro, alcuni mesi dopo, davanti al pm Francesco Tedesco. Interrogatori lunghi e intensi che non hanno permesso, tuttavia, a Rosy Canale, ex eroina antimafia e promotrice del Movimento Donne di San Luca, di evitare l'udienza preliminare davanti al Gup Davide Lauro nell'ambito dell'indagine "Inganno" che, oltre a svelare le ingerenze delle cosche nella vita pubblica del borgo aspromontano della Locride, coinvolgerà anche la stessa Canale che, a detta della Procura, avrebbe utilizzato una parte dei finanziamenti concessi da varie Istituzioni al Movimento per proprie spese personali. A Rosy Canale, gli inquirenti arriveranno grazie ai numerosi contatti che la donna avrà con gli amministratori locali di San Luca, fino al momento dello scioglimento del Comune. Il Movimento "Donne di San Luca" otterrà - per la propria attività di sostegno alle donne vittime della 'ndrangheta – anche un bene confiscato: un immobile sottratto alla potente cosca Pelle "Gambazza" di San Luca, destinato a ludoteca, inaugurata nel 2009, ma mai entrata in funzione. Rosy Canale avrebbe ricevuto finanziamenti da un arco vastissimo di Istituzioni. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore". E il lungo interrogatorio dal Gip Domenico Santoro, nei giorni successivi all'ordinanza cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della donna si sofferma sui vari finanziamenti ricevuti. A cominciare da quello del Consiglio Regionale, in quel periodo presieduto da Giuseppe Bova:

GIUDICE -. Mi dica di come nasce il finanziamento di 5.000 euro da parte della Presidenza del Consiglio Regionale.

INDAGATA CANALE -. Con una telefonata, Dottore, perché era periodo pre-elettorale e c'era gente che regalava soldi, se gliela devo proprio dire tutta in maniera sfacciata.

GIUDICE -. Ma con chi l'ha fatta questa telefonata?

INDAGATA CANALE -. Con Strangio, il segretario di...

GIUDICE -. Con l'Avvocato Giuseppe Strangio.

INDAGATA CANALE -. Esatto.

E però ci sono anche i soldi ricevuti dal Ministero della Gioventù, in quel periodo retto da Giorgia Meloni, "Giorgietta", come la chiama Rosy Canale in alcune intercettazioni. Un finanziamento che sarebbe nato da una telefonata del Capo Dipartimento del Ministero della Gioventù, Andrea Fantoma, interessato, a detta della Canale, alle attività delle Donne di San Luca:

INDAGATA CANALE -. E tra l'altro il Dottore Fantoma mi disse, proprio per chiarezza, che qualunque cosa succedeva e avevo bisogno di qualunque riferimento, l'uomo sul territorio che li rappresentava era Franco... aiutatemi... Franco... il Consigliere Regionale arrestato con l'accusa di avere collusioni...

GIUDICE -. Morelli?

INDAGATA CANALE -. Franco Morelli, esatto. Tra l'altro, Dottore, nel mio cellulare ci sono due o tre messaggi inviati al Dottor Morelli, dove io dico per conto del Dottor Fantoma mi ha detto di contattarla per dire se ci sono delle iniziative a livello regionale che ci possano aiutare in qualche modo, questa persona non mi rispondeva né telefonicamente alle chiamate e né ai messaggi, e poi un giorno mi scrisse: "Guardi, se vuole ci incontriamo" e lo può verificare agli atti, sennò le produco io il cellulare mio e lo può evidenziare, "Se vuole ci vediamo, tanto io non sono... non mi piace avere contatti telefonici" e poi voglio dire è questo.

Nel corso dell'interrogatorio di garanzia, il Gip Santoro contesta all'indagata una serie di conversazioni anche piuttosto imbarazzanti, dalle quali, secondo le indagini condotte dai pm Nicola Gratteri e Francesco Tedesco, emergerebbe l'uso disinvolto per fini personali di soldi destinati al Movimento Donne di San Luca: "Io ho un modo molto goliardico nel parlare a volte, spiritoso, che viene frainteso, è facilmente fraintendibile" si difende Rosy Canale. L'ex pasionaria antimafia, però, nega con forza di essersi appropriata di somme destinate per la lotta alla 'ndrangheta su un territorio difficile, come quello di San Luca: "Si può fare una visura patrimoniale e vedere che cos'ho, si può fare una visura di qualunque tipo, si possono prendere sotto sequestro i miei vestiti, Dottore, e vedere se ci sono cose più costose di 30 euro, vestiti come scarpe, non ho macchine intestate, cioè se io avessi preso questi soldi, che non ho preso Dottore, ci dovrebbe essere, come dire, un cambio di tenore che io non ho mai avuto, Dottore una traccia qualunque. Quando mi viene scritto qua, le ripeto, che io ho pagato una settimana bianca per mia figlia...". A proposito di antimafia e di lotta alla 'ndrangheta, nei propri racconti, spesso a ruota libera, Rosy Canale non disdegna qualche stoccata ad altri movimenti legalitari, quelli sì, a suo dire, fatti di parole e poco altro: "Io non sono stata una di quelle che scende in campo, Dottore, con i fiorellini, che va sottobraccio con i Procuratori per avere i finanziamenti di altro genere e fare le manifestazioni e poi intelligentemente e meno, come dire, sprovvedute di me, mettono le pezze d'appoggio e poi si fanno i fatti loro, io sono stata una di quelle che è scesa in campo a sporcarsi le mani a San Luca, e queste cose se si sarebbero realizzate, e magari il Signore si fossero realizzate, avrebbero cambiato il volto di quel paese, perché questi soldi... se io mettevo in campo una cosa del genere con il Ministero, che doveva fare questa cosa, perché il fatto di cavalcare la legalità molta gente la cavalca, ma la cavalca in altri sensi, Dottore, io sono andata a San Luca, ho vissuto con quella gente, io mi sono battuta lì. L'unica cosa è che Rosy Canale non ha fatto la favoletta, è andata lì sul territorio e oggi è qui a parlare con Lei per questo motivo, invece di fare le passerelle come altri". Lei avrebbe lavorato, lei si sarebbe battuta. E il Movimento sarebbe stato una cosa seria. Rosy Canale lo ribadisce anche lo scorso 30 aprile, quasi cinque mesi dopo l'emissione dell'ordinanza nell'ambito dell'operazione "Inganno": Viene scritto viene detto che il movimento delle donne è stato creato e fondato per creare con raggiri e artifizi diciamo per sottrarre dei soldi pubblici o comunque ecco allora, io brevemente sicuramente perché capisco che il tempo è prezioso per tutti però desidero che lei mi ascolti allora, io ho fondato questo movimento sono arrivata a San Luca poco dopo della strage di Duisburg per un desiderio mio personale. Già da subito avevo scritto una lettera via mail mi ero messo in contatto su facebook con il sindaco di allora che era Giuseppe Mammoliti scrivendo il mio cordiglio più profondo per tutto quello che era successo da calabrese, da persona che ama profondamente questa terra, lui mi rispose, da quel momento io ho iniziato a pensare a qualcosa che poteva che io nel mio pi piccolissimo potevo creare e fare per quella comunità". In quell'occasione, però, Rosy Canale ammetterà: "Io ho fatto un sacco di ingenuità". Con riferimento all'interrogatorio di garanzia, invece, più volte, il Gip Santoro contesta all'indagata le proprie intercettazioni, spesso dai contenuti autoaccusatori. Tutte frasi che Rosy Canale bolla come delle semplici chiacchiere, magari sconvenienti e superficiali, ma solo chiacchiere con le proprie amiche o con i propri familiari: "Le do questo aspetto, allora io e mio padre siamo molto... a volte parliamo di queste dinamiche qua, di alcuni aspetti della parte storica di quella che è una costruzione proprio... ricostruzione storica della 'ndrangheta, perché ci sono tutti degli aspetti anche, come dire, culturali, sociologici". Al Gip Santoro, però, le chiacchiere interessano poco. Interessano molto di più i fatti contestati alla donna, che, sempre secondo la Procura, avrebbe utilizzato decine di migliaia di euro per varie utilità personali: dall'acquisto due autovetture – una Smart e una Fiat 500 – a quello di vestiti e mobili, nonché la possibilità di effettuare viaggi di natura privata. "Me ne fotto". Così Rosy Canale rispondeva alla madre, che le raccomandava di spendere con attenzione i soldi che le arrivavano da Istituzioni varie: dalla Presidenza del Consiglio Regionale, alla Prefettura, passando per l'associazione "Enel Cuore". A detta dei giudici, i soldi destinati al Movimento "Donne di San Luca" "sono stati biecamente piegati ai propri interessi personali dalla presidente di quel movimento". Nell'ottobre 2009, in particolare, sarebbe arrivato un grosso finanziamento e proprio in quel momento, Rosy avrebbe sua figlia e "le chiede di che colore vuole le Hogan perché sono arrivati i soldi". La ragazza chiede "quanto si tiene lei e Rosy risponde che poi vedrà". Ma Rosy Canale si difende di fronte alle varie intercettazioni. Anche quella in cui ammetterebbe di aver tenuto per sé 3000 euro tra i fondi destinati alla ludoteca:

INDAGATA CANALE -. Aspetti, Dottore, non voglio mettere in difficoltà nessuno, però c'è una cosa, io questi 3.000 euro sono stata autorizzata dalla Prefettura a prenderli, loro mi dissero "Riserva per te, per il lavoro che stai facendo, 3.000 euro".

GIUDICE -. C'è una carta scritta?

INDAGATA CANALE -. No, non c'è niente di scritto.

GIUDICE -. Chi gliel'ha detto? Lei capisce che nel momento... o si avvale della facoltà di non rispondere o me lo dice, si sta difendendo, mi sta dando una prova d'alibi, tra virgolette.

INDAGATA CANALE -. Lo so, Dottore, però... il Dottore Priolo me lo disse.

GIUDICE -. Va bene.

INDAGATA CANALE -. Che era il mio angelo custode, mi disse... mi disse: "Guarda Rosy, tu stai facendo un lavoro grandissimo e credo che sia giusto che tu abbia qualcosa, prenditi 3.000 euro, non di più, però questi 3.000 euro prenditeli perché sono giusti".

Gianluca Calì ha acquistato all'asta un'abitazione di pregio un tempo di proprietà dei boss di Bagheria, Michelangelo Aiello e Michele Greco. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ne ha più potuto usufruire, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti nel mirino della procura, scrive Giuseppe Pipitone il 28 giugno 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. Ha acquistato all’asta una villa un tempo di proprietà dei boss mafiosi. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ha più potuto usufruire dell’abitazione, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti sotto inchiesta. Da quando Gianluca Calì ha deciso di tornare a lavorare nella sua Sicilia i guai sono spuntati ad ogni angolo. Come funghi. Siamo ad Altavilla Milicia, zona costiera tra Bagheria, Casteldaccia e Palermo. È qui che Calì torna nel 2009 per aprire una succursale della sua concessionaria d’automobili milanese: la Calicar. Ma al pronti via, qualcosa comincia subito ad andare storto: a Calì arriva immediatamente una richiesta di pizzo dalla cosca mafiosa locale. “Richiesta che non mi sono mai sognato di assecondare, li ho denunciati” sottolinea lui da siciliano orgoglioso. Il 3 aprile del 2011 alcune automobili della sua concessionaria di Casteldaccia vanno a fuoco. La storia di Gianluca Calì, l’imprenditore antiracket, finisce sui giornali. “Mi è stato vicino soprattutto il centro Pio La Torre” dice lui. Intanto le indagini degli inquirenti portano in carcere 21 affiliati al clan di Bagheria: tra questi anche i suoi estorsori. Storia finita? Neanche per idea. Perché nel frattempo Calì ha avviato le pratiche per acquistare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona”, spiega. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello e al suo sodale Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata nelle disponibilità di un istituto di credito che lo mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice, dopo di ché mi aggiudicai la casa”, spiega Calì. E per un po’ sembra passare tutto liscio. La quiete però dura poco. Perché l’8 febbraio scorso la villa che fu dei boss viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se la costruzione fosse stata costruita di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo attuando dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo ritorna in possesso dell’immobile. I “solerti” ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un duplice intoppo burocratico? Un errore? Possibile. Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria ricattavano gli abitanti della zona minacciando il sequestro di immobili. In cambio chiedevano somme di denaro. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi – in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ha respinto l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati” scrive sempre il gip. A Calì però non è mai arrivata una richiesta formale di “messa a posto” per dissequestrare la villa. “Finora ho speso migliaia di euro per far valere un mio diritto contro un verbale che non sta né in cielo né in terra. Eppure questi si accontentavano di 500 euro”. Dalle maglie dell’inchiesta sui forestali però emerge anche altro: l’ombra della mafia di Bagheria. Un elemento in più se si pensa che i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco sono affidati dall’imprenditore palermitano a suo fratello, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli della piovra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato: condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo. Solo una coincidenza? Può darsi. Nel frattempo la villa che fu dei boss rimane sequestrata in attesa che la Cassazione si esprima nel settembre prossimo. “Io volevo soltanto provare a rilanciare la nostra terra. Ma per un imprenditore onesto, imbattersi non solo nella mafia, ma anche in infedeli servitori dello Stato non è un bel segnale”. E in Sicilia, isola che vive soprattutto di segnali, è ancora peggio.

Vatti a fidare dell'antimafia. Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama" il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

l pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

A volte l'antimafia sembra mafia. È Il pensiero di Catello Maresca, magistrato antimafia a Napoli che ha accusato Libera: "Sono contrario a come gestisce i beni sequestrati alle mafie", scrive il 18 gennaio 2016 Carmelo Caruso su "Panorama". In quest'intervista, pubblicata sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il magistrato Catello Maresca punta il dito contro un certo tipo di antimafia e contro Libera, l'associazione fondata da Don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie "in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale". Le sue dichiarazioni hanno suscitato lo sdegno di Don Ciotti che ha risposto alle accuse. Ecco l'integrale dell'intervista.

Dice che i bunker lo tormentino.

"Da magistrato ho passato 10 anni a studiare quello di Michele Zagaria".

Il padrino di “Gomorra”?

"Non solo un padrino. La sua biografia criminale è l’autobiografia di un popolo e di un territorio". Le piace studiare il sottosuolo? "Mi piace perché tutta la mafia è un mondo capovolto. I mafiosi abitano sottoterra, parlano con il sottotesto, utilizzano un soprannome. La mafia si nasconde e si maschera nell’opposto".

È l’antimafia l’ultimo travestimento della mafia? 

"È stata ed è la più eccezionale via di fuga che la mafia ha escogitato per celarsi".

È più pericolosa la mafia di sotto o l’antimafia di sopra?

"Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". 

Parla di “Libera”, l’associazione fondata da Don Ciotti? 

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa".

A Napoli, Catello Maresca, magistrato della direzione nazionale antimafia, ha ereditato la stanza dell’uomo più invocato e affaccendato d’Italia quel Raffaele Cantone oggi presidente dell’Anac.

"E non ho ereditato solo la stanza ma anche i fascicoli, i quadri e la sua assistente".

Come si chiama?

"Rosaria. Un esempio di pazienza e laboriosità".

Maresca assomiglia alle sue indagini che sono lente ma solide e non improvvise ma deboli. Con metodo che lui chiama scientifico ha catturato i gangster di Casal di Principe, i “Tony Montana” che canta il neomelodico Nello Liberti: "O capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver".

Dove ha iniziato? "A Torre Annunziata. Mi occupavo di crimini finanziari".

Figlio di magistrati?

"Maestri elementari entrambi, vengo dalla provincia e mi piace ritornarci".

Maresca ha quarantatre anni e da undici è magistrato della direzione antimafia di Napoli, "una città che muore di doppiezza". Come i dati che immagazzina e assembla, Maresca si lascia crescere una barba fiamminga e dura che non taglia, "per un principio d’economia temporale" dice, ma anche per trattenere le idee e le parole che infatti sulla barba si fermano e non scivolano.

Chi è stato il suo maestro?

"Franco Roberti, un magistrato eccellente e oggi procuratore nazionale antimafia".

È ancora credibile l’antimafia dopo lo scandalo di Palermo dove a essere indagato dalla procura di Caltanissetta per induzione, corruzione, abuso d’ufficio è l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, il giudice Silvana Saguto?

"L’antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa".

Per Giapeto editore, Maresca ha pubblicato “Male Capitale”, un libro che grazie alle foto di Nicola Baldieri non è solo un documento antropologico, i “tristi tropici” della camorra e delle sue tane, ma anche un campionario di non luoghi, il catalogo dei beni confiscati e inceneriti dalla cattiva procedura. Maresca stila un piccolo elenco campano: l’ex convento dei Cappellini Avella, l’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro.

"E poi ci sarebbe l’azienda Bufalina, un gioiello che venduto sarebbe stato non solo un simbolo di vittoria da parte dello Stato, ma anche un pezzo d’identità restituito alla Campania".

Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere?

"Vendere, vendere, vendere. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. Una volta sequestrati i beni, bisogna individuare quelli riutilizzabili per fini sociali. Dove possibile si possono costruire caserme ad esempio. Ma tutto il resto è da alienare".

Anche Maresca conosce i numeri del fallimento che hanno accompagnato la gestione dei beni sequestrati: 11 mila immobili, 2000 imprese, 90 per cento è il parametro delle aziende estinte.

"Il ciclo di vita è sempre lo stesso. Prima li divorano gli amministratori giudiziari poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari".

Non sono i magistrati a decidere la loro sorte?

"E io infatti rispondo che i magistrati non possiedono quella expertise necessaria per svolgere questo compito. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni".

Da “cosa nostra” a “cosa loro”?

"Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento “che si deve fare sempre così”.

Don Ciotti ha scomunicato e cacciato il figlio di Pio La Torre, Franco, per lesa maestà proprio per le stesse critiche.

"Sarò malpensante ma i malpensanti sono a volte ottimisti che non hanno fretta. Libera ha monopolizzato la gestione dei beni sequestrati alle mafie".

E però, Libera dice di non avere mai gestito beni...

"Libera li gestisce attraverso cooperative che non sempre sono affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Maresca smonta anche il pregiudizio della mafia come destino, la convinzione che il suo influsso si riproduca e ritorni come la maschera sith di Dart Vader in Star Wars.

"Sinceramente trovo risibile la ragione per cui Libera si oppone alla vendita. Si dice: “I beni ritornano ai mafiosi”. Io rispondo che sono contento due volte perché lo Stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno Stato può, anzi, deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un’idea d’impotenza".

Il nuovo codice antimafia non le piace?

"Ripeto, rimane ancora tabù la parola vendita e farraginosa la gestione. Eppure un esempio virtuoso ce lo abbiamo già. È l’Anac guidata da Cantone".

Non crede che Cantone non sia più un magistrato ma un oracolo?

"Essere bravi non è una colpa diverso è quando i mediocri salgano sulle spalle dei bravi appesantendoli. Perchè non fare dell’Agenzia dei Beni confiscati una sorta di Anac?"

È il suo emendamento al nuovo codice?

"Non basterebbe solo questa modifica. Quanti beni vengono sottratti ma tenuti in bilico tra la confisca e la restituzione? Inoltre esistono termini precisi per quanto riguarda il sequestro preventivo, ma non per quello penale che si può trascinare per anni".

Maresca si muove sotto scorta sin da prima che con la semantica vigliacca, il macellaio Cesare Setola lo abbia avvisato "che tutti tengono famiglia". Il capo della camorra, Michele Zagaria, guardando la fronte alta e le guance ferme di Maresca ha detto: "Stimo il dottor Maresca. Perché voi fate un mestiere, io me ne sono scelto un altro".

Anche questo riconoscimento nasconde l’avvertimento ambiguo?

"È possibile. Di certo da magistrato ho rispettato gli avversari. Non credo nella faccia feroce del pm. Sarò ancora eretico, ma per sconfiggere le mafie e la corruzione penso che non serva inasprire le pene e neppure aumentare il termine della prescrizione. Bisogna smontare questo sistema infetto di valori, la corruzione come patrimonio trasmissivo". Ma la corruzione non è anche il vizio dello strapotere dell’uomo di legge, dei giudici? "Accade. Bisogna attendere e illuminare le ombre".

Il caso Saguto a Palermo, il caso Scognamiglio a Napoli …c’è il sottosuolo anche nella magistratura?

"Di certo viene fuori un mondo opaco. Eppure voglio ricordare che tutti i casi di corruttela che hanno riguardato giudici sono stati svelati da altri giudici. La magistratura possiede ancora gli anticorpi". Quando si ammala la magistratura? "Quando un magistrato perde l’equilibrio e sopravvaluta la sua funzione. Quando invece di farsi rapire dall’enigma della giustizia un giudice è chiamato ad amministrare patrimoni da milioni di euro. Quando la giustizia diventa l’angoscia del bunker e smette d’essere luce a mezzogiorno".

Cantone: "Per i beni confiscati alle mafie servono trasparenza e concorrenza". Il presidente dell'Anticorruzione, su "Panorama", spiega perché Libera "è diventata un brand di cui qualche speculatore potrebbe volersi appropriare", scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. "C’è chi usa l’antimafia, e va smascherato". Si esprime così Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato anticamorra attivo a Napoli, in una lunga intervista che il settimanale Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio. Cantone parla dell’opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia aveva lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, il magistrato che di Cantone è stato diretto successore nella Procura di Napoli, suscitando la sdegnata reazione (e un annuncio di querela) da parte di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Proprio su Libera, Cantone dice a Panorama: "È un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo Paese. Le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini, e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui le siamo grati. Certo, Libera è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventata anche un 'brand' di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato". Quanto al "caso Saguto", con l’inchiesta che a Palermo ha scoperchiato un sistema apparentemente deviato nella gestione dei beni sottratti alla mafia, Cantone dichiara a Panorama: "Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, ma lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche, soprattutto quando passano incarichi lucrosi e discrezionali a professionisti con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali".

Nessun monopolio, per allargare il fronte di chi combatte i clan. E bisogna consentire di vendere i beni sequestrati. Dopo l’inchiesta sui giudici di Palermo e le polemiche interne a Libera, interviene Giuseppe Di Lello, il magistrato del pool di Falcone e Borsellino, scrive il 21 gennaio 2016 “L'Espresso”. Le polemiche nell'antimafia dell'ultimo anno, le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto magistrati che si occupavano a Palermo del sequestro dei beni ai mafiosi, e lo scontro interno a Libera, sono i punti che affronta Peppino Di Lello, ex magistrato dello storico pool antimafia di Caponnetto, Falcone e Borsellino, in un intervento scritto per l'Espresso che sarà pubblicato nel numero in edicola da venerdì 22 gennaio 2016. Di Lello affronta il problema dei beni sequestrati e ne propone la vendita: «Qualche rimedio sarebbe utile, rimanendo sul terreno della concretezza. Molti immobili inutilizzati o inutilizzabili, e che comunque rimangono sotto amministrazione giudiziaria procurando solo oneri per lo Stato, andrebbero alienati. Si obietta che tornerebbero ai mafiosi, ma si dimentica che per riacquistarli questi dovrebbero pagarli e quelle somme potrebbero essere utilizzate dalle amministrazioni locali per gestire altri beni destinati ad usi sociali. In più, il bene riacquistato, dato l’affinamento dei mezzi di indagini patrimoniali, potrebbe essere di nuovo sequestrato e confiscato». L'ex magistrato antimafia che ha lavorato con Falcone e Borsellino, facendo riferimento all'inchiesta che ha coinvolto il presidente del tribunale misure di prevenzione, Silvana Saguto, scrive: «Il “caso Palermo” ha fatto emergere il problema degli incarichi agli amministratori giudiziari, assegnati quasi dappertutto con una inconcepibile discrezionalità: trasparenza e obiettività possono essere realizzate solo con una legge ad hoc. Ancor più difficile sarà applicare questi principi di buona amministrazione nell’assegnazione dei beni confiscati». Di Lello poi punta sulle associazioni antimafia: «Nella giungla delle tante sigle si sono inserite persino associazioni e cooperative costituite da soggetti mafiosi e quindi sono necessarie serie riflessioni. Il “disagio” di Franco La Torre (figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982 ndr) ed altri sul ruolo di Libera, per esempio, non va demonizzato ma analizzato e verificato. Libera ha avuto ed ha grandi meriti nel campo dell’antimafia ma bisogna capire che il pericolo di monopoli o oligopoli nelle assegnazioni va contrastato, non “contro” qualcuno, ma proprio per far crescere ed allargare il fronte antimafia».

Soffiate, call Center e anonimi: viaggio nel covo di Cantone, scrive Antonello Caporale. Il ministero dell’Onestà dista un alito dalla Fontana di Trevi e solo cento passi da Palazzo Chigi. Il padrone di casa è Raffaele Cantone, personalità il cui potere avanza come le quotazioni dell’oro in tempi di crisi. Ogni giorno un po’ di più. Cantone infatti non è un magistrato ma un metallo prezioso, insieme diga anticorruzione e tutor del corso collettivo sulla moralità pubblica. Scrutatore delle coscienze sporche, selezionatore delle pratiche migliori, dei buoni propositi e delle buone persone. Tutti lo vogliono, lo cercano e, se del caso, lo annunciano. Non è solo Matteo Renzi a utilizzarlo un po’ come le casalinghe fanno con Mister Muscle, il detersivo che spurga in cinque minuti. Expo, Giubileo, Mafia Capitale, l’arbitrato per gestire il rimborso dei clienti truffati dalle banche fallite. A una grana di rilevante entità nazionale segue la convocazione di Cantone che perciò a volte sembra, immaginiamo persino contro la propria volontà, il dodicesimo giocatore della squadra di governo in campo. Col tempo, e dal momento che deviare verso di lui produce profitti, un po’ tutti aspirano a una carezza cantoniana. È esploso il caso Quarto? Ecco Cantone. E Beppe Sala, il mister Expo candidato alla carica di sindaco di Milano, ha già annunciato che con Cantone sicuramente farà un patto, stringerà ancor di più l’amicizia fattiva e gli chiederà un occhio supervigile sui costumi meneghini, sottintendendo che lui può permetterselo ma gli altri candidati? Al palazzo di questo speciale ministero che è l’Autorità nazionale anticorruzione si accede dominati dalle decorazioni liberty della galleria Sciarra, ricca di partiture architettoniche, dipinta da Giuseppe Cellini. Palazzo sontuoso e imperiale come l’inquilino che lo ospita (la sua scrivania è un Luigi XVI niente male). Qui giungono le perorazioni dell’Italia onesta, le denunce, a volte le illusioni o le delazioni di un popolo che il nostro sente “iconoclasta, votato spesso al nichilismo. Sa quanti anonimi arrivano?”. Dottor Cantone, è l’Italia del rancore che bussa alla porta? “Credo proprio di sì. Ma la nostra dev’essere una casa di vetro, si accomodi pure”. Cinque piani di trasparenza, al quinto eccoci alla sala delle riunioni. “Sono stato nominato il 24 aprile 2014 e devo dire che la macchina ha iniziato a funzionare presto e bene”. L’organico prevede 350 tra funzionari e impiegati, un numero prossimo a essere raggiunto. Sono 302 gli effettivi, naturalmente divisi in sezioni. “La nostra missione è prevenire la corruzione, anticipare le mosse, contestare e, soprattutto, suggerire buone pratiche. Il nostro più grande potere è la moral suasion, la forza di questa Autorità è la sua reputazione. L’autorevolezza conta di più di ogni norma e devo dire che i frutti che si stanno avendo non sono modesti”. Giuristi di impresa, architetti, esperti di appalti, finanzieri. “Nel primo anno abbiamo “lavorato” 120.828 atti, una enormità. Rappresenta la somma delle denunce, degli esposti, delle deduzioni e controdeduzioni, è il risultato di un lavoro meticoloso, puntiglioso. Nell’anno 2015 il numero è lievitato a 151.988. Chi denuncia? “Purtroppo molti sono anonimi, noi approfondiamo laddove avvertiamo segnalazioni circostanziate di fatti evidentemente rilevanti. Facciamo una cernita e teniamo conto. Devo dirle però che la gran parte degli anonimi esala un sentimento purtroppo comune di noi italiani: in premessa la fanfara di grandi ruberie poi stringi stringi e arrivi alla miseria del furto dell’energia elettrica”. Chiunque scriva, email o lettere, sappia che c’è un ufficio protocollo occupato da una decina di impiegati. Stanze larghe e comode come altrove non è. La capo ufficio: “Leggiamo e smistiamo per competenza. Ci dividiamo in turni”. Si smista alle sezioni e da lì si avanza. Se viene ritenuta utile e documentata la segnalazione parte il servizio ispettivo. “Controlliamo l’appalto e teniamo un lumino acceso anche in corso d’opera”, dice Angela Di Gioia, segretario generale. Il baco della corruzione ha un concepimento seriale e uno sviluppo tipico. Tardano i lavori, s’interrompono spesso, si chiede l’aggiornamento prezzi, si autorizza la variante. O ancora: si affida l’appalto producendo un progetto esecutivo finto cosicché i lavori avanzino a vista e possano deviare. Al primo piano di palazzo Sciarra fa ingresso il malcostume italico che poi viene distribuito per piano. Più sale e più acuta è la rimostranza, grave il danno alle casse pubbliche. Ai trecento militi dell’onestà si aggiungono cinquanta lavoratori di uno speciale call center che gestisce via telefono le procedure corrette. Telefonano dalle amministrazioni centrali e locali. Telefonano i funzionari e telefonano le imprese. Un grande via vai di parole a leggere i dati sul numero dei contatti. Nel 2014 risultano 432 mila telefonate, nel 2015 già lievitate a 682 mila. Cantone riceve un compenso di 180mila euro l’anno, i quattro consiglieri (un magistrato e tre professori universitari) 150mila. Il presidente ha fatto il conto, visti i tempi, pure degli scontrini. Le differenze con Renzi si notano. Il premier, quand’era presidente della Provincia di Firenze, riuscì nell’impresa di far fuori quasi un milione di euro. Cantone mangia e beve di meno e non ha avuto finora bisogno del letto a cinque stelle. Nel 2014 per vitto e alloggio ha speso 1.065 euro. Da: Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016.

Mafiosi si nasce o si diventa? Quei minori tolti a mamma mafia. Sono 30 i minori sottratti per decisione dei tribunali alle famiglie della ’ndrangheta e affidati a coppie o comunità. Per i boss l’affronto peggiore. Perché così si spezza la trasmissione della cultura criminale, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Dite al Dottore che i figli non si toccano». Per un boss la famiglia conta più dei soldi e del potere. Perché figli, nipoti e mogli, garantiscono la continuità dell’impero. Per questo il capo dei capi di Reggio Calabria, Giuseppe De Stefano, ha reagito in malo modo quando il pm Giuseppe Lombardo ha chiesto al tribunale d e i minorenni di far decadere la patria potestà sui piccoli eredi. Un colpo durissimo per il padrino dello Stretto che ha sempre reagito a processi, sequestri di beni e latitanze, con un sorriso beffardo. L’affronto, senza precedenti, aveva aperto una crepa profonda in quel monolite criminale che da 40 anni dominava l’intera città. Educare la prole a un avvenire da mafioso può avere conseguenze pesanti: l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È questo il nuovo fronte della lotta alla ’ndrangheta. Nell’ultimo anno si sono moltiplicati i provvedimenti di questo tipo e sempre più casi sono finiti sotto la lente degli inquirenti. Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria è l’unico ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Dalle informazioni di cui è venuto a conoscenza “l’Espresso”, il numero è destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie, in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole, ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». Il legame di sangue in questa organizzazione non ha eguali nel mondo della criminalità. E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. «Spara!». Il padre ordina, il figlio esegue. Ha solo 7 anni, ma deve già impugnare la pistola d’ordinanza. L’arte della ’ndrina si apprende tra le mura domestiche. In un’altra casa, le cimici hanno catturato in diretta una lezione di mafia: il patriarca spiegava all’erede al trono, ormai sulla soglia della maggiore età, il significato dei diversi gradi della gerarchia criminale. Ma ci sono anche ragazzini che, ai piedi dell’Aspromonte, saltano la teoria per apprendere direttamente sul campo. Come a San Luca, cuore delle tradizioni dell’onorata società, dove durante l’ultima faida i più giovani sono stati istruiti su come proteggere le abitazioni delle famiglie da incursioni nemiche durante le faide. Nel processo Fehida, che ha visto alla sbarra i carnefici della strage di Duisburg del Ferragosto 2007, c’erano anche alcuni minorenni accusati di associazione mafiosa e concorso esterno. Crescono così i figli d’onore, fanciulli di ’ndrangheta, costretti a immergersi nelle profondità più estreme dell’oceano criminale da cui spesso non riemergono più. E se ci riescono, lo fanno da cadaveri o ricompaiono, da adulti, nelle celle del 41 bis. Intere dinastie sono state falcidiate nelle guerre: in soli quindici anni, per esempio, la ’ndrina Dragone della provincia di Crotone ha perso il capo e i suoi due figli maschi. Secondo gli ultimi dati del ministero, aggiornati a ottobre 2015, in Calabria sono sei i minorenni accusati di associazione mafiosa. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera, sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. La «smuzzunata» è il battesimo da ’ndranghetista dei bimbi appena nati. È un diritto e un privilegio che spetta solo ai figli dei boss. Un marchio che trova legittimità in un codice parallelo, ancestrale e non scritto. Che trasforma la famiglia naturale in ’ndrina, nucleo fondante della mafia calabrese. «Quando la moglie di uno ’ndranghetista di grado elevato mette al mondo un figlio maschio, quest’ultimo viene battezzato nelle fasce con la “smuzzunata” e, per il rispetto goduto dal genitore, entra a far parte dell’associazione sin dai primi giorni di vita. Percorrerà così tutta la gerarchia mafiosa». Giuseppe Scriva, è il pentito che a metà anni ’80 ha sviscerato i segreti della più potente tra le mafie moderne. E sono proprio queste regole, tra mistero e leggenda, che hanno garantito ai clan calabresi continuità generazionale. Le nuove leve, i figli e nipoti degli anziani padrini, hanno lanciato la ’ndrangheta nel mercato della modernità, mantenendo intatto, però, il dna arcaico. Sono giovani che investono milioni di euro a Roma come a Toronto, ma legati indissolubilmente alle antiche regole della “famiglia”. Negli ultimi vent’anni il tribunale dei minorenni di Reggio ha celebrato cento processi per reati di mafia. Gli imputati erano rampolli non ancora diciottenni delle cosche più blasonate. Giovanissimi ma con un curriculum da malavitosi esperti. Le condanne non hanno, però, frenato la loro ascesa criminale. Così a distanza di tempo c’è chi è rinchiuso al carcere duro, chi, invece, è stato ucciso e chi ha conquistato il vertice. Negli stessi vent’anni l’ufficio, ora diretto dal presidente Roberto Di Bella, ha giudicato anche una cinquantina di casi di omicidio. «Il dato impressionante è che abbiamo di fronte una generazione che potevamo salvare e che invece abbiamo abbandonato», ragiona Di Bella, che dal suo insediamento ha dato vita a un protocollo unico in Italia. È convinto che il documento firmato con procura dei minori, antimafia e servizi sociali può davvero salvare molte vite dalla morte e dal carcere. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni ’90. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta nel suo piccolo ufficio-trincea. L’anno della svolta è il 2012: «Da allora stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». Una misura estrema. Che ha sollevato molte critiche, anche da parte della chiesa. È convinto che sia la strada giusta don Pino De Masi, vicario della diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera nel territorio caldissimo della piana di Gioia Tauro. «Dobbiamo mettere questi ragazzi nelle condizioni di scegliere un’alternativa che non sia l’interesse della cosca», è netto De Masi. «Nella mia parrocchia vengono anche i rampolli, qualcuno timidamente mi dice che il cognome che porta gli pesa. Sta a noi aiutarli a fare il passo successivo», spiega il parroco. Il fronte degli scettici, invece, ha azzardato persino un paragone: «Dalla confisca dei beni a quella dei figli». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. I primi giorni dopo l’allontanamento sono i più difficili. Chi conosce i casi racconta di incubi che angosciano le notti dei bambini. Sono pensieri di morte, con simboli ben precisi: bare, sangue, violenza. I brutali insegnamenti riaffiorano nella nuova vita distante dai papà-boss. Il tribunale si occupa anche dei minori colpevoli di un reato e messi alla prova come alternativa al carcere. Vengono affidati a comunità ma restano in Calabria. Continuano così a frequentare l’ambiente di provenienza. La maggior parte respira cultura mafiosa da quando è nato. Una mentalità che distorce il rapporto con le istituzioni: «Ricordo un ragazzo, ospite di una comunità, con i tatuaggi di un carabiniere sotto la pianta del piede, così da calpestare la divisa a ogni passo, e il giuramento della ’ndrangheta sul cuore», racconta un operatore sociale. A volte per ribellarsi all’omertà è sufficiente percepire la presenza dello Stato. Come spiegare altrimenti il gesto di quel gruppo di mamme che ha chiesto aiuto al presidente Di Bella. Chiedono di essere portate via insieme ai figli. Lontano dai mariti. È una piccola rivoluzione in corso. L’avanguardia è fatta da una decina di madri che hanno deciso di chiedere aiuto al tribunale e di collaborare. «È un fenomeno del tutto nuovo. Queste signore hanno esperienze terribili alle spalle, quindi vuol dire che i nostri provvedimenti stimolano a reagire. E c’è anche un lieto fine perché molti dei casi trattati, inviati al nord, non vogliono più tornare nei paesi d’origine», aggiunge il presidente. Non sempre però il finale è dei migliori. I figli di Maria Concetta Cacciola - la pentita che la famiglia ha spinto al suicidio per aver scelto di andare via da Rosarno per collaborare con la giustizia - sono tornati nel paese degli zii. Nel frattempo il padre che teneva segregata in casa Maria Concetta è tornato in libertà. Gli educatori che lavorano con i due adolescenti sono amareggiati, perché in quel contesto l’esempio esplosivo di ribellione della loro mamma è stato depotenziato. «Il figlio maschio è come se avesse rimosso la vicenda, è intriso purtroppo di quella mentalità che sua madre ha messo sotto accusa», racconta una fonte. Un’occasione di riscatto persa. Al civico 404 del corso principale di Reggio Calabria c’è un piccolo ufficio che segue la gran parte dei casi di allontanamento. Attualmente i ragazzi affidati a questa squadra sono dieci. Provengono tutti da cosche affermate nel panorama criminale. «Interveniamo immediatamente dopo la decisione del tribunale», spiega la dirigente Giuseppa Maria Garreffa, che specifica: «Alla base di ogni allontanamento c’è sempre un procedimento nei confronti dei genitori». In queste stanze si lavora ininterrottamente. «Siamo sovraccarichi», sospira Garreffa, «ma resistiamo». Finché questi giovani seguono il percorso studiato dal team del ministero tutto sembra andare per il meglio. Poi, quando compiono 18 anni, sono liberi di tornare nel paese in cui sono nati. E una volta rientrati il cognome pesa ancora come un tempo. «Il contesto in cui tornano è spesso decisivo. Vengono accolti, “rieducati”, indottrinati. Non dimenticherò mai quando un ragazzo ci disse: “grazie per quello che fate, ma io devo... non posso scegliere”. Ecco, il dovere di seguire le orme dei padri è la vera condanna di questa terra». Come in “Onora il padre” di Gay Talese, il passaggio di consegne tra padre e figlio è un automatismo che imprigiona i più giovani. Il figlio del boss, per i compaesani, è sempre il figlio del boss. E va riverito. Un meccanismo che molto spesso vanifica i risultati ottenuti lontano dell’ambiente familiare. È un investigatore a raccontarci una scena che ricorda il Padrino di Francis Ford Coppola: «In un paesone arroccato nell’Aspromonte, al termine del funerale dell’anziano del clan si è formata la fila per salutare con grande rispetto il capomafia e il suo bambino, prossimo erede, che per l’occasione aveva fatto ritorno a casa dalla struttura dei servizi sociali». Il passaggio è devastante: da un luogo e una scuola in cui amici e compagni li considerano semplici coetanei con cui giocare o fare i compiti, a una realtà in cui l’etichetta di provenienza esercita ancora fascino sugli altri. «Se i servizi sociali sono inadeguati, se non c’è lavoro, se manca il diritto alla mobilità, come possiamo pensare di lottare contro una multinazionale del crimine che offre denaro e successo immediato ai giovani?», conclude Garreffa. «Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza», ragiona Di Bella. Una soluzione la propone il pm Lombardo, il primo ad aver intrapreso, nel 2008, la strada del distacco forzato: «Prima di arrivare alla misura estrema della revoca, si potrebbe immaginare un modello misto, flessibile. Con percorsi di sostegno ai genitori che, però, devono dimostrarsi volonterosi e pronti a tagliare con il passato». S. ha un cognome ingombrante. Nella Locride molti tremano solo a sentirlo pronunciare. Il suo sguardo però non è arrogante. Sorride spesso, preferisce parlare in dialetto, anche se con l’italiano se la cava abbastanza bene. Ha compiuto 18 anni da poco, e invece di dedicarsi allo studio e al divertimento, ragiona già da manager navigato: «Ormai in questa terra non si può più investire denaro», sussurra. Fa il cassiere nell’hotel di famiglia, dissequestrato da poco. Guadagna 1.600 euro al mese. Non male per un ragazzo così giovane, in una provincia, Reggio Calabria, ultima per qualità della vita secondo la classifica del “Sole 24 Ore”, che comprende tra gli indicatori il tenore di vita e l’occupazione. Incontriamo S. in una saletta del centro don Milani, un punto di riferimento per gli adolescenti di Gioiosa Marina e Gioiosa Ionica. Comuni attaccati, con due sindaci e due giunte differenti. Nella piazza di Gioiosa Ionica c’è un murale dedicato a Rocco Gatto: il mugnaio comunista ucciso dalla ’ndrine del paese per non essersi piegato alle loro richieste. È il simbolo dimenticato della Locride anti ’ndrangheta. Il suo omicidio doveva servire da monito per tutto il neonato movimento antimafia. All’inizio di dicembre, invece, il nuovo e giovane sindaco, Salvatore Fuda, è stato minacciato con alcuni colpi di pistola sparati sulla fiancata dell’auto. La violenza è il ponte che lega il passato e il presente di questi luoghi. S. è cresciuto a Gioiosa. Si presenta all’appuntamento ben vestito, il suo abbigliamento è tutto firmato. L’orologio costoso di metallo nero al polso destro, il bracciale d’argento in quello sinistro. S. sogna di trasferirsi in Canada, dagli zii. Per il momento si divide tra la cassa dell’albergo e il commercio di olio in società con il fratello. È finito al don Milani per tre bravate, l’ultima è guida senza patente: «Guidavo una moto 125, che sarà mai?», sorride. Il tribunale gli ha concesso la messa alla prova, che prevede un percorso di volontariato. Il responsabile del centro è Francesco Riggitano e tutto il tempo che ha disposizione lo dedica ai ragazzi di questi paesi della Locride. «Ci sono famiglie mafiose storiche, importanti, nelle quali la trasmissione mafiosa è evidente. La nostra esperienza ci dice però una cosa: si incide più facilmente sulla manovalanza, su quei ragazzi le cui famiglie non sono criminali da generazioni. Diverse mamme di questi soldatini si sono rivolte a noi per toglierli dalla strada». Il centro è frequentato da tanti ragazzi. Una risorsa straordinaria in questo deserto della Locride. D’altronde crescere qui, o a Rosarno, o tra i boschi dell’Aspromonte, oppure nel quartiere Archi di Reggio Calabria, è una lotta quotidiana. Non ci sono cinema, teatri, polisportive. Sale giochi e strade abbandonate diventano gli unici spazi di aggregazione. Al Don Milani c’è anche una squadra di calcio, la Seles (acronimo di Scuola Etica e Libera di Educazione allo Sport), diventata un punto di riferimento per bambini e adolescenti. Gli allenamenti hanno strappato i giovani dalla strada. Simbolicamente è come aver dato un calcio alla ’ndrangheta. Per Riggitano e i suoi collaboratori non è tutto facile, anzi. «Su 42 comuni della Locride, solo il 30 per cento di questi ha assistenti sociali di ruolo», denuncia Francesco. Troppo pochi per svuotare le madrasse dei clan, che trasformano ragazzini senza possibilità in picciotti d’onore.

Non crescerai mafioso: i minori tolti alla mafia. Sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici dei minorenni hanno deciso di allontanarli dalle famiglie di 'ndrangheta. Togliendoli ai padri-padrini per offrirgli un'alternativa alla vita scelta per loro dagli adulti, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 14 gennaio 2016. C'è un nuovo fronte nella lotta alla 'ndrangheta aperto dai magistrati di Reggio Calabria. Qui, infatti, il tribunale dei minorenni è l’unico in Italia ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Un numero destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole o ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega a “l'Espresso” il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. Bambini che a sette anni sono costretti a sparare, ragazzi più grandi che assistono a lezioni di mafia impartite dai papà-boss oppure adolescenti trasformati in vedette durante le faide. Crescono così i figli d’onore. Senza una vera alternativa e senza possibilità di scegliere. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. D'altronde la 'ndrangheta è fondata sulla famiglia: i legami di sangue hanno un valore enorme in questa organizzazione, più che in qualsiasi altra mafia. Tanto che esiste un rito, la «smuzzunata», per i bimbi appena nati. È Il battesimo da 'ndranghetista, un diritto che spetta solo ai figli dei capi. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni Novanta. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta Roberto Di Bella, il presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che ha creduto fortemente in questo protocollo. «Dal 2012 stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. Gli interventi dei giudici stanno dando i primi risultati. Hanno stimolato la reazione di diverse donne. Che hanno deciso così di chiedere aiuto e di collaborare. La ribellione, quindi, è possibile. E questo gruppo di mamme lo dimostra: una decina di mogli di alcuni importanti padrini che hanno bussato alle porte del tribunale per collaborare. Lo fanno, dicono, per salvare i figli.

Pro e contro l'allontanamento forzato. Quattro opinioni (e quattro libri) prendono posizione sul distacco dei bambini dalle famiglie mafiose, scrive Angiola Codacci-Pisanelli su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo». Sembrano parole inventate per giustificare i giudici calabresi che tolgono i figli a chi è condannato per mafia per dare a quei ragazzi un futuro lontano dalla delinquenza. Invece sono parole vere, dette da un giovane mafioso che per i suoi crimini sconterà 26 anni, continuerà a sognare di costruirsi una vita migliore e alla fine, sconfitto da una burocrazia ancora più impietosa dell’ergastolo “ostativo”, uscirà come il Miché di Fabrizio De André: «Adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir...». Siamo a Torino alla fine degli anni Ottanta, ai margini di un maxi processo alla mafia catanese. Salvatore, uno dei più pericolosi tra i 242 imputati che assistono alle udienze chiusi in gabbie d’acciaio, chiede un colloquio al Presidente della Corte d’Assise, Elvio Fassone. Le sue parole, con quella nostalgia per un destino diverso da quello assegnatogli dalla «lotteria della vita», segnano un punto di svolta nel rapporto tra quel pluriomicida e il giudice che firmerà la sua condanna. Ne nasce un rapporto epistolare durato 26 anni, un libro composto e struggente (“Fine pena: ora”, Sellerio) e l’impegno personale di Fassone per mitigare una pena che «è una vera barbarie: una sentenza della corte europea del 2013 ci obbligherebbe a riesaminare caso per caso dopo 25 anni di carcere». Nel libro il rapporto malato tra infanzia e mafia torna tre volte. Nel bambino che Salvatore era e che non aveva altra strada che la delinquenza. Nei figli che non ha potuto avere dalla “ragazza perbene” che non ha fatto in tempo a sposare e che dopo anni d’attesa ha rinunciato ad aspettarlo. E nell’ansia per i nipotini, «quattro discoli» che con il padre anche lui in carcere e la madre che «si arrabatta come può» ormai «non rispettano nessuno». Salvatore si tormenta: «Dovrei esserci io insieme a loro, gli direi di studiare e di imparare a fare un lavoro altrimenti finiscono dove sono finito io». Eppure Fassone non è favorevole all’idea di togliere i figli ai mafiosi, un provvedimento che, se andasse avanti una proposta presentata nel 2014 dal deputato renziano Ernesto Carbone, potrebbe diventare legge. «Sono sempre riluttante davanti agli interventi coercitivi, anche se fatti con la certezza di “fare del bene” a un innocente», spiega Fassone. «Mi rendo conto però che quando un nucleo è radicato in ambito mafioso può essere una scelta accettabile. Purché però non si perdano i contatti con la madre. Pensiamo a questi bambini: con il padre in carcere, la madre diventa ancora più importante...». A preoccupare l’ex giudice torinese quindi non è tanto la possibilità che la perdita dei figli diventi una pena accessoria ancora più esasperante per dei condannati già difficilissimi da recuperare, quanto l’effetto sui bambini. Che oltretutto quando arriva la decisione dei giudici sono spesso già adolescenti. Non è troppo tardi? No, spiega Massimo Ammaniti, specialista di psicologia dell’età evolutiva. Nel suo “La famiglia adolescente» (Laterza), lo studioso mette a fuoco gli anni in cui «si conclude per i figli la fase del rispecchiamento e comincia - o dovrebbe cominciare - un processo diverso, la mentalizzazione». È questo il momento giusto, spiega a “l’Espresso”, «per cercare di costruire un senso civico che nasce da un’educazione a far proprie le regole e a capire il punto di vista dell’altro. Un’educazione all’empatia e alla mentalizzazione, la capacità di “leggere nella mente dell’altro” che entra in crisi fra i dodici e i quattordici anni, quando i ragazzi iniziano a prendere le distanze dal modello dei genitori». Ma il distacco forzato dai genitori è giustificato? «Sì, perché chi cresce in una famiglia mafiosa è vittima di una forma di abuso psicologico. Non è molto diverso da quello che succede ai bambini soldato della Sierra Leone. Toglierli alla famiglia è un modo per proteggerli da un meccanismo di affiliazione tanto più potente perché fa uso anche dell’affetto. E dal pericoloso senso di onnipotenza che ne deriva: appartenere a una famiglia mafiosa crea un’identificazione col gruppo che porta a un disturbo dell’identità, perché ci si sente parte di un sé grandioso». E comunque parliamo di affido temporaneo, «ben diverso dalla pulizia etnica o politica, dai bambini tolti ai nomadi in Svizzera o ai desaparecidos in Argentina». Questi distinguo non bastano a chi considera i provvedimenti «una vera barbarie, oltretutto con risultati minimi». È categorica Silvana La Spina, scrittrice catanese che nell’ultimo libro, “L’uomo che veniva da Messina” (Giunti) si è allontanata dall’attualità, ma che all’atteggiamento dei bambini di fronte alla malavita ha dedicato anni fa “La mafia spiegata ai miei figli (e anche ai figli degli altri)” (Bompiani). «Lo Stato non può pensare di salvare un solo bambino lasciando intatta la cultura malata di interi territori. Deve entrare nelle famiglie: medici, psicologi, assistenti sociali devono trovare gli “anelli deboli” che possono spezzare la catena, lavorare con le donne che sempre più spesso si oppongono silenziosamente». Allontanare un singolo bambino dal “contagio” «può creare una forma di rancore controproducente», nota la scrittrice. Che aggiunge: «Se è vero che la ‘ndrangheta ha ancora comportamenti tribali, lo Stato non può limitarsi a togliere un bambino dalla tribù. Deve aiutare la tribù intera». «I giudici calabresi hanno ragione», ribatte Melita Cavallo. «Ne sono convinta fin dagli anni Novanta: l’ho scritto chiaramente nel mio libro “Ragazzi senza”. Se si fosse intervenuti allora non vivremmo lo stato di cose di oggi». Alla vigilia dell’uscita di “Si fa presto a dire famiglia” (Laterza), ritratto delle “nuove” famiglie italiane attraverso quindici storie vere, l’ex presidente del tribunale per i minorenni di Roma da poco in pensione ha ben presente la situazione delle famiglie mafiose: «Non si può mai procedere per categorie. Il Tribunale decide sui casi singoli: non concorderei mai con un allontanamento “di massa” dei bambini da ambienti mafiosi, ‘ndranghetisti o camorristi. E comunque si nomina un tutore che fa da tramite tra la famiglia e il bambino nella sua nuova situazione: si evita così che nel piccolo si crei una ferita che non sarebbe facile risanare nel tempo». Ma c’è un altro modo di sottrarre questi piccoli alla “lotteria della vita” che li porta alla delinquenza. «Lo Stato deve intervenire pesantemente: non con esercito e polizia ma con la scuola. Una scuola che prende bambini e ragazzi dalle 8 alle 16, 30, in un territorio ricco di ludoteche, palestre e luoghi di incontro per suonare, disegnare, leggere, creare insomma un gruppo alternativo al modello familiare. Questo tipo di politica non paga subito, i suoi effetti si registreranno dopo anni, ma salverà migliaia di ragazzi». E non più solo i bambini del singolo camorrista che a vent’anni da quando lei aveva deciso l’allontanamento dei figli le scrisse dal carcere ringraziandola «perché i ragazzi si erano salvati».

Figli dei boss Luperti Riina e Company mafiosi per sempre. Brindisi e mafia, Luperti querela «Emiliano mi ha dato del mafioso». Controffensiva dell’ex assessore di Consales: «In Commissione antimafia Emiliano ha portato città indietro di vent’anni e ha fatto passare me per quello che non sono», scrive "Il Corriere del Mezzogiorno" il 22 febbraio 2016. «Posso accettare qualsiasi critica sul mio operato politico, ma nessuno dica che sono un mafioso. Mafioso no, proprio non posso accettarlo. Per me, per la mia famiglia». L’ex assessore all’Urbanistica del Comune di Brindisi, Pasquale Luperti, con questa motivazione annuncia che querelerà il presidente della Regione Michele Emiliano. Dal governatore, infatti, si sarebbe sentito offeso per i riferimenti, fatti anche in sede di Commissione antimafia, al padre Salvatore e allo zio Antonio, il primo già condannato per associazione mafiosa. I due furono uccisi alla fine degli anni novanta nell’ambito di una guerra di mafia in seno alla Scu scoppiata per la gestione del traffico di sigarette di contrabbando. Emiliano nel dicembre aveva chiesto le dimissioni di Luperti dalla giunta guidata da Mimmo Consales (Pd), arrestato per corruzione lo scorso 6 febbraio. «Con il suo racconto - spiega Luperti - Emiliano ha portato Brindisi indietro di vent'anni, facendo passare me per quello che non sono e cioè una persona collegata con la Sacra corona unita che ha potuto creare infiltrazioni nella pubblica amministrazione. Mio padre è morto 20 anni fa, e se io sono diverso lo devo anche a lui. Ci ho messo tantissimo per farmi conoscere e apprezzare. Accetto tutte le critiche ma non l'appellativo (mai detto in maniera esplicita da Emiliano, ndr) di mafioso. Quel mondo mi ha distrutto una parte di vita».

"Il giorno della civetta" e i figli dei boss, scrive di Valter Vecellio. "Lasci stare mia figlia", ruggisce il capo mafia. Il capitano dei carabinieri che gli sta di fronte, ed è venuto ad arrestarlo, gli chiede conto delle ingenti somme di denaro depositate in tre diverse banche, il suo apparente non far nulla, l'irrisoria denuncia dei redditi, nonostante il reddito reale sia elevato; e osserva che anche a nome della figlia risultano, altri, cospicui depositi, lei che studia in un costoso collegio svizzero...Poi, dopo lo scatto, il boss riprende il controllo dei nervi: "Mia figlia è come me", sibila, ma più a rassicurarsi, che a smentire il capitano; e magari, chissà, col tarlo, il dubbio, il sospetto che forse quell’uomo in divisa così diverso da lui per esperienze, cultura, nascita e accento, possa aver ragione e compreso quello che lui non ha capito e non vuole capire quando, poco prima gli aveva detto: "Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiate: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta...". E’ una scena de "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia, più del romanzo che del film. Nel film la ragazza si vede, compare, è devota nel porgere i calzini al padre, svegliato di soprassalto, e anche complice: il boss infatti le affida qualcosa che deve far “sparire”. Nel romanzo è invece una presenza evocata, non compare mai. Il romanzo - è bene ricordarlo - Sciascia lo scrisse più di cinquant'anni fa. Il capitano Bellodi e don Mariano Arena sono di fronte uno a l'altro, il mafioso poi descrive quelle che a suo giudizio sono le cinque categorie in cui si divide l'umanità; Bellodi individua nella legge, nel rispetto del diritto, le "armi" per sconfiggere la mafia. E’ un brano che autorizza una cauta speranza: quella che attraverso lo studio, la cultura, i figli e i nipoti di mafiosi riescano a levarsi di dosso la mafiosità dai loro padri e zii e nonni vissuti come "naturale", una pelle; e diventino appunto pietosi, rispettosi. Anni dopo, non a caso, richiesto su quello che i ragazzi potevano fare contro la mafia, Sciascia lapidario risponde: “Magari una marcia in meno, e un libro in più”. Quasi naturalmente ho pensato a quel brano de “Il giorno della civetta”, nell'apprendere che la diciassettenne figlia del boss latitante Matteo Messina Denaro (si dice erede di Totò Riina), avrebbe convinto la madre a lasciare la casa dove le due donne hanno sempre vissuto, e per andare altrove. Un po' frettolosamente si è scritto che la ragazza - e con lei la madre - si sono "ribellate": "la ragazza vuole vivere lontano dai familiari del papà. Una scelta rivoluzionaria perché suona come sfida ai codici di Cosa nostra''. Ribellione è una forzatura. La ragazza, che ha un suo profilo su facebook, il giorno del compleanno del padre, gli fa gli auguri, sotto forma di un cuoricino rosso, e scrive frasi di delicata malinconia: "Quanto vorrei l'affetto di una persona e, purtroppo, questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino...". Già perchè la ragazza, a differenza di altri figli di boss (quelli di Totò Riina, o di Bernardo Provenzano, o Nitto Santapaola, per esempio) non avrebbe mai visto il padre in vita sua. Sa chi è, quello che ha fatto e fa, ma non lo ha mai visto. Con la madre ha vissuto per quasi vent'anni nella casa della madre di Messina Denaro, e con le sorelle di lui; ma ora aspira a vivere una vita normale di una normale diciassettenne. Ha un fidanzatino, vorrebbe fare quelle cose che fanno tutte le sue coetanee, fuori dalla "gabbia" della mafiosità della famiglia del padre. La sua non è una ribellione, piuttosto la richiesta di una liberazione. Qualcosa deve aver toccato il cuore spietato del boss, o "semplicemente" ha fatto i suoi conti, si è reso conto che era meglio allentare di qualche anello la catena. Perché una cosa è indubitabile: se le due donne possono andare a vivere altrove significa che il boss si è convinto che la cosa si può fare. C’è da augurarsi ora, che la ragazza, staccandosi da quell'ambiente e vivendo normalmente la sua giovinezza, come la figlia di don Mariano Arena, e nonostante l’ambiente in cui è vissuta, il retaggio, i condizionamenti patiti e subiti, ne acquisti in “gentilezza”, “pietosa” verso tutto ciò che il padre disprezza, “rispettosa” verso tutto ciò che i mafiosi non rispettano. Merito della cultura, della “lettura di qualche libro in più”? Altri figli di boss, come quelli di Bernardo Provenzano, hanno studiato e si sono laureati in Germania, e con la mafia non hanno nulla a che fare. Si sono liberati, o vogliono cercare di liberarsi, della “pelle” mafiosa. Altri, al contrario, proprio grazie a lauree e specializzazioni in prestigiose università, hanno ulteriormente affinato le tecniche criminali e ampliato gli “imperi” dei padri e dei nonni. Ad ogni modo, resta l’intuizione di Sciascia, che merita di essere approfondita e studiata. Se dicessi che già cinquant’anni fa aveva capito tutto, lui per primo inarcherebbe il sopracciglio, con un gesto di muto rimprovero. Tutto no, ma tanto, e l'essenziale, probabilmente sì.

Chi condanna i figli dei Boss, scrive Alessandro Ziniti su "La Repubblica". Il figlio di Totò Riina chiede il rilascio della certificazione antimafia. Indiscutibilmente è una notizia e, come tale, i giornali, "Repubblica" in testa, la pubblicano con il dovuto rilievo. Due settimane dopo, a Corleone, l'azienda agricola dei figli del boss e la lavanderia della moglie e dei figli di Bernardo Provenzano sono costrette a chiudere i battenti. Il prefetto e la Camera di commercio non hanno dato le necessarie autorizzazioni e le due attività, di per sé assolutamente legali, devono immediatamente cessare. Certo, è un'altra notizia che fa scalpore e che fa discutere. Ma, con altrettanta certezza, avrebbe fatto più clamore se agli eredi dei due capi assoluti di Cosa nostra fosse stata rilasciata la certificazione antimafia. Vi immaginate, lo Stato che rilascia la patente di antimafiosità ai figli di Riina e Provenzano? Impossibile. Eccole, allora, a secondo della prospettiva da cui la si guarda, le tante facce dell'ultima vicenda che ha riportato Corleone agli onori della cronaca. Lo Stato, con i provvedimenti dei giorni scorsi, ha - nei fatti - detto ai giovani figli dei capi di Cosa nostra che a loro non è consentita alcuna attività "lecita". Intendiamoci: l'azienda di macchine agricole e la lavanderia non sono state chiuse perché condotte irregolarmente ma perché i legami dei titolari con la criminalità organizzata "appaiono inequivocabili". E dunque, in assenza dei requisiti personali, non sono nelle condizioni di ottenere le certificazioni che le leggi dello Stato richiedono ad un qualunque cittadino. I figli dei boss sono dunque condannati a non potere avere un futuro da "qualunque cittadino"? I provvedimenti di questi giorni dicono di sì, ma davanti all'umano dubbio morale o alla semplicistica "solidarietà" che i giovani rampolli di Cosa nostra possono raccogliere, vale forse la pena di riflettere sul fatto che a decretare questa terribile condanna non è solo lo Stato (almeno quello che non intende abbassarsi ad alcuna "trattativa") ma, primi di tutti, i loro padri. Quei padri che, in cella o latitanti da una vita, non sono riusciti a costruire per i loro figli un futuro migliore. Certo, non deve essere stata facile la decisione del prefetto di Palermo prima, del sindaco di Corleone poi, e poi ancora del presidente della Camera di commercio: la ragion di Stato ha prevalso, e non avrebbe potuto essere diversamente, su quella del "recupero" di questi ragazzi alla società civile. Dice il sindaco di Corleone Pippo Cipriani, ogni giorno a contatto con i giovani Riina e Provenzano: "Nessuna persecuzione, per carità. Io sono stato il primo a tendere loro una mano quando sono tornati a Corleone. Certo, pretendere che questi ragazzi rinneghino i padri forse è troppo, ma da loro non è mai arrivato neanche un segnale, il più piccolo, della volontà di intraprendere una strada diversa. L'apertura di quelle attività era il loro modo di riaffermare il controllo sul territorio, un controllo che, in uno Stato civile, spetta alle istituzioni". Poche decine di giorni prima e poche centinaia di metri più in là, Giuseppe Riina, accettando per la prima volta di parlare davanti alle telecamere della Rai, mostrava orgoglioso la sua azienda e spiegava: "Noi vogliamo lavorare nella legalità, non vogliamo vivere tutta la vita con questo fardello sulle spalle, se lo Stato non vuole che lo facciamo ce lo dica chiaramente". E la risposta, inequivocabile, è arrivata poco dopo. Lo Stato non consente. Ma c'è ancora un'altra faccia della vicenda: perché questi provvedimenti arrivano solo ora se le attività, soprattutto quella dei Provenzano, era aperta da ben quattro anni senza che nessuno avesse mai mosso un dito? E ancora perché si è mossa solo l'autorità amministrativa e non anche quella giudiziaria? Riconosciuti "nullatenenti", i due boss corleonesi non hanno mai "potuto" risarcire, così come sancito da decine di sentenze, le vittime delle loro attività criminali. Le misure di prevenzione hanno colpito in tutti questi anni i loro presunti o accertati prestanome. Ma se quelle due piccole attività sono state messe su con i proventi di quelle famiglie mafiose alle quali - dicono i provvedimenti - i ragazzi sarebbero inequivocabilmente legati perché non sono state sequestrate? Tanti perché, ognuno dei quali avrà sicuramente una valida risposta. Forse le spalle di un prefetto, di un sindaco, di un presidente di Camera di commercio sono troppo esili per reggere da sole il peso del futuro di questi ragazzi o forse la vicenda di Corleone è lo specchio fedele dell'impasse dell'antimafia.

La figlia di Riina: vi sembro donna di mafia? L’ultimogenita di Salvatore e Ninetta Bagarella si racconta. La sua infanzia in clandestinità, nelle campagne palermitane, e l’arrivo a Corleone dopo la cattura del padre, il 15 gennaio 1993. L’impatto con la società e oggi il desiderio di esprimersi attraverso l’arte, scrive Siana Vanella il 4 febbraio 2014 su "Panorama". L'appuntamento è alle 12, all’entrata del paese. Ogni chilometro rappresenta metri di riflessioni e punti interrogativi. Come sarà dal vivo Lucia Riina? In fondo la sua persona ha sempre vissuto mediaticamente all’ombra del padre Salvatore, di mamma Antonietta e dei fratelli Salvo, Maria Concetta e Gianni. Il cartello «Corleone» indica che non è più tempo di pensare. «Benvenuti nella mia città, vista l’ora che ne dite di fare un salto in pescheria? Qui si trova dell’ottimo pesce». Così esordisce la più piccola di casa Riina in jeans e t-shirt nera. Da lì a poco, eccoci nella cucina decorata con maioliche blu e bianche e due chili di polipi da preparare. Mentre in pentola il pesce cuoce insieme con il pomodoro fresco fatto da mamma Ninetta, Lucia chiarisce la provenienza dei suoi occhi azzurri. «Il colore è tipico dei Riina» spiega con in mano un mestolo di legno «quelli di mio padre sono cangianti tra il marrone e il verde, anche se il taglio appartiene alla famiglia Bagarella. Da piccola ero molto magra e mamma a colazione mi dava le vitamine alla ciliegia. Ormai, da quando vivo in campagna, sono le uova della mia fattoria a darmi energia». E in realtà, ad animare le giornate di Lucia e del marito Vincenzo, alle prese con il lavoro a singhiozzo, ci pensano cani, gatti, oche e galline. Sul suo sito si legge: «Sin da quando ero bambina ho avuto la passione per il disegno, ricordo che mamma e papà cercavano di procurarmi sempre album e matite ovunque eravamo. Io ero piccola e non capivo, però mi entusiasmava l’idea che a ogni nuova residenza c’erano ad attendermi matite e album nuovi».

Che ricordo ha della sua infanzia?

«Ho un ricordo di gioia e serenità. Si respirava amore puro in casa, sembrava di vivere dentro a una fiaba: mamma mi accudiva, papà mi adorava e mia sorella Mari per farmi addormentare mi raccontava le favole accarezzandomi i capelli. Mio fratello Gianni mi metteva sulle sue gambe chiamandomi “pesciolino”, Salvo (col quale la differenza di età è di appena tre anni, ndr) era il compagno di giochi. Avevamo un cane e un gatto, per questo adoro gli animali».

Si respirava profumo di arte?

«Mamma ha conseguito il diploma magistrale, quindi ci parlava spesso di storia dell’arte e di letteratura, papà era un appassionato di libri, e trascorreva le sue serate a leggere volumi sulla storia della Sicilia. Credo di avere, comunque, ereditato l’amore per la pittura dallo zio Leoluca (Bagarella, ndr), il fratello di mia madre. In casa custodisco gelosamente alcuni suoi dipinti, regali delle zie per il mio matrimonio: sapevano che anche dal carcere lo zio avrebbe apprezzato il gesto. Da piccola si dilettava a disegnare pesci e farfalle, adesso questi soggetti sono diventati i protagonisti delle sue tavole. Rappresentano un po’ il mio carattere. Il pesce con la sua serenità e i suoi colori cangianti, la farfalla con la sua libertà e delicatezza. Da bambina li disegnavo per esprimere i miei stati d’animo, adesso per rievocare il mio passato e comunicare il fatto di essere innamorata. Se dovessi rappresentare la mia esistenza attraverso i colori utilizzerei il rosa e il celeste, ma anche il giallo, il rosso e l’arancio perché mi ritengo una persona ottimista. La vita va affrontata con coraggio e anche quando si presentano situazioni difficili bisogna sempre andare avanti».

C’è qualcosa che le manca per completare il quadro della sua serenità?

«La mia è stata sicuramente una vita articolata e piena di difficoltà. È traumatico per una bambina di 12 anni vedersi strappare, dall’oggi al domani, la persona che più adora senza conoscerne i motivi e senza potergli dare nemmeno un ultimo bacio. I mesi dopo l’arresto di papà sono stati durissimi: l’arrivo a Corleone cercando di ambientarsi in una nuova realtà, frequentare la scuola (eravamo infatti abituati alla mamma che tutti i giorni ci riuniva a un tavolo impartendoci lezioni personalizzate), l’impatto con la società. A questo aggiungete le visite in carcere. Non riesco ancora a dimenticare la prima, dopo il periodo di isolamento di papà a Rebibbia: fu atroce, anzi peggio. Inizialmente credo che la struttura non fosse organizzata ad accogliere papà, e nemmeno noi, durante i colloqui. Ricordo che fecero entrare me, i miei fratelli e la mamma in una stanza piena di sedie e con un paravento dotato di fori. Mio padre era a pochi centimetri da noi, l’avrei potuto abbracciare in un istante, ma le guardie erano tutte attorno a lui e ci imploravano di non alzarci. Abbiamo passato tutto il tempo a piangere. Certe atrocità ai bambini non si fanno. Per chi non mi conosce e si basa solo sulle polemiche sollevate dai media negli anni, Lucia Riina non è quella bambina che si è risvegliata violentemente da una fiaba e non è nemmeno la donna che oggi fa fatica, come tutti i giovani, a trovare un’occupazione complice la crisi economica e un cognome forse un po’ ingombrante. Per me l’arte diventa un modo per rappresentare il mio mondo e far conoscere agli altri realmente chi sono».

Nel suo sito afferma di non aver potuto frequentare il liceo artistico di Palermo «perché a quell’età e in quella situazione non potevo andare a studiare così lontano da casa». C’è un artista da cui ha tratto spunti creativi?

«L’ispirazione nasce dalla vita di tutti i giorni, dal luogo in cui vivo e dal fatto che sto bene con mio marito. Negli ultimi mesi sto studiando le correnti dell’astrattismo basate sugli stati d’animo espressi attraverso i colori, le pennellate e le forme indefinite. Inoltre, sono attratta da Jackson Pollock e dalla tecnica del dripping: mi piacerebbe reinterpretarla personalizzandola».

Oltre alla pittura avrebbe voluto coltivare altre passioni?

«Sicuramente la danza. Da piccola guardavo tutti i film del genere, mi mettevo davanti allo specchio e ballavo o improvvisavo coreografie davanti ai miei genitori. Ancora oggi rimango incantata dalla danza classica e se un giorno dovessi avere una bimba mi piacerebbe vederla in tutù e calzamaglia».

Che cosa pensa di avere ereditato dai suoi genitori?

«Da papà, sicuramente, la gioia di vivere e l’ottimismo. Il fatto di andare sempre avanti senza arrendersi. Con lui c’è sempre stato un feeling speciale, complice anche il fatto di essere la più piccola in famiglia. Nelle lettere che mi spedisce mi chiama ancora «Lucietta di papà» nonostante i miei 33 anni suonati. Anche dal carcere, in questi anni, ha cercato spesso di ammorbidire mamma per le classiche richieste che una figlia adolescente fa ai propri genitori. Mi riferisco all’orario di rientro il sabato sera o al permesso per andare al mare. Quando conobbi Vincenzo, mio fratello Salvo inizialmente era un po’ geloso così ne parlai durante un colloquio a papà, che rispose: «Se la mia Lucietta è contenta, fatele fare le sue scelte». Da mamma credo di aver ereditato l’amore per gli affetti e per la conoscenza che mi ha spronato sempre a interagire con nuove persone».

In questi anni sua madre ha avuto un ruolo importante in famiglia. È stata moglie, madre e dal 1993 ha dovuto pure sopperire all’assenza fisica di suo padre. Adesso i ruoli si sono un po’ invertiti: è un po’ Lucia a dover sostenere Antonietta?

«Crescendo, un figlio diventa un punto di forza per un genitore. Ci sono momenti in cui fare i conti con la mancanza di papà per mia madre diventa difficile. Il loro è stato un amore da romanzo: lei ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo a noi figli e al grande amore della sua vita. Tutte le volte che è giù perchè pensa a papà o a Gianni che è in carcere le dico: «Mamma, stai tranquilla, io sarò sempre accanto a te». È il minimo che puoi fare per chi ti dà la vita.

Lei aveva deciso di devolvere a Save the children il 5 per cento del ricavato della vendita dei suoi dipinti, ma la sua scelta ha causato polemiche. Da anni seguivo le iniziative di questa associazione, così visitando la loro pagina ufficiale su internet venni a conoscenza del fatto che chiunque, munito di sito, poteva inserire il banner di Save the children per contribuire alle iniziative a favore dell’infanzia. Così, venduti i primi quadri, ho inviato una parte del compenso con un bollettino postale, cui seguì una lettera di ringraziamento intestata a me da parte dell’associazione con tanto di tessera di socio e una esortazione a continuare a contribuire. Io ero felicissima di poter aiutare bambini sfortunati e tutto mi sarei aspettata tranne che, da lì a poco, Save the children potesse reagire in quel modo. Ci sono rimasta malissimo, ho tolto il banner spiegando sul sito come sono andate le cose perché voglio essere trasparente con chi mi segue. Il mio è un lavoro onesto e da sempre il mondo dell’arte è legato alla beneficenza. Adesso sono alla ricerca di una nuova associazione da sostenere, perché mi sento realizzata quando faccio del bene».

RIINA FAMILY LIFE. Mi chiamo Salvatore Riina, sono nato a Corleone e sono il figlio secondo genito di Totò Riina e di Ninetta Bagarella. Dopo essermi consultato con la mia famiglia, soprattutto con i miei genitori, ho deciso di scrivere questa biografia per raccontare la storia della mia famiglia e dei rapporti tra noi fratelli e sorelle e mio padre Totò e mia madre. Figli, tutti, nati e cresciuti latitanti, dovendo seguire gli “spostamenti” forzati dei miei genitori. Ne parlo con l’affetto di un figlio, anche se mio padre si chiama Totò Riina. Voglio raccontare dall’interno la vita della famiglia più “conosciuta” al mondo, ma solo di nome. Io voglio invece raccontare i fatti. Davvero tante saranno le sorprese.

«La mia vita con Salvatore Riina, mio padre». Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo», scrive Giovanni Bianconi il 4 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi... Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia. Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due... Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche... Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari. E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima... Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò... E così restammo lì fino alla fine di agosto». Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta». È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare». Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori. Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani». Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva». Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.

"Licenziata per il cognome che porto". Parla la nipote di Totò Riina. Maria Concetta Riina, nipote del boss, è stata definita "presenza inquietante" dal prefetto di Trapani. "Non posso scontare le colpe di mio zio", scrive Carmelo Caruso il 20 luglio 2015 su "Panorama". «Chi le dice che non ci sia mai stata tra i tanti che hanno reso omaggio in silenzio e anonimamente…». Una Riina non può andare il 18 luglio in via d’Amelio a commemorare Paolo Borsellino? «Non so più se per me esista un luogo da dove non essere cacciata, inseguita e marchiata». Cambiare il cognome? «Pensa che basterebbe?». Forse no, ma la aiuterebbe. «E però, se lo facessi sarei una cattiva figlia. A quale figlia si può chiedere di dimenticare il padre?» Più semplicemente si libererebbe di suo zio Totò Riina, di Corleone, della genetica, e chissà perfino di quell’interdittiva del prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, che ha definito la sua presenza in azienda “inquietante”. «Ho 39 anni e mio zio l’ho conosciuto solo quando lo hanno catturato. In tutta la mia vita l’ho visto solo due volte». E mentre parla Maria Concetta Riina si fa più piccola della sua statura, che è quella dei Riina, prova a sgonfiare il viso pasciuto, a rallentare gli occhi svelti e azzurri che vigilano su una fronte rotonda d’adipe mediterranea, tutta carne e salute che invece di appesantire alleggerisce, scioglie il carattere e lo pacifica. Dunque non è sguardo di mafia ma solo quello eccitato della siciliana che fuma dalle narici, quel modo tutto loro che hanno le donne nell’isola quando mettono le mani sui fianchi e implorano i santi e Dio per farsi vendicare dai torti, «sono nelle mani del Creatore». Crede? «Si, sono cattolica. Sono normale, italiana come tutte. Se vuole saperlo non vado a messa ogni domenica. È una colpa anche questa?». Suo padre Gaetano è stato arrestato nel 2011, così come i suoi cugini, e sono sempre accuse per mafia. «Conosco mio padre e sono sicura che non abbia commesso nessun reato. Oggi posso solo attendere che esca dal carcere. È un uomo di 82 anni con un tumore alla prostata, un rene malandato, una scheggia conficcata nella gamba. Accetto la sua reclusione in galera, se a stabilirlo è la giustizia, ma non posso essere condannata per la mia famiglia, perseguitata come un’appestata». Il padre Gaetano a Maria Concetta non ha trasmesso solo il cognome ma pure il nome della nonna, così come ha fatto Totò con la sua prima figlia, la matriarca dei Riina che fino a 90 anni si trascinava in tribunale e taceva, come taceva Ninetta Bagarella che di fronte al suo Salvatore si eclissava, dimenticava i suoi studi magistrali e tornava moglie, «perché questo vuol dire che deve essere il mio destino» rispondeva ai giudici la maestra Ninetta: «Ho studiato pure io. Diplomata in ragioneria. Per due anni ho frequentato la facoltà di giurisprudenza poi ho lasciato». Voleva fare l’avvocato per difendere suo zio? «Lo ripeto. Per me è stato un estraneo fino al suo arresto. Ero curiosa quanto voi di vedere la sua faccia». In Sicilia non bisognerebbe “latitare” dalla famiglia? «Mi sono allontanata e ho provato a costruirne una. Ma evidentemente non basta se un prefetto definisce la mia presenza “inquietante” costringendo il mio datore di lavoro a licenziarmi, a lasciarmi senza uno stipendio dopo dieci anni di attività». Suo zio dopo la Sicilia ha dannato anche lei. «Non posso essere dannata per ciò che ha fatto e se lo ha fatto». Vede? È prigioniera del cognome. «Io non credo che abbia potuto commettere da solo tutto quello per cui è condannato e che fosse solo lui il padreterno». Ha chiamato sua figlia con il nome della nonna? «No». L’abbigliamento di Maria Concetta Riina non è il nero castigo della letteratura di mafia, rosari e spine alle donne e lupara e velluto ai mariti, ma bensì il colore di questa estate torrida a Mazara del Vallo dove ha casa: t-shirt bianca da madre indaffarata, jeans da spesa e mercato, elastico ai capelli fulvi per afferrare meglio i venti. Di Maria Concetta Riina non esistono fotografie, che rifiuta, a differenza di sua cugina e dell’altra figlia di Totò, Lucia che si è mostrata e raccontata proprio a Panorama. «Non me lo chieda. Altro che fotografia. Vorrei scomparire e se non avessi perso il lavoro non sarei qui a parlare». Andare? «Io voglio restare. Sono incensurata, non ho neppure una multa per divieto di sosta. E poi anche andare via dalla Sicilia non basterebbe. Dopo il cognome è il viso che dovrei mutare. Più degli avvocati avrei bisogno di un chirurgo estetico che mi cambi i tratti, mi faccia perdere peso. A volte credo che anche il corpo mi imprigioni a una storia che non mi appartiene». Nello studio dell’avvocato Giuseppe La Barbera, un uomo dal corpo solido come una montagna, ad accompagnare la Riina c’è il marito, «ci siamo sposati nel 2011 e oggi abbiamo una figlia di due anni. E ho più pietà per lui che per me. Gli ho portato come dote un bollo, ha dovuto sopportare le battute degli amici». E infatti l’unico che si aggira sperduto in questo fondaco di legali e in questa giurisprudenza di concorso esterno per associazione di nome, è proprio quest’uomo di trentanove anni, magro come quegli esseri che consumandosi si asciugano nel peso ma addensano pensieri, si chiudono nel mutismo che in Sicilia è dolore acerbo, un frutto che non cade dall’albero. «Da due anni non lavora, ha il terrore ogni volta che spedisce un curriculum. Rimane in silenzio. Quale marito sarebbe felice di vedere sua moglie segnata come un’indegna». Non sapeva di sposare una Riina? «Ha sposato me e non certo mio zio o mio padre. Lui per primo mi ha imposto come precondizione di rimanere a distanza dalla mia famiglia. L’unica colpa è che si è innamorato di me». Con una disposizione del prefetto di Trapani che ha definito «inquietante» la sua presenza in azienda senza contestare reati ma solo prevedendo possibili infiltrazioni mafiose, Maria Concetta Riina è stata licenziata da segretaria nella concessionaria di automobili dove lavorava da dieci anni, licenziamento per giusta causa e che La Barbera insieme alla sua collega Michela Mazzola vogliono adesso impugnare: «Ricorreremo al giudice del lavoro, chiederemo il reintegro e un’indennità risarcitoria» spiega l’avvocato nel suo studio di Villabate, pochi chilometri da Palermo, l’unico comune d’Italia che ha avuto sia lo scioglimento per mafia che il commissario chiamato a governarlo indagato a sua volta per mafia. E certo anche La Barbera sa che è possibile rincorrere il diritto ma che è impossibile chiedere di cambiare i connotati ai clienti. «Comprendo pure il mio datore di lavoro. Lo hanno costretto a licenziarmi. Era addolorato ma non aveva scelta. Mi chiedo solo perché» dice Maria Concetta che anche quando è seduta si sente un’imputata. Non crede che l’abbia assunta per riverenza come scrive il prefetto? «Mi ha assunta dopo avermi conosciuta in spiaggia sotto l’ombrellone. Un’amicizia che è nata e che poi si è tradotta in un lavoro da segretaria, lontana da qualsiasi contatto con il pubblico. Se avesse provato riverenza nei miei confronti non avrebbe osato licenziarmi per un’interdittiva. Fin quando mi è stato possibile ho lavorato come farebbe la signora Rossi da mattina a sera. Io e mio marito siamo una delle tante famiglie normali di questo paese. 1100 euro di stipendio, un mutuo, la bambina lasciata alla nonna. E se non mi avessero licenziata sarei rimasta quella persona anonima che ho sempre cercato di essere in paese. Solo oggi agli occhi di tutti sono tornata a essere una Riina. Non esco più di casa per paura dell’ottusità della gente». La ignoravano o la temevano? «Mi presento a tutti come Maria Concetta, ormai sono abituata a omettere il mio cognome e non perché me ne vergogni, ma perché so benissimo che tutti penserebbero a mio zio e smetterebbero di vedermi come donna e madre. Oggi, dopo questa interdittiva, non sono più una donna ma un’entità». La Barbera, che mafiosi ne ha difeso, finora mai si era imbattuto nell’accusa di mafia per biologia che si dice pronto a smontare nei tribunali ma che prima ancora vorrebbe abbattere più come pregiudizio che come capo: «È evidente che qui siano gravemente compromessi i principi costituzionalmente garantiti del diritto al lavoro. Siamo di fronte ad un inorridimento delle norme giuridiche. La mia cliente cerca solo una giusta e anonima quotidianità». E anche Michela Mazzola insieme a Claudia Gasperi, due giovani avvocate determinate e specializzate in diritto del lavoro, e che adesso difendono la Riina, dicono che più delle norme di mafia qui andrebbero rilette quelle sullo statuto dei lavoratori: «Si tratta di un vero e proprio atto persecutorio a una lavoratrice», dice la Gasperi. Volete fare “guerra” allo Stato? «Agiremo contro il prefetto e il ministro degli Interni - aggiunge La Barbera a volte sfiduciato e disincantato anche lui - non ho mai visto tanta ipocrisia. Va bene il diritto, ma qui siamo alla barbarie dei nomi come destino». In Sicilia, lo ripetiamo, adesso è l’anagrafe che andrebbe bonificata. Ecco, forse dopo i migranti è arrivato il momento di assegnare lo status di rifugiato anche ai figli senza colpa, ai nipoti senza macchia come Maria Concetta Riina, concedere l’asilo dal cognome. «Ditemi cosa debbo intanto fare per vivere. Nessun azienda può assumermi. Neppure per togliere la spazzatura da un ristorante mi assumerebbero. Me lo cerchi lo Stato un posto di lavoro dove il mio nome non possa avere influenze o destare referenze. Me lo dica lo Stato». Lasciamo Palermo pensando che davvero tutto ci inquieta tranne questa donna.

Intervista di Dina Lauricella ad Angelo Provenzano figlio di Bernardo Provenzano. Il figlio del Boss Provenzano parla per la 1a volta a Servizio Pubblico il 15.3.2012. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.

Il figlio di Bernardo Provenzano star per turisti. E quei rapporti difficili nella famiglia del boss. Angelo Provenzano è diventato, per fare soldi, un'attrazione per gli americani che arrivano in Sicilia e vogliono immergersi nelle atmosfere del Padrino. E una vecchia intercettazione di una discussione col fratello spiega cosa significa avere il boss dei boss come padre, scrive Lirio Abbate il 30 marzo 2015 su "L'Espresso". L'attrazione per i turisti americani che pagano un viaggio di andata e ritorno per la Sicilia, anzi per Corleone, è diventato Angelo Provenzano, 39 anni, figlio del vecchio capomafia Bernardo Provenzano. Gli Yankees sono ancora legati alle immagini del film il Padrino. Immagini che raccontavano di don Corleone e del clan siciliano. Oggi un tour operator sfrutta quel mito grazie anche al fatto che il punto finale della visita guidata a Palermo è proprio Corleone, dove i turisti incontrano personalmente la star, Angelo Provenzano, ingaggiato dalla società americana. E lui racconta a modo suo la mafia, la sua vita e la latitanza del padre. Scelte personali che hanno il solo scopo di fare soldi. A sei mesi dall'arresto di Bernardo Provenzano i poliziotti avevano registrato un'interessante conversazione fra i figli del boss Angelo e suo fratello Paolo. È il 28 settembre 2005 e gli agenti ascoltano i due fratelli, mentre chiacchierano in una cabina della motonave La Suprema, il ferryboat che da Palermo li porta a Genova. Paolo sta trasferendo tutte le sue cose in Germania dove in quel momento si trasferiva per un periodo di insegnamento, ed ha chiesto al fratello di guidare con lui un’auto piena zeppa di bagagli. È una conversazione importante che alla luce del risvolto “turistico” di Angelo Provenzano è utile ricordare per analizzare la vita dei due ragazzi e della loro madre. Per comprendere che rapporto avevano con il padre, durante la latitanza. Questa intercettazione l'avevamo riportata per la prima volta nel libro “I Complici” scritto con Peter Gomez, in un capitolo che raccontava proprio di “due fratelli in barca”. Il rumore della sala macchine è un cupo ronzio confuso, i due figli del boss stanno cenando. Sul tavolino pieghevole di formica c’è il cibo che Saveria, loro madre, ha preparato a casa. I ragazzi lo guardano e pensano che nelle ultime settimane le incomprensioni in famiglia sono aumentate. Le tensioni sono ormai evidenti: a zio Simone, il fratello di Binu che li ha allevati in Germania, è stato persino vietato di entrare in casa quando Saveria è sola. Ha fatto troppe domande che non doveva, anche sull’operazione alla prostata di suo fratello Bernardo, si è lasciato sfuggire molte parole di troppo. Ma il capo dei capi lo ha scoperto, si è adirato e ha disposto l’ostracismo nei suoi confronti. «Lo zio Simone non si lamenta. Dice soltanto che ci sono delle cose mal riportate oppure che quello [Binu] è uscito folle. Altra soluzione non ne ha», spiega Paolo. «E le cose che sono mal riportate [secondo lui] da dove vengono? [Intende dire] che gliele andiamo a riportare male noi altri? Giusto». «O la mamma, Angelo». Dunque zio Binu, in quelle prime settimane di autunno, è ancora lì, vicinissimo a Corleone, tanto vicino che i suoi parenti lo vanno a trovare, discutono con lui, parlano di un’abitazione che deve essere lasciata in eredità a qualcuno, riaprono vecchie ferite, solo nascoste, ma mai del tutto rimarginate. Il suo arrivo, dopo quattordici anni di lontananza, in un nucleo familiare che ormai era riuscito a trovare da solo i propri equilibri, sta minando dalle fondamenta ogni certezza. E oltretutto Paolo, che ha solo ventitré anni e che di fatto non frequenta più il padre da quando ne aveva nove, si è dovuto confrontare con un genitore che è per lui un estraneo. Dice al fratello: «Tra l’altro, ci sono sempre state cose che a me hanno dato fastidio: perché quando lui [nel 1992] ha detto di partire [cioè di tornare a Corleone], siamo dovuti partire a prescindere da tutti nostri cazzi di problemi e nessuno se ne è mai fatto un baffo? [E anche] questa volta [quando] io sono arrivato [dal mio nuovo lavoro in Germania, era] il primo sabato [libero], va bene? E siamo dovuti andare là, siamo andati a finire là [nel suo nascondiglio]. L’interesse suo non so quale sia. Io non vedo interesse in un colloquio, in un dialogo con lui: almeno personalmente con me non c’è mai stata una cosa del genere. [...] Quando mi dovevo laureare [nel marzo del 2005] e dovevo fare l’ultimo esame, non gliene è fottuto a nessuno se io potevo avere i miei problemi e invece dovevo andare a fare la bella statuina da lui. Perché poi io vado a fare [solo quello] da lui. Tu [Angelo] bene o male, sei sempre stato più coinvolto, ma io da lui ho sempre fatto la bella statuina, fin da piccolo». Il doloroso sfogo sul difficile rapporto con un padre latitante (nel vero senso della parola) va avanti per cinque minuti buoni. La cabina della motonave si riempie di risentimenti, di recriminazioni, di frasi che forse Paolo vorrebbe non aver mai pronunciato. Poi il fratello maggiore lo interrompe: «Paolo, vuoi sapere come la penso? Lui nel posto dove si trova ci si è davvero trovato per caso». «E io dovrei essere contento di una cosa del genere? Io devo essere contento che le cose succedano per caso? Io devo essere contento che ora si sta ricostituendo questa sorta di unione [familiare]… per caso! Anzi no, io lo chiamo caso e lui la chiama invece volontà di Dio [...] e poi neanche te lo ammettono che è per caso, Angelo». «No, assolutamente perché…». «[Pensa di aver fatto per noi] tutte cose, lui. [Papà continua a ripetere:] “ora ti racconto di quando [io e gli zii] eravamo piccoli”. [Dice] che suo padre gli dava le bastonate e che lui a nove anni se ne andava a vendere i [parola incomprensibile], e invece noialtri [abbiamo avuto tutto]. [Ma] quando ti [fa] la domanda: “Ti è mai mancato niente?” [Si può] mai aspettare una risposta positiva? [Perché la fa,] perché cerca sicurezza? [...] Mi dispiace [dirlo], mi dispiace». Angelo non lo contraddice, ma invita a riflettere. In famiglia, come in ogni famiglia, tutti hanno le loro colpe, le loro responsabilità. Ce l’ha Saveria, loro madre, «che ha subito tutte le decisioni, che non ha mai avuto il coraggio di dire: “questa cosa mi piace, questa cosa non mi piace, facciamola così, facciamola colì”». E ce le hanno anche loro, perché in casa Provenzano «hanno subito tutti». «Se poi ci sono anche delle responsabilità personali questo è un discorso. [Lo possiamo] addossare al destino, alla volontà di Dio... [Ma] i dati di fatto sono che noi abbiamo subìto tutta una serie di situazioni e le continuiamo a subire. Non ci si può né ribellare né provare ad aggiustare la croce per portarla con comodo. [Io] non l’ho mai detto a nessuno, [...] ma quanti si sono resi conto che la situazione, che abbiamo vissuto noi, è addirittura peggiore di avere un padre morto?». Quante domande, quanti interrogativi senza risposta. «[Stiamo vivendo] cose assurde, Angelo. O assurdo sono io. Boh, mi piacerebbe tanto saperlo certe volte. Mi piacerebbe veramente cominciare a capire la vita come va… e se continua così». «Quando ci sveglieremo e lo avremo capito avremo settanta anni ciascuno, Paolo, e sarà troppo tardi».

“Fiero di mio padre”: il figlio di Bernardo Provenzano parla a Servizio Pubblico. L'intervista esclusiva al primogenito del boss di Cosa Nostra in onda nella puntata di stasera del programma di Santoro. "Falcone e Borsellino? Due vittime immolate sull'altare della patria, due vittime della violenza", scrive David Perluigi il 15 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". “La verità processuale dice che mio padre è stato il capo di Cosa Nostra. Certo, a pensare che oggi, a distanza di 20 anni dalle stragi, sui giornali si sta parlando di revisione, dobbiamo riscrivere qualche verità a questo punto”. Le parole sono cadenzate, intervallate da sospiri, pronunciate per la prima volta davanti a una telecamera da Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, 36 anni il primogenito del capomafia corleonese. Bell’aspetto, ben vestito, buona dialettica, lavora nel settore vinicolo. Sicuro di sé, si definisce “fiero del padre”. E’ il ritratto che se ne ricava dall’intervista video esclusiva rilasciata all’inviata di Servizio Pubblico, Dina Lauricella, che andrà in onda stasera alle 21. Mesi di tentativi, attraverso la mediazione di uno degli avvocati dei Provenzano, Rosalba Di Gregorio: un primo contatto un anno fa, un “no che lasciava comunque delle aperture” racconta al Fatto la giornalista palermitana “poi nuovi, pazienti tentativi, fino a un mese fa quando il legale di famiglia, mi dice: 'Chiami lei signorina direttamente il signor Angelo questa volta'”. Studi da geometra, incensurato, come anche il fratello più piccolo di tre anni, Francesco Paolo, “unico, e io per lui, compagno di giochi per 16 lunghi anni, gli anni anche della mia latitanza. Ho vissuto in un reality show, essere figlio di una persona latitante per 43 anni, vuol dire essere messo sotto controllo e ne sono stato consapevole. Solo dopo la fine della mia ‘latitanza’ è cominciata la mia rinascita, il contatto con la gente, prima conoscevo solo pochi volti”. Gli viene chiesto cosa ne pensa dei collaboratori di giustizia e alle loro ricostruzioni sul periodo stragista. Provenzano accenna un sorriso: “Sì, è un’anomalia tutta italiana questa dei collaboratori di giustizia. Ma stiamo parlando di uomini e si possono dare anche delle indicazioni sbagliate. In ogni cosa in cui c’è l’uomo c’è la possibilità dello sbaglio”. “Sulle stragi, sopra l’impronta della mafia, si accavalla l’ombra dello Stato”, interviene la giornalista. “In questi anni – risponde – mi sono cimentato nello studio delle cose, mi sono imbattuto nella strage di Portella della Ginestra, dopo 50 anni scopriamo, forse, che non è stata opera di un bandito, Salvatore Giuliano, ma di un pezzo dell’esercito italiano. Mi sembra che sia un copione che venga recitato la seconda volta e non è su queste cose che si può fondare una fiducia incondizionata, quando qualcosa parte dall’interno dello Stato – continua – si rischia di perdere la fiducia”. “Chi sono per lei Falcone e Borsellino?” chiede Lauricella. “Per me sono due vittime immolate sull’altare della patria. Sono due vittime della violenza”. Fa attenzione a non usare mai il termine “mafia” Angelo Provenzano; anche quando gli viene chiesto “la mafia le fa schifo?”, lui risponde: “Tutti i tipi di violenza mi danno fastidio”. Sul punto in cui Riina sostiene che sia stato Bernardo Provenzano a venderlo allo Stato, Angelo è netto: “Se riesce a ottenere il permesso dal Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), vada a rivolgere la domanda direttamente a mio padre”. Sulla possibilità che un giorno il padrino possa collaborare con la giustizia, replica: “Nello stato attuale trovo che sia difficile immaginarlo che collabori con lo Stato, sarebbe una dimensione totalmente nuova”. “Ma cosa chiede oggi lei in concreto, nei fatti?”. “Quello che io chiedo è che si faccia una perizia per capire se mio padre è capace di intendere e volere, se a livello neurologico possa essere curato. Vorrei dignità. Ma deve stabilirlo lo Stato. Noi siamo consapevoli che sarà difficile che venga scarcerato, chiediamo però che venga curato. Mio padre – prosegue – vive un decadimento neurologico tale da non poter ricevere cure chemioterapiche per il suo tumore alla prostata. Perché ci deve essere questa discriminante? Perché si chiama Provenzano? Perché è un membro di Cosa Nostra?”. “L’incapacità di intendere e volere potrebbe mettere a rischio il proseguimento di processi fondamentali?”, conclude la giornalista. “Che qualcuno si prenda allora la responsabilità di istituire la pena di morte anche ad personam”.

La giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare.

In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti.

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare?

Le aziende messe ko dallo Stato in nome dell'antimafia. In fumo 72mila posti di lavoro. Non è mai stato creato un albo degli amministratori giudiziari e neppure una tabella dei compensi. E i furbetti fanno affari e disastri, scrive Luca Fazzo, Lunedì 05/01/2015, su "Il Giornale". Serrande abbassate sul Café de Paris, nel cuore di via Veneto, a Roma. Trentadue operai al posto di 2.500 alla Colocoop di Milano. Un buco di due milioni e mezzo alla Calf di Catania, che prima macinava utili. Cos'hanno in comune un bar nella Capitale, una cooperativa di lavori stradali, una società di servizi portuali in Sicilia? Sono passate nel tritacarne della legge antimafia, quella che prevede misure draconiane per colpire gli interessi economici della criminalità. Legge sacrosanta nei princìpi. Ma che si risolve in una Caporetto quando, dopo che aziende grandi e piccole sono finite nel mirino della giustizia, accusate a ragione o a torto di essere la longa manus delle cosche, a prenderle in mano è lo Stato. Dovrebbe essere lo Stato a incarnare l'economia buona che prende il posto di quella cattiva, mandando avanti secondo legalità ciò che prima viveva nell'orbita del crimine. Risultato: un disastro. L'ultimo rapporto di Srm, l'osservatorio sull'economia meridionale di Intesa San Paolo, parla di settantaduemila posti di lavoro (diecimila più dell'intera Fiat!) persi nel passaggio delle imprese dalle mani del crimine a quelle dello Stato. Di oltre millesettecento aziende sequestrate, ne sono ancora vive trentotto. Trentotto. E va bene che la catastrofe può avere più di una spiegazione nobile: l'azienda mafiosa sta a galla più facilmente, perché non rispetta le regole, paga in nero, intimidisce i concorrenti, soggioga i clienti. Tutte armi che lo Stato non ha. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che dietro alla catastrofe dei beni c'è anche un colossale problema di inefficienza dello Stato, che si è assunto un dovere che non è in grado di compiere. A partire dai livelli più alti. Il Codice antimafia varato nel 2011 prevedeva che venisse creato un albo nazionale degli amministratori giudiziari, i professionisti incaricati di gestire le aziende confiscate: sono passati più di tre anni, e l'albo ancora non c'è. A febbraio dello scorso anno, il governo ha promesso il varo di una tabella nazionale dei compensi da pagare agli amministratori: non si è vista neppure questa, col risultato che ogni tribunale si regola a modo suo, e a mandare avanti (e più spesso ad affossare) le aziende sono commercialisti pagati a volte cifre spropositate. Anche sui criteri di scelta ci sarebbe da discutere: nell'inchiesta su Mafia Capitale compare il nome di Luigi Lausi, uno dei professionisti cui il tribunale romano ha affidato una lunga serie di aziende confiscate, di cui Salvatore Buzzi dice «Lausi è mio». E a volte, come nel caso della Piredil di Milano, si scopre che gli amministratori inviati dal tribunale continuavano a trescare con i vecchi proprietari. Ci sono tre modi in cui lo Stato interviene per colpire gli interessi economici del crimine. Il primo, il più semplice, è l'interdittiva antimafia spiccata dalle prefetture, che non decapita le aziende ma si limita a bloccare i loro appalti pubblici: spesso è più che sufficiente per affossarle. Sacrosanto quando dietro ci sono davvero i clan; meno quando, come nel caso della Colocoop, nel frattempo i manager sospettati di essere collegati ai clan sono stati assolti. Poi c'è il sequestro disposto dai pm durante le inchieste. Infine, ed è lo strumento più usato, il provvedimento delle cosiddette «misure di prevenzione», che può scattare a prescindere dall'esistenza di un'inchiesta penale, sulla base di un semplice sospetto, o anche se il processo penale è finito in nulla. Il provvedimento ha una durata massima di diciotto mesi, quanto basta per disintegrare qualunque azienda, ed è inappellabile. Il caso più eclatante da questo punto di vista è probabilmente quello di Italgas, l'azienda di distribuzione gas di Snam, tremila addetti, messa sotto amministrazione giudiziaria dal tribunale di Palermo il 9 luglio 2014 sulla base di remoti contatti di un manager locale con una ditta in odore di mafia. Il manager non è mai stato neanche indagato, la ditta è stata assolta con formula piena, ma Italgas rimane commissariata. Per giovedì prossimo era fissata un'udienza, ma a fine dicembre i pm hanno chiesto e ottenuto il rinnovo del commissariamento per altri sei mesi; nel frattempo, secondo alcuni calcoli, gli amministratori nominati dal tribunale hanno già presentato parcelle per diversi milioni di euro. Nel corso dell'audizione davanti alla commissione Antimafia, il deputato di Scelta civica Andrea Vecchio ha motivato così il trattamento riservato all'azienda: «Mi sono arrivate chiacchiere da bar secondo le quali, in passato, la quasi totalità delle imprese che hanno messo i tubi per la Snam, da nord a sud, erano mafiose». Così, tra inchieste serie e chiacchiere da bar, l'elenco delle aziende inghiottite e distrutte in nome dell'antimafia cresce giorno per giorno. Fare i conti di questo disastroso business è quasi impossibile. Secondo le stime più caute, il valore totale dei beni confiscati è intorno ai dieci miliardi di euro, ma la commissione Antimafia parla di un totale superiore ai trenta miliardi. Una parte di questo colossale patrimonio è costituito da beni immobili, che hanno il pregio di essere poco deperibili, e di poter essere dati in affido a associazioni antimafia come Libera di don Ciotti, o usate - è uno degli ultimi casi - per alloggiare i carabinieri della compagnia di Partinico. Ma la fetta più grossa è quella delle attività imprenditoriali, ed è qui che lo Stato-manager fa i danni peggiori. Dal momento della confisca di primo grado, i beni vengono presi in mano dall'Agenzia nazionale per i beni confiscati, guidata da un prefetto. In teoria, dovrebbe esserci anche un consiglio direttivo, ma è vacante da tempo, compresi i due «qualificati esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali», che dovrebbero cercare di evitare la dissipazione dei beni sequestrati. Così, nel frattempo, la distruzione va avanti. Gli amministratori giudiziari vengono pagati profumatamente, qualunque siano i danni che producono. «La verità - dice un addetto ai lavori - è che oggi fare l'amministratore dei beni confiscati è un business ambito. Si fanno un sacco di amicizie, non si rischia niente, si guadagna bene».

Antimafia, la profezia di Sciascia. È evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. Non si tratta di accuse generiche, si possono fare nomi e cognomi, scrive Paolo Mieli il 6 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per la legalità» di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui (ancora domenica sera, intervistato da Milena Gabanelli) a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese. Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che — salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia «non servono più», lo ha detto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un convegno si presenta il tale magistrato che fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che «è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache». Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni «fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»; la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera», l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: «Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo; «Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; «Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano «travestite» con una pronta adesione ad associazioni antiracket. Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla mafia» (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina (rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia». Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitre anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

“Meno attacchi in cambio di soldi”: indagato a Palermo paladino della tv antimafia. Pino Maniaci, direttore di Telejato. Il direttore di Telejato Pino Maniaci è sospettato di aver estorto favori e compensi a due sindaci. Le conversazioni intercettate, scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 “La Repubblica”. Chiedeva, e avrebbe ottenuto, "contributi" e posti di lavoro in cambio di una linea morbida della sua televisione nei confronti di alcuni sindaci del Palermitano. Pino Maniaci, giornalista e direttore di Telejato di Partinico (Palermo), tv di frontiera antimafia, è sotto inchiesta, come racconta "Repubblica" oggi in edicola. La procura di Palermo ipotizza il reato di estorsione. Un'accusa gravissima per un personaggio che, da anni, dalla sua tv conduce battaglie contro mafia e malaffare. L'ultima, quella contro la gestione dei beni confiscati in cui sono coinvolti l'ex presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto (sospesa dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm), altri tre magistrati e l'amministratore giudiziario, Gaetano Cappellano Seminara, tutti indagati per vari reati e costretti alle dimissioni. "La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato", replica il direttore di Telejato a "Palermo Today". Maniaci è stato più volte ascoltato e intercettato dai carabinieri nell'ambito di altre indagini: avrebbe ottenuto favori in cambio di una "linea morbida" della sua emittente nei confronti dei due amministratori comunali, i sindaci di Partinico e Borgetto. Dalle conversazioni intercettate sarebbero emersi altri elementi a carico di Maniaci che avrebbe ottenuto dal sindaco di Partinico e da quello di Borgetto, Gioacchino De Luca, finanziamenti sotto forma di pubblicità per la sua emittente televisiva. I due sindaci, interrogati da carabinieri e magistrati, avrebbero fatto delle ammissioni. Gli inquirenti avrebbero espresso anche qualche dubbio in relazione ad uno degli ultimi atti intimidatori che Pino Maniaci avrebbe subito nel dicembre del 2014 quando due suoi cani furono avvelenati ed impiccati. Per gli investigatori non si tratterebbe di una intimidazione mafiosa, ma sarebbe legata ad una vicenda privata. Ad aggravare la posizione di Maniaci, proprio le ammissioni di Salvatore Lo Biundo e Gioacchino De Luca, rispettivamente sindaci di Partinico e Borgetto. Maniaci tuttavia si ritiene estraneo ai fatti e così commenta: “La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”. Da parte sua Pino Maniaci rispedisce le accuse al mittente: “La vendetta della procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”, ha detto il giornalista a PalermoToday. “Sapevamo di questa inchiesta, nata prima dello scandalo Saguto e che parte da alcune intercettazioni ben precise. Una – ha detto ancora al quotidiano – è quella fra l’ex prefetto di Palermo Silvana Cannizzo e la stessa Saguto, che a domanda rispose: ‘Ha le ore contate’. Penso possa entrarci anche la denuncia per stalking di Cappellano Seminara, che aveva l’obiettivo di farmi mettere sotto controllo il telefono. Il piano era ed è quello di bloccarmi per impedirmi di fare il mio lavoro. Chiederemo con il mio avvocato di essere sentiti, perché siamo sicuri che quello che dicono i magistrati sulle ammissioni è totalmente falso. Qualcuno non vuole che nostra inchiesta su incarichi Ctu e sezione Fallimentare continui. Ma noi andiamo avanti”.

Telejato, Maniaci: "Io indagato? L'Antimafia mi vuole fermare". Il direttore di Telejato Pino Maniaci risponde alle accuse in un'intervista di Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it il 22 aprile 2016.

"Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia". Pino Maniaci, il direttore dell'emittente tv Telejato noto per le sue scomode inchieste antimafia, commenta a caldo in un'intervista su Affaritaliani.it la notizia riportata da Repubblica secondo la quale sarebbe indagato dalla Procura di Palermo con l'ipotesi di reato di estorsione.

Pino Maniaci, Repubblica scrive che lei sarebbe indagato con l'ipotesi di reato di estorsione.

«L'avvocato mi aveva detto di aspettare e non fare dichiarazioni prima di parlare con lui ma io non sono il tipo. Non avendo nulla da nascondere non ho nessun problema a parlare».

Ha ricevuto l'avviso di garanzia?

«Io non ho ricevuto nessun avviso di garanzia, non si capisce nemmeno che inchiesta è. Vogliono tirarmi un po' di merda addosso».

Si scrive che lei avrebbe ottenuto favori in cambio di un linea morbida della sua emittente Telejato nei confronti di due amministratori comunali.

«Intanto siamo nel campo delle ipotesi, ho letto testualmente. Quindi non capisco come sul campo delle ipotesi e su delle indagini in corso ci sia questa violazione grave. Come la possiamo definire, fuga di notizie? Non so come definirla...»

Ma che cosa risponde alle accuse?

«Entrando nel merito di quello che ho letto personalmente siamo stati querelati come emittente dal presidente del consiglio comunale di Borgetto perché in un servizio abbiamo detto che sono andati in America sia il presidente sia il sindaco a incontrare dei malavitosi. Tra le altre cose, il Comune tramite il sindaco si è costituito parte civile nel processo quindi non capisco dove sarebbe questa linea morbida di cui si parla».

Nessuna linea morbida neppure verso il Comune di Partinico?

«Sul Comune di Partinico abbiamo fatto giornalmente dei servizi sulla mala gestio che sono ovviamente verificabili negli archivi di Telejato».

Si scrive anche che sua moglie sarebbe stata assunta dal Comune di Partinico.

«Tutte minchiate. Sul campo delle assunzioni, io ho tutta la famiglia disoccupata e quindi non capisco come sia venuta fuori questa cosa. O meglio, forse lo capisco...»

Che cosa vuole dire?

«Partiamo da una denuncia che ho ricevuto a suo tempo per stalking da Cappellano Seminara. Una denuncia che ha fatto sì che mi tenessero sotto controllo non per diffamazione ma, appunto, per stalking. E poi c'è la questione dell'inchiesta sui beni sequestrati. E' un'inchiesta che non è piaciuta a molti e probabilmente c'era qualcuno che voleva bloccarla. Sa che cosa mi ha detto un magistrato? Mi ha detto così: "A questo punto stai attento che non ti ammazza la mafia ma l'antimafia"».

Pino Maniaci non potrà risiedere nelle province di Palermo e Trapani. Le intercettazioni svelano che non era minacciato dai boss, ma dal marito della sua amante, che gli avrebbe bruciato l'auto e impiccato i cani. Ma lui diceva in Tv: “Sono perseguitato per le mie inchieste”. Lo aveva chiamato pure Renzi per esprimergli solidarietà e poco dopo Maniaci commentava: "Mi ha telefonato quello stronzo", scrive Salvo Palazzolo il 4 maggio 2016 su “La Repubblica”. Non sono stati i boss di Cosa nostra a bruciare l’auto di Pino Maniaci, il direttore di Telejato diventato in questi anni un simbolo dell’antimafia. Non sono stati i boss a impiccare i suoi due amati cani. La mafia non c’entra proprio niente in questa storia. Le intercettazioni disposte dalla procura di Palermo svelano che le intimidazioni a Pino Maniaci le avrebbe fatte il marito della sua amante. E lui ne era ben consapevole. Ma ai giornali e alle Tv annunciava in pompa magna: “E’ stata la mafia a minacciarmi per le inchieste del mio tg”. Quel giorno, era il 4 dicembre dell’anno scorso, gli telefonò persino il presidente del Consiglio per esprimere solidarietà. E qualche minuto dopo, lui si vantava al telefono, con un’amica: “Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi”. E’ un altro Pino Maniaci – niente affatto eroe della legalità - quello che emerge dalle intercettazioni dei carabinieri della Compagnia di Partinico. Il giornalista è indagato per estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e Borgetto, come anticipato nei giorni scorsi da Repubblica: avrebbe preteso soldi e favori per ammorbidire i suoi servizi televisivi. Questa mattina, gli è stato notificato un provvedimento di divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Il provvedimento è stato emesso dal gip Fernando Sestito su richiesta dei sostituti procuratori Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Roberto Tartaglia e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Un’inchiesta che si aggiunge alle altre di questi ultimi mesi sui simboli dell’antimafia finiti nella cenere. Pino Maniaci è accusato di aver estorto al sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo anche un’assunzione per la sua amante. Un contratto di solidarietà al Comune per tre mesi: “Alla scadenza, non poteva essere rinnovato – ha ammesso il sindaco interrogato dai carabinieri – ma Maniaci diceva che dovevamo farla lavorare a tutti i costi e allora io e alcuni assessori ci siamo autotassati per pagarla”. Intanto, lui si vantava al telefono con l’amante: “Per quella cosa ho parlato, già a posto, stai tranquilla, si fa come dico io e basta. Qua si fa come dico io se ancora tu non l’avevi capito… decido io, non loro… loro devono fare quello che dico io, se no se ne vanno a casa”. Per i magistrati è la prova chiarissima delle “vessazioni” imposte dal giornalista antimafia. Maniaci era ormai in pieno delirio di onnipotenza. All’amante diceva di volerle fare vincere un concorso all’azienda sanitaria locale di Palermo. Grazie alle sue solite buone amicizie. “Quello che non hai capito tu è la potenza… tu non hai capito la potenza di Pino Maniaci. Stai tranquilla che il concorso te lo faccio vincere”. E spiegava di essere in partenza per ritirare un premio antimafia: “A me mi hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi, appena intitolato l’oscar di eroe dei nostri temi”. Era il novembre 2014. In un’altra occasione: “Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione”. Nei giorni scorsi, il giornalista si è difeso sostenendo di essere vittima di un complotto, per le sue denunce sulla gestione dei beni confiscati. Ma nel novembre 2014, l’inchiesta sulla gestione allegra della sezione Misure di prevenzione di Palermo non era neanche nella mente dei magistrati di Caltanissetta, che iniziarono a indagare nel mese di maggio successivo. L'indagine su Maniaci è nata per caso, durante alcuni accertamenti dei carabinieri sulle amministrazioni comunali. E stanotte è anche scattato un blitz dei carabinieri del Gruppo Monreale, fra Partinico e Borgetto, coinvolge nove presunti mafiosi. “C’è il sindaco che mi vuole parlare – diceva ancora all’amante – per ora lo attacco perché gli ho detto che se non si mette le corna a posto lo mando a casa, hai capito? A natale non ti ci faccio arrivare, che te ne vai a casa e non ci scassi più la minchia”. Poi aggiungeva: “Mi voglio fare dare 100 euro così domani te ne vai a Palermo tranquilla”. Intercettazioni che per la procura diretta da Francesco Lo Voi non lasciano spazio a interpretazioni. Il direttore di Telejato sussurrava ancora, a proposito del sindaco: “Dice che in tasca non ne aveva e che stava andando a cercare i soldi… i piccioli li deve andare a cercare a prescindere… così ne avanzo 150 di iddu”.

Indagine su Maniaci, il giornalista: "Abbiamo toccato poteri forti, me l'aspettavo". Il direttore di TeleJato è un fiume in piena: "Non ho nulla da temere, dopo il caso Saguto mi immaginavo qualcosa del genere. A proposito, a che punto è quell'inchiesta?", scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 su “La Repubblica”. Da accusatore ad accusato dalla procura di Palermo con l’ipotesi di reato di estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e di Borgetto dai quali avrebbe ottenuto favori e contributi, cosa succede? “Abbiamo toccato poteri forti ed ovviamente ci aspettavamo una reazione che è puntualmente arrivata”. Pino Maniaci, direttore della emittente Telejato che copre un vasto territorio del palermitano e del trapanese, è un fiume in piena, si difende poco ma attacca molto come è nel suo stile preannunciando che attraverso il suo avvocato, l’ex pm antimafia Antonino Ingroia, denuncerà i magistrati che lo hanno indagato. Intanto su Facebook e Twitter il popolo del web si divide fra colpevolisti e innocentisti.

“L’iniziativa della Procura – afferma Maniaci - è un vero e proprio agguato ed una vendetta per il lavoro che abbiamo fatto e che facciamo ancora oggi contro il malaffare e l’ illegalità anche all’ interno della magistratura come nel caso dell’ inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia dove a capo di tutto c’era l’ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto ed il suo clan, che è stata indagata e punita dal Csm che l’ha sospesa dalle funzioni e dallo stipendio anche se lei continua a prendere oltre 5000 mila euro al mese”.

La Procura che tende agguati e che si vendica? Mi pare un po’ eccessivo o no?

“Guarda che già nel settembre scorso qualcuno dentro la procura di Palermo mi aveva avvertito dicendomi che entro dicembre sarei stato arrestato e che sarebbe stata proprio l’antimafia e non la mafia ad attaccarmi cosa che è puntualmente accaduta”.

Ma ci sarebbero delle intercettazioni che, secondo l’accusa, dimostrerebbero che avresti compiuto dei reati, ottenendo favori dai due sindaci di Borgetto e Partinico in cambio, diciamo così, di un occhio di riguardo nei loro confronti nei tuoi servizi giornalistici.

“Allora io dal sindaco di Borgetto contro cui ho fatto dei servizi per alcuni suoi viaggi sospetti negli Stati Uniti (e per questo mi ha anche querelato) dove avrebbe incontrato alcuni mafiosi, non ho ottenuto nulla. Da sua moglie, invece si”.

Che cosa?

“Dei contratti pubblicitari per Telejato dove pagava 250 euro al mese, cifre che fanno veramente ridere”.

Ed il posto di lavoro per una sua conoscente al comune di Partinico?

“Io non ho fatto assumere nessuno e dico e ripeto che nella mia famiglia, sono tutti disoccupati”.

Quindi nessuna assunzione di favore?

“Ripeto, nella mia famiglia sono tutti disoccupati”.

Quindi nulla di illegale? Ne sei proprio certo?

“Non ho nulla da temere, queste accuse della Procura di Palermo mi fanno ridere. Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia né di conclusione delle indagini e questa è stata una vendetta per le mie inchieste sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Le mie intercettazioni sono nate a “tavolino”. Ci aspettavamo una cosa del genere soprattutto dopo la denuncia dell’avvocato Cappellano Seminara, amico della Saguto, anche lui finito indagato, che ha dato modo e possibilità alla procura di mettere sotto controllo il mio telefono e di intercettarmi. In Italia guai a toccare i poteri forti e tra questi la magistratura ma io continuerò il mio lavoro ed anche per questa indagine, attraverso il mio avvocato, Antonino Ingroia, li denuncerò, per competenza, alla Procura di Caltanissetta”.

Con quali accuse?

“Non posso anticipare nulla per il momento, ma starete a vedere….Proprio nei giorni scorsi su Telejato abbiamo ampliato lo spettro della nostra inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a quella sulla sezione fallimentare del Tribunale di Palermo, dove ci sono interessi enormi e dove girano gli stessi nomi e cognomi, di amici degli amici dei magistrati e di altri amministratori giudiziari. Tutto questo dà fastidio, molto fastidio, ecco perché tentano di fermarmi con indagini che non hanno nè capo nè coda”.

Ma sapevi di questa inchiesta nei tuoi confronti?

“Qualcosa avevamo intuito proprio dalle intercettazioni relative alla Saguto ed ai suoi amici che sono stati tutti indagati dalla Procura di Caltanissetta: a proposito a che punto è questa inchiesta?”.

CE LO ASPETTAVAMO DA TEMPO E ALLA FINE È ARRIVATO. Scrive Salvo Vitale il 22 aprile 2016 su "Telejato". “Quello là è questione di ore” aveva detto la signora Saguto, quando era ancora “come un dio” sull’alta sedia di Presidente dell’Ufficio misure di prevenzione. Una battaglia Portata avanti dalla redazione di Telejato aveva svelato un “sistema di potere” attorno a cui ruotavano e continuano a ruotare quelli che oggi si possono considerare la nuova classe dominante di Palermo, ovvero avvocati, magistrati, cancellieri, curatori ed amministratori giudiziari, commercialisti, giornalisti, sindaci, imprenditori e commercianti mafiosi che hanno fatto professione di antimafia, affaristi, pentiti usati con il telecomando, a seconda delle cose che gli dicono di dire. Quando è scoppiato il terremoto ed è saltato il tappo, alcuni giudici hanno dovuto lasciare la poltrona, sono stati spostati ad altri incarichi, alcuni amministratori giudiziari sono stati sostituiti, ma sono ancora al loro posto, nessuno di loro si è preoccupato di fare le consegne e pertanto è stato necessario nominare qualcuno che se ne preoccupasse. Era chiaro che, alcuni dei responsabili di questo finimondo non potevano passarla liscia. Non sappiamo che cosa succederà ai giudici di Caltanissetta, che stanno indagando sui loro colleghi, probabilmente saranno “ammorbiditi” dai loro superiori, nella stessa misura in cui Maniaci è accusato di essersi ammorbidito con due sindaci, ma sappiamo oggi che cosa è successo a Pino Maniaci. Il suo telefono, da tempo sotto controllo, probabilmente dopo la denuncia per stalking avanzata da Cappellano Seminara, avrebbe fornito chissà quali elementi, in base ai quali si poteva studiare un bel capo di accusa. Non è stata una “questione di ore”, ma, da settembre ad adesso ci sono voluti quasi nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un parto. Sarebbe stato troppo sfacciato far partire l’accusa nel momento in cui è scoppiato lo scandalo, e perciò, in base alla norma tutta nostra, secondo cui “la vendetta è un piatto che si mangia freddo”, la procura di Palermo ha deciso di mollare il missile adesso che le acque si sono calmate, o, come si dice in siciliano, “a squagghiata di l’acquazzina”, quando la brina si è sciolta. Il metodo è sempre lo stesso: chiamare un giornalista con cui la procura è in contatto, dargli la notizia, quasi sempre anche all’insaputa dell’indagato, fornirgli anche qualche brano sospetto di intercettazioni, da trasmettere, non tutte insieme, ma un poco al giorno, per tenere la vicenda in caldo, ed è fatta. [Pino era stato sentito dai magistrati della procura di Palermo qualche mese fa e pensava di avere chiarito tutto, e invece no]. Ha dovuto nominare due difensori, uno dei quali è Antonio Ingroia, l’altro Bartolo Parrino. L’accusa è ridicola e non merita di essere commentata. Basta ascoltare i telegiornali, per rendersi conto che quotidianamente i sindaci di Partinico e di Borgetto sono “massacrati” da Pino per la loro, diciamo “presunta”, incapacità a risolvere gli enormi problemi del loro territorio. Non parliamo poi della triste vicenda dei cani impiccati: quella che circolava a Partinico, allora, era la tremenda accusa che i cani fossero stati uccisi dallo stesso Maniaci per farsi pubblicità, e un nutrito gruppo della gente di facebook si è apprestato a condividere questa infame accusa, così come oggi mostra soddisfazione per quello che è venuto fuori, con le loro idiote condivisioni. Costoro non si aspettano una condanna: Pino è già stato da loro condannato e da tempo. Fra l’altro, proprio per non farla “vastasa” si è fatta scivolare l’ipotesi che il “canicidio” sia stata opera di qualcuno che si voleva vendicare personalmente e non un’intimidazione mafiosa. Così si toglie, guarda un po’ dove arriva l’intelligenza inquirente, anche, oltre che credibilità, questa sventolata patente di giornalista antimafia che Maniaci si è guadagnata sul campo. La notizia è arrivata dopo che Maniaci, assieme a Lirio Abbate, è stato ritenuto uno dei giornalisti più impegnati in Italia, ma anche dopo che “Reporter sans frontieres” ha pubblicato la graduatoria sui paesi in cui la libertà di stampa è in pericolo: l’Italia è scivolata dal 65simo al 74esimo posto. Fare giornalismo in Sicilia è già difficile. Le querele per diffamazione fioccano e ormai non si contano più, ma quando si ci mette anche la magistratura è il caso di chiedersi se non è meglio cambiar mestiere.

RETTIFICA. Si rettifica l’affermazione, nel senso che Pino Maniaci non è stato mai sentito dalla Procura di Palermo e, sino ad oggi, non ha ricevuto alcun avviso di garanzia. Tutto quello che è venuto fuori è stato reso noto da un articolo su “La Repubblica”, a firma F. Viviano. In tal senso i legali di Maniaci hanno annunciato che lunedì prossimo sarà presentata alla Procura di Palermo una formale richiesta di accesso agli atti per sapere se esiste un capo d’imputazione, su che cosa e su quali elementi è fondato e per chiedere l’audizione dello stesso presunto imputato. Anche ai giudici di Caltanissetta sarà inviata dal collegio di difesa di Maniaci, formato da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino, una richiesta di accesso degli atti e alle intercettazioni da cui si evincerebbe che, da parte di alcuni settori della Procura di Palermo e di altre forze istituzionali ci sarebbero state manovre e tentativi di fermare l’azione di Telejato.

Pino Maniaci aveva previsto tutto: ecco l’intervista del 13 Novembre 2015 di Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York". In questa intervista, ripetiamo, siamo a Novembre dell’anno scorso, commentiamo con lui le voci – già ricorrenti in quel periodo - di una inchiesta a suo carico e, addirittura, di un suo arresto. Rileggiamola:

Caso Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci?

Gira voce che vogliono arrestarla…ci faccia capire, direttore, alla fine il mafioso è lei? 

Maniaci: “Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto notizie su di lei…

Maniaci: “La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

Maniaci: “Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non entusiasmante, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

Maniaci: “Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

Maniaci: “Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

Maniaci: “E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: ‘Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pi no Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

Maniaci: “Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per raccontare vent’anni di antimafia, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi – con riferimento anche al mio operato – sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

Maniaci: “Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

Maniaci: “Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

Maniaci: “Mi denunciano per stalking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

Maniaci: “Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

Maniaci: “Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

Maniaci: “Pagavano il ‘pizzo’. Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

Maniaci: “No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

Maniaci: “Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

Maniaci: “Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

Maniaci: “Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono ‘artisti’. Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

Maniaci: “Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

Maniaci: “Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato ‘promosso’: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

Maniaci: “Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent’anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

Maniaci: “Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

La doppia vita di Pino Maniaci: dalla lotta alla mafia alle estorsioni. Il direttore di Tele Jato era un paladino della legalità, accusatore di magistrati per la gestione dei beni confiscati. Ricattava i sindaci per far assumere la sua amante, scrive Felice Cavallaro il 4 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. I cani glieli avrebbe impiccati il marito della sua amante. E per fare lavorare la stessa signora nel Comune di Borgetto avrebbe ricattato sindaco e consiglieri. Sarebbe questa la verità di una classica estorsione e di una storia di «femmine» maturate fra le pieghe di un impegno antimafia che ha visto per anni nei panni di un inflessibile paladino il direttore della piccola e combattiva emittente di Partinico, Pino Maniaci. Lo stesso implacabile accusatore di magistrati e amministratori finiti a Palermo sotto inchiesta per la gestione dei beni confiscati. A cominciare dalla ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, intercettata a maggio dell’anno scorso con il prefetto: «Quando matura la cosa di Maniaci...?». Stavolta le intercettazioni sono tutte a carico di quest’altro simbolo dell’antimafia che cade sotto il sospetto di essersi inventato una parte delle intimidazioni mafiose. Una parte. Non dimentichiamo lo sfogo del boss di Partinico, Vito Vitale, soprannominato Fardazza, intercettato qualche anno fa in carcere a Torino: «Sta televisione si sta allargando troppo». Anche questo tassello deve aver pesato nel 2009 quando il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia iscrisse come «pubblicista» d’ufficio Maniaci, editore e conduttore del Tg di TeleJato, nonostante i suoi precedenti penali: furto, assegni a vuoto, truffa, omissione di atti d’ufficio. Tutto considerato ininfluente e cancellato dal rinnovato impegno antimafia. Conteso da tutte le scuole italiane per raccontare la sua vita, le continue presunte minacce ricevute e la storia dei Cento passi di Peppino Impastato, modello al quale si ispirava, Maniaci adesso non potrà nemmeno soggiornare nel suo paese accusato di estorsione «per aver ricevuto somme di denaro e agevolazioni dai sindaci di Partinico e Borgetto onde evitare commenti critici sull’operato delle amministrazioni». Si tratta però di «cifre ridicole», come le ha definite lo stesso Maniaci la scorsa settimana, intervistato in Tv dalle Iene. Di volta in volta avrebbe «strappato» al sindaco di Borgetto e ad altri personaggi politici locali poche centinaia di euro, «pezzi da 100 o 150 euro». Il sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo e i suoi consiglieri si sarebbero addirittura autotassati pur di pagare lo stipendio all’amante di Maniaci, dopo un corso trimestrale non rinnovabile. E questo sempre per il timore di ricatti. Accusa pesantissima di un’inchiesta condotta dai carabinieri di Monreale e Partinico, sotto il diretto controllo del procuratore Francesco Lo Voi, dell’aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Roberto Tartaglia. Una squadra di magistrati al completo proprio per le ovvie ripercussioni che la notizia può determinare all’interno di un pianeta antimafia che vede ormai cadere i suoi simboli uno dopo l’altro. Dal presidente della Camera di commercio Roberto Helg alle inchieste tutte da definire contro il presidente di Confindustria Antonello Montante e del vice presidente nazionale di viale dell’Astronomia Ivan lo Bello, inciampato nella storiaccia del porto di Augusta con il compagno della dimissionaria ministra Guidi. Nel caso di Maniaci le voci delle scorse settimane erano state clamorosamente smentite dallo stesso direttore parlando di una «vendetta» covata fra i magistrati dopo le accuse alla Saguto. Le intercettazioni a suo carico sarebbero però precedenti al cosiddetto «caso Saguto» ufficialmente esploso solo nel maggio 2015. Ma è anche vero che Maniaci le sue battaglie (fondate) sulla gestione dei beni confiscati le cominciò un anno prima. Quando anche il prefetto Giuseppe Caruso denunciò gli stessi imbrogli. A prima vista sembra però che quelle denunce e le presunte estorsioni procedano su due linee parallele. Con un solo punto di incontro: l’amante e il marito tradito, disposto a impiccare due cani e bruciare l’auto di Maniaci. Storia dello scorso dicembre, quando su Tele Jato rimbalzarono le solidarietà di mezzo mondo e la telefonata di Renzi della quale parlava, ignaro di essere intercettato, il direttore-simbolo, travolto da un delirio di onnipotenza: «Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione... Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi».

TELEJATO: PESANTI OMBRE SUL PASSATO DI PINO MANIACI. Scrive Dario Milazzo il 26 aprile 2016 su l’Urlo”. Episodi inquietanti sembrerebbero contraddistinguere il passato di Pino Maniaci: l’imprenditore avrebbe commesso diversi reati quando era ancora imprenditore edile. Dopo l’indagine per estorsione spuntano altri elementi che potrebbero macchiare l’immagine di Pino Maniaci. Pino Maniaci è l’editore di Telejato, emittente comunitaria famosa per le inchieste e per le battaglie anti-mafia. Come sappiamo Maniaci risulta attualmente indagato a Palermo per il reato di estorsione (Indagato il direttore di Telejato per estorsione). Da fonti autorevoli abbiamo appreso che l’editore di Telejato avrebbe avuto in passato diversi problemi con la giustizia. Si tratterebbe di una sfilza di condanne, tutte passate in giudicato, che avrebbero portato il Maniaci a scontare pene detentive (non possiamo dire se ai domiciliari o in carcere).  Ma l’imprenditore di Partinico nel periodo “pre-Ordine” avrebbe goduto anche di indulto e di amnistia. I reati contestati sarebbero: emissione di assegni a vuoto, furto, abuso d’ufficio, truffa e ricettazione. Ricordiamoci inoltre che Pino Maniaci era stato processato nel 2009 per il reato di esercizio abusivo della professione. Come ci ha confermato l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Maniaci fu processato perché, dopo circa 10 anni di attività giornalistica, non aveva mai presentato le pratiche per ottenere il tesserino di giornalista commettendo così, ovvero scrivendo senza essere iscritto all’Ordine, il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica. Dal processo per esercizio abusivo della professione giornalistica Pino Maniaci venne assolto per insussistenza del fatto. Tornando ai fatti passati, pesanti sono le accuse che sono state lanciate a Pino Maniaci dall’ingegnere Vincenzo Bonomo, ex assessore di Partinico. In base a quanto asserito dall’ingegnere ed insegnante di Partinico, l’editore di Telejato avrebbe gestito in passato un laboratorio d’analisi cliniche di Montelepre sfoggiando una falsa laurea. Da sottolineare il fatto che fra Vincenzo Bonomo e Pino Maniaci non correrebbe buon sangue: in passato l’ingegnere ha querelato per diffamazione ben 5 volte l’editore di Partinico. I guai giudiziari che in passato avrebbero coinvolto l’editore non hanno nulla a che vedere con la sua attività giornalistica e con l’indagine che lo coinvolge attualmente. Ribadiamo inoltre che Pino Maniaci ha dato tantissimo all’antimafia e alla sua Sicilia, proprio per questo motivo ci aspettiamo da lui una presa di posizione chiara e forte che sia una smentita o una conferma dei fatti contestati.

Indagini su Pino Maniaci: alcuni tasselli del mosaico, scrive Salvo Vitale il 28 aprile 2016 su "Telejato. L’ESTORSIONE È UN REATO. IL SINDACO È UN PUBBLICO UFFICIALE. SE IL SINDACO SUBISCE UNA ESTORSIONE O È AL CORRENTE CHE UNA ESTORSIONE SIA STATA COMPIUTA DA QUALSIASI CITTADINO, HA IL DOVERE DI DENUNCIARE L’ESTORTORE. Quindi, se il sindaco non denuncia rischia di diventare omissivo e compie un reato, anzi, diversi reati, a cominciare dall’omissione di atti d’ufficio. Sono passati due anni, almeno da quello che è trapelato fuori dalla presunta indagine su Pino Maniaci, della quale ancora non gli è stato notificato NULLA, così come nessuna denuncia è stata fatta dai due sindaci per il presunto tentativo di estorsione. Ergo, o il giornalista della Repubblica si è inventato tutto, o la Procura si è inventato tutto, oppure ha cercato in tutti i modi di costruire e imbastire un atto d’accusa farlocco, oppure ancora abbia interpretato male alcune frasi, oppure non è vero che i sindaci abbiano subito un’estorsione, ma rimane il fatto che se il fatto è successo, un reato, quello di non denunciare l’estortore, è stato commesso dai due sindaci. Perché questo reato non è stato loro contestato? Non dovrebbero essere oggi in galera o lì vicino? Forse quel reato non c’era, ma se non c’era tutto dovrebbe sgonfiarsi come un palloncino. SI VA DELINEANDO A POCO A POCO IL QUADRO E I VARI TASSELLI DEL PUZZLE CHE LO COMPONGONO, CON IL QUALE SI È CERCATO DI TAGLIARE L’ERBA AI PIEDI DI PINO MANIACI, DI ZITTIRE UNA BOCCA DIVENTATA TROPPO FASTIDIOSA E POSSIBILMENTE DI INCHIODARLO DISTRUGGENDO L’ALONE DI PALADINO DELL’ANTIMAFIA CHE EGLI HA CERCATO DI COSTRUIRE ATTORNO A SÉ. L’infamia ha una sua base nell’affermazione, che abbiamo letto sulla Repubblica, secondo la quale l’efferata morte dei due cani di Pino sarebbe motivata da questioni personali. Niente minacce mafiose, la mafia è innocente. Anche per tanti altri delitti, da Peppino Impastato a Mauro Rostagno, a Beppe Alfano, a Pippo Fava, all’inizio l’affermazione è stata sempre quella: la mafia è innocente. È la posizione tipica dei mascalzoni che vogliono distruggere l’immagine di una persona proprio in quello che lo caratterizza positivamente. Ma andando indietro, è il 16 febbraio 2016, si tratta di un’intervista a Pino. Emerge dalle sue dichiarazioni che non è una novità che il suo telefono è intercettato e che si sta mettendo assieme la trappola per incastrarlo. Una serie di persone che lo hanno contattato telefonicamente, come risulta dai tabulati, sono chiamate dalla Procura e sono talora invitate a confermare quanto è stato già scritto deciso a tavolino, invitate a firmare quello che dovrebbero dire, in modo abbastanza perentorio. “Sto venendo a prendere i soldi delle magliette. Vedi chi ti tappiu”. Che vogliamo di più, è una chiara richiesta di pizzo. Oppure, se vogliamo andare indietro, c’è una dichiarazione di Pino sul presidente del consiglio comunale di Borgetto: egli sostiene che è collegata a certi ambienti mafiosi. Il presidente reagisce denunciando Maniaci. I consiglieri comunali chiedono che la cosa sia chiarita, il sindaco denuncia Maniaci ritenendo che sia stato offeso il Comune, così sarà il Comune a pagare l’avvocato, e il resto, su come andrà a finire, è tutto da scrivere, ma è chiaro che le dichiarazioni non possono essere lette a pezzettini, e che fanno parte di un insieme. Quell’insieme che Silvana Saguto ha cercato di mettere su, con l’assenso e il benestare degli amici giudici di Magistratura Indipendente, tutti suoi colleghi affettuosi, Virga, Lo Voi, Petralia, ma anche con le riserve e l’opposizione di altri giudici, al punto da arrivare a farle affermare: “Se quelli lì si sbrigassero non ci sarebbe bisogno di ….”. Chi sono quelli lì che ci stanno andando con i piedi di piombo? Insomma si ha l’impressione che la nuova linea è stata lanciata, dopo che Vespa, tanto per mettere una pezza alla minchiata dell’intervista a Salvuccio Riina, chiama in televisione Angelino Alfano, e questo gli dice, più o meno che, visto che la mafia sta finendo, anche l’antimafia dovrebbe finire. Cazzate dietro cazzate con l’annuncio a cui oggi tutti i pennivendoli di regime si sono associati: l’antimafia è morta, sono tutti corrotti, tutti sono nella stessa barca che affonda, la Saguto, Pino Maniaci che l’ha impallinata, Saviano, che rilascia false notizie, Salvatore Borsellino che abbraccia Massimo Ciancimino, Helg, Montante, Lo Bello, Ciancio, ricchi e poveri, colpevoli e innocenti, boss e vittime, don Ciotti e Libera, Addio Pizzo, tutti nello stesso mucchio, tutti uguali, tutti a mare, dopo di che, dopo questa grande piazza pulita di discredito e di merda, Cosa Nostra, con i suoi colletti bianchi, con le sue toghe, con i suoi avvocaticchi, con i suoi imprenditori, con le sue aziende liberate dalla paura di finire sotto inchiesta, davanti a una magistratura intimidita potrà tornare a imperare, senza più bisogno di boss nascosti: basterà metterli bene in evidenza come componenti del sistema politico che ci regge, farli diventare onorevoli, oggi si decide a tavolino, presidenti ecc. e tutto sarà risolto. Insomma, il sogno fatto in modo un po’ rozzo da Totò Riina e in modo più sapiente da u zzu Binnu in Sicilia e da Licio Gelli nel resto d’Italia, diventerà realtà.

Pino Maniaci: il fango, la stampa e l’ignoranza, scrive Massimiliano Perna il 30 aprile 2016 su “Il Megafono”. Pino Maniaci è un delinquente, un finto paladino dell’antimafia. È anche un pregiudicato, come qualcuno, con eccitazione, sta urlando ai quattro venti in queste ore. Pino Maniaci è pure un estortore. Non presunto, per carità, lo è e basta. Lo avete deciso voi. Lo ha deciso la stampa, o almeno quella parte che non vede l’ora di beccarne un altro che possa aggiungere crepe a un movimento sempre più instabile. Lo ha deciso una parte dello stesso movimento antimafia, soprattutto quella che non è mai stata sul campo e ha fatto il proprio nido sulle tastiere e dietro uno schermo, pontificando, accusando, giudicando senza appello persone e storie, vite e vissuti. Pino, oggi, per molti colleghi e per diversi presunti antimafiosi di questo Paese non è più quel giornalista coraggioso, onesto e ostinato che da anni denuncia, a suo rischio, tutto quel che non va nella provincia palermitana e in Sicilia. Uno della cui amicizia si può andare fieri. Pino adesso, d’improvviso, è diventato un uomo da osservare con sospetto. La campagna denigratoria nei suoi confronti è di una violenza inaudita e non sono violenti soltanto gli attacchi velenosi dei detrattori o il ghigno dei nemici nascosti, ma anche i silenzi di chi dovrebbe sostenerlo e che invece preferisce non dir nulla, non esporsi. Tutti ad accettare giudizi vergognosi, senza battere ciglio. Sintomo non di cautela, ma di profonda ignoranza, che è uno dei problemi più grandi anche del movimento antimafia. Un movimento troppo affollato, dove entra chiunque e dove chiunque, solo in virtù della partecipazione a qualche evento o presidio o della lettura di qualche libro o articolo, si sente in diritto di esprimere qualsiasi giudizio nei confronti di chi la mafia la sfida ogni giorno o l’ha sfidata per anni. Sul campo. Il tutto in un Paese (e in un contesto giornalistico) che vive di antipatie, invidie, fazioni, manie, fanatismi e che perde spesso di vista la realtà. Così, in molti hanno partecipato, più o meno direttamente e senza condizionali, alla gara di lancio del fango su Pino Maniaci e Telejato. E lo hanno fatto nonostante non avessero a disposizione nient’altro che un articolo nel quale si parla di una grottesca estorsione (soldi e posti di lavoro chiesti ai sindaci di Borgetto e Partinico in cambio di una linea morbida di Telejato nei loro confronti) e si annunciano intercettazioni sensazionali. Stop. Non si fa riferimento ad altro, non si racconta la storia più recente di Pino e della sua tv, non è chiaro quale sia il contesto di queste intercettazioni, quale sia il loro contenuto, non sappiamo nemmeno se esistano davvero. C’è solo un articolo con una notizia frammentata e ciò basta a scatenare l’inferno. Poco importa che a Pino non sia arrivata alcuna notizia di indagine, non sia giunto alcun avviso di garanzia. Di sicuro, però, qualora questa indagine fosse reale, qualcuno andrebbe punito per violazione del segreto di ufficio e dovrebbe spiegare come mai la stampa abbia saputo prima del diretto interessato. Ovviamente, la maggior parte finge di ignorare che Pino, in questi ultimi due anni, ha smascherato il malaffare nella gestione dei beni confiscati alla mafia, mettendo nei guai giudici molto potenti, come Silvana Saguto, e avvocati altrettanto potenti. Sappiamo benissimo come vanno queste cose e come, quando tocchi certi ambiti, la reazione (peraltro attesa) possa in qualche modo arrivare colpendoti sempre nel tuo punto più caro. Accusano Pino, infatti, proprio delle cose contro le quali si è sempre battuto. Provano a gettare un’ombra su di lui e sul suo impegno e lo fanno comunicando alla stampa una notizia che aizza i suoi detrattori. Qualcuno poi decide di andare oltre e finisce per affondare le mani nel passato di Pino, tirando fuori storie note come se fossero sensazionali e inedite. “Pino Maniaci ha avuto problemi con la giustizia”, scrive un giornale online a cui non diamo nemmeno l’onore del nome per non fargli pubblicità (visto che lo leggono in quattro), elencando tutta una serie di presunti reati, oltre a raccogliere l’accusa non dimostrata di un nemico dichiarato di Telejato, un ex assessore del Comune di Partinico. A tal proposito, sempre l’ignoranza e la disinformazione fanno sì che la gente non presti attenzione al fatto che i comuni di Borgetto e Partinico siano attaccati quotidianamente e duramente dall’emittente Telejato. Addirittura la presidenza del consiglio comunale di Borgetto aveva querelato la tv di Pino Maniaci per diffamazione e lo stesso sindaco si era costituito parte civile contro l’emittente. Non vi pare allora quantomeno contraddittoria la storia della “linea morbida” verso i due sindaci in cambio di soldi e favori?  Ma torniamo indietro al passato “burrascoso” di Maniaci. Dove starebbe la notizia? Lo stesso Pino (nel libro Dove Eravamo – Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio, Caracò editore, 2012) aveva scritto e raccontato del suo passato e dei problemi vissuti, della galera per un caso di omonimia, della sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e infine del suo momento di svolta, legato a quanto accaduto a Capaci e in via D’Amelio. Riportiamo qui alcuni passaggi che qualche giornalista sprovveduto farebbe bene a leggere: “…I miei delatori lo sanno bene ed ogni volta che qualcuno mi vuol attaccare, non avendo altro, subdolamente non fa che ricordare che Pino Maniaci non è altro che un pregiudicato della peggior specie e non un giornalista accreditato. Già perché io non ho fatto sempre questo mestiere. Proveniente da una famiglia non proprio agiata ma neanche mala cumminata, sin da ragazzo mi sono sempre sbracciato. […] Ho fatto mille lavori sino a diventare anche un piccolo imprenditore edile, ed è qui che cominciano i miei guai. Siamo negli anni ’80, lavorare nel settore edile e nel mio territorio non è cosa facile. I soldi non bastano mai ed è così che l’impresa che costituisco cammina sempre sul filo del rasoio. Si vive di pagherò e di assegni postdatati e ai fornitori sta pure bene”. Pino racconta di essere stato arrestato in una operazione antimafia, ma per errore, perché omonimo di un affiliato (che poi si scopre essere un suo lontano parente). Sarà Giovanni Falcone ad accorgersi dell’errore e a liberarlo. Ma mentre è in galera, fuori per l’attività di Pino le cose peggiorano: “Con me lontano, i lavori non vanno avanti, i creditori spariscono mentre rimangono i debiti e i fornitori che incassano gli assegni, ovviamente scoperti. Le cose si mettono male ed oltre a una denuncia per mafia, cominciano i miei guai per gli assegni non pagati”. Eccolo il passato “ombroso” di Pino, quello dal quale derivano la sua forza e, soprattutto, la sua scelta, dovuta alla rabbia provata per le stragi del ‘92, di ritirare la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione e di impegnarsi attivamente nella lotta alla mafia. Un impegno che da quel momento non si è mai fermato, che ha portato alla bellissima realtà di Telejato, palestra ed esempio per tanti giovani e per tanti giornalisti liberi. Un uomo onesto, sia nel raccontare il suo passato che nel vivere il suo presente, con coraggio e senza fare sconti a nessuno. Anche se questo atteggiamento poi, come vediamo, qualcuno glielo fa pagare. Noi, che persone come Pino le abbiamo avute accanto, le abbiamo conosciute da vicino, sul loro campo di battaglia, ci schieriamo dalla sua parte e dalla parte di chi resiste e rifiuta di farsi mettere cappelli politici o di movimento. Siamo in attesa di vedere come evolverà questa vicenda, convinti che sia solo un tentativo, anche piuttosto banale e goffo, di screditare chi ha osato troppo. Più avanti, quando tutto sarà chiarito, avremo poi tutto il tempo per ricordarci di chi oggi, senza nulla in mano, dalle tastiere e dalle pagine di certi giornali, ha già emesso illegittime sentenze e sputato calunnie.

La calunnia è un venticello. Pino Maniaci e le indagini presunte, scrive il 30 aprile 2016 Martina Annibaldi su "Stampa Critica”. Da circa vent’anni è il volto di Telejato. Unico tra gli italiani, insieme a Lirio Abbate, a finire nella lista dei 100 eroi mondiali dell’informazione stilata da Reporter Sans Frontier. Pino Maniaci è per tanti di noi il simbolo vivente di una lotta alla mafia che è fatta di impegno quotidiano e di coraggio. Quel coraggio di raccontare le distorsioni e i veleni di una terra, la propria. Anni di battaglie, di intimidazioni, di violenza, di querele a catinelle (più di duecento, ad oggi!) nel tentativo ancora mai riuscito di tappare la bocca a lui e alla sua redazione. Pino è sempre andato avanti ma, si sa, prima o poi dove non arriva la crudeltà o la minaccia arriva quel leggero venticello dell’infamia a colpire chi avrebbe dovuto tacere e non lo ha fatto. “Meno attacchi in cambio di soldi: indagato a Palermo paladino della tv antimafia”, è il titolo dell’articolo pubblicato da Repubblica venerdì 22 Aprile che apre il caso Maniaci. Secondo la ricostruzione fornita dal giornalista, Pino Maniaci sarebbe indagato dalla Procura di Palermo per estorsione ai danni del sindaco di Partinico, Salvo Lo Biundo, e del sindaco di Borgetto, Gioacchino De Luca. In cambio di soldi, il volto di Telejato, avrebbe promesso ai due primi cittadini un ammorbidimento dei servizi che li riguardavano e richiesto posti di lavoro per i propri familiari. Le indagini sarebbero state aperte dopo una serie di intercettazioni da parte dei Carabinieri e, alla luce di quanto emerso, avrebbe persino spinto gli inquirenti a ripensare la matrice delle intimidazioni violente subite dal giornalista siciliano nel 2014, quando i suoi due cani vennero prima avvelenati e poi impiccati dalla mafia. Per un istante, un solo istante di spaesamento, a molti di noi si è gelato il sangue. Ma si è trattato di un istante e nulla più. Perché in fin dei conti hanno ragione a Telejato quando dicono che se lo aspettavano. Perché la mafia ha smesso di essere solo quella dei Messina Denaro e dei Riina. La mafia ha smesso di fare patti con lo Stato. La mafia si è fatta Stato attraverso la corruzione e l’insediamento nei poteri forti. E quei poteri forti non vogliono essere toccati, perché se li tocchi ti fanno male, molto male ma senza colpo ferire. Pino Maniaci a quei poteri forti ha dato fastidio, e tanto. Lui e la sua redazione da anni si battono per portare alla luce non solo i traffici della mafia “ufficiale” ma anche i movimenti occulti di quell’antimafia intrisa di cultura mafiosa che solo di recente è finalmente venuta alla luce, permettendo di mandare a casa la ormai ex Presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, finita sotto inchiesta insieme a tre magistrati e ad una serie di amministratori giudiziari per aver messo su un sistema fatto di favori, di clientelismo e di enormi quanto loschi guadagni sui beni confiscati alla mafia. È la stessa Saguto che, intercettata al telefono con l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo (indagata a sua volta per concussione) riferendosi a Telejato parla di “ore contate”. “Mi sembra che la storia sia chiarissima: l’avvocato Cappellano Seminara mi ha denunciato per stalking solo per fare in modo che io venissi intercettato: ma basta andare a vedere i servizi del mio telegiornale per capire che i sindaci in questione vengono attaccati almeno una volta al giorno. Senza contare che il presidente del consiglio comunale di Borgetto mi ha persino querelato di recente”, dichiara Maniaci, assistito dagli avvocati Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino. Finora nessun avviso di garanzia a carico del giornalista siciliano (peraltro, come già sottolineato dallo stesso Ingroia, grave violazione del segreto d’ufficio, qualora l’inchiesta esistesse realmente) solo indiscrezioni di stampa che continuano a montare nel silenzio assoluto della Procura di Palermo. Maniaci si dichiara pronto a chiarire ogni dettaglio, qualora questa inchiesta passasse dell’essere presunta all’essere reale. Certo è che, in un Paese in cui gli avvisi di garanzia, i rinvii a giudizio e persino le condanne a carico dei politici e dei potenti passano sempre in secondo piano o si gonfiano in polemiche mordi e fuggi, fa sorridere (o forse fa piangere) il polverone sorretto da presunti e da condizionali. Quello che sta montando nei confronti di Pino Maniaci ha il sapore esatto delle macchinazioni a cui la mafia, nel senso più ampio ed onnicomprensivo del termine, ci ha abituati da sempre. Infangare, affossare, calunniare. Delegittimare, insinuare il dubbio su tutto, persino sulla violenza subita. Come quei tanti giornalisti morti di mafia su cui ancora aleggia il sospetto del delitto passionale. A Maniaci i cani li hanno ammazzati per motivi personali, questa sarebbe la nuova versione dei fatti. E forse tanto basterebbe per far riflettere. E poi quella denuncia per stalking, perché per stalking? Cappellano Seminara avrebbe, forse, potuto tentare la denuncia per diffamazione ma sceglie lo stalking. Perché, si sa, non serve che il reato sia realmente accaduto, basta qualche stralcio di intercettazione qua e là, o forse neanche quello, per gettare un’ombra indelebile su alcuni personaggi. Lo scandalo è montato, e forse cadrà nell’ombra una volta raggiunto il suo apice, cadrà nell’ombra prima che arrivi la versione ufficiale, prima che la Procura faccia chiarezza su questa indagine fantasma. Pino Maniaci resta in attesa che questo silenzio venga dissipato. Altrettanto sarebbe opportuno che facesse l’intera comunità, perché non si giudichi, ancora una volta, sospinti solo da quel famoso venticello dell’infamia.

"Caso Saguto, che fine ha fatto?". L'e-mail e la ferita aperta, scrive Riccardo Lo Verso il 28 aprile 2016 su "Live Sicilia". Va bene il convegno. Va bene il confronto “meritorio” sul tema della disabilità, ma l'indagine sulla Saguto che fine ha fatto? A rivolgere la domanda al procuratore aggiunto di Caltanissetta, Lia Sava, è un magistrato di Palermo. “Cara Lia...”, comincia così la lettera che Maria Patrizia Spina, presidente della quinta sezione della Corte d'appello, ha girato a una mailing list di colleghi. Una sezione, la sua, particolarmente attenta all'argomento visto che tratta, nel secondo grado di giudizio, le decisioni che un tempo venivano prese dal collegio presieduto da Silvana Saguto, oggi sospesa dal Csm. Un collegio azzerato dall'inchiesta dei pm di Caltanissetta, coordinati proprio dalla Sava che, oltre a fare l'aggiunto, oggi è anche il capo pro tempore dei pm nisseni in attesa della nomina del nuovo procuratore. La Sava è promotrice di un convegno in programma fra qualche giorno a Palermo. Ecco perché è a lei che la Spina chiede se sia “opportuno” organizzare un convegno a Palermo “mentre si attendono gli esiti sul caso Saguto”. Caso che, in un passaggio della lettera, viene definito “sistema” e per il quale tutti “ci aspettavamo gli esiti dell'indagine”. La Spina mette per iscritto un'esigenza diffusa tra i magistrati palermitani. Quando scoppiò lo scandalo si disse che in gioco c'era la credibilità dell'intero distretto giudiziario palermitano. Non restava che aspettare che venisse fatta chiarezza nel più breve tempo possibile. Il punto è che bisogna fare i conti con i tempi delle indagini e con quelli che servono ai giudici per tirare le somme. Il fattaccio beni confiscati venne a galla nel settembre 2015, quando i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria fecero irruzione nella stanza della Saguto, al piano terra del nuovo Palazzo di giustizia. Si scoprì che c'erano le cimici nel suo ufficio. L'indagine era partita qualche mese prima, quando i pm di Palermo si accorsero che c'erano finiti dentro alcuni magistrati e trasferirono il fascicolo a Caltanissetta per competenza. La conferma dei tempi dell'inchiesta si è avuta fra dicembre e gennaio quando gli indagati - dalla Saguto all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dal giudice Tommaso Virga al figlio Walter, all'ex prefetto Francesca Cannizzo - ricevettero l'avviso di proroga delle indagini. I termini scadono fra giugno e luglio prossimi, ma se i pm non avranno finito di analizzare le informative dei finanzieri in teoria avrebbero l'opportunità di chiedere una nuova e ultima proroga di ulteriori sei mesi. E torniamo al tema sollevato dal giudice Spina nella sua e-mail. I magistrati, ma non solo loro, aspettano “gli esiti delle indagini”. Aspettano di conoscere il contenuto completo di quel quadro che, a giudicare da quanto finora emerso, sarebbe connotato da favori, soldi e forse anche mazzette. Tra i reati ipotizzati, infatti, c'è pure la corruzione. Il punto è che i bene informati continuano a ripetere che quanto finora trapelato è poca roba rispetto al materiale raccolto. Si vedrà. Intanto l'attesa pesa. Innanzitutto ai magistrati stessi. L'e-mail del giudice sta facendo parecchio discutere nelle stanze del Palazzo. Non sappiamo se altri colleghi abbiano contributo al dibattito on line, oppure se abbiano scelto la strada del silenzio. Il silenzio che ha caratterizzato la polemica sollevata, sempre via e-mail, dal pm Antonino Di Matteo sulla presenza del professore Giovanni Fiandaca a un evento formativo della Scuola superiore della magistratura. Invitare il "nemico" del processo sulla Trattativa Stato-mafia a "fare lezione" ai magistrati palermitani: è opportuno?, si è chiesto di Di Matteo. Fiandaca ha risposto a muso duro: "Da lui censura fascista". Nessuna risposta dai colleghi a cui il pm ha girato il messaggio di posta elettronica.

Il mare magnum del caso Saguto. Obiettivo: "Blindare" le prove, scrive Riccardo Lo Verso il 29 aprile 206 su "Live Sicilia”. Un numero maggiore di indagati di quanti finora emersi, decine di amministrazioni giudiziarie setacciate, tonnellate di carte da spulciare, un elenco sterminato di favori, o presunti tali, e assunzioni. Ed ancora: nomine, consulenze e soprattutto passaggi di denaro. Benvenuti nel mare magnum dell'inchiesta sui beni confiscati alla mafia. “Che fine ha fatto il caso Saguto?”, si chiede, come ha raccontato Livesicilia, un giudice della Corte d'appello di Palermo. Risposta complicata perché complesse sono le indagini che la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha delegato ai finanzieri della Polizia tributaria di Palermo. Considerata la mole di lavoro, a dire il vero, gli undici mesi finora trascorsi sembrano persino pochi per potere già tirare le somme. Eppure almeno una parte delle indagini sembra destinata ad arrivare alla conclusione prima dei caldi mesi estivi, quando scadrà la proroga di sei mesi iniziata fra dicembre e gennaio scorsi. Di proroga i pm nisseni, coordinati dall'aggiunto Lia Sava, potrebbero sfruttarne un'altra, sempre di 180 giorni. Il punto è che si è partiti da un caso singolo - la gestione della concessionaria Nuova Sport Car sequestrata ai Rappa e affidata dal giudice Silvana Saguto al giovane avvocato Walter Virga, figlio di un altro giudice, Tommaso - e si è scoperto un fenomeno. Un sistema, come viene definito, dove la gestione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sarebbe stata piegata ad interessi personali fino a ipotizzare reati pesantissimi come la corruzione e l'autoriciclaggio. Il caso è esploso nella sua drammatica evidenza una mattina di settembre con i finanzieri che piombano nella stanza della Saguto e nella cancelleria del Tribunale. Tutti, gli indagati per primi, a quel punto sanno di essere finiti sotto inchiesta, anche se dalle intercettazioni sembrava che lo avessero già intuito da un po'. Nell'ufficio dell'ex presidente, infatti, c'erano le cimici. Perché svelarne l'esistenza e spegnere la microspia nella stanza dei bottini? Perché, evidentemente, era giunto il momento di scoprire le carte forse per stoppare qualcosa, oppure perché gli investigatori avevano ascoltato già ciò che serviva. Che deve essere molto di più di quanto finora trapelato. Le intercettazioni finora conosciute ci hanno svelato un sistema di nomine clientelari, favori, piccoli e grandi - cassette di frutta e laurea del figlio della Saguto inclusa -, ma non è tutto. Da approfondire, secondo i pm, è il corposo capitolo del presunto patto corruttivo fra Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara che avrebbe ottenuto la gestione di grossi patrimoni in cambio di consulenze per il marito del'ex presidente, l'ingegnere Lorenzo Caramma, pure lui sotto inchiesta. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati a Caramma dal 2005 al 2014, in un arco temporale che è iniziato quando la Saguto era membro del collegio delle Misure di prevenzione ed è proseguito quando dello stesso collegio il magistrato è divenuto presidente nel 2010. C'è un dato certo perché scolpito nei nastri delle intercettazioni. La famiglia della Saguto aveva un tenore di vita altissimo, che ad un certo punto divenne insostenibile. Il magistrato diceva a Elio, uno dei suoi tre figli: "Dobbiamo parlare, perché la situazione nostra economica è arrivata al limite totale, non è possibile più... voi non potete farmi spendere 12,13,14 mila euro al mese noi non li abbiamo questi introiti perché siamo indebitati persi". In realtà, dall'analisi della carta di credito del magistrato, si è scoperto che di soldi ne arrivavano a spendere in un mese fino a 18 mila euro. Per rimediare, secondo la Procura nissena, l'ex presidente avrebbe ottenuto soldi in contanti da Cappellano Seminara. E qui si innesta un altro passaggio delicato. L'ipotesi, smentita dai presunti protagonisti, è che una sera di giugno l'amministratore giudiziario possa avere portato ventimila euro in un trolley a casa Saguto. Nelle intercettazioni si parlava di “documenti”. Altra domanda: perché non bloccare Cappellano con la prova regina? Possibile risposta: perché a fini investigativi la prova, o presunta tale, poteva essere meglio cristallizzata seguendo i successivi passaggi del denaro. "Non è emersa alcuna traccia di scambi di denaro tra la mia assistita e gli amministratori giudiziari, e gli accertamenti bancari lo confermano - disse l'avvocato della Saguto, Giulia Bongiorno - le accuse sono palesemente sbagliate". In altre conversazioni fra l'ex presidente e il padre si parla di mazzettine di denaro. Non sarebbero solo i soldi in contanti, però, che i finanzieri hanno cercato per riscontrare le parole intercettate. Parole da cui emergerebbe la convinzione di potere godere dell'impunità. Una sicurezza che avrebbe spinto i protagonisti a commettere degli errori e a lasciarne traccia? Lo scopriremo e forse non si dovrà neppure attendere molto tempo ancora. Il lavoro degli inquirenti impegnati a "blindare" ciò che sarebbe già stato acquisito sembra muoversi su più livelli. C'è quello più alto dove compaiono i nomi della Saguto, di Cappellano, dei Virga e di qualche altro rappresentante delle istituzioni come l'ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo. La sola Saguto è stata sospesa, tutti gli altri trasferiti. E poi, a cascata, ci sono i livelli più bassi che arriverebbero fino ai “raccomandati” per un post di lavoro o per una consulenza. L'inchiesta potrebbe procedere per step.

Amministrazioni giudiziarie e curatele fallimentari: “U mancia mancia”, scrive il 19 aprile 2016 Salvo Vitale su Telejato. Sono state dissequestrate alcune aziende che erano finite sotto le grinfie della dott.ssa Saguto senza sufficienti motivazioni, ma solo perché alcuni protagonisti del cerchio magico, in particolare i cosiddetti “quotini”, avevano pensato di sistemarsi a vita spolpandone le risorse. Il caso del capo dei “quotini”, Cappellano Seminara è uno dei più sconvolgenti e ancora oggi aspetta di essere esplorato in tutte le sue “malefatte”. Man mano che i nuovi amministratori giudiziari, nominati per effettuare le consegne scavano per cercare di capire dove sono finiti i soldi, si configurano casi di falso in bilancio, casi di fornitori non pagati che reclamano i loro soldi, addirittura di vasche da bagno strappate dal loro posto e messe in vendita di nascosto o portate in altra struttura. Milioni di debiti che sicuramente non saranno pagati da chi ha combinato questi dissesti, ma che, come al solito graveranno sulle spalle dei proprietari cui è stato riconsegnato il bene sotto sequestro. Sono stati cambiati alcuni amministratori giudiziari, ma in qualche caso, come per i beni dei Virga, dove Rizzo è stato sostituito con Privitera, tutto è rimasto come prima, anzi peggio di prima, perché Privitera viene da Catania una volta la settimana, riceve solo chi decide lui e non vuole prendere alcuna decisione se non con l’autorizzazione di Montalbano. Addirittura a una ragazza ha fatto firmare una ricevuta di un acconto datole per il suo lavoro di cento euro, cioè l’elemosina e a qualche altra lavoratrice che reclamava un minimo di acconto e che aveva ritirato dalla scuola la figlia, perché non poteva darle nemmeno i soldi per il panino, ha detto che ci vuole sempre l’autorizzazione di Montalbano per avere un sussidio. Insomma, storie di ordinaria miseria all’ombra dell’antimafia. Ma se in questo settore si aprono spiragli, altre porte sembrano chiudersi: si presentano in redazione lavoratori disponibili e pronti a prendere in mano aziende sotto sequestro e destinate al fallimento, ma Montalbano li indirizza agli amministratori giudiziari, i quali dicono che “ci pensano loro” e che non hanno bisogno di aiuto. Spiragli di lavoro che potrebbero funzionare, ma ai quali viene chiusa ogni possibilità prima di cominciare. Ben più serrata e impenetrabile è la situazione degli uffici che si occupano di fallimenti e di curatele giudiziarie. Qua diversi avvocati, nominati, non si sa se frettolosamente o in modo complice dal tribunale, sono stati capaci di costruire le proprie ricchezze acquistando o facendo acquistare da prestanomi i beni messi in vendita, anzi svenduti in un particolare momento in cui all’asta si presentava solo chi era stato deciso che doveva acquistare. Beni immobili di milioni di euro venivano e vengono aggiudicati per pochi spiccioli e, se in qualche occasione il proprietario ha deciso di ricomprare ciò che era suo, allora il prezzo sale. Una vera e propria casta della piccola e media borghesia palermitana si è proposta e agisce come classe dominante, non facendosi scrupoli anche di amministrare e gestire le risorse di Cosa Nostra. L’arresto di alcuni professionisti fatto anche recentemente, è un semplice indizio di quanto serpeggia in modo sotterraneo. Quella che il grande Mario Mineo e poi Umberto Santino e altri chiamano “borghesia mafiosa”, è in grado persino di spremere soldi a Cosa Nostra, dal momento che i mafiosi fanno collette tra i loro amici per pagare gli avvocati dei loro parenti in carcere. Ma le nostre sono solo parole e considerazioni tratte da quanto sono venute dichiararci le persone danneggiate da queste trappole. Sicuramente sotto c’è ben altro che forse non sapremo mai, c’è un verminaio altrettanto grave di quello dei sequestri giudiziari e di cui qualche spiraglio speriamo che si apra con il nuovo presidente della sezione Fabio Marino.

Il Paladino, la mafia, le corna, scrive Vincenzo Marannano il 4 maggio 2016 su “Di Palermo”. L'indagine su Pino Maniaci, la mafia spacciata per una trita storia di amanti e di vendette e quella verità, se di verità si tratta, che arriva sempre tardi. Troppo tardi. La prima vittima eccellente, in questa ennesima storia nebulosa, è sicuramente la verità. Azzoppata intanto da mesi di indiscrezioni, colpita duramente da chi ha accreditato – con premi, patenti di legalità e attestati di stima – qualcuno che a quanto pare non era poi così accreditabile, e trafitta infine da indagini troppo lunghe. Perché – se confermata la ricostruzione degli investigatori – due anni per dirci che a bruciare un’auto non era stata la mafia ma un marito geloso forse sono un po’ troppi. E perché consentire per mesi a carovane di associazioni e rappresentanti delle istituzioni di sfilare quasi in pellegrinaggio verso la sede di una televisione che (sempre se le prove supereranno l’esame del processo) invece estorceva denaro in cambio di una linea più morbida, fa male anche e soprattutto alle credibilità delle istituzioni e alla parte sana del movimento antimafia. La verità in Italia purtroppo viaggia spesso a due velocità. Il tribunale dell’opinione pubblica, basato solitamente su semplici indiscrezioni, è molto più rapido di quello della giustizia. E un cittadino tante volte finisce per essere condannato anni prima di vedere conclusa, in un modo o nell’altro, la sua vicenda processuale. I tempi della giustizia sono lunghi. Le prove o gli indizi impiegano ancora troppo per diventare informative degli investigatori prima, richieste della Procura dopo e, infine, ordinanze dei gip. Così ci ritroviamo con reati compiuti a partire dal 2012 che, se va bene, approderanno in un’aula di tribunale dopo cinque anni. Con tutti i limiti e i problemi che questo comporta. Sia per chi i reati li commette, ma anche per chi deve discolparsi di qualcosa che non ha mai fatto. C’è poi un altro aspetto che non va sottovalutato. Nell’era di internet e dei social network – e dei pulpiti offerti a chiunque grazie a strumenti come Twitter o Facebook – qualsiasi notizia lascia ormai una traccia quasi indelebile, nel bene e nel male. Se un’inchiesta impiega cinque o vent’anni per arrivare a sentenza, fino a quel momento l’unica verità, parziale, sarà quella emersa dalle indagini o dalle indiscrezioni. A questo aggiungiamo che ogni giorno plotoni di internauti si svegliano, leggono il tema del momento e si improvvisano arbitri, giudici, allenatori, investigatori, opinionisti. E che, purtroppo, le chiacchiere da bar non si disperdono più tra un bicchiere e l’altro ma restano impresse e spesso diventano verità a uso e consumo di chi non è in grado di selezionare e capire cosa è informazione e cosa, invece, è solo opinione. O “curtiglio”. Questa leggerezza porta a condannare semplici indagati o ad esaltare modelli impresentabili. E in questa continua improvvisazione si finisce col rovinare carriere o (chissà cosa è peggio) col costruire o inventare di sana pianta eroi, paladini o semplici “bolle” che quando si sgonfiano o esplodono danneggiano tutto l’ambiente in cui hanno proliferato. La storia di Pino Maniaci non fa differenza. Autoproclamatosi paladino dell’antimafia, in questi anni è stato celebrato da un capo all’altro del Paese (e perfino all’estero) grazie anche alla ribalta concessa da televisioni nazionali abituate a fare informazione semplicemente mettendo un microfono davanti alla faccia dell’intervistato. Senza scavare o chiedere conferme. Perché a molti è bastato sentire dalla sua viva voce che la mafia aveva bruciato la sua auto per costruire una verità che invece spettava a qualcun altro accertare. Perché in un momento storico in cui comandano l’audience e i like su Facebook, è sicuramente più popolare una storia di ribellione a Cosa nostra che la solita trita e ritrita questione di corna. Perché c’è sempre qualcuno, prima degli investigatori, pronto a dire che è stata la mafia a bruciare quella macchina o a piazzare quella finta bomba. Perché – spesso anche nella categoria dei giornalisti – bisogna arrivare sempre primi (per vincere cosa?), dare una notizia in più anche se non verificata o (peggio) sostituirsi agli investigatori nelle analisi o ai giudici nelle sentenze. A scapito di una verità che, come un frutto rarissimo, purtroppo ha ancora tempi troppo lunghi per maturare.

Per l'avv. Antonio Ingroia “il corpo del reato è un video che è stato montato dai Carabinieri (c’è la firma, perché c’è lo stemma dei Carabinieri), ed è stato distribuito inserendo intercettazioni e atti giudiziari che noi ancora non conosciamo se non attraverso quel video, perché non fanno parte degli atti trasmessi al giudice e comunque non fanno parte dell’ordinanza cautelare, trattandosi di fatti penalmente irrilevanti, ma servivano soltanto a distruggere l’immagine di Pino Maniaci. Perché dentro queste indagini ci sono rancori e vendette di amministratori locali, che hanno avuto la grande occasione di liberarsi della voce libera di Telejato e di Pino Maniaci. Ma c’è stata anche un’operazione che era attesa… L’operazione era attesa, com’è noto dalle intercettazioni della Procura di Caltanissetta, sui magistrati e gli amministratori giudiziari indagati per gravissimi reati, per i quali, invece, al contrario di Pino Maniaci, sono a piede libero. La verità vera è che si voleva macchiare Pino Maniaci, e si è macchiato, per due o tre piccole presunte piccole estorsioni (parliamo di centinaia di euro) a fronte di magistrati, avvocati, professionisti e amministratori giudiziari che sono imputati per centinaia di milioni di euro, che sono stati sottratti allo Stato, e sono oggi a piede libero, e altro non aspettavano in questi mesi, che approdasse a destinazione questa indagine. E’ grave e inquietante e noi faremo denuncia di questo, per il fatto che questi, magistrati, prefetti e avvocati sapessero che c’era questa inchiesta che bolliva in pentola e gradivano che arrivasse in porto. Per questo presenteremo denuncia”.

Ingroia diventa garantista per incassare una parcella. L'ex pm è l'avvocato del direttore di "Telejato" Maniaci, icona antimafia accusata di estorsione. Ora scopre che la sua vecchia Procura fa "indagini mediatiche". E denuncia pure i carabinieri, scrive Paolo Bracalini, Sabato 07/05/2016, su "Il Giornale". Da pm d'assalto a paladino degli imputati, la rivoluzione (personale, più che civile) di Antonio Ingroia è compiuta. Si fatica a riconoscere nell'ex pasdaran della Procura di Palermo pronto a mettere sotto accusa anche il Quirinale, l'autore di esternazioni tipo «questo provvedimento (della sua ex Procura, ndr) è sproporzionato», «c'è un accanimento accusatorio», «Pino Maniaci è stato crocifisso mediaticamente», «è grave e inquietante che i magistrati sapessero prima dell'inchiesta», «siamo di fronte a gossip, ad un processo mediatico alla vita privata», e poi indignarsi perché i pm avrebbero fatto «il copia incolla delle informative dei carabinieri», infilando nell'ordinanza anche «chiacchiere senza alcuna rilevanza penale», utili solo a «sporcare l'immagine» delle persone. Dopo la carriera da pm finita con un duello (perso) col Csm e l'addio alla toga, e poi la brevissima carriera da leader politico finita con il disastro elettorale, l'incarico ricevuto da Crocetta in una partecipata regionale siciliana andato a schifìo pure quello, Ingroia è tornato in pista come avvocato. Ma nemmeno in questo campo mancano incidenti e scivoloni per 'U comunista immuruteddu (il gobbetto comunista), soprannome affettuoso che gli diede Borsellino ai tempi in cui Ingroia era il suo vice a Marsala. Tra i suoi primi assistiti, dopo aver detto che «per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti», l'ex pm si è scelto Augusto La Torre, già boss della camorra di Mondragone (spiegando che «si può condurre una battaglia antimafia anche difendendo un pentito»). E adesso è proprio lui, l'avvocato Ingroia, a difendere il direttore di Telejato, Pino Maniaci, già simbolo dell'informazione antimafia, accusato dai giudici di Palermo di aver usato la sua posizione per estorcere denaro a politici. Ingroia ha un debole per i paladini dell'antimafia, ma non sempre ci prende, anzi. Nei lunghi mesi del processo sulla presunta «trattativa Stato-mafia», sua ultima ossessione giudiziaria, Ingroia è arrivato a riconoscere «quasi un'icona dell'Antimafia» in Ciancimino jr, rivelatosi poi un testimone tutt'altro che affidabile (condannato per calunnia), dopo essere stato elevato però (anche grazie ai talk show dei giornalisti amici di Ingroia) a fonte di verità suprema sulle malefatte della politica collusa coi clan, quasi sempre di centrodestra. Ma adesso che il segugio delle trame occulte e dei segreti inconfessabili della Repubblica è passato dall'altra parte della barricata, ha sposato con lo stesso impeto il garantismo. Nel difendere Maniaci, l'ex pm minaccia sfracelli. Accusa la Procura di Palermo di «inseguire il gossip» e di aver costruito un'indagine sul nulla, minaccia la Procura di Caltanissetta («Non possiamo non denunciarne l'anomalia...), vuol portare in tribunale pure i carabinieri, «per avere distribuito lo spot promozionale dell'accusa, un video fatto intenzionalmente per distruggere Maniaci, inserendo la faccende dei cani e di Matteo Renzi (a cui Maniaci dà dello str..., ndr), faccende che non avevano alcuna rilevanza penale. La Procura ha il dovere di chiedere formalmente all'Arma chi ha predisposto questo video e poi chi lo ha distribuito». Ma non denuncia mica solo i carabinieri, mezza Sicilia: «Faremo anche una denuncia al sindaco di Borgetto e del suo addetto stampa, e denunceremo per calunnia alcune delle persone che hanno agito per motivi di rancore contro il nostro cliente». Anche qui Ingroia intravede una trattativa nascosta: «Si voleva marchiare Pino Maniaci per due o tre presunte piccole estorsioni», che invece per il suo legale corrispondono alla riscossione di diritti pubblicitari. Maniaci è stato interrogato dal gip, a cui ha esposto la sua linea: «Mi hanno buttato addosso merda perché qualcuno vuole fermarmi». Per un complotto, non c'era migliore avvocato di Ingroia. Sempre che abbia più fortuna come legale che non come pm o leader di partito.

Il mio amico Maniaci. Masaniello, Pancho Villa, il contadino o il brigante che dopo anni di ribellione viene infine scoperto dai nobili, dalla corte, scrive Riccardo Orioles il 05/05/2016 su “I Siciliani”. “Ha visto com’è spontaneo, don Alonzo? Mangia colle mani! Es un hombre del pueblo, poco da fare…”. “È un campesino, si vede. Un liberal campesino. Però potrebbe anche farsi la barba ogni giorno”. “Ed ecco a voi… Pino Maniaci! Il coraggioso giornalista di…”. “Di Partinico”. “Ecco, di Partinico! Nel cuore della Sicilia maffiosa! Ci dica, Maniaci, lei ha paura quando affronta la mafia?”. E Maniaci – e Pancho Villa, e Masaniello – risponde, come tutti si aspettano, con una parola volgare. “Eh eh – sorride il presentatùr – Pane al pane, eh? Scusate, amici telespettatori, ma stiamo parlando con un protagonista della lotta alla maffia… Uno che non bada certo a parlare da intellettuale…”. Altra malaparola di Masaniello (o di Pancho Villa, o di Maniaci), altro sorriso complice del presentatore. E lo spettacolo va avanti. Francisco Arango Arambula di San Juan del Rio in realtà era uno dei migliori generali del Ejercito Republicano. Aveva cominciato con quattro compagni, poi dieci, poi cinquanta. Abilissimo tattico, uno dopo l’altro aveva sfasciato i battaglioni del dittatore, lassù nel Norte. E ora eccolo qua, nel Palazzo Presidencial, imbarazzato e felice, lisciandosi i baffoni e cercando di rispondere alle domande dei capi liberales con l’occhialino. (E anche Gennaro Aniello, come sindacalista e politico, non era poi tanto male. L’unico, in tutta Napoli, a capire che la gabella sul pesce era la chiave di tutto, che là si doveva insistere, coprendosi con “Viva el Rey” ma senza mollare un momento). Pino Maniaci è uno dei migliori cronisti che ho conosciuto, e ne ho conosciuti un bel po’. “Dilettante” all’inizio, ma rapidamente cresciuto, e all’antica, in questo mestiere. Uno che è in giro all’alba, per colline e campagne, per prendere i particolari, non solo le grandi linee, dell’ultimo omicidio o di una cronachetta qualunque. E buona capacità, anche, di coordinare un’inchiesta grossa, di mettere insieme dati, di trarne conclusioni razionali (la dottoressa Saguto ne sa qualcosa). E ora eccolo qui, insieme a los generales e ai marchesi, coccolato e schernito (ma elegantemente): “Don Pancho!”, “Excellencia!”, “Gran Maniaci!”. Finché un bel giorno – come Tomaso Aniello, come Francisco – è scasato di testa. Come la nobiltà, del resto, pazientemente aspettava. È una storia di poveri. Decine o centinaia di euri, banconote e monete, raccolte senza osar crederci, impaurito e spavaldo. “Hai finito di stentare”, dice alla donna. Potrà lavare i pavimenti trecento euri al mese, una ricchezza. “Hai visto? Fanno quello che voglio! Comando io!”. È un nobile pure lui adesso, uno che può afferrare le cose, può comandare. Così fanno i signori, i ricchi della città, i generali, gli avvocati. E così, se dio vuole, faremo pure noialtri, d’ora in avanti. Ce lo siamo meritato. Inizia la breve ricchezza, la povera ricchezza, soldini di rame e di tolla (ma ai poveri pare oro sonante) del campesino Francisco, del pescatore Masaniello. “Comando io!”. E i nobili, con pazienza, aspettano allegramente il passo falso. “Avete visto? – si preparano a dire – Don Montante, el senor Costanzo, il barone Lo Bello: v’incazzavate con loro, voi communisti, ma in fondo che cos’è mai successo? Chi vede quattrini se li piglia, e voi non siete meglio degli altri: guardate il vostro eroe, che cos’ha fatto!”. Cosi i milioni dei ricchi si confondono colle quattro monete dei poveracci: tutta roba rubata, tutta la stessa cosa. “Vi prego, voi velocisti, telegiornali, giornali vari, che mai avete fatto inchieste… Che fate servizi fiume sull’eroe antimafia decaduto, e ci godete. Noi siamo i ragazzi di Telejunior. In quelle stanze di Telejato ci abbiamo passato giornate intere. A impappinarsi nel registrare i servizi, a fare le rassegne stampa, a montare. In giro a fare domande, a Borgetto, a San Giuseppe Jato, al tribunale di Palermo. I vostri coltelli feriscono, fanno un male che nemmeno vi immaginate. Ma io devo fare scudo. Con gli occhi gonfi, la nausea che va e viene, il naso rosso paonazzo. Io devo fare scudo ai miei ragazzi, ai ragazzi di Telejunior. Io Michela, e Salvo e Arianna e Danilo, e Marco, Ivano, Eleonora, Pasquale e Giulia e tutti gli altri”. Un altro ragazzo, un militante, da Milano: “Da me su Maniaci non avrete parole, solo dolore”. Telejato deve continuare. Come la lotta contro la gabella a Napoli, come la tierra y liberdad dei contadini. Con Masaniello, con Pancho Villa, dopo Pancho Villa, dopo Masaniello. Perché siamo noi questa lotta, noi popolo, noi banda di disperati. Non un singolo capo, che prima o poi può crollare. Voi nobili, voi giornalisti importanti, guardate solo ai capi. Ma noi abbiamo vissuto un’altra storia, un’altra grande speranza e sofferenza. Noi siamo qui, noi non molliamo. Caro Pino, rimettiti dall’ubriacatura, ingollati ‘sto caffè e torna com’eri prima. In culo alla nobiltà e a tutto il gran giornalismo italiano: noi siamo viddani zappaterra, non baroneddi. Ce ne fottiamo di comandare, non c’interessa diventare come loro, vivere è ciò che ci piace. Ti aspetto e ti stringo la mano. (Fino a un minuto fa, altro che stretta di mano, volevo salutarti con un calcio nel sedere. Ma abbiamo cavalcato insieme, stracciati e miserabili ma orgogliosi. Gliene abbiamo date, ai signori. E torneremo a dargliene. Forza, un altro caffè, tutto d’un fiato. Ti aspetto). Collega Letizia, aspetto i suoi ordini. Lei è la mia nuova direttrice. Telejato continua, non c’è bisogno di dirlo. Mi spiace per lorsignori, ma si va avanti. Sono già al computer, mi dica cosa debbo fare. “Perché, la storia di Telejato, e di tutti noi ragazzi, non si può cancellare così. Siamo tutti stretti l’uno all’altro, e rimarremo in questo modo, qualunque sia il pensiero di ciascuno, qualunque emozione. Qualunque cosa accada. Uniti. Insieme”.

Il ruolo dei Carabinieri e della Procura nella vicenda di Pino Maniaci, scrive il 10 agosto 2016 Salvo Vitale su "Telejato". MAN MANO CHE IL TEMPO PASSA ED È FINITO LO STUPORE SUSCITATO NEL MOMENTO IN CUI È VENUTA FUORI LA NOTIZIA, I MARGINI DELLA VICENDA CHE HA INTERESSATO PINO MANIACI SI FANNO PIÙ CHIARI E, PER MOLTI VERSI, PIÙ INQUIETANTI. Tutto è iniziato nel 2013, quando “per caso”, nell’ambito di una serie di intercettazioni disposte per indagare eventuali collusioni tra i mafiosi e i politici di Borgetto, viene registrata una sospetta telefonata di Maniaci al Sindaco di Borgetto. Va detto che Maniaci si era occupato, attraverso la sua emittente, di strane commistioni che vedevano un consigliere comunale che aveva preoccupanti parentele mafiosi o, addirittura, rapporti di comparaggio con un esponente delle forze dell’ordine. Non si sa le intercettazioni abbiano preso il via, grazie alle denunce di Maniaci o se siano state decise da altri canali d’indagine. La telefonata di Maniaci consentiva l’apertura di un capitolo su di lui, dal momento che vi si raffiguravano le caratteristiche dell’estorsione. Maniaci avrebbe chiesto dei soldi al sindaco di Borgetto in cambio di un ammorbidimento della linea del suo telegiornale nei suoi confronti. Da allora non un respiro, non una parola è sfuggita all’orecchio vigile degli inquisitori, che hanno accumulato oltre 4 mila pagine di intercettazioni per cercare prove e provini che potessero costituire elementi d’accusa nei suoi confronti. Ben più di quanto non ne siano state raccolte sui nove mafiosi di Borgetto, che avevano rimesso in funzione una gigantesca macchina di estorsioni e taglieggiamenti tra Borgetto e Partinico. Contemporaneamente Telejato ha, in quel periodo, aperto una serie d’inchieste sull’operato della sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Palermo, in particolare sull’accoppiata Saguto-Cappellano Seminara e ha messo in onda una serie di interviste e di servizi di operatori economici e commerciali ai quali era stato sequestrato tutto, senza che penalmente ci fosse nessuna condanna e nessun capo d’imputazione. Una delle caratteristiche emerse dall’inchiesta è che al tribunale di Palermo tutti sapevano, ma nessuno era intervenuto né tantomeno aveva il coraggio di intervenire sulle distorsioni della giustizia che venivano consumate all’interno della citata sezione. Una convocazione, di Maniaci, da parte del tribunale di Caltanissetta, giudice Gozzo, si era conclusa con un’audizione di tre ore e con l’impegno di una nuova convocazione, cui non era seguito più nulla. Il controllo dei telefoni di Telejato consentiva agli intercettatori di ricostruire la rete di informazioni e le persone che venivano a raccontare le loro storie: i carabinieri sapevano benissimo delle visite dei Niceta, dei Giacalone, dei Virga, degli Impastato, degli operai della 6Digi di Grigoli, dei lavoratori dell’Hotel Ponte, di quelli dell’ex immobiliare Strasburgo, di Rizzacasa, di Lena, di Di Giovanni, di Ienna ecc. Dall’altro lato la Saguto sapeva benissimo che Telejato era sotto controllo e che in qualsiasi momento la procura avrebbe potuto intervenire per bloccarne le iniziative. “Quello lì è questione di ore…” diceva il prefetto Cannizzo alla Saguto, la quale poi si lamentava con la stessa per il ritardo della procura: “Se quelli lì si spicciassero…”, mentre scherzava con Cappellano sul “dover chiedere il permesso” a Telejato per prendere la decisione di un sequestro. Una corsa contro il tempo che è finita con l’apertura dell’indagine da Caltanissetta sulla Saguto e sui provvedimenti di sospensione o di trasferimento, del prefetto, dei giudici Licata e Chiaramonte e di Tommaso Virga e sul rinnovo dei magistrati di tutta la sezione. È sembrato poco opportuno, in quel momento, ai magistrati, coinvolgere Maniaci, perché la cosa avrebbe potuto avere il sapore di una ritorsione, così l’indagine è stata raffreddata e la miccia è stata accesa circa sette mesi dopo, come si dice in siciliano “’a squagghiata di l’acquazzina”, cioè quando si è sciolta la brina. CERCHIAMO DI RICOSTRUIRE, CON L’ABBUONO DELL’IMMAGINAZIONE, LA STRATEGIA DELLA PROCURA. Primo obiettivo, distruggere l’immagine del giornalista antimafia, e quindi nullificare il suo lavoro, per ribadire che l’antimafia, le indagini, le denunce non appartengono all’operato di un giornalista che si è allargato troppo, ma solo agli investigatori, alle istituzioni o agli organismi riconosciuti come soggetti istituzionalmente interlocutori. Non pare importante in ciò l’esistenza di reati penali o la presunzione d’innocenza: basta mettere insieme alcuni elementi di presunta colpevolezza e il lavoro di Telejato avrebbe dovuto crollare come un castello di carta. Mettere Maniaci assieme ai nove mafiosi di Borgetto, di cui egli stesso aveva denunciato da anni le malefatte è stato un colpo da maestri, perché si è creato di tutta l’erba un fascio e perché così si è dimostrato che tra le estorsioni dei mafiosi, per richiesta di protezione e le richieste di denaro di Maniaci non c’era nessuna differenza. Le prime garantivano protezione, da se stessi, quella di Maniaci garantiva un trattamento morbido dell’informazione sulla persona estorta. In tutto questo c’è un elemento che non quadra, che non ha il dovuto riscontro, ovvero che quel “trattamento morbido” non esiste, che non c’è alcuna trasmissione benevola nei confronti dei due sindaci di Borgetto e Partinico e che, nell’arrivare a questa affrettata conclusione, come ha detto uno dei giudici, Vittorio Teresi, “ci siamo fidati dei carabinieri”. Altra trovata: non essendoci ancora processo, bisognava pure studiare qualcosa per dimostrare all’opinione pubblica che un provvedimento era stato adottato, perché sotto c’era qualcosa di penalmente rilevante, e allora si è pensato di adottare la misura cautelare del divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Perché? Quale reato avrebbe potuto reiterare Maniaci, al punto da disporne l’allontanamento dalla sua televisione? Pare di capire che l’obiettivo non tanto occultato, è stato quello di togliere alla televisione il suo principale protagonista e provocarne la chiusura. Caduto l’elemento d’accusa, dal momento che i pochi euro “estorti” ai due sindaci riguardavano, da una parte il pagamento d’una pubblicità, dall’altra una sorta di contributo assistenziale “per comprare il latte” o qualche vestitino a una bambina malata, figlia di una donna sposata con un “malacarne” e additata a tutta Italia come la sua “amante”, si è disposta la revoca della misura, costata a Maniaci una ventina di giorni d’esilio, e si è trovato un altro escamotage per tornare a riproporne l’allontanamento: c’era un passaggio, nelle intercettazioni, tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e il già citato Polizzi in cui si parla della commissione, da parte di Maniaci, di un blocco di magliette che non sarebbero mai state pagate, così come non erano stati pagati tre mesi d’affitto per ospitare alcuni ragazzi di Telejunior. Polizzi ha negato tutto, ma è stato indagato per le discordanze tra l’intercettazione e la sua dichiarazione, mentre Davì, che aveva concesso a Maniaci l’uso provvisorio di uno stabile affittato come sede della Protezione civile, non è stato mai sentito. A questo punto il ricorso è finito in Cassazione, la quale, ad ottobre, dovrà pronunciarsi se reiterare l’allontanamento di Maniaci, dopo che egli è rientrato da parecchio tempo in sede e non ha reiterato alcun reato. Sono vicende che sfiorano il comico e l’incredibile, ma che svelano quanta acredine e quanta determinata voglia di “fottere” Maniaci, di colpirlo e di mettere a tacere la sua emittente, ci sia dietro. Il montaggio del video e la contestuale distribuzione delle registrazioni delle intercettazioni sembra uno dei capolavori usati per avere lo strumento principe nella demolizione dell’immagine di Maniaci. C’è tutto: il sindaco di Borgetto che gli conta i soldi in bella mostra, la sparata offensiva nei confronti della telefonata di Renzi, il disprezzo per una targa-premio che gli era stata conferita, gli apprezzamenti della presunta amante sulla capacità, anzi sulla “potenza” di Maniaci nel tenere in scacco gli amministratori di Partinico, il disprezzo per tutte le istituzioni, dai politici, alle forze dell’ordine, a magistrati, definite corrotte ed espressione del malaffare e infine l’accusa più infamante, quella di avere utilizzato l’uccisione dei due cani, di cui egli conosceva l’esecutore, non come un atto di gelosia di un marito cornuto, ma come un attentato mafioso nei confronti della sua attività giornalistica… Per quest’ultimo caso viene abilmente occultata la denuncia, presentata da Maniaci, con l’indicazione della persona da lui sospettata e non si fa alcun accenno al fatto che, non essendo stata questa persona indagata, interrogata o ritenuta responsabile, avrebbero potuto essere proprio i mafiosi borgettani con i quali egli è stato messo insieme nell’operazione Kelevra, ad aver compiuto il barbaro gesto. Una volta confezionata la polpetta avvelenata ci sono, ci siamo cascati tutti, senza renderci conto che dietro tutto non c’erano reati, ma elementi d’accusa deboli, ma erano evidenti altri elementi che riguardavano il senso della morale, nei confronti di una persona atteggiatasi a fustigatore dei costumi e a giudice delle immoralità altrui. Persino i più noti antimafiosi, come Lirio Abbate, che ha chiesto a “Reporters sans Frontieres” di cancellare il nome di Maniaci dall’elenco dei giornalisti a rischio, o Claudio Fava, che, sbagliando premio, ha dichiarato Maniaci indegno di potere ricevere il premio Mario Francese hanno condiviso quanto propinato dai magistrati. Un passaggio che occorre inserire nel quadro di questa indagine è la nomina a Palermo del Procuratore Lo Voi, inframezzata dai ricorsi dei colleghi Lari e Lo Forte e dalle supplenze del procuratore Facente Funzione Leonardo Agueci, indicato da Maniaci e da qualche altro giornalista, come cugino della titolare della distilleria di Antonina Bertolino, a Partinico, uno dei suoi principali bersagli. Lo Voi, la cui nomina è stata definita come una “nomina politica”, ovvero voluta direttamente da Renzi e da Alfano, si è insediato a Palermo nel 2015. Fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, la stessa di quella della Saguto e di Tommaso Virga. Egli ha affermato subito che l’indagine sulla Saguto è partita su segnalazione del tribunale di Palermo, da Caltanissetta si affrettano a dire, subito, che Maniaci non c’entra niente, certamente è lui ad affidare il caso “Maniaci”, più nove, a quattro magistrati, Teresi, Del Bene, Picozzi, Tartaglia e Luise, che si occupano di vicende di mafia e che con una dedizione più degna di altra causa, hanno usato i giornalisti che ruotano attorno alla procura come amplificatori di una strategia che sembra avere qualche tinta diffamatoria. La materia prima su cui muoversi è data da quanto è in mano alla caserma dei carabinieri di Partinico, la quale, per un verso non invia più le informazioni sulla propria attività a Telejato, per l’altro assicura ancora la tutela. La pubblicazione di pruriginose intercettazioni con la ragazza definita amante offre Maniaci in pasto alle possibili ritorsioni e all’eventuale rischio della vita, da parte di un soggetto che potrebbe ancora voler vendicare il proprio onore ferito. Una preoccupante sentenza di morte che avrebbe potuto essere evitata se chi ha diffuso intercettazioni che non avevano nulla di penalmente rilevabile, ma che riguardavano la vita privata, le avesse cancellate o omesse. È di questo che Maniaci accusa la Procura e i Carabinieri, in una sua denuncia. Altre cose sono in itinere, ma sembra profilarsi all’orizzonte una ben più preoccupante situazione, quella di una sorta di gioco di fioretto tra l’ex magistrato Antonio Ingroia, difensore di Maniaci, che conosce bene tutti i modi di muoversi e d’agire dei suoi ex colleghi, e quella di costoro, che forse ci tengono a dimostrare che sono più bravi di lui e che, in un modo o nell’altro troveranno come condannare Maniaci, almeno in primo appello, mentre continua all’infinito la strategia della graticola, quella su cui venne bruciato San Lorenzo, di cui oggi ricorre l’anniversario: cuocere a fuoco lento l’imputato, sino a demolirne progressivamente qualsiasi capacità di difesa. Cosa che potrebbe andare bene quando l’imputato è colpevole. Si può concludere che la motivazione strisciante di tutto quello che è successo sarà stata presa un po’ più in alto, da parte di qualcuno che ha ritenuto essere arrivato il tempo di chiudere un’emittente anomala che non sa stare in linea con il modo di agire delle altre emittenti. E cioè siamo sempre lì, nel conformismo dell’informazione, che ha relegato l’Italia agli ultimi posti per la libertà di stampa.

Sul rapporto tra i Carabinieri e Telejato, scrive il 6 agosto 2016 Salvo Vitale su Telejato. COM’ERA E COS’È CAMBIATO DOPO L’OPERAZIONE KELEVRA. Il video diffuso in tutta Italia su Pino Maniaci e i testi delle intercettazioni ripropongono il problema del ruolo che hanno avuto i carabinieri dietro tutta questa vicenda e lascia diversi interrogativi sulle motivazioni che stanno dietro le loro azioni. Va premesso che Telejato ha sempre avuto con i carabinieri uno stretto rapporto di collaborazione, che ne ha da sempre trasmesso i comunicati, anche quando questi riguardavano trascurabili vicende, tipo il sequestro di un grammo di marjuana e di 20 euro considerati come proventi della sua vendita. Ai carabinieri sono state dirottate alcune lettere anonime, ben dettagliate su nomi e affari loschi, ricevute a Telejato. Con i carabinieri, e in particolare con una figura “leggendaria”, come il capitano Cucchini, sono state portate avanti alcune attività che poi hanno condotto al sequestro dell’impianto della distilleria Bertolino, chiusa per quattro anni o all’arresto dei Fardazza e alla lotta per la demolizione delle stalle. Va detto che Cucchini aveva spostato l’allora Nucleo Operativo, che ancor oggi è composto dalle stesse persone e che scherzando abbiamo ribattezzato Nucleo aperitivo, a espletare servizi d’ufficio e si era servito di personale più giovane. Il principio da lui seguito era che dopo trent’anni, poco più poco meno, chi lavora in una caserma diventa sì un esperto del territorio e dei suoi problemi, ma può talmente affezionarsi al suo ruolo sino a mettere casa e famiglia e ad avviare contatti, richieste di lavoro per i propri familiari e conoscenze che potrebbero finire con il gettare un cono d’ombra sulla trasparenza dell’operato dal personale di cui parliamo. Non saremo noi a parlare di queste cose, in quanto, se ne hanno voglia, spetta a chi fa le indagini indagare, magari anche al proprio interno. Ottimo anche il rapporto con i carabinieri ai quali è stato affidato l’incarico di far la tutela a Maniaci. Il 2013 è un anno in cui cominciano le intercettazioni che riguardano Maniaci, ma è anche l’anno in cui vengono spediti alla caserma di Partinico il capitano De Chirico e il tenente Alimonda, i quali fra poco, ultimati i loro tre anni, saranno promossi e trasferiti. Di qualcuno di essi Telejato ha detto che a Partinico non ci volevano ragazzini di 22 anni usciti dal corso da poco, ma gente con le palle quadrate. Apriti cielo!!! A qualche altro che gli chiedeva come mai la gente si rivolge a Telejato e non ai carabinieri, Maniaci ha detto che la gente ritiene Telejato un’istituzione più seria di altre istituzioni. Anche qua apriti cielo. E tuttavia anche questo sembra troppo poco per motivare alcune azioni, come quella della diffusione del “gossip” ovvero di tutta una serie di telefonate personali tra Maniaci e la sua presunta amante, che non hanno alcuna rilevanza penale, ma tali da ingenerare nel di lei marito la volontà di arrivare all’eliminazione fisica della persona che aveva offeso il suo onore. E che tale sospetto sia, sino ad oggi, motivato, lo si può ricavare dalla fedina penale dell’interessato, che risulta, agli atti, essere tossicodipendente (è schedato al SERT come cocainomane), alcolizzato, spacciatore, individuo violento con sei denunce fatte dalla moglie per maltrattamenti vari, al punto che questa ha scelto la separazione. Ultimamente è stato beccato con otto grammi di cocaina e un coltello a serramanico ma rimesso a piede libero. Quindi è evidente, dopo la diffusione delle telefonate morbosamente registrate dai carabinieri di Partinico, che l’esposizione di Maniaci, ne comporta il rischio dell’eliminazione fisica. Inutile chiedersi se i carabinieri si sono posti il problema e come mai la loro “presa di distanze” è arrivata al punto che non vengono più fornite notizie e informazioni all’emittente Telejato, mentre, per contro, viene ancora effettuata la tutela. C’è qualcosa che non funziona.

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

I 100 EROI DELL’INFORMAZIONE SONO 99 – GIUSTIZIALISMO TRIONFERÀ. REPORTER SENZA FRONTIERE CONDANNA PINO MANIACI ALLA DAMNATIO MEMORIAE. Quanti sono i 100 eroi mondiali dell’informazione? Sembra una domanda simile a quella sul colore del cavallo bianco di Napoleone, ma è meno scontata di quanto appaia. Perché i “100 Information heroes” selezionati da Reporters sans frontières, la nota ong che si occupa di libertà di stampa, in realtà sono 99. Ne manca uno, tra l’altro uno dei due italiani originariamente presenti nella lista, il giornalista siciliano Pino Maniaci (l’altro è Lirio Abbate, che invece mantiene lo status di eroe). Maniaci era entrato nel club dei 100 giornalisti che nel mondo si erano distinti per aver svolto il loro lavoro in contesti pericolosi e per aver affermato il principio della libertà di stampa anche a rischio della propria incolumità. Reporter senza frontiere (Rsf) descriveva Giuseppe ‘Pino’ Maniaci come il coraggioso direttore di “una piccola stazione televisiva antimafia”, Telejato, che si occupa di “omicidi e racket, che sono una parte della vita quotidiana in Sicilia”. “È stato citato in giudizio centinaia di volte e ripetutamente minacciato e una volta è stato picchiato dal figlio di un boss mafioso”. Ora però sul sito Rsf la foto di Maniaci non c’è più, al suo posto c’è uno spazio vuoto, la sua scheda è stata eliminata: i 100 eroi sono diventati 99 e la ong che si batte per la libertà di stampa non spiega da nessuna parte perché. Cos’è successo? A maggio su tutti i giornali è scoppiato il “caso Maniaci”: il giornalista impegnato da anni nella lotta alla mafia e all’illegalità è indagato dalla procura di Palermo con l’accusa di estorsione, avrebbe ricevuto da alcuni sindaci poche centinaia di euro e favori in cambio di soldi. Pochi spiccioli, ma comunque un comportamento deprecabile. Dalle intercettazioni sono emersi altri aspetti poco piacevoli, come ad esempio la possibilità che alcune intimidazioni che avrebbe subìto – e per cui aveva ricevuto la solidarietà anche del premier Matteo Renzi – in realtà non sarebbero minacce mafiose ma vendette personali del marito della sua amante. Maniaci ne era consapevole, ma ha cavalcato l’ipotesi dell’intimidazione per aumentare il proprio prestigio di giornalista antimafia. In ogni caso questi aspetti più personali, per quanto censurabili, non vengono contestati dalla procura e rispetto alle accuse di estorsione il giornalista si difende dicendo che il passaggio di denaro si riferisce all’acquisto di spazi pubblicitari. L’indagine va avanti e, come si suol dire, la giustizia farà il suo corso. Rsf invece ha già emesso una sentenza di condanna, senza però pubblicare la sentenza. Perché Maniaci è stato rimosso dal sito? Ne è stato informato? Rsf ha pubblicato un comunicato ufficiale sulla vicenda? “Ci è capitato di apprendere che l’onestà di Giuseppe Maniaci è stata seriamente messa in discussione e che lo scorso maggio è stato incriminato”, ha risposto alla richiesta di spiegazioni del Foglio il chief editor di Rsf Gilles Wullus. “Fino a quando l’indagine non sarà fnita, abbiamo scelto di ritirarlo dalla nostra lista di ‘Eroi dell’informazione’”. La scelta sarebbe anche legittima, ma restano aperte alcune questioni gravi sul modo di operare della ong che stila classifiche sulla libertà d’informazione del mondo. La prima è un dettaglio, che però indica il livello di approfondimento che Rsf ha dedicato alla vicenda: Maniaci non è “incriminato”, ha solo ricevuto un avviso di garanzia e i pm non hanno ancora chiesto il rinvio a giudizio. L’altra è la totale assenza di trasparenza: mai Rsf ha comunicato che la posizione di Maniaci è sospesa e per quali motivi, né ha chiesto spiegazioni al giornalista, sia per avere gli elementi per una valutazione giusta sia per garantire il diritto di difesa. Rsf ha semplicemente sbanchettato Maniaci, come si faceva in Unione Sovietica con le foto dei compagni caduti in disgrazia dopo le purghe, come fanno ancora oggi tutti quei regimi autoritari e totalitari nemici della libertà di stampa. Al posto della sospensione e di un giudizio pubblico e trasparente, Rsf ha scelto la damnatio memoriae, la cancellazione di ogni traccia del sospetto, come se Maniaci non fosse mai stato uno dei 100 “Eroi dell’informazione”. Che Rsf e i suoi premi non sono una cosa seria l’aveva intuito lo stesso Maniaci che, mentre in pubblico era impettito per il premio simbolo del giornalismo impegnato, in un’intercettazione diceva: “M’hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi”. Non più dell’informazione, ma eroe della sincerità. Il Foglio Quotidiano – anno XXI numero 179 – pag. 2 – 30/07/2016 Autore: Luciano Capone

Il dito e la Luna. A proposito di Pino Maniaci di Telejato. L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Chi parla di Mafia e antimafia dice a sproposito la sua e non so cosa ne capisca del tema. Chi mi conosce sa che sono disponibile a dar lezione! Nel caso di Pino Maniaci ci troviamo a bella a posta a sputtanare qualcuno con notizie segretate con tanto di video e senza sentire la sua versione, così come io ho fatto. A prescindere dal caso specifico, Pino Maniaci da vero giornalista ha indicato sempre la luna e ora si sta a guardare questo cazzo di dito. Vi siete chiesti perché tutto è successo nel momento in cui è stata attaccata “Libera” ed i magistrati e tutta la carovana antimafia con i suoi carovanieri? In quel momento i paladini mediatici e scribacchini dell’antimafiosità ed i magistrati delatori (non è sempre un reato?) si son dati da fare a distruggere un mito, prima di una sentenza. I codardi, poi, che prima osannavano Pino, oggi lo rinnegano come Gesù Cristo. Comunque io sto con chi ha le palle, quindi con Pino Maniaci. Mi dispiace del fatto che a Palermo si vede la Mafia anche dove non c’è, giusto per sputtanare un popolo e fottersi i beni delle aziende sane. E di questo tutti tacciono. Se a Palermo si stanno dissequestrando i beni sequestrati dagli “Antimafiosi” è grazie a Pino. Pino colpevole, forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato, ma guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.

Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.

«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».

Cioè?

«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»

Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…

«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».

Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?

«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».

E quelli che hanno partecipato?

«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».

La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.

«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».

Però?

«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».

Prego?

«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».

Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?

«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».

Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.

«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».

L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?

«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».

Cioè?

«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».

Bernardo Provenzano. Il padrino. L’ultimo atto. Una lenta agonia di Stato Così si è spento Zu Binnu. Ormai non riusciva più a nutrirsi e pesava solo 45 chili, scrive Lu. Ro. su “Il Tempo” il 14 luglio 2016. Disteso sul letto, come morto, nel reparto di medicina protetta dell’ospedale San Paolo nel carcere milanese di Opera. I capelli lunghi e addosso il camice del nosocomio. Peso: 45 chili. Incapace di muoversi, di interloquire, di capire cosa accadeva intorno a lui. E anche di nutrirsi. A farlo ci pensava un sondino naso-gastrico, che andava non più dal naso allo stomaco, ormai non funzionante, ma direttamente all’intestino. In queste condizioni il boss dei boss Bernardo Provenzano ha abbandonato questo mondo. È così che lo Stato italiano, dopo anni di dinieghi e inspiegabili prese di posizione, alibi più o meno adattabili alle drammatiche circostanze e spiegazioni inammissibili, ha voluto far morire Zu Binnu. Senza pietà. Senza compassione. Senza umanità. Non sono bastate le battaglie del suo avvocato, Rosalba Di Gregorio, a restituire un minimo di dignità umana a chi, certo, non ne ha avuta; non è stato...

Lo stato confusionale di Provenzano. Quando il boss perse la lucidità, scrive Riccardo Lo Verso il 13 Luglio 2016 su “Live Sicilia”. Pensieri sconclusionati, frasi incomplete, una sorta di balbettio scritto che lo porta a ripetere più volte una parola, uno stato confusionale che si manifestava nel non sapere dove e perché fosse detenuto. Le lettere che Bernardo Provenzano scriveva ai suoi familiari sarebbero state la prova che il padrino corleonese negli ultimi tempi era gravemente malato. “Delle due l'una: o siamo di fronte a un grande simulatore oppure a un uomo gravemente malato e dissociato dalla realtà”, diceva i legale di Provenzano, Rosalba Di Gregorio, che ha condotto una inutile battaglia per ottenere un regime carcerario meno afflittivo. Erano i giorni in cui gli esami diagnostici avevano evidenziato delle lacune cerebrali dovute a un'ischemia. Una patologia che si aggiungeva al tumore alla prostata confermato dalle perizie. A fare suonare il primo campanello d'allarme sulle condizioni di salute di Provenzano era stata una lettera del 5 marzo 2001. Al di là dei limiti grammaticali di una persona non scolarizzata, i ragionamenti erano lineari. Il boss spiegava alla moglie di essere stato sottoposto ad alcune visite mediche. In alcuni passaggi, però, si leggevano parole ripetute senza una logica: “Amore mio carissimo. E figli Angelo e Paolo con gioia ho ricevuto la vostra lettera... amore mio carissimo non ricopio a tutto quello che mi chiedi spero spero spero con il tempo di spiegarti... amore mio mi dice se sò cosa anno scritto nel diario diario non l'ho letto ma tu mi che ho avuto una eschemia, non so cosa sia...” L'11 maggio Provenzano riprendeva carta e penna. Il destinatario era ancora la moglie: “Oggi mercoledì 11 maggio. Amore mio ho ricevuto la tua lettera. Amore mio grazie delle notizie che al ritorno che avete avuto un buon viaggio. Amore mio mi dici che ero troppo sofferente e ne se addoloratissima. Che cosa mi hanno fatto, se c'erano i dottori che mi hanno visitato, se mi hanno cambiato le medicine Non lo so Amore mio vuoi sapere che sto Amore mio sento stanco...”. A un certo punto il ragionamento si interrompeva e riprendeva con una datazione diversa: “02-05-2001 tuo marito che ti pensa Amore mio e figli Angelo e paolo carissimi smetto con la penna non con il cuore... - chi scrive perde lucidità - che smetto con la presente e ne ricevo un'altra ricevuta ieri giovedì di paolo, che con il volere di Dio iniziare quella che ho ricevuto dopo da paolo e scritto te amore mio. Ora con piacere a rispondere in quella lunga tua - e lascia il periodo tronco - Con quello che mi succede nel rispondere con affetto segue i seguito...”. Il 23 maggio Provenzano sceglieva un telegramma per comunicare con il fratello Salvatore. "Mio caro fratello e Figlio come state padre e figli si unanomia si incoraggia essendo due. Io vi chedo scusa, e cioè mi prometto di scrivervi e sorte no veglio chiare vi sforzano a emesso senza scrivere e il mio pensiero s sforza e si vede la mia vecchiaia e aspetta oggi aspetta domani ho ensato di scriverti ora smetto con la penna non con il cuore augurandovi un mondo di bene per tutti vi benedica il signore che vi protegge vi benedica il signore vi protegge”. Il 9 giugno 2001 Provenzano sembrava smarrito: “Ma io sono qui da solo non so dove sono sono. Oggi c'è la videconferenza non ci vado per scrivere e voi potete parlare con l'avvocato dicci la nostra posizione ed chiedere per ottenere colloqui tra noi i mia moglie e i mie figli Angelo paolo e mamma con lo sta bene con l'avvocato perché io sono forse più malato di quello che vi dico”. Poi, fornisce il suo indirizzo ai parenti come se mai prima d'ora non avesse ricevuto le loro lettere: “Ripeto se potete parlati parlare con l'avvocato della mia posizione vi do il mio indirizzo: Sono in via Burla numero n.53.L3:100 Parma. Con questo mi potete scrivere mi potete venire attrovare ce possiamo parlare di presenza oppure uno scritto dopo che avete parlato con l'avvocato così cerchiamo la serenità che ci manca a tutti...”. Sempre a giugno Provenzano scriveva di nuovo. Forse era una risposta alla moglie e ai figli che gli chiedevano cosa volesse portato al prossimo colloquio. Il capomafia, invece, di rappresentare le sue esigenze, si limitava a ricopiare il contenuto della lettera che ha ricevuto: “Avevo tue amore mio mi dici che stai in pensiero la mia salute ma io ho pensieri per la mia salute se ho capito bene e studiare e comprendere nella mia miseria... Figlio mio mi addolora tanto con la desolazione e triste Figlio Angelo mi dici scrivi tutto quello che capita e che succede Ho chiesto ho chiesto il foglio per edere per il foglio per vedere per vedere cosa ti posso portare per il prossimo colloquio qui scrivimi quello che posso portare Amore mio chiudi la lettera augurandoti sempre di stare meglio”.

Provenzano è uscito dal carcere, scrive Simona Musco il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Il boss alla fine è morto. Era in coma da anni ma restava al 41 bis. È già guerra sui funerali. «Qui non lo vogliamo». Bernardo Provenzano era già morto. Lo era già due giorni fa quando, ormai in coma, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto l’ennesima istanza presentata dall’avvocato Rosalba Di Gregorio affinché il boss di Cosa Nostra venisse scarcerato. Ma i suoi trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso all’interno della mafia, per il giudice, lo avrebbero esposto ad «eventuali “rappresaglie” connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» del quale era a capo. Provenzano è così rimasto al 41 bis, senza che moglie e figli potessero salutarlo. Il figlio Angelo, lunedì scorso, aveva fatto richiesta di un permesso straordinario, che gli era stato negato. Ed è arrivato proprio ieri, dopo la morte del padre. «I veri detenuti al 41 bis sono i parenti – denuncia ora la Di Gregorio -, il regime di restrizione è stato applicato ai figli e alla moglie impedendogli di poterlo vedere». Le condizioni di Provenzano si sono aggravate venerdì, quando a causa di un’infezione polmonare è entrato in coma irreversibile. Ma il carcere duro, ha dichiarato Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del ministero della giustizia, «in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato ha ricevuto cure puntuali ed efficaci». Negli ultimi anni, l’avvocato Di Gregorio ha presentato tre istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell’esecuzione della pena. Alle prime avevano dato parere favorevole le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, ma si sono incagliate poi nel parere della Direzione nazionale antimafia. Diverse perizie, nel corso del tempo, hanno confermato la gravità delle sue condizioni: non era più ricettivo, incapace, dunque, di comandare e inviare messaggi. Il 12 maggio del 2012 le videocamere del carcere di Parma lo avevano immortalato nella sua cella intento a infilarsi un sacchetto in testa. Non un tentativo di suicidio, secondo i suoi legali, bensì i segni che non ci stava più con la testa. A dicembre dello stesso anno cadde riportando un ematoma al cervello. Entrato in coma e operato, non si è più ripreso. Il gip lo ha anche dichiarato incapace di prendere parte in maniera cosciente al processo sulla trattativa Stato-mafia. Le patologie di cui soffriva sono state definite dai «plurime e gravi di tipo invalidante». Non parlava più, faticava a muoversi. Ma la giustizia italiana non ha ceduto di un millimetro. Così, nel 2013, la famiglia si era rivolta alla Corte europea dei diritto dell’uomo, denunciando l’incompatibilità del suo stato di salute col regime del 41 bis. A gennaio 2015, il Tribunale di sorveglianza di Roma confermava l’esigenza di trattenerlo lì per questioni di sicurezza pubblica, «sussistendo il pericolo di continuità di relazioni criminali» con Cosa Nostra. A settembre, invece, la Cassazione giustificava il carcere duro proprio con la necessità di assicurargli cure adeguate. Il figlio Angelo, nominato curatore speciale del padre, tempo fa aveva anche rilasciato un’intervista shock: «anche un pluriergastolano ha diritto di essere trattato come un essere umano – aveva detto a Repubblica -. Se poi l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte, anche ad personam». Ma era già morto, ribadisce la Di Gregorio, che ha appreso della morte del boss mentre era in aula a Caltanissetta per il Borsellino quater, tramite un sms inviatole proprio da Angelo. Lo era dal momento «in cui è caduto ed è stato operato al cervello. Era un vegetale. Le sue condizioni di salute si erano aggravate da circa 4 anni. Non aveva più reazioni di nessun genere». Intanto il pg di Palermo, Nico Gozzo, è intervenuto a muso duro: lo Stato, polemizza sul suo profilo Facebook, avrebbe potuto far sentire «la differenza tra uno stato di diritto» e «le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Ed invece si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. E ciò, per me, è inaccettabile». Il senatore Pd Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia, ha invece chiesto di evitare «sontuosi funerali» nella sua città, Corleone, per evitare di trasformare il boss in un mito. Ma il sindaco Lea Savona ha messo le mani avanti: «Oggi si celebra il nostro 25 aprile. Mi opporrò alla possibilità che si celebrino qui i funerali».

Era morto ma loro non lo sapevano, scrive Tiziana Maiolo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Hanno voluto vederlo morto in ceppi, quel corpo ormai da tempo senz’anima e senza vita, e così è stato. Non era certo Bernardo Provenzano quell’essere ridotto a vita vegetativa il cui cuore si è fermato ieri mattina in una cella dell’ospedale San Paolo, quartiere Barona di Milano. Pure quel corpo, che non ragionava e non parlava, non si muoveva e non si nutriva, che quotidianamente veniva ripulito, riposizionato nel letto e nutrito con il sondino naso-gastrico. Quel corpo “viveva” nel regime carcerario dell’articolo 41-bis, quello applicato ai mafiosi più pericolosi. Che sia stato un capomafia tra i più pericolosi, Bernardo Provenzano, quello vero, arrestato dieci anni fa dopo quasi mezzo secolo di latitanza, non c’è dubbio. Insieme al suo socio Totò Riina è stato protagonista della più sanguinosa stagione delle stragi culminata nel 1992 con le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma erano altri tempi e altri personaggi. E paradossalmente chi oggi piangerà (oltre ai familiari) la scomparsa di “quel” Provenzano, saranno gli orfani, magistrati e qualche giornalista, di quella bislacca teoria della “trattativa Stato-mafia” che ormai langue sconfitta dal punto di vista processuale. Erano proprio questi orfani del complotto a cercar di tenere in vita quel corpo in cui vita non albergava più da tempo, nella vana speranza di poterlo trascinare, prima o poi (ma ormai la sua posizione era stata sensatamente stralciata dal processo) a rivelare segreti inconfessabili e quasi certamente inesistenti. Invano nei mesi scorsi la famiglia aveva cercato di far liberare “il corpo” dai ceppi dell’art. 41bis per poterlo trasferire in un reparto di lungodegenza dell’ospedale. Si era trovata davanti un muro, composto di magistrati di un po’ tutte le città italiane che avevano processato Provenzano e dalla stessa cassazione, cui si era aggiunto, un po’ sorprendentemente, lo stesso ministro guardasigilli Orlando, che si era spinto a interpretazioni sociologiche: “Seppur ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora costantemente destinatario di varie missive dal contenuto ermetico. Cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. Era il 24 marzo scorso. Pochi giorni dopo, incuriositi e increduli, siamo andati all’ospedale San Paolo di Milano, dove “il corpo” era custodito in un reparto speciale, sorvegliato all’interno da tre agenti di polizia penitenziaria e all’esterno da 28 poliziotti che si alternavano intorno al perimetro dell’ospedale. Avevamo incontrato il primario del reparto, il professor Rodolfo Casati, colui che meglio conosceva le gravi patologie cui era affetto quel detenuto così speciale. “Provenzano – ci aveva detto – non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento, borbotta qualche suono senza senso”. Che cosa ha esattamente? “Ha avuto ripetute lesioni cerebrali, è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson”. Ma dice qualche parola comprensibile? “A volte pronuncia mmmm, che sembra quasi mamma”. Queste cose il professor Casati le ha scritte in decine di relazioni, spedite nei vari tribunali d’Italia, in cassazione, al ministro. Erano considerazioni tecniche, da medico. Ma forse politicamente scorrette. Quindi inascoltate. Tanto che si è preferito custodire “il corpo” dandogli il rango di pericoloso capomafia al 41bis piuttosto che compiere un normale gesto di umanità e ammettere di aver perso per strada un altro protagonista della vagheggiata “trattativa Stato-mafia”.

«Quando hanno aperto la cella...», scrive Piero Sansonetti il 14 luglio 2016 su "Il Dubbio". Ve la ricordate quella canzone struggente di Fabrizio de André? «Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Michè…». Altri tempi, naturalmente. Non esisteva ancora il “justicially correct” e qualcuno dedicava le canzoni anche ai delinquenti. De André lo faceva spesso. Era un tipaccio De André. Figuratevi che perdonò persino i suoi rapitori e si rifiutò di accusarli in tribunale. Comunque Miché era un delinquente simpatico. Aveva ucciso per amore di Maria. Provenzano no: è stato un assassino matricolato, feroce, ha devastato la Sicilia, ha seminato morte per 45 anni. Il problema è che l’ “umanità - il senso dell’umanità, che è uno dei pilastri, forse il più grande pilastro della civiltà e della modernità, e che è un sentimento, l’unico, espressamente previsto dalla nostra Costituzione - non si applica solo alle persone perbene, o a quelli che ci stanno simpatiche, ma a tutti. La forza della civiltà è lì: nell’umanità e nella cancellazione della categoria della vendetta. Quando la vendetta diventa il carburante (o addirittura lo scopo) della giustizia, la civiltà scivola via e scompare. Provenzano da molti anni era in stato semi-comatoso e poi comatoso. Applicare a lui le misure del 41 bis (concepite, ufficialmente, per ragioni di sicurezza e non di punizione) è stata una scelta illogica, illegale e crudele. La crudeltà è crudeltà e basta: che la si applichi ad Abele o a Caino, non cambia. Nei giorni scorsi il sottosegretario alla giustizia, Gennaro Migliore, è stato crocifisso (dal “Fatto Quotidiano”) perché aveva ricordato il senso del 41 bis e aveva spiegato che secondo lui deve essere corretto, mitigato, in modo che resti una misura di sicurezza e non di vendetta. Non si è alzata una voce a difesa di Migliore, né dal mondo politico né da quello del giornalismo e dell’intellettualità. Qualche giorno dopo il “Fatto” è tornato sull’argomento per farcii sapere che aveva avuto notizia di un barattolo di miele entrato proditoriamente in una cella di 41 bis, e per esprimere sdegno verso questa “mollezza”! E’ normale che esista una parte della società (e anche dell’intellettualità e della classe dirigente) che tra modernità e giustizialismo sceglie il giustizialismo. Non è normale che non esista una parte delle classi dirigenti che si oppone al giustizialismo, apertamente, senza nascondersi. Oggi, se volete rivolgervi a una autorità morale (e politica) che contrasta la ferocia e chiede civiltà, avete una sola possibilità: chiedere udienza al papa.

Ingroia: «Fu cerniera tra Stato e Cosa nostra. Ma il suo 41bis era un accanimento», scrive Giulia Merlo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. L’ex procuratore di Palermo Antonio Ingroia e Bernardo Provenzano. Uno è il pm che gettò le basi per l’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, l’altro il capo di Cosa Nostra e presunto ingranaggio della trattativa. I due si sono incontrati nel carcere dove Provenzano ha passato in regime di 41bis gli ultimi dieci anni, e Ingroia lo ha definito «un uomo dell’altro Stato», riconoscendo però che il carcere duro nei suoi confronti è stato un «accanimento superfluo».

Cosa intende con la definizione di «uomo dell’altro Stato»?

«Lo Stato non è un blocco monolitico. Ha una faccia pulita, che è quella di tutti gli uomini e le donne che sono caduti per difenderlo, come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Esiste però anche una faccia cupa, fatta dei visi dei molti che hanno “trescato”, conducendo trattative di cui la mafia è stata parte. Non mi riferisco solo a quella tra Stato e mafia, ce ne sono state molte altre. Penso ad esempio allo sbarco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, in cui la mafia è stata un soggetto attivo».

E con questo Provenzano cosa c’entra?

«Lui è stato uno degli uomini-cerniera di questa trattativa. Provenzano ha passato la vita a difendere e proteggere gli interessi della mafia ma anche quelli di questo altro Stato. E lo ha fatto fino alla morte, non rivelando nessuno dei segreti su cui molte inchieste hanno provato a far luce».

Quando lo ha conosciuto, Provenzano era già sottoposto al regime del 41bis, che non gli è stato revocato nemmeno negli ultimi anni di vita, quando era malato. Ha condiviso questa scelta?

«Oggi tutti, con il senno di poi, diranno che la misura fosse irragionevole. Io lo dissi in tempi non sospetti e mi sono già preso molte critiche da parte dei paladini dell’antimafia. Anch’io mi considero un militante dell’antimafia, eppure credo che il regime di carcere duro sia stato eccessivo e sconsigliabile, anche per chi viene considerato il peggiore tra i boss mafiosi. Io ho conosciuto Provenzano quando era già vecchio e malato e penso che il 41bis sia stato un accanimento superfluo nei suoi confronti».

Che impressione le ha fatto quando lo ha incontrato?

«Ricordo di aver pensato che era un uomo diverso dal “zu’ Binnu u Tratturi” di cui si raccontavano i feroci assassinii. L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. Durante l’interrogatorio, mi è anche sembrato di leggere in lui un conflitto interno, un’indecisione profonda».

Indecisione su che cosa?

«Mi sembrava indeciso sull’ipotesi di voltare pagina, aprendo un dialogo con l’altro Stato, quello pulito di cui dicevo prima, oppure rimanere coerente con se stesso e rimanere in silenzio. Alla fine è rimasto fedele, oppure è stato indotto in qualche modo a rimanere fedele alla mafia e ha portando con sé i segreti di Cosa Nostra e quelli del doppio Stato».

“Zu Binnu” si arrese per 2 milioni di euro, scrive Rocco Vazzana il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’intermediario all’Antimafia mise subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss voleva una buona uscita e un mese di “silenzio” dal momento dell’arresto. A Roma, via Giulia, sede della Direzione nazionale antimafia. Un uomo varca il portone della Superprocura accompagnato dalla Guardia di Finanza. È il novembre del 2003 e vuole parlare con Pier Luigi Vigna, il capo della Dna. Si chiama Vittorio Crescentini, è un faccendiere, e dice di avere notizie importanti da riferire. Ma non si presenta davanti ai magistrati in veste di informatore, come pure era capitato in altre occasioni, questa volta dice di essere un mediatore, un messaggero per conto di Bernardo Provenzano. Ma l’uomo pone subito una condizione: non dirà neanche una parola in presenza di magistrati siciliani. Vigna accetta di ascoltarlo e chiede ai sostituti Vincenzo Macrì e Alberto Cisterna, entrambi calabresi, di assistere al colloquio investigativo. Provenzano è latitante da più di 40 anni, e adesso, vecchio e stanco, vorrebbe aprire «un tavolo di accomodamento» per trattare la resa. Perché un capo, anche se non più operativo, non si arrende incondizionatamente. E l’intermediario arrivato in Via Giulia mette subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss pretende una buona uscita da due milioni di euro e un mese di riserbo dal momento dell’arresto. Un periodo di tempo utile a fornire elementi investigativi agli inquirenti lontano dal clamore mediatico. Gli inquirenti lo ascoltano con attenzione, sono convinti che Crescentini non sia un millantatore, perché se qualcuno si presenta in Dna dicendo di avere notizie su Provenzano non può essere un impostore, è la convinzione dei magistrati. Il faccendiere, poi, fornisce anche qualche elemento sulla latitanza del ricercato numero uno: sarebbe nascosto nel Lazio, in un luogo non meglio definito. Per Pier Luigi Vigna la cattura di Provenzano sarebbe la ciliegina sulla torta di una carriere già brillante. Nel 2003 il capo dell’Antimafia è a un passo dalla pensione e non vorrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di chiudere col botto. Ma prima deve superare l’ostacolo più grosso: la richiesta di denaro. La palla deve passare ad altre autorità, bisogna informare subito il ministero dell’Interno della faccenda. «Mi pare di ricordare che Vigna disse che avrebbe informato il ministero dell’Interno e per correttezza anche il procuratore della Repubblica di Palermo (che all’epoca era Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato, ndr) », racconterà quasi dieci anni dopo Vincenzo Macrì, uno dei magistrati presenti agli incontri con il mediatore. «Non era compito del nostro ufficio stabilire tempi e modi di un eventuale accordo. Non so con chi parlò Vigna. So che allora il capo del Sismi era Niccolò Pollari. E che i Servizi segreti diedero la loro disponibilità in linea di massima a reperire il denaro». La trattativa, dunque, si complica. Il faccendiere dice che si rifarà vivo ma passano altri otto mesi senza ricevere più notizie del boss. Vittorio Crescentini ritorna in Via Giulia nel luglio del 2004, pochi giorni prima del 71esimo compleanno di Pier Luigi Vigna, che festeggerà il primo agosto. Il secondo colloquio investigativo si conclude come il primo. È ancora un incontro interlocutorio, il messaggero non fa altro che confermare le richieste già avanzate prima, ma aggiunge un elemento: incontrare il boss è diventato più complicato anche per lui. Scopriremo solo dopo che in quel periodo il latitante corleonese non godeva di ottima salute, tanto da essere sottoposto a un intervento chirurgico in un ospedale di Marsiglia, come documentato nel 2005 dalla procura di Palermo. Ma 71 anni, per Vigna, non sono solo candeline da spegnere su una torna, significano anche un’altra ricorrenza più amara: la pensione. E nonostante una legge ad hoc (in realtà concepita per impedire a Gian Carlo Caselli di andare alle guida della Dna) conceda a Procuratore nazionale un anno di proroga, fino al primo agosto del 2005, Vigna non riuscirà a portare a termine l’arresto. L’ultimo colloquio investigativo accertato con Vittorio Crescentini, infatti, risale al novembre del 2005. Alla Direzione nazionale antimafia c’è un nuovo capo: Piero Grasso, appena arrivato da Palermo. Spetta a lui gestire l’ultimo contatto con l’uomo che dice di essere stato delegato da Provenzano. Il nuovo procuratore chiede a Macrì e Cisterna, i due pm che avevano già seguito il caso, di partecipare all’incontro. Ma Grasso, a differenza del suo predecessore, non si fida molto del faccendiere, è convinto che sia un «millantatore». E chiede all’intermediario di fornire una prova biologica del boss latitante, come racconterà anni dopo il magistrato siciliano nel corso di un’audizione al Csm: «Quando ero procuratore a Palermo, avevamo fatto un’indagine sulla presenza di Provenzano a Marsiglia», spiega Grasso. «Eravamo riusciti a ottenere un frammento di un reperto medico sanitario». In altre parole, i magistrati avevano in mano il dna del boss corleonese. «Quindi essendo in possesso di quel reperto, a colui che diceva di essere in contatto con il latitante Provenzano, dissi di farci avere qualcosa - un fazzoletto, un bicchiere, un qualcosa... Insomma, non potendo catturare tutto il latitante ne avevamo catturato un pezzetto. Per quanto ne so questo è l’ultimo incontro con l’intermediario». Il boss, ancora tutto intero, sarà catturato pochi mesi dopo, nel marzo del 2006, dal procuratore di Palermo Giuseppe Pignatone e dal capo della Squadra mobile Renato Cortese.

Il questore del blitz: «Così ho catturato Bernardo Provenzano», scrive Vincenzo R. Spagnolo il 13 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Con la morte, oggi, di Bernardo Provenzano, esce di scena uno dei capi mafia più temuti e sanguinari. Quando venne arrestato, l'11 aprile 2006, Due giorni dopo, il 13 aprile su Avvenire comparve questa intervista al vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese. «Quando ho incrociato il suo sguardo sorpreso, sono stato certo. Per anni ho avuto il suo volto davanti negli identikit. Ha provato a chiudere la porta a vetri, ma io e il resto della squadra l'abbiamo sfondata. Allora ha abbassato le braccia, sussurrando: non sapete l'errore che state commettendo». È l'epilogo della caccia, raccontato dall'uomo che dal 1998 l'aveva condotta in silenzio, ombra fra le ombre, sulle tracce del capo di Cosa nostra. Il «cacciatore» è il vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese, a capo della squadra di 30 poliziotti del Servizio centrale operativo e della Mobile palermitana, incaricati di stanare Provenzano. Hanno passato 8 anni sulle orme del fantasma di "Binnu u tratturi", pedinando familiari, affiliati e postini. Mancandolo per un soffio più volte, come nel 2001 nelle campagne di Mezzojuso («Sapevamo che nel casale c'era un malato di prostata: pensavamo a lui e invece trovammo Benedetto Spera»), fino a martedì, quando lo spettro si è materializzato e gli «acchiappafantasmi» della Polizia gli hanno messo le manette. Cortese ha la barba scura e i capelli ricci come i suoi avi della Calabria magnogreca, ha 42 anni (lo "zu Binnu" era già uccel di bosco un anno prima che nascesse), ma di boss ne ha scovati altri: da Brusca a Spatola, da Vitale ad Aglieri, la cui cattura gli valse una promozione per meriti straordinari. Ora forse gliene toccherà un'altra: «Non so - sorride -. Piuttosto, ci ha fatto piacere la valanga di attestati di stima che sta giungendo in questura a Palermo. Non eravamo abituati. In una e-mail c'era scritto: magnifici sbirri! Già. E ci ha colpito l'accoglienza riservata dalla folla a Provenzano: fischi e epiteti che mostrano che il sentimento della gente comune sta cambiando, che la mafia è vista come il Male e non come un potere a cui appoggiarsi. La rinascita dovrà fare i conti con l'altra Sicilia, quella dell'omertà: Provenzano lo avete trovato a Corleone, a pochi chilometri da casa».

Dov'era stato in questi 43 anni?

«A parte il viaggio per le cure a Marsiglia, quasi sempre in Sicilia. Per i boss, è regola fondamentale mantenere il contatto col territorio. Spostarsi dalla propria terra è un segno di debolezza che un capo come Provenzano non poteva mostrare». 

Per il procuratore Piero Grasso, le indagini hanno rivelato una vasta rete di coperture, a livello mafioso, imprenditoriale, politico... 

«È stata una lunga investigazione, con molti filoni, che speriamo conducano presto ad altri risultati». 

Quando siete stati certi che in quel casolare c'era lui?

«Da mercoledì 5 aprile avevamo messo gli occhi su quella masseria. La catena di "postini" sorvegliati ci aveva portato lì. Ma poteva anche essere disabitata: nessuno usciva fuori. Abbiamo sorvegliato a distanza con microtelecamere, aspettando gli eventi. Una settimana dopo, il blitz». 

Perché solo allora?

«Perché martedì 11, prima delle 9, qualcuno ha messo fuori un sacchetto bianco: una conferma che il casale era abitato. E alle 10 è arrivato un uomo a noi noto, con un pacco per l'inquilino misterioso. Allora ho fatto scendere un furgone con 20 uomini. E siamo entrati dentro».

Dopo, qual è stato il suo primo pensiero?

«Ho pensato che era andata bene, che potevamo mandare in archivio 8 anni di lavoro duro, notte e giorno, senza riposi né ferie. Ho pensato ai miei uomini, ai sacrifici imposti a noi stessi e alle famiglie per arrivare al risultato. E poi ho pensato anche ad altri: a poliziotti di altissimo valore che lavorarono alla Mobile di Palermo: uomini come Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà e altri ancora. La mafia li ha uccisi, è vero, ma ignora che la loro eredità si respira ogni giorno nei nostri uffici. Ecco, questa vittoria dello Stato non è solo nostra. Appartiene anche a loro». 

La pm che lo fece catturare “Dopo l’arresto ci minacciò”. Il magistrato Sabella: sono tanti i segreti che non ha svelato, scrive Guido Ruotolo il 14/07/2016 su "La Stampa".

Marzia Sabella, lei è stata uno dei pm della Procura di Palermo - insieme all’allora aggiunto Giuseppe Pignatone e al pm Michele Prestipino - a coordinare le indagini del pool di poliziotti guidati da Renato Cortese, per la cattura di Bernardo Provenzano, ’u tratturi. Chi era Provenzano?

«Come direbbe Wikipedia, “Provenzano era un criminale italiano”. Aggiungo che era un criminale latitante da 43 anni, cioè uno smacco alle leggi dello Stato che ogni giorno ci sforziamo di applicare».

Quando erano latitanti, i due Corleonesi eccellenti, Totò Riina passava per il macellaio e zu’ Binnu Provenzano per l’intellettuale, il mediatore, l’ambasciatore. I pentiti ma anche le indagini ci hanno consegnato in realtà i ritratti di due veri mafiosi con personalità diverse. Corresponsabili delle carneficine e mattanze. 

«Ecco, era una questione di personalità diverse. Ma probabilmente anche una questione strategica: un tempo, per rendere proficui gli interrogatori ci si serviva di due figure, lo “sbirro” buono e quello cattivo. Per il resto, come riferito da tanti collaboratori, “erano la stessa cosa”».  

Ambedue le catture, Provenzano e Riina, sono state accompagnate da un alone di mistero. Addirittura si sono fatti processi con ufficiali dell’Arma dei carabinieri sul banco degli imputati, per la mancata cattura di Provenzano.

«Non abbiamo ancora una ricostruzione giudiziaria definitiva. Aspettiamo di conoscerla. Per le indagini più recenti che hanno portato alla sua cattura invece non vi sono misteri ma fasi investigative tracciabili minuto per minuto. Mi piace sottolinearlo perché ogni tanto ci si diverte a dare letture alternative».

Ha mai avuto sentore che Provenzano avesse avuto contatti, rapporti con pezzi dello Stato?

«La storia di quegli anni va ancora scritta o forse va riscritta. Ma quel “sentore”, che certo ho avuto, per il magistrato è solo uno spunto investigativo. Poi ci vogliono le prove. E chi le prove vuole cercarle e chi le vuole far trovare».

Con la morte di Provenzano si è chiusa una stagione? Insomma cosa è diventata oggi Cosa nostra?

«La stagione di Provenzano non si è chiusa con la sua morte, ma con il suo arresto: la fine della sua latitanza ha azzerato il “vantaggio” rispetto a Totò Riina che era e rimane, almeno formalmente, il capo della commissione. Ma Cosa nostra resta Cosa nostra, con i suoi alti e bassi, con le perdite e i guadagni, con il mutamento di uomini e di strategie, con la sua capacità di adattarsi alle stagioni e soprattutto con il suo talento speculativo d’avanguardia. Bisogna chiedersi piuttosto se negli ultimi anni abbiamo saputo leggere questo cambiamento, peraltro fisiologico, o se abbiamo scambiato l’integrazione sociale della mafia, che è la sua più pericolosa peculiarità, con la sconfitta della mafia». 

Nel libro che ha scritto con la giornalista Serena Uccello («Nostro Onore») lei racconta il dietro le quinte del lavoro di pm a Palermo. «Solo dopo averlo visto con i miei occhi - scrive - mi sono convinta che l’avevamo preso veramente (Provenzano, ndr)». Il suo lavoro come quello degli investigatori spesso è anche tanta fatica e sudore. Ne è valsa la pena?  

«Mi scordo sempre di fare bilanci tra la fatica personale e il risultato delle indagini. Un lavoro si porta avanti comunque, anche quando il traguardo non è la cattura di un noto latitante che porta il tuo nome sui giornali. Semmai il confronto va fatto tra l’impegno dello Stato, anche in termini di costi, e la cattura. Ed è certo che, in tal caso, ne è valsa la pena nonostante Provenzano, quell’11 aprile, ci avesse detto che non sapevamo quello che stavamo facendo, forse alludendo a conseguenze negative per il Paese dalla prossima riorganizzazione di Cosa nostra». 

L’ex procuratore Piero Grasso dice che Provenzano porta con sé tanti misteri. D’accordo? Quali quelli che avrebbe voluto conoscere?  

«Certo che sono d’accordo. Sono d’accordo anche con il “tanti” perché, appunto, sono molteplici, ma non sono tutti quelli che ci servirebbero e che oltrepassano la storia di Provenzano. Non saprei scegliere tra i misteri che avrei voluto conoscere. Se ce li avesse elencati uno per uno oggi saremmo a buon punto». 

Così i picciotti di Corleone diventarono boss, scrive Paolo Delgado il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Bernardo Provenzano è morto ieri in regime di carcere duro, ai sensi dell’art. 41bis, quello che nel mondo viene considerato senza mezzi termini tortura. Era entrato in carcere nel 2006, dopo 43 anni di latitanza. Da un anno sopravviveva in stato vegetativo. Con tutta la sua ferocia e i suoi crimini, non avergli permesso di morire in un carcere normale copre di vergogna lo Stato italiano. Tra i contadini di Corleone diventati imperatori di Cosa nostra, Bernardo Provenzano è il più enigmatico. Era uomo di mano e di pistola, soprannominato Binnu u tratturi perché «tratturava tutto e dove passava lui non cresceva più l’erba», come da descrizione di Antonino Calderone, fratello del capomafia di Catania Pippo, uno dei tanti fatti ammazzare dai corleonesi. Però era anche "il ragioniere", perché il suo governo di Cosa nostra è stato mite a paragone della ferrea dittatura esercitata dai compaesani Totò u Curtu Riina e Leloluca "Luchino" Bagarella. Di Riina Binnu è stato sempre il compare più fidato, eppure proprio su di lui ha sempre aleggiato il sospetto di aver dato una mano a chiudere la carriera criminale dell’onnipotente zu’ Totò. Non per sete di potere ma per mettere fine alla guerra senza prigionieri che il capo dei capi aveva dichiarato allo Stato e dalla quale Cosa nostra rischiava di uscire distrutta. Per caso o per calcolo, è un fatto che quella guerra Provenzano scelse di non combatterla, recuperando l’uso antico della mafia siciliana: scivolare sott’acqua e rendersi invisibile quando la tempesta infuria. Biografie identiche quelle di Provenzano, Riina e dei fratelli Bagarella. Tutti di Corleone, poverissimi, figli di famiglie contadine nella miseria del dopoguerra siciliano, viddani cresciuti con la puzza della fame addosso. Amici sin dall’infanzia, complici sin dai primi crimini. Erano l’ultimo gradino di Cosa nostra, un altro universo rispetto all’aristocrazia mafiosa dei Bontade di Palermo, "principi di Villagrazia", o del corleonese don Michele Navarra, tanto potente da essere soprannominato "u patri nostru", grande elettore dei notabili Dc dell’epoca incluso Bernardo Mattarella, padre dell’attuale capo dello Stato. I futuri corleonesi erano manovalanza. Picciotti reclutati e combinati mafiosi da Luciano Leggio, campiere e braccio destro di Navarra, per occuparsi dei lavori sporchi e sanguinosi. Non avevano amicizie potenti tra i politici. Nella rete di alleanze famigliari e territoriali che costella e sostanzia la mappa di Cosa nostra neppure comparivano. Le sole risorse di cui disponessero erano la ferocia e la determinazione, figlie entrambe della fame. Se c’è un giorno che segna il passaggio dalla mafia tradizionale alla moderna Cosa nostra è il 2 agosto 1958, quando un autocarro bloccò in una strada di campagna la 1100 sulla quale viaggiavano u patri nostru con un giovane collega e i viddani di Leggio trucidano il potente boss con 92 colpi. Senza chiedere il permesso a nessun padrino. Incuranti dell’alto lignaggio mafioso della vittima e delle liturgie di Cosa nostra. Contando solo sulla forza e sulla potenza implicita nel fatto compiuto. L’uccisione di Navarra registra un modus operandi che i contadini di Corleone adopereranno più volte nei decenni seguenti: disprezzo per le regole mafiose, rapidità e spietatezza nel colpire, ferocia nello sterminare i nemici. La leggenda vuole che all’uccisione del dottore sia seguita una strage con almeno un centinaio di cadaveri. Le vittime della purga furono in realtà molte di meno, ma il metodo era davvero quello: niente prigionieri. Nel 1963 Provenzano fu denunciato per l’omicidio di uno degli ultimi fedeli di Navarra. Scelse di darsi latitante e tale sarebbe rimasto per i successivi 43 anni. Ancora più di Riina, Binnu era uomo d’armi, considerato più per le doti guerresche che per quelle diplomatiche o strategiche. Quando nel 1969 la "commissione" decise di eliminare il boss che aveva innescato la prima guerra di mafia negli anni ‘60, Michele Cavataio, nascostosi a Milano, ogni capo indicò uno o più killer. Leggio spedì Provenzano e Calogero Bagarella, fratello maggiore di Leoluca e Ninetta, fidanzata e poi moglie di Riina. Arrivarono in via Lazio, dove si rifugiava la vittima, travestiti da poliziotti. Cavataio mangiò la foglia. Era un osso durissimo: pur colpito ferì a morte Bagarella, se la pistola non si fosse inceppata avrebbe eliminato anche Provenzano. Anche il mitra di Binnu si inceppò subito dopo. Provenzano non si fermò per questo. Strappò di mano a Cavataio la pistola, lo abbattè colpendolo col calcio della stessa. Il soprannome u tratturi se lo guadagnò lì. I corleonesi si erano ritagliati il loro posto nelle gerarchie di Cosa nostra, ma pur sempre di bassa forza si trattava. Quando nei ‘70, grazie all’eroina, i soldi iniziarono a diluviare sulle famiglie siciliane, i viddani dovettero accontentarsi delle briciole. A chi gli proponeva di eliminare Riina, diventato capo dei coleonesi dopo l’arresto di Leggio, Stefano Bontade, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù, la più potente di Palermo, rispondeva con noncuranza: «Ma no, lascialo correre, tanto sempre da qui deve passare: è viddanu». Bontade, detto "il Falco", era il figlio di don Paolino Bontà, uno che prendeva pubblicamente a schiaffoni i politici poco solerti nell’obbedire. Aveva amicizie potentissime, un esercito ai suoi ordini, alleati quasi altrettanto potenti come Totuccio Inzerillo, cugino dei Gambino di New York. Riina e Provenzano lo fecero ammazzare la notte del 23 aprile 1981 inaugurando per la prima volta l’uso del Kalashnikov nell’isola. Bissarono meno di un mese dopo, adoperando la stessa arma per eliminare Inzerillo nonostante la protezione dei Gambino. La cosiddetta "seconda guerra di mafia", che cominciò con quelle raffiche di mitra, fu in realtà una mattanza a senso unico, il massacro di chiunque fosse considerato un nemico dai corleonesi. I grandi pentiti come Buscetta hanno sempre sostenuto che Cosa nostra è morta allora. Non hanno tutti i torti. La mafia siciliana, a modo suo, era sempre stata una democrazia. Nessuno aveva mai preteso di essere "capo dei capi". Il rigido rispetto delle regole era una favola, ma l’idea che persino i mafiosi dovessero adeguarsi a un codice c’era. Riina e Provenzano non conoscevano altro codice che il loro potere, la loro fu una dittatura tra le più spietate. Con lo Stato Totò u Curtu adoperò gli stessi mezzi che gli avevano assicurato l’impero su Cosa nostra. Ammazzò magistrati e poliziotti, provocò stragi, seminò terrore. Conosceva solo la forza, e con la forza tentò di costringere lo Stato a trattare. Uscito di scena lui, con l’arresto nel gennaio 1993, il cognato Bagarella decise di seguire la stessa strada. Provenzano no, e anche per questo riuscì a restare libero per 13 anni dopo la cattura di Riina, dominando con i suoi "pizzini", discretamente, senza spargere troppo sangue. Con gli anni, il sanguinario viddano morto ieri era diventato, a modo suo, un mafioso della vecchia scuola.

Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.  Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

Attilio Bolzoni: “Ci serve un pentito di Stato, un Presidente della Repubblica, un uomo dei servizi segreti o un Generale”. Intervista di Francesca Scoleri del 23 luglio 2016 su “T&M”.

Dott. Bolzoni, i suoi colleghi Nuzzi e Fittipaldi sono stati recentemente assolti da una accusa che il mondo del giornalismo non dovrebbe assolutamente conoscere: reperire informazioni. Lei ben conosce questo drammatico paradosso, ma a differenza dei suoi colleghi appena citati, ha dovuto affrontare il carcere per aver pubblicato le rivelazioni di un pentito. Chi non conosce la storia potrebbe pensare sia accaduta sotto il fascismo e invece eravamo quasi negli anni 90. Cosa ricorda oggi di quei giorni?

«La mia storia racconta una Palermo molto particolare. Il mio arresto e quello di Saverio Lodato – lavoravamo insieme in quel periodo – rappresenta solo uno specchio di quel momento. Noi siamo stati il capro espiatorio perchè l’obiettivo non eravamo noi. Era un segnale. Noi siamo stati arrestati innanzitutto, con un reato infamante per un giornalista: concorso con pubblico ufficiale - rimasto ignoto – in peculato. Una parola che fa venire in mente un reato economico, un giornalista che ha dimestichezza col denaro…In realtà, avevamo pubblicato la cantata di un collaboratore di giustizia, un capomafia, Nino Calderone, che parlava dei rapporti fra mafia e politica e quindi, la cosa fece infuriare molto. Il Procuratore che fece l’ordine di cattura quel 16 marzo 1988, non ha mai arrestato un solo ladro di galline a Palermo. Solo due giornalisti. Noi, lavoravamo da tanti anni su quel fronte perchè, nei primi anni 80, dopo la guerra di mafia – la città mattatoio, è nato un nuovo giornalismo a Palermo, molto più libero, quindi quello fu un avvertimento in puro stile mafioso da parte di quel magistrato. Siamo nell’88, appena pochi anni prima, nessuno parlava di mafia, nessuno scriveva di mafia ma adesso se ne parla troppo e a sproposito. Nel giro di 30 anni, si è passato dal silenzio assoluto, a un rumore fondamentalmente silenzioso. Che cos’è la mafia? Per me la mafia non è più quella dei corleonesi di Totò Riina, quella è stata una parentesi violentissima durata 25 anni. La mafia si traveste, cambia pelle e quando fa questo processo, noi non la riconosciamo mai. La cercavamo nei campi ed era già nei cantieri, la cercavamo nei cantieri ed era già a fare la droga, la cercavamo nella droga e faceva finanza. Oggi la mafia è molto più pettinata, profumata, politicamente corretta e sta nei convegni insieme a noi e il limite più grosso di una certa antimafia, è l’incapacità di riconoscerla».

Da oltre 30 anni, racconta la Sicilia e la mafia che per nostra sciagura, ha percorso la via preannunciata da Sciascia quando diceva “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia…” Un sistema consolidato composto da criminali, colletti bianchi e imprenditoria, è questa la mafia che ha conquistato la nazione?

«Dopo le stragi, ho lavorato 10 anni sui corleonesi ma nei 10 anni successivi sono rimasto disorientato, non capivo più cos’era la mafia. Perché? I corleonesi, sono una piccola parentesi nella storia della mafia, 25 anni di violenza, ma prima dei delitti eccellenti degli anni 80, erano passati circa 80 anni dall’ultimo delitto eccellente, era il 1893 quando ci fu l’uccisione del marchese Notarbartolo, il simbolo di Palermo, del Banco di Sicilia. Quindi, la mafia si nasconde e se non la cerchi non la trovi. Invece i corleonesi, hanno rappresentato solo il braccio armato di altre forze, preliminare di un sistema politico mafioso in Sicilia. I delitti eccellenti non li hanno voluti solo i corleonesi, anche se materialmente, li hanno commessi. Se pensiamo al delitto La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, non possiamo pensare che siano solo questi 70 caproni di Corleone. Gente che veniva dal niente ed è tornata nel niente. La mafia oggi occupa posti chiave del potere in Sicilia e in Italia ed è una mafia che non sempre riconosciamo subito. La mafia proletaria, la mafia popolare è stata quasi decimata, ma l’aristocrazia mafiosa va avanti e c’è ancora molto da scoprire su come alcuni personaggi abbiano salvato il sistema criminale italiano».

Lei ha visitato il covo di Bernardo Provenzano dopo la sua cattura, disse che era “un covo miserabile pieno di Crocifissi, rosari e santini”. Attraverso il processo trattativa Stato-mafia e il processo sulla mancata cattura di Provenzano, scopriamo a distanza di oltre 20 anni, che Provenzano è sfuggito alla cattura in più occasioni. Le ultime sentenze su Mori e Obinu, ci consegnano un’irrilevanza penale della mancata cattura, lei che idea si è fatto?

«Prima della mancata cattura di Provenzano, c’è stata la mancata perquisizione del covo di Riina. Dietro ogni cattura eccellente, c’è sempre un mistero. Riina è stato latitante dal 1969 al 1993. Provenzano, è stato latitante dal 1963 al 2006. Non avevano lo status di latitanti, avevano lo status di capi di Stato riconosciuti perché chi è latitante per tutto questo tempo, è di fatto, un latitante libero. Solo quando hanno cominciato a cercarli li hanno presi. Tutta la vicenda della trattativa, non solo processuale ma anche storica, è strettamente legata ai misteri del covo di Riina e alla mancata cattura di Provenzano. Mi fanno sorridere quelli che dicono la trattativa non c’è. Da quando esiste lo Stato italiano, c’è un pezzo di apparati che tratta con le classi criminali italiane e questo è un dato storico.  Che poi, il dottor Di Matteo, riesca a dimostrarlo nel suo processo è un altro discorso che riguarda il corso della giustizia. Ma il fatto che lo Stato italiano, ripeto, non la mafia ma lo Stato abbia chiesto accordi e abbia trattato con la mafia, è dal 1861, accade da quando esiste l’Italia. Gli ufficiali dei carabinieri sono stati assolti sia per quel che riguarda la mancata perquisizione del covo di Riina, sia per la mancata cattura di Provenzano e questo è il risultato giudiziario. Ma da quel processo sono emerse verità che erano state nascoste. Il magistrato ha dei confini precisi che sono determinati dalla legge, dai codici, dalle regole e fuori da quel confine non può andare, ma un osservatore, uno storico, un giornalista, un esperto, può avventurarsi in altre ipotesi. Io, da cittadino italiano, non mi accontento delle sentenze su Capaci e Via D’Amelio, verità che mi hanno offerto dei magistrati anche bravissimi perché sono arrivati fin là, ma io non mi accontento perché sono convinto che a fare quelle stragi non sia stata solo Cosa nostra il che non significa che abbiano fatto male le indagini. In alcuni casi sicuramente ci sono stati depistaggi però dobbiamo capire che la verità storica non coincide mai con la verità giudiziaria. Nel 1984 arriva Buscetta e per la prima volta si rompe il muro di omertà di Cosa nostra, sono passati 32 anni ma il muro dell’omertà di Stato non si è rotto. Oggi ci serve un pentito di Stato: un Presidente della Repubblica, un Generale dei carabinieri un capo dei servizi segreti…un pentito di Stato potrebbe offrirci frammenti di verità che ad oggi non sono ancora affiorati».

Con il libro “La giustizia è cosa nostra”, lei e il compianto Giuseppe D’Avanzo, avete cercato di dimostrare come le manine del potere soccorrono abitualmente la mafia. Sono le stesse manine che intralciano il lavoro di ottimi investigatori – mi viene in mente l’attuale capo scorta di Nino Di Matteo, Saverio Masi, che accumula note di merito eccellenti fino a quando non individua il covo di Provenzano. Da quel momento in poi, viene trattato alla stregua di un delinquente. Come si fa la guerra alla mafia in queste condizioni?

«La mafia non sarebbe mafia se non avesse dei complici dentro gli apparati. Il libro è di 30 anni fa e racconta di processi aggiustati e il simbolo di questi processi aggiustati è quello che riguarda l’uccisione del Capitano Basile. E’ il processo più tormentato della storia giudiziaria per quanto riguarda la mafia. Hanno provato a condizionarlo e ad aggiustarlo da dentro il palazzo di giustizia in tutti i modi ma non ci sono riusciti. Prima dell’era Falcone, i processi a Palermo si trattavano nei corridoi, nei villini a mare…non si discutevano nelle aule di giustizia. I mafiosi stavano in carcere pochi mesi o pochi anni, ma sapevano che dovevano uscire. Dopo l’arrivo di Falcone e Borsellino, avviene una rivoluzione e si ristabiliscono le regole. Si è scoperto che un pezzo di magistratura era complice. All’epoca però, era molto più evidente la complicità del potere, oggi è molto più subdola e meno riconoscibile. Un’antimafia legata al potere ad esempio, non è una vera antimafia. Si parla dell’isolamento di Di Matteo, non posso dimenticare, un paio d’anni fa, il vecchio CSM è andato a Palermo e il vice presidente non ha stretto la mano a Di Matteo. E’ stato un bruttissimo segnale. Di Matteo non è un buon magistrato perché indaga sulla trattativa o non è un buon magistrato in assoluto? Il vice presidente che dichiara – il protocollo mi impedisce di incontrare Di Matteo – indica un atteggiamento ambiguo».

La negazione della trattativa Stato-mafia ha raccolto molti consensi, almeno quanto oggi la giustificazione della stessa. Maria Falcone, ad esempio, ha dichiarato “Se trattativa c’è stata, non credo che si sono voluti salvare i potenti, ma che si sia cercato di proteggere la sicurezza italiana”. Eppure c’è una sentenza che ne prova l’esistenza. La trattativa c’è stata. Ma l’oggetto dell’accordo qual é stato secondo lei? Lunghe latitanze e mancata perquisizione del covo di Riina per cominciare?

«Ci sono verità indicibili. Gli Stati, non solo l’Italia, hanno sempre trattato con le classi pericolose. Non sono corpi fuori dalla società. La trattativa c’è stata prima, durante e dopo le stragi che poi questa abbia rilevanza penale o meno non è fondamentale. Il negazionismo va molto di moda, ad esempio – Roma mafia capitale – è altrettanto evidente che ci sono organizzazioni mafiose radicate da decenni a Roma ma la maggior parte degli osservatori e della popolazione ne nega l’esistenza. Io ho seguito molto il processo di mafia capitale, sono andato in aula a Rebibbia e c’erano degli imputati, un famosissimo commercialista e un famosissimo consigliere comunale del PD, che si chiedevano – ma noi che ci facciamo qui? – non si rendevano nemmeno conto del perché fossero li. Non bluffano. E’ tanto fradicio il tessuto sociale e politico della Capitale che non si rendevano conto delle ragioni per le quali erano lì insieme al nero Carminati, un signore, che per 18 anni è rimasto libero e in un Paese civile, un personaggio come Carminati non può rimanere libero ma anche lì, siamo nelle zone di confine dove non sai mai chi è guardia e chi è ladro. Roma come Palermo. Gli stessi contesti».

La parola antimafia, crea molti imbarazzi ultimamente. Ma è necessaria questa etichetta per dimostrarsi ostili all’azione mafiosa?

«L’antimafia c’è sempre stata anche quando non si chiamava antimafia. L’antimafia moderna nasce subito dopo il delitto Dalla Chiesa e si è allargata estesa e diffusa dopo le stragi del 92. Io credo che abbia avuto una funzione veramente importante l’antimafia sociale in Italia fino a qualche anno fa ma poi, c’è stata una degenerazione dello spirito originario. Bisogna fare una distinzione tra la mafia che si traveste da antimafia, tra dei sistemi imprenditoriali mafiosi che occupano potere e l’antimafia che è degenerata. E’ vero che ci sono dei cerchi che mettono in relazioni queste tre realtà, però bisogna distinguerle. C’è l’antimafia dei finanziamenti pubblici da centinaia di migliaia di euro e l’antimafia dei funzionari delle grandi associazioni che provengono da un sottobosco politico. Bisognerebbe fare un esperimento: togliere per u paio d’anni un bel po di finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un fuggi fuggi generale. In alcuni casi, c’è la complicità del ministero degli Interni che concede finanziamenti esorbitanti per dei progetti che, vien da chiedersi, saranno andati a buon fine con tutti i milioni stanziati? Ho conosciuto un signore di Avviso Pubblico, che gira l’Italia battendo cassa alle amministrazioni per organizzare convegni con partecipanti zero. Sono personaggi improbabili che si improvvisano esperti di mafia, che parlano di legalità e che vanno in giro per l’Italia a proporre pittoreschi kit per la legalità. Ma intorno alla maggior parte di queste realtà c’è solo un obiettivo, rastrellare denaro pubblico. Bisogna chiudere i cordoni della borsa. Poi c’è un’antimafia sociale che è ostile ad ogni dialogo, alcune realtà sembrano sette, appena uno le critica viene accusato di essere mafioso. Io non ne posso più di questi predicatori della legalità, imbonitori e saltimbanchi. Hanno messo su un circo. E a proposito dei predicatori della legalità, è molto grande la distanza tra quello che urlano nelle piazze e quello che in realtà fanno. Un altro tema interessante è quello delle costituzioni di parti civile: quando un’associazione accompagna un commerciante, un imprenditore che denuncia la mafia lungo tutto il percorso – lo porta dalla polizia, dal magistrato, lo convince a collaborare – è giustissimo che si costituisca parte civile perché ha partecipato al percorso che porta al processo. Ma questo baraccone delle parti civili che c’è oggi in Italia è scandaloso. Mi viene in mente un’associazione a Marsala che si chiama Paolo Borsellino, è formata da un solo avvocato che non fa nulla tutto l’anno, ma ha pensato bene di costituirsi parte civile al processo Aemilia e per questo ha ricevuto un risarcimento. C’è poi il caso di un comune sciolto per mafia – come quello di Brescello – che ha perfino ricevuto un indennizzo dopo la costituzione di parte civile al processo Aemilia. A questo punto credo che bisogna ridimensionare i finanziamenti alle associazioni antimafia perché sono emerse troppo vergogne».

Un sentito grazie a Sabrina D’Elpidio e Annalisa Insardà per aver contribuito alla realizzazione di questa intervista.

La giustizia è Cosa Nostra. Edito da Mondadori, 1995, di Attilio Bolzoni, Giuseppe D'Avanzo. E' un libro che si legge tutto d'un fiato. Racconta di giudici e di boss, di avvocati e di politici, di processi di mafia pilotati e di inchieste insabbiate, di Palazzi di Giustizia condizionati dal volere degli uomini d'onore. E ripercorre alcuni scabrosi episodi che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sono diventati clamorosi "casi giudiziari". E' scritto a quattro mani da Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo, due tra i più bravi cronisti italiani di storie di mafia. 

Lo stato nascosto. Le trattative che portarono alla pax mafiosa. Libro di Antonio M. Moccia, Rosalia Monica Capodici. Questo è un libro diverso, particolare, una riflessione, che gronda in ogni sua pagina della passione civile degli autori, sugli aspetti più delicati dell'intero sistema criminale mafioso. Quelli che hanno condizionato, e continuano a condizionare, la nostra democrazia ed un quadro politico istituzionale sempre più esposto alla erosione del cancro mafioso. Si parla, e lo si fa con cognizione di causa e grande onestà intellettuale, dei nodi essenziali del sistema di potere mafioso: il rapporto con la politica, i tanti compromessi, la mediazione, i sotterranei "dialoghi pericolosi" tra lo Stato e la mafia, l'isolamento e la delegittimazione di tanti uomini delle istituzioni che, sull'altare della convenienza o dell'opportunità politica, sono stati traditi dallo Stato prima di essere uccisi dal tritolo o dal piombo dei mafiosi.

Recensione Libro: Lo stato nascosto. Per il politico, stringere il patto con l’organizzazione mafiosa significa insomma effettuare una precisa scelta di campo. Significa impegnare, da subito, i propri futuri comportamenti, anche sul piano istituzionale, in una logica di servizio a beneficio degli interessi dell’organizzazione. Di cosa parla Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia. Ci sono argomenti come quello trattato nel libro Lo stato nascosto – le trattative che portarono alla pax mafiosa di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia che non solo devono essere discussi ma anche approfonditi per ricordare che bisogna lottare contro i poteri violenti e che per quanti anni siano passati dalle stragi di Falcone e Borsellino non è cambiato poi molto. Da questo libro degno di attenzione – già solo per la sfida lanciata dai due scrittori di portare alla luce fatti ai più celati che riguardano la gestione dello Stato da parte della mafia, – Capodici e Moccia sono riusciti a dare una visione globale del potere nascosto utilizzando i fatti e non le teorie. Nel libro Lo stato nascosto, infatti, si utilizzano le sentenze, i risultati dei processi, ma non quelli conosciuti ai più, al contrario si porta alla luce tutto ciò che i giornalisti hanno trascurato, non sappiamo ovviamente se la distrazione da parte della stampa è stata voluta o meno. Quel che conta adesso è sapere. Tutto ciò che viene raccontato in questo libro ci riguarda da vicino, fa parte della nostra quotidianità senza che in alcuni casi ce ne rendiamo conto ed è per questo che è fondamentale aprire gli occhi sulla verità e scoprire chi gestisce la maggior parte della nostra ricchezza, delle nostre stanze di potere, dei traffici e di parte della società. La presenza della mafia si è diffusa a qualsiasi livello e settore: che si tratti di istituzioni o quartieri non c’è distinzione, perché le organizzazioni criminali sono ormai ovunque. Le conseguenze che portano questo sistema criminale possiamo prevederlo e osservarlo continuamente, basta guardare il telegiornale, ma la mafia condiziona la democrazia anche quando non ce ne rendiamo conto, è questo che tendono a sottolineare con il loro libro Capodici e Moccia. Ciò che viene portato sotto i riflettori, e quindi alla portata di tutti i lettori, è il rapporto che intercorre tra Stato e mafia, i compromessi a cui vanno incontro chi gestisce la politica, ma nel libro Lo stato nascosto c’è anche spazio per gli eroi che hanno combattuto e purtroppo sono caduti per tradimento o isolamento sotto il nemico. Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia, pubblicato dalla casa editrice Salvatore Insenga Editore va letto e discusso senza ombra di dubbio. Vorrei concludere citando una frase di Paolo Borsellino che potete leggere nella prefazione di Nino Di Matteo: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”

La vera ‘ndrangheta e quei «quattro storti» che ci credono ancora, scrive Felice Manti il 19 luglio 2016 su “Il Giornale”. È stata una settimana horribilis per la ’ndrangheta. Altri 100 arresti tra la provincia di Cosenza e la Liguria, con le famiglie «in trasferta» che facevano affari sulle opere pubbliche grazie a una coop con interessi in settori diversissimi come movimento terra, import-export di prodotti alimentari, sale giochi e piattaforme di scommesse online, lavorazione dei marmi, autotrasporti e rifiuti speciali, produzione e commercializzazione di lampade a led. Due parlamentari come Antonio Caridi di Gal e Pino Galati di Ala considerati al servizio delle famiglie di ’ndrangheta anche a causa di un paio di intercettazioni telefoniche che non lasciano spazio a troppi dubbi. Funzionari delle Agenzie delle Entrate che trescavano con la ’ndrangheta. Il boss del pesce Franco Muto che con il suo clan controllava «ogni respiro» tra Cetraro e Scalea (in provincia di Cosenza) da 30 anni, e prima ancora una Spectre politico-affaristico-massonica guidata dall’ex deputato Psdi Paolo Romeo, già noto alle forze dell’ordine sin dall’operazione Olimpia – che sta alla ’ndrangheta come il cosiddetto maxiprocesso di Falcone e Borsellino sta alla mafia – come referente della mafia calabrese che avrebbe deciso a tavolino tutte le elezioni degli ultimi 15 anni (a volte puntando però su qualche candidato sbagliato ma tant’è) coinvolto anche nelle recentissime inchieste Fata Morgana e Reghion sul condizionamento della criminalità al Comune di Reggio, sciolto per contiguità con la ‘ndrangheta. È la prova dell’esistenza dei cosiddetti Invisibili cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo, una sorta di ’ndrangheta superiore che comanda sulla fazione criminale ma di cui la stragrande maggioranza degli affiliati non conosce l’esistenza, come dimostrerebbe l’inchiesta Mammasantissima, e che avrebbe agevolato la latitanza di personaggi che fanno comodo alle cosche (vedi l’inchiesta Breakfast), da Amedeo Matacena al capo della mafia Matteo Messina Denaro, con in mezzo un peso decisivo nell’inchiesta Mafia Capitale. Allora c’è qualcosa che non torna. Facciamo un salto di sei anni. Alla fine del 2010, nel libro Madundrina scritto con Antonio Monteleone, scrivevamo: «Forze occulte, servizi deviati, poteri forti e massoneria. Come si combatte un nemico invisibile? Ma, soprattutto, come si dimostra la sua esistenza? Gli inquirenti devono dare una risposta anche a questo quesito». E già allora riportavamo una frase captata durante una delle oltre 500mila intercettazioni, contenuta nelle 52 inchieste passate al setaccio dagli inquirenti, in cui a parlare era un sindacalista, e qui riprendo da Madundrina «che viene descritto dai magistrati come “anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico-reggina” e promotore di “una sorta di cupola” (…) perché parte del contesto criminale (…) definito degli “invisibili”. Si chiama Sebastiano Altomonte. Intercettato al telefono con la moglie, a margine di una conversazione su alcuni dissidi locali parla anche della ’ndrangheta invisibile. “Effettivamente gli invisibili siamo cinque (…), lo sanno solo nel provinciale (…)”. Chi sono questi cinque? Che cosa vogliono? Per chi lavorano? Come fanno a sapere tutto? E quanto vale, nell’economia della ’ndrangheta, un’operazione mostruosa come quella congiunta di Milano e Reggio Calabria (parlavamo di Crimine e Infinito, nda), se i boss sapevano tutto (grazie alle rivelazioni di Giovanni Zumbo, legato ai servizi segreti, nda)? Chi comanda veramente?». Chi legge questo blog sa cosa penso delle operazioni di ’ndrangheta del 2010 che hanno ispirato il libro, recentemente definite dalla Cassazione come «sentenze storiche» perché definiscono per la prima volta l’unitarietà della ’ndrangheta. Delle due l’una. Perché o ha ragione il procuratore antimafia Ilda Boccassini quando dice che con Infinito si è smantellata la ’ndrangheta in Calabria, quella comandata dal boss scissionista Carmelo Novella, ammazzato come un cane (ma il mandante è ancora oscuro…) perché voleva sganciarsi dalla Calabria, quella del summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, quella zeppa di gente senza precedenti penali e senza reati fine oggi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa che non hanno neanche mai sparato un colpo di pistola per sbaglio. E che la ‘ndrangheta calabrese fosse comandata da Domenico Oppedisano, che prima di diventare famoso come capo della ’ndrangheta vendeva piantine vicino allo svincolo di Rosarno, talmente pericoloso che di recente è uscito dal regime di carcere duro, il famigerato 41bis. Un esperto in affiliazioni, vero, uno che mangiava pane e ’ndrangheta certamente, ma non un capo. E d’altronde anche il procuratore antimafia Nicola Gratteri lo sostiene con forza. D’altronde, dell’esistenza della maxi inchiesta erano al corrente molti boss, come è emerso dalle intercettazioni. Oppure la ’ndrangheta che conta quella vera, è altro. È difficile pensare che i boss arrestati fossero veramente a capo della ’ndrangheta milanese mentre facevano il bello e il cattivo tempo altri boss del calibro di Paolo Martino, killer dormiente imparentato con il potentissimo clan dei De Stefano e considerato il vero tesoriere della ’ndrangheta a Milano (solo per fare un esempio). Oggi sappiamo con certezza che una Spectre aveva in mano i destini della politica e trescava facendo affari con parlamentari e coop, anche alle spalle dei picciotti. E se avesse ragione il boss della ’ndrangheta Pantaleone Mancuso, che intercettato dice testuale: «(Ci sono) quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta… hanno fatto la massoneria… il mondo cambia…»? E se la Boccassini avesse arrestato proprio quei quattro storti, gente che non ha mai tenuto una pistola in mano?

Crocetta e i gran maestri della massoneria convocati in commissione nazionale antimafia. Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione, scrive Rino Giacalone il 30/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia all’indomani delle audizioni in Sicilia, ha convocato il presidente della Regione Crocetta e i gran maestri degli ordini massonici per approfondire i temi emersi nel corso della missione a Palermo e Trapani, dove tanto si è parlato di indagini giudiziarie che riguardano i contatti diventati stretti tra mafia e massoneria. Un fronte che non serve solo, hanno detto in audizione i magistrati di Trapani e Palermo, a coprire la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro, ma rappresenta la nuova stagione criminale di Cosa nostra che se non spara più, grazie al sostegno della massoneria, «ha migliori capacità di inquinare i settori della vita politica, sociale ed economica del territorio» ha tra l’altro affermato la presidente della commissione Rosy Bindi.  Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione Rosario Crocetta. Certamente tra le domande che attendono il governatore siciliano quelle relative a Patrizia Monterosso segretario generale di Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione Sicilia. Il nome della Monterosso nel corso del processo a Catania contro l’ex governatore Raffaele Lombardo, è stato fatto dal pentito agrigentino Giuseppe Tuzzolino. Tuzzolino ha affermato che la Monterosso farebbe parte di una loggia massonica di Castelvetrano, dove avrebbe fatto da garante ad una serie di affari sugli impianti eolici. La Monterosso ha già smentito la circostanza: «Non appartengo alla massoneria, le uniche volte in cui mi sono imbattuta in cose che riguardano questo tipo di associazione sono state delle mail ricevute all’indirizzo istituzionale della segreteria generale, nel luglio 2015 ho ricevuto due messaggi da una loggia di Catania, c’era una lista di 17 nomi, forse si trattava di iscritti, ma io ho subito denunciato alla Polizia Postale di Catania, a novembre 2014 nella casella di posta è arrivata una email del Grande Oriente d’Italia, direttamente da Palazzo Giustiniani. Anche in questo caso ho denunciato».  In commissione nazionale antimafia però la circostanza ha suscitato attenzione. Critico è stato il leghista “siciliano” Angelo Attaguile: «Come siciliano - ha detto - sono preoccupato, i politici passano i burocrati restano, da siciliano mi preoccupo che al Governo regionale ci siano funzionari e burocrati che non dovrebbero stare al loro posto».  Mantenendo poi fede a quanto annunciato in Commissione nazionale antimafia sono stati convocati gran maestri degli ordini massonici, il prossimo 3 agosto verrà sentito in gran maestro del Grande Oriente Stefano Bisi. La presidente Bindi ha spiegato a Trapani il perché di queste convocazioni, «intendiamo sapere se siano a conoscenza di logge segrete nel trapanese, della cui esistenza abbiamo appreso dai magistrati e soprattutto come intendano comportarsi». 

Il caso Trapani: una saldatura tra mafia e massoneria. La visita della Commissione in Sicilia. Bindi: “Sui beni confiscati abbiamo dato troppa voce in capitolo all’agenzia regionale”, scrive Rino Giacalone il 21/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia è pronta ad aprire un caso Trapani e denuncia: «la latitanza di Matteo Messina Denaro è coperta da intrecci tra mafia e massoneria altolocata». Massoneria che oggi starebbe cavalcando un forte attacco contro la magistratura trapanese: «certe indagini stanno dando fastidio». Forti i toni usati dalla presidente Rosy Bindi, ma anche dal suo vice Claudio Fava, dai commissari Davide Mattiello (Pd), dai 5 Stelle Mario Giarrusso e Francesco Dell’Uva e dal leghista siciliano Angelo Attaguille. «Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi - dice la presidente Bindi - abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese».  Se volete venire a conoscere cos’è la nuova mafia, che c’entra tanto con le stragi del 1992, bisogna venire in provincia di Trapani. E la commissione antimafia su questo ha raccolto tanto ascoltando magistrati, giudici, investigatori. Claudio Fava: «Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria ed è strano che esista un concentrato di logge segrete a Castelvetrano, la terra del boss latitante Matteo Messina Denaro e del suo sistema di potere». «In questa provincia - dice il deputato Davide Mattiello - bisogna ricercare quell’accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull’esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito coperture altolocate per la sua ventennale latitanza».  I magistrati trapanesi ascoltati, a cominciare dal procuratore Viola, hanno confermato indagini aperte sul fronte della massoneria ma hanno consegnato precisi elementi dei contrasti che la magistratura trapanese subisce. «Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - racconta il senatore Mario Giarrusso - abbiamo sentito parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole che altri giudici usavano a Trapani negli anni ’80, quando si scopriva la loggia segreta Iside 2. Abbiamo sentito i magistrati inquirenti che si sono detti non al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio». «C’è una Procura sotto tiro - dice il vice presidente Fava - sotto le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti».  La presidente Bindi ha annunciato che verranno convocati i vertici degli ordini massonici, i Gran Maestri saranno convocati in commissione: «Chiederemo loro se sanno di logge segrete e se sanno perché non hanno denunciato, se invece non sanno chiederemo che agiscano per espellere questi corpi fornendo collaborazione all’autorità giudiziaria». Tanti i temi toccati, con l’annuncio, dopo avere ascoltato in giudici della Corte di Assise, Pellino e Corso, che verrà aperto un approfondito esame sui depistaggi emersi durante il processo per il delitto di Mauro Rostagno. Affrontato anche il tema della gestione dei beni confiscati, partendo dall’assedio che oggi continua a subire la Calcestruzzi Ericina, l’impresa confiscata al boss di Trapani Vincenzo Virga. C’è un progetto che prevede di mettere in rete la Calcestruzzi Ericina e tutte le imprese del settore che producono calcestruzzo, oggi sequestrate e confiscate.  Ma il progetto registra forti ritardi nell’attuazione e i ritardi stanno tutti dentro l’agenzia nazionale dei beni confiscati. La commissione ha puntato attenzione sulla sede regionale dell’agenzia e la Bindi ha chiosato: «Credo che sia stata lasciata all’agenzia regionale troppa voce in capitolo». Infine è stato affrontato il caso Castelvetrano, dove il Consiglio dopo un tira e molla si è sciolto per non far restare consigliere quel Lillo Giambalvo intercettato a esaltare la figura del latitante Matteo Messina Denaro. A Castelvetrano la commissione ha registrato attraverso le audizioni un maxi concentrato di logge, troppe per il territorio che protegge la latitanza di Matteo Messina Denaro.  La commissione ha sentito il sindaco di Castelvetrano Felice Errante e l’ex capogruppo del Pd Pasquale Calamia. «Ci saremmo aspettati una presa di distanza del sindaco di Castelvetrano che non c’è stata» ha detto la presidente Bindi e il vice presidente Fava continua: «Se Castelvetrano fosse in Baviera non ci porremmo il problema di una Giunta dove siedono tre assessori appartenenti alla massoneria, ma si tratta della città di Messina Denaro». E sul boss, latitante dal 93, la presidente Bindi aggiunge: «Aspettiamo anche noi la buona notizia della cattura».  

"Nel Trapanese una nuova cupola fatta di mafia e massoneria", scrive Rino Giacalone il su "Live Sicilia" il 20 luglio 2016. "Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese". Sono le parole della presidente della commissione parlamentare antimafia, on. Rosy Bindi, espresse a conclusione della tre giorni siciliana, una missione durante la quale numerose sono state le audizioni ma c'è stata anche la significativa presenza alle manifestazioni a ricordo dei 24 anni dalla strage di via d'Amelio. "Abbiamo ritardi anche politici da scontare - ha detto ancora l'on. Bindi -. Falcone e Borsellino non sono stati mai ascoltati da una commissione antimafia, a 24 anni dalla strage di via d'Amelio abbiamo ascoltato Lucia Borsellino, figlia del procuratore aggiunto paolo ucciso con la sua scorta il 19 luglio del 1992, a lei abbiamo promesso il nostro impegno, ma dobbiamo anche dire che si tratta di restituire non solo a lei e alla famiglia Borsellino, e ancora alla famiglia Falcone, alle famiglie dei poliziotti uccisi, dobbiamo restituire al paese segmenti di verità che appartengono al Paese". Commissione antimafia che ha raccolto tanto sulla mafia in provincia di Trapani, ascoltando magistrati, giudici, investigatori. "Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria, anomalo che un concentrato di logge segrete esiste a Castelvetrano, la terra - ha detto il vice presidente della commissione antimafia Claudio Fava - dove il boss latitante Matteo Messina Denaro ha costruito il proprio sistema di potere". "Lavoreremo per capire meglio - ha aggiunto il deputato Pd Davide Mattiello - ma abbiamo la forte impressione che qui bisogna cercare quell'accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull'esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito altolocate coperture per la sua ventennale e perdurante latitanza". "Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - ha detto il senatore Mario Giarrusso di 5 Stelle -, non è possibile sentire parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole di altri magistrati, quando a Trapani negli anni '80 si scopriva la famosa loggia segreta Iside 2". E un quadro pesante a proposito degli uffici giudiziari trapanesi emerge al termine delle audizioni fatte a Trapani dalla commissione parlamentare antimafia. Situazione che ha spinto la presidente Rosy Bindi a ipotizzare la possibilità che a parte la relazione finale prevista a fine legislatura su tutte le missioni svolte nel corso del mandato parlamentare, su Trapani potrebbe esserci una specifica relazione. Sullo scenario già descritto delle connessioni tra mafia e massoneria, si è sviluppata una attenzione che poteri occulti dedicano proprio alla Procura di Trapani, "nel 2016 - ha detto il senatore 5 Stelle Giarrusso - sentiamo magistrati inquirenti che non dicono non sentirsi al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio, un clima assurdo che rimanda ad altri tempi ed altre vicende". Sulle parole di Giarrusso si sono ritrovati altri commissari come Fava, vice presidente della Commissione antimafia: "Siamo preoccupati del clima pesante che riscontriamo nei confronti degli uffici giudiziari, abbiamo l'esatta percezione che c'è una Procura sotto tiro, con intrusioni e pedinamenti, sono le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti, la Commissione avrà scrupolo e attenzione". Su questi temi sono stati sentiti dalla commissione antimafia in prefettura a Trapani il procuratore della Repubblica Marcello Viola ed i pm Marco Verzera e Andrea Tarondo, e le dichiarazioni rese dai magistrati sono state secretate. In particolare la commissione antimafia ha ascoltato i giudici della Corte di Assise che hanno processato e condannato due boss mafiosi all'ergastolo, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, per il delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, risalente al 1988. "Abbiamo apposta voluto ascoltare i giudici Angelo Pellino e Samuele Corso, presidente e giudice a latere della Corte - ha detto il presidente Bindi - perché interessati al processo e interessati a conoscere la fase dei depistaggi". "Non escludo - ha aggiunto il vice presidente Claudio Fava - che per questo delitto si faccia ciò che è stato fatto per altri analoghi delitti". Chiaro il riferimento alla costituzione di una commissione che come è stato fatto per il delitto di Peppino Impastato, si occupi anche del delitto Rostagno.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, scriveva già a suo tempo Salvo Palazzolo. "Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta. "L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconocimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge. Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani". Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, attuale capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta. Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970. Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina. Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo. Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni. 

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante. "Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:

- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;

- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;

- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore". Salvo Palazzolo

LE TERRE DEI FUOCHI. “L’Italia è una terra dei fuochi”. Lo rivela l’Istituto Superiore della Sanità. Ma l’informazione balbetta, scrive Marco Mastrandrea su "Articolo 21" il 13 gennaio 2016. «’O vogl’ squartat viv’», «‘o giurnalist’ je a spacc a cap’», «ve ne dovete andare». Sono solo alcune delle parole dei camorristi che hanno minacciato e aggredito fisicamente diversi giornalisti che hanno solo svolto il proprio mestiere nella Terra dei Fuochi. Nello Trocchia, Marilena Natale, Sandro Ruotolo, per fare qualche nome. Ed è proprio Ruotolo che attualmente vive sotto scorta dopo le minacce di Michele Zagaria, numero uno del clan dei Casalesi, a scrivere dal proprio profilo facebook: con la pubblicazione dell’11 gennaio a cura dell’Istituto Superiore di Sanità emerge «il più grande atto di accusa contro lo Stato, lo si aspettava da 20 anni, ora è arrivato: l’Italia è una terra dei fuochi». Il rapporto dell’ISS giudica «in eccesso rispetto alla media regionale» il tasso di mortalità, ricoveri e tumori nell’area. L’allarme drammatico riguarda anche i bambini: «si osservano eccessi di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori e eccessi di tumori del sistema nervoso centrale, questi ultimi anche nella fascia 0-14 anni». Dopo tante difficoltà e tante battaglie condotte da giornalisti, studiosi, comitati e società civile finalmente una notizia che determina la gravità in cui versa un’area dove è presente un’importante fetta della popolazione campana. Ma se alcuni si sono sacrificati per raccontare una terra in difficoltà e soggiogata alla camorra, i quotidiani del 12 gennaio non sembrano ritenere i dati del rapporto ISS un caso grave, al punto tale da compiere una scelta editoriale di rilievo. Per “Il Mattino”, storico quotidiano partenopeo, la notizia va collocata nella sezione locale e solamente dopo il dibattito attorno alle comunali 2016 e la “festa dall’avvocato al barista” in doppia pagina sul Napoli, infatti, la squadra di calcio ha vinto il cosiddetto “campionato d’inverno”. E pensare che gli ultimi giorni del 2015 “Il Mattino” aveva rivelato con un’inchiesta di Gigi Di Fiore in parte le cifre contenute nel rapporto dell’ISS. Per il “Corriere della Sera” la notizia va posta nella sezione cronache a pagina 22 e dedica un minibox nella parte inferiore della prima pagina; la vicenda non viene menzionata affatto dalla prossima quarantenne “La Repubblica”. “Il Tempo” si arrischia con il titolo ad effetto: “La Terra dei Fuochi rom: 2000 roghi”, un’inchiesta in cui dall’area campana si fa un balzo nella Capitale con tanto di mappa corredata. Il lavoro del quotidiano si concentra su “la Terra dei Fuochi de’ noantri” con il dito puntato nei confronti della situazione “esplosiva nei campi rom”: appena citata la vicenda campana che funge da allaccio per l’inchiesta romana. D’altra parte, le parole di Sandro Ruotolo spingono ad approfondire il lavoro giornalistico e l’impegno di tutti attorno alla vicenda come necessità da cogliere in quanto sfida quotidiana non solo per chi abita queste terre: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più. Non sono Howard Beale del Quinto potere. E non sono uno scienziato. Ma un giornalista che ha raccontato la terra dei fuochi. Accusato di aver “esagerato”, di essere un catastrofista. Il rapporto dell’istituto superiore della sanità è una pessima notizia per tutti, perché purtroppo certifica quello che tutti sapevano e che in tanti hanno finta di non sapere. La terra dei fuochi è diventata la terra dei morti per avvelenamento. Noi che siamo vivi non lo possiamo sopportare più».

Il poliziotto comunista che ha scoperto la terra dei fuochi. Roberto Mancini è l'investigatore che per primo si è messo sulle tracce dei veleni sversati in terra di Gomorra. "Io morto per dovere" è il libro in uscita la prossima settimana che racconta la sua storia: dal collettivo comunista alle informative in cui descriveva il sistema camorra- massoneria- politica che ha ucciso un'intera regione. Fino alla sua morte, stroncato da un tumore contratto durante i sopralluoghi sui terreni colmi di veleni, scrive Giovanni Tizian il 5 febbraio 2016 su “L’Espresso”. Dalla barricate degli anni '70 alla trincea della terra dei fuochi. Sempre in prima linea. Sempre a sinistra e per la giustizia sociale. Nel collettivo studentesco del liceo Augusto di Roma all'alba degli anni di piombo, e poi poliziotto col Manifesto sotto braccio. Con o senza divisa, Roberto Mancini non ha mai abdicato ai suoi ideali. A 17 anni lottando con i “compagni” per una società più giusta, a 20, con il tesserino da sbirro, indagando sui crimini più squallidi. Il poliziotto Mancini non è un eroe. Negli ultimi anni della sua vita ha tentato in tutti i modi di sfuggire a questa etichetta. Lui sapeva bene che gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani. È comodo indicare l'eroe e poi starsene sul divano a guardare le imprese dei tanti paladini che salveranno questo mondo. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. I suoi sopralluoghi sui terreni inquinati e l'aria avvelenata respirata durante l'inchiesta sono stati la causa della malattia che lo ha ucciso lentamente. La storia di Roberto adesso è un libro dal titolo "Io, morto per dovere" in uscita il 12 febbraio. Scritto dai giornalistiLuca Ferrari e Nello Trocchia, edito da Chiarelettere, con la prefazione di Beppe Fiorello e la postfazione della moglie Monika Dobrowolska Mancini. La vita del poliziotto che scoprì la terra dei fuochi sarà anche un fiction (in onda il 15 e il 16 febbraio su Rai Uno), e sarà proprio Fiorello a interpretare Mancini. Il libro è un racconto intimo della gioventù di Roberto. Gli scontri coi fascisti e le sassaiole negli anni caldi delle rivolte, il sogno della rivoluzione, la vicinanza a Democrazia proletaria, la ferma condanna della lotta armata. E infine, quando il sogno di un mondo migliore era ormai stato distrutto dal piombo dei terroristi rossi e neri e dal compromesso storico, la scelta di entrare in polizia, «perché bisogna provare a cambiare il sistema dall'interno», tenendo sempre ben distinte la parola legalità dal concetto di giustizia sociale, che non sempre coincide con la prima. Frammenti di vita, speranze e illusioni, che gli autori riportano fedelmente facendo parlare i testimoni di quel periodo e gli amici più cari di Mancini. La prima parte del libro è un flusso di emozioni. La passione politica e l'impegno che pagina dopo pagina si trasformano in delusione per come evolve la società, stretta tra violenza e ingiustizia sociale. Ma “Io morto per dovere” è soprattutto un focus sul lavoro del poliziotto comunista. Le sue inchieste, le sue informative, i suoi rapporti inediti inviati alla procura antimafia di Napoli. Nomi, cognomi, affaristi dei rifiuti, massoni, politici complici che negli anni sono stati promossi a incarichi di prestigio. Un buco nero della democrazia dove regna il malaffare. Tutto questo, Roberto, l'aveva scritto prima di tutti gli altri detective. L'aveva intuito e indagato. L'informativa più importante di tutte è quella dei primi anni '90. Lì, tra quelle pagine intestate Criminalpol, c'era già tutto il sistema svelato dalle inchieste del 2000. Gomorra, Mancini, l'aveva conosciuta e raccontata due decenni fa. Ma nessuno lo ascoltò. Fino a quando un magistrato di Napoli non ha alzato il telefono e lo ha chiamato nel suo piccolo ufficio del commissariato di San Lorenzo. La richiesta del pm è semplice: gli chiede di sbobinare tutte quelle telefonate della sua vecchissima informativa perché gli servono nel processo contro Cipriano Chianese, l'inventore dell'ecomafia, il broker dei veleni, ora sotto accusa per disastro ambientale. Finalmente, l'impegno di Mancini viene riconosciuto. Chianese ha lavorato indisturbato fino ai primi anni del Duemila. Nelle discariche gestite da Chianese sono finite le schifezze d'Italia. Rifiuti industriali delle aziende del Nord. E rifiuti “legali” con l'autorizzazione dello Stato. Eppure, quel Chianese è lo stesso che Mancini descriveva, già nel '90, come un pezzo grosso del business illegale della “monnezza”. Quando era un avvocato, di Forza Italia, candidato al Parlamento. A metà tra massoneria, camorra e politica. Una cerniera tra tre mondi, i cui interessi stavano avvelenando una terra bellissima e fertilissima. Se solo quel documento eccezionale fosse stato considerato nella sua importanza probabilmente quei territori non sarebbero stati uccisi. Ormai è tardi per impedirlo. L'omicidio ambientale è compiuto. Roberto Mancini è morto di tumore. I complici insospettabili del clan dei rifiuti hanno fatto carriera. Ma non tutto è finito, non tutto è perso. C'è ancora una speranza per Roberto. È nell'opera di verità che sta cercando di compiere il pool antimafia della procura di Napoli. Il magistrato Alessandro Milita rappresenta l'accusa contro Chianese. In quel processo i rapporti firmati Mancini stanno giocando un ruolo decisivo. Dà fastidio alla camorra anche da morto. E in fondo, il compagno Roberto è contento così.

La fondina a destra e «il Manifesto» sotto braccio. Pubblichiamo un capitolo tratto dal libro 'Io, morto per dovere' di Luca Ferrari e Nello Trocchia, sulla storia del poliziotto Roberto Mancini. La storia è diventata anche una fiction, interpretata da Giuseppe Fiorello, in onda su Raiuno il 15 e il 16 febbraio, scrive il 5 febbraio 2016 “L’Espresso”. In libreria dal 12 febbraio per Chiarelettere il libro "Io morto per dovere, la vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi" di Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini. La storia è diventata anche una fiction per la televisione, interpretata da Giuseppe Fiorello, che sarà trasmessa su Raiuno il 15 e il 16 febbraio. Quando Roberto parte per Trieste per seguire un corso di sei mesi, mamma Giovanna alla stazione Termini lo stringe in un forte abbraccio. Non una lacrima di fronte a lui, ma a casa afferra i panni del ragazzo, li annusa, se li passa sul viso e scoppia in un pianto dirotto. «Robe’, sei nato per farmi soffrire» ripeterà per giorni nella sua solitudine. Un nuovo cambiamento radicale, l’arruolamento in polizia dopo gli anni del liceo vissuti con la paura costante guardando in tv gli scontri di piazza e pregando perché il figlio «ribelle», come lo chiamava una delle sue docenti, tornasse a casa sano e salvo. E pensare che poco dopo sarebbe arrivata anche l’assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, ma Roberto ha fatto ormai la sua scelta definitiva: sarà uno sbirro in prima linea e non un capotreno. In quel periodo Mancini tiene un fitto carteggio con Gianni Angelici e la corrispondenza con l’amico scolpisce il suo stato d’animo. «Il mio allontanamento altro non è stato che il “frutto dei tempi”, non trovarsi più a proprio agio nell’ambiente nel quale sono cresciuto, in cui ho passato i momenti più belli e divertenti nonché i più tristi. Ho condiviso con tutti voi i miei pensieri, i miei stati d’animo di persona triste, ma a un certo momento mi sono reso conto che quelle cose erano ormai superate, storicamente determinate, e che era inutile continuare a vivere situazioni ormai passate, che era futile impegnarsi per ricercare episodi e momenti che, a loro tempo, avevano suscitato emozioni originalissime, ma che ora risultano assiduamente patetiche e nostalgiche.» E ancora: «La tristezza sale sempre più, il senso di nullità pervade tutto il mio essere». Roberto rimugina i pensieri mentre li scrive, quel cambiamento in atto lo sta mettendo senz’altro a dura prova: «Sono privo di qualunque certezza. Mi aiuterebbe molto in questo momento, e anche in altri, averti vicino per cercare di capirci fino al limite del possibile. [...] Erro misero e solo». Al giuramento la famiglia arriva al completo. La madre lo ritrova, fiero, dopo pochi mesi, nella sua divisa di ordinanza. C’è anche lo zio Betto, quello che era stato pestato dai neri, che si guarda intorno attonito e che mai avrebbe immaginato di trovarsi in quel luogo ad applaudire, orgoglioso, il nipote comunista e guardia. Di lì a poco Roberto sarebbe diventato il più giovane viceispettore di polizia d’Italia. Tornerà presto a Roma, al ministero dell’Interno. Come al solito testardo, capace. Sarà lui stesso, sul letto d’ospedale, poco prima di morire, a enfatizzare lo spirito che l’ha sempre contraddistinto, scrivendo: «L’essere quel che sono mi ha penalizzato. La professionalità dovrebbe essere l’unico elemento di giudizio, dovrebbe essere sempre presente nella valutazione delle capacità di un investigatore. E invece no! È obbligatorio obbedire agli ordini superiori al di là di ogni logica, al di là di ogni buon senso e così la carriera è assicurata». E ancora: «Per fare carriera devi essere quel che non sei. Devi uniformarti al comportamento della massa. Non devi discutere le decisioni dei superiori. Soprattutto non devi dimostrare che ne sai di più di chi deve decidere!». Sono queste le regole per avere successo in polizia, ma Roberto non si piega e qualcuno nell’ambiente non gli perdona il suo odio per la neutralità. «Il manifesto» sotto braccio procura la reazione di alcuni colleghi: «Ci siamo messi il nemico in casa» è la frase che serpeggia nei corridoi, e Roberto finisce a mettere in ordine le auto di servizio nella rimessa. All’Ucigos – l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali – dura poco: quello strazio, quell’ordine rarefatto, quella disciplina finta, quell’imposizione, quella boria, quel retaggio fascista non fanno per lui. Roberto parte di nuovo, inizia il suo giro per l’Italia, passerà diversi anni tra la Toscana e l’Umbria. Ogni città amori e sogni, divisa e conflitti. Tornerà a Roma alla Criminalpol per iniziare a occuparsi di crimine organizzato, siamo a metà degli anni Ottanta. Quell’esperienza lo porterà a indagare poco dopo sull’organigramma imprenditoriale, affaristico e politico che ha saccheggiato risorse pubbliche e devastato territori.

Tra roghi e indifferenza la Terra dei Fuochi continua a bruciare, scrive Marco Cesario il 3 Agosto 2015 su “L’Inkiesta”. Napoli. Il viaggio nella Terra dei Fuochi comincia quasi sempre qui, lungo una tetra strada che serpeggia tra caseggiati, pescheti e campi coltivati che s'estendono a perdita d'occhio. L’asse mediano è una strada a scorrimento veloce che collega Napoli e i comuni dell'hinterland partenopeo ai paesi del casertano. Basta percorrerne pochi chilometri per essere investiti dal lezzo acre e pungente dei roghi che spuntano qua e là nel territorio appestando l’aria di chi ci vive. Le rare piazzole di sosta che costeggiano la strada sono trasformate in improvvisate discariche a cielo aperto. Giuseppe Ruggiero, dirigente campano di Legambiente, fu il primo nel 2003 a coniare il termine “Terra dei Fuochi” in riferimento ai roghi di pneumatici e di materiali tossici che tempestavano la zona. Oggi come allora niente è cambiato e l’aria continua ad essere irrespirabile. Ogni giorno decine di segnalazioni vengono raccolte sulla pagina Facebook “La Terra dei Fuochi” mentre i riflettori su queste terre si sono quasi spenti, salvo riaccendersi improvvisamente quanto si torna a parlare di tumori che colpiscono gli abitanti della zona. Percorrendo questa strada, viene improvvisamente in mente quanto nota Alessandro Iacuelli nel suo libro-inchiesta “Le vie infinite dei rifiuti”. C'è stata una vera e propria mutazione del registro dello smaltimento dei rifiuti tossici. La tecnica di smaltimento con grossi camion e ruspe all’interno di cave abusive o laghi artificiali, dopo le decine di inchieste della magistratura, le dichiarazioni dei pentiti e i successivi scavi, è stata oramai accantonata e rimpiazzata da una nuova tecnica, più leggera ma ugualmente nociva perché costante. Il “piccolo smaltimento”. Piccoli furgoni o motocarri con fusti che vengono lasciati in un posto e poi bruciati con una tecnica rudimentale ma molto efficace: una base di pneumatici fuori uso sui quali vengono deposti i rifiuti tossici ricoperti di benzina. Spesso ad appiccare questi roghi sono poveri diavoli che non sono altro che l’ultima catena del processo. I roghi sprigionano alte colonne di fumo nero e altamente tossico. Ecco cosa rende l’aria qui completamente irrespirabile. I fusti vengono bruciati con una tecnica rudimentale ma molto efficace: una base di pneumatici fuori uso sui quali vengono deposti i rifiuti tossici ricoperti di benzina. A Frattamaggiore, Luigi Costanzo è medico di famiglia ISDE Napoli, e fa parte di una rete di medici che lavora per la creazione di un registro tumori del territorio. «Io sono medico di famiglia – spiega a L’Inkiesta Costanzo - e ho circa 1600 assistiti. Il medico di famiglia è quello che tocca con mano le realtà del territorio e conosce da vicino le patologie che ne colpiscono gli abitanti. Con altri colleghi abbiano cercato di raccogliere dei dati che noi come medici di famiglia abbiano nei nostri database. In questi database è già presente un piccolo registro tumori. Se incrociamo i dati di tutti i medici di famiglia del territorio possiamo, a tempo zero e a costo zero, effettuare una fotografia del territorio. Un progetto del genere è stato fatto a Casoria e si chiama EPI.CA (EPIdemiologia CAncro ndr). Sia i pediatri sia i medici di famiglia hanno estrapolato dei dati ed hanno dimostrato che c’è un aumento d’incidenza di tumori nel territorio dove questi medici di famiglia esercitano la propria professione. Io, per quanto riguarda la mia esperienza, ho assistito ad un aumento di patologie tumorali che colpiscono soprattutto giovani. Nello specifico per quanto riguarda il tumore alla mammella, su 1600 pazienti, ho cinque donne che sono al di sotto dell’età dello screening della mammella, che è i 45 anni, affette da patologie tumorali. Oltre a questo però, possiamo anche agire ad un secondo livello, ovvero quello della geo-localizzazione. Conoscendo dove abitano i pazienti possiamo anche geo-localizzare la malattia ovvero sapere se in una determinata area c’è una concentrazione maggiore di patologie rispetto ad un’altra. È un’operazione importante perché in quelle aree in cui ci sono picchi di malattia possiamo stabilire se è stato commesso anche qualche delitto ambientale e lasciare in seguito gli scienziati e gli epidemiologi studiare i nostri dati grezzi e stabilire il nesso e l’impatto sulla salute umana. In attesa del famoso registro tumori dunque possiamo già fornire delle prime risposte a quelli che sono i problemi che attanagliano il nostro territorio». Luigi Costanza è un medico di famiglia: «Per quanto riguarda la mia esperienza, ho assistito ad un aumento di patologie tumorali che colpiscono soprattutto giovani». Era il lontano 1991 quando un certo Mario Tamburino, camionista italo-argentino, correva in ospedale a Pozzuoli per un improvviso bruciore agli occhi che gl’impediva anche di vedere. Di li a poco sarebbe diventato completamente cieco. Quel bruciore era provocato da gocce di una sostanza corrosiva fuoriuscita dai fusti tossici (ben 571) che lui stesso aveva caricato a Cuneo, in Piemonte, presso un’azienda specializzata nello smaltimento di rifiuti pericolosi, e aveva scaricato in una fossa nelle campagne di Sant’Anastasia, a Nord di Napoli. Dall’inchiesta che ne scaturì nacque la parola “ecomafia” e si palesò un business di miliardi tra l’imprenditoria del Nord Italia e la classe politica campana. Due anni prima, nell’albergo ristorante ‘La Lanterna’ di Villaricca, un conciliabolo di politici, camorristi, mafiosi, esponenti della Loggia Massonica P2 e servizi deviati stringevano un patto diabolico per sotterrare nella Campania Felix milioni di tonnellate di rifiuti tossici. Ma gli scavi sarebbero iniziati molto tempo dopo grazie anche ad un metodo innovativo. A raccontare i passi salienti che hanno portato ai primi scavi è Sergio Costa, generale e comandante Regionale in Campania del Corpo Forestale dello Stato. «È accaduto circa quattro anni fa – dice a L’Inkiesta - quando io sono stato nominato Comandante provinciale di Napoli del Corpo Forestale dello Stato. Essendo considerato un esperto di investigazioni antimafia ambientali, ho iniziato, con quella nomina, a studiare fascicoli, a raccogliere dati e a elaborare un metodo investigativo innovativo: ho messo in relazione tutte le ortofotogrammetrie, le foto aeree degli ultimi vent’anni, le banche dati italiane, le ho raffrontate con ogni singola zona della superficie della Campania, soprattutto le zone di Napoli e Caserta, ed ho avuto l’idea di incrociarle con lo studio dei campi magnetici della crosta terrestre. Mettendo insieme foto in cui è palese che ci sono stati determinati movimenti e dati che dicono che non c’è un campo magnetico normale ma c’è qualcosa di anomalo ho tratto certe conclusioni. In più c’è stata l’attività di polizia info-investigativa (testimoni, denunce, prove sul territorio). Mettendo insieme tutti questi elementi e grazie anche alla creazione di un’équipe di esperti siamo riusciti a convincere il giudice ad effettuare il sequestro ed il successivo scavo. Col tempo abbiamo individuato le discariche di Caivano, Casal di Principe, Castel Volturno, Villa Literno, fino a quest’ultima recentissima di Calvi Risorta che potrebbe essere forse la più grande d’Europa (è grande circa 25 ettari). Finora abbiamo disseppellito circa 5 milioni di metri cubi di rifiuti tossici ma questo potrebbe essere solo il 25% del totale. Il resto è ancora da disseppellire». E i roghi quotidiani? «I roghi - spiega il generale Costa - dal punto di vista criminale, hanno la stessa matrice delle discariche abusive. Si tratta di rifiuti che attività in nero in regime di evasione fiscale ed evasione contributiva smaltiscono, seppelliscono o accatastano e bruciano. Si tratta di aziende che producono in nero e dunque smaltiscono in nero. Se non si aggrediscono queste aziende non si possono ottenere risultati di nota».

Come se non bastassero le tonnellate di rifiuti tossici seppelliti in queste terre oggi il ‘biocidio’ continua dunque sotto forma di roghi, che proliferano a tutte le ore del giorno e della notte, come ricorda l'attivista Vincenzo Petrella dei Volontari Antiroghi di Acerra. «Noi siamo un gruppo di volontari che nasce dalla necessità di dare un freno a tutti questi roghi appiccati a tutte le ore del giorno – spiega Vincenzo – e soprattutto la sera e a notte inoltrata. Giriamo la sera dalle 23 in poi facendo il giro di tutta la periferia a caccia di roghi appiccati, soprattutto in quelle campagne isolate dove potrebbero bruciare per tutta la notte e nessuno se ne accorgerebbe. Noi segnaliamo subito i roghi alle autorità e aspettiamo l'arrivo dei vigili del fuoco. Ma teniamo sott'occhio anche gli sversamenti». Enzo Tosti è un attivista che conosce molto bene le zone e fa parte del Coordinamento Comitati Fuochi. Davanti alla chiesa di Caivano, dove padre Maurizio Patriciello, simbolo della battaglia per la rinascita di un territorio inquinato dai rifiuti versati, s’appresta ad accompagnare un gruppo di missionari nella zona della discarica Resit di Giugliano, spiega: «Quando Legambiente parlò per la prima volta di Terra dei Fuochi parlava di un’area molto circoscritta, ovvero del cosiddetto triangolo della morte tra Nola e Marigliano. Oggi dobbiamo renderci conto che l’area non è soltanto circoscritta a quel triangolo ma è molto più vasta. Partiva da quelle zone per arrivare all’agro aversano e fino al litorale domizio, ovvero un’area che interessa milioni di abitanti. La zona è stata declassata da SIN (sito d’interesse nazionale) a SIR (sito d’interesse regionale) ma non perché la situazione sia migliorata ma perché lo stato se n’è voluto semplicemente lavare le mani. La Campania è soltanto la punta di un iceberg che evidenzia un sistema produttivo italiano ed internazionale non sostenibile e che non tiene conto né della vita umana né dell’ambiente. Il rogo poi non ha una matrice diversa da quella del seppellimento dei rifiuti tossici ed è strumentale ad un indotto industriale che lavora localmente al nero. Parliamo dell’industria tessile e calzaturiera locale collegata con le grandi griffe nazionali ed internazionali. A che punto siamo oggi? Tutto quello che ha sbandierato il governo non è servito a nulla perché i roghi continuano. La Terra dei Fuochi continua a bruciare». «A che punto siamo oggi? Tutto quello che ha sbandierato il governo non è servito a nulla perché i roghi proseguono. La Terra dei Fuochi continua a bruciare». Enzo Tosti, padre Maurizio Patriciello ed un gruppo di missionari si recano dunque in prossimità della discarica Resit. Qui la camorra ha sversato tonnellate di rifiuti pericolosi. Il 23 luglio scorso un incendio è divampato all’interno della discarica. Dietro le transenne ancora s’intravede un cumulo fumante. «È una sorta di autocombustione interna - nota padre Maurizio Patriciello - Chissà cosa ci hanno seppellito, qui è proprio un inferno e lo stato ci ha completamente abbandonati. Ricordo quando scoppiò il problema dei rifiuti in Campania. Ne hanno approfittato per mettere a tacere il problema più grosso e grave, ovvero quello delle discariche di rifiuti tossici». Enzo Tosti spiega che quando sei sotto vento e quell’aria ti entra nei polmoni stai male. «Io ho avuto conati di vomito e sono stato male tutto un pomeriggio dopo aver respirato quell’aria». È necessario allontanarsi dalle transenne, troppo pericoloso restare li. Dopo qualche minuto, proprio a fianco alla discarica, un contadino passa in auto. Si ferma a parlare con il parroco. «Don Maurizio - dice - qui potete aiutarci solo voi». Fa riferimento non solo alla discarica fumante che intossica l’aria ma anche a quei prodotti che non sono inquinati ma che nessuno compra più. Oramai oltre i danni ambientali ci sono anche quelli collaterali. Anche se i prodotti ortofrutticoli sono controllati e sani è difficile piazzarli sul mercato. Il vento spinge le esalazioni lontano eppure l’odore acre è insostenibile. Per evitare spiacevoli conseguenze, il gruppo si muove poche centinaia di metri più in là per un’altra visita sorprendente. Attaccato ad un'altra discarica e a poche centinaia di metri da un sito dove rifiuti pericolosi continuano a bruciare, sorge un campo rom dove risiedono settanta famiglie (circa trecento persone) di cui duecento bambini. I bambini giocano tra i rifiuti di una discarica a cielo aperto e respirano a pieni polmoni le esalazioni della discarica che pure quando il vento soffia in una certa direzione giungono fino a qui. Difficile non chiedersi come si possa lasciare vivere dei bambini in mezzo a discariche e esalazioni tossiche. È quasi come lasciarli in mezzo alle bombe. I missionari abituati a luoghi poveri d'Africa e del Sudamerica forse non si aspettavano di vedere tanta miseria e abbandono in un paese “civilizzato” come l'Italia. Uno dei responsabili del campo racconta che è lo Stato ad averli messi li dopo successivi sgomberi da altri campi. «Ci hanno messo qui per far morire i nostri bambini di tumore» protestano. Dopo un po’ il gruppo di missionari viene circondato da un gruppo di bambine. Sono incuriosite dai nuovi arrivati. Alcune sono bellissime, dagli occhi verdi ed i capelli arruffati. Altre camminano con i piedi scalzi nella melma sorridendo. Sguardi speranzosi ed innocenti il cui futuro è più cupo che mai. Il pensiero va subito ad Anna Magri, che qui, nella Terra dei Fuochi ci ha perso un figlio, il piccolo Riccardo, di soli ventidue mesi. Coi suoi grandi occhi verdi che si velano di tristezza nel ripercorrere le tappe di quella tragedia, Anna racconta la diagnosi, le cure e poi il terribile epilogo. Da allora, una ricerca continua delle cause e poi l’amara scoperta, quella Terra dei Fuochi e quelle discariche di rifiuti tossici disseminate ovunque. Dal dramma però nasce anche l’esigenza di federarsi con altre mamme, altri cittadini, attivisti per proteggere altre vite innocenti, per scoprire la verità, per aiutare questa terra martoriata a risorgere. Ultime tappa del viaggio a Villaricca. Maura Messina è nata qui ed ha solo ventisei anni quando le diagnosticano un tumore. Ha un’energia contagiosa e gli occhi che sprizzano una gioia quasi incontenibile. «Da quando sono guarita ogni giorno per me è Capodanno» dice sorridendo. Basta guardarla negli occhi per crederle. Ma la sua è stata una battaglia dura, che continua tutt’oggi. Maura racconta le cure, la paura, la difficoltà di mantenere le amicizie, il sostegno della famiglia e del ragazzo che l’hanno aiutata ad affrontare questa dura tappa della sua esistenza. Cosi, decisa a combattere contro il suo personale e terribile nemico, s'imbarca nella prova più dura e dolorosa della sua vita usando anche i mezzi della letteratura e del disegno per sopravvivere. Ne nasce così un diario che, con delicatezza, sensibilità e un tocco d'ironia, racconta per parole e per immagini la storia di una viaggiatrice in un altro mondo, quello difficile e oscuro della chemioterapia, da cui deriva il titolo del suo libro “Storia di una kemionauta” (Homo Scrivens). Non so se è la battaglia contro la malattia ad averla forgiata, la catarsi della letteratura oppure è proprio la sua natura gioiosa ma sentendola ridere di gusto tra le mura serene della sua casa è come se la Terra dei Fuochi tutta intera ridesse. Dei suoi mali, delle sue paure, della sua insospettabile forza.

Il Sud avvelenato dalla “monnezza di stato”: un nuovo libro sulla terra dei fuochi. Antonio Giordano, oncologo e docente alla Temple University di Philadelphia, e il giornalista Paolo Chiariello firmano un libro che ripercorre la storia dello scempio che ha portato alla terra dei fuochi tra le provincie di Napoli e Caserta, tra stato colluso, politica inerte, scienza negazionista e stampa omertosa, scrive Nunzia Marciano il 22 gennaio 2015 su “La Voce di New York". Monnezza di stato: è già nel titolo, esplicativo, diretto, duro, drammatico e paradossale che ben si comprende il lavoro dovizioso che diventa denuncia di Antonio Giordano, oncologo e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine della Temple University di Philadelphia (oltre che columnist di recente acquisizione de La VOCE di New York), che, a quattro mani con il giornalista Paolo Chiariello, ripercorre lo scempio che ha portato alla terra dei fuochi, al disastro tra le provincie di Napoli e Caserta. Le Terre dei Fuochi nell’Italia dei veleni, questo il sottotitolo del libro con prefazione a cura di Franco Roberti, procuratore nazionale Antimafia edito dalla Minerva Edizioni. Le “terre”, perché non c’è solo la Campania, la morte non c’è solo tra Acerra, Giugliano e Casal di Principe. Il libro va oltre. Scoperchia i legami fittissimi tra la Camorra senza scrupoli, la politica inerte, lo stato connivente, la scienza negazionista e la stampa silente. La strada per uscirne c’è, “la strategia”, ci dice Giordano, “è nelle bonifiche di quei territori e soprattutto nella prevenzione per la popolazione (3,5 milioni di abitanti, nda) che vive quelle zone. Cittadini che sono suscettibili a sviluppare patologie in maniera più elevata rispetto ad altre zone”. Tra gli aspetti clamorosi poi, c’è l’atteggiamento della scienza “omertoso”, come lo definisce Giordano, su qualcosa che si sapeva da 40 anni. E neppure la necessità di non creare allarmismo può giustificare un atteggiamento del genere, poiché, continua l’oncologo, “l’allarmismo vale se si dicono cose non vere”. 

Antonio Giordano: prima la conoscenza, poi la protesta. Quante sono le terre dei fuochi? L'Italia è tutta avvelenata?

«Nel libro analizziamo la realtà campana che, grazie all’attività della magistratura, della stampa, ma anche dei cittadini che si sono riuniti, spontaneamente, in associazioni, hanno portato alla ribalta un problema che affligge quel territorio così come altre zone d’Italia e, più in generale, del mondo. Pensiamo, ad esempio, all’Africa diventata la discarica dei Paesi più industrializzati, ma anche all’America. È evidente che il business dei rifiuti tossici è globale e che non conosce confini, tuttavia diversi sono i rimedi. In Texas, per esempio, sono state effettuate opere di bonifica che hanno drasticamente ridotto il problema e l’impatto sulla salute dei cittadini. In Italia troppo poco è stato fatto».

Nel suo libro ha evidenziato i legami strettissimi tra camorra, politica, imprenditoria e, persino scienza. Legami strettissimi, dicevamo. Come combatterli se anche la scienza diventa connivente quando nega l’evidenza?

«Il problema, come diceva, investe differenti categorie sociali. Questo è il motivo per cui non mi stanco di profondere il mio impegno all’interno delle scuole e delle università. La nostra generazione e quella precedente hanno fallito. La speranza del mondo sono i giovani di oggi»

Nel libro si parla di camorra e di mafia, ma anche di terrorismo. Qual è la differenza tra questi due tipi di criminalità?

«Sinteticamente possiamo dire che il terrorismo ha combattuto e combatte lo Stato dall’esterno mentre la camorra, così come la mafia, ha le sue estensioni e ramificazioni negli organi dello Stato attraverso referenti insospettabili e di spicco».

Il suo libro è molto divulgativo. Crede che basti scrivere per diffondere l'informazione? Crede nelle manifestazioni di piazza, nei cortei, nelle associazioni? È quella la strada da imboccare, quella della protesta?

«Credo che la protesta fine a se stessa debba essere definita sterile. La conoscenza dei problemi, invece, e la conseguente protesta, possono accendere i riflettori sulla questione ambientale e sconfiggere l’immobilismo in cui ci hanno costretti a vivere per oltre quarant’anni. Oggi i cittadini vogliono sapere, sono desiderosi di informarsi e di contare nelle decisioni che riguardano se stessi e le loro famiglie. Un esempio recente è quello dei cittadini di Ercolano che si sono stretti intorno al loro parroco, Don Marco Ricci, per raccogliere le firme e denunciare l’aumento delle patologie tumorali in una zona dove insiste una discarica di rifiuti tossici. Ecco l’opinione pubblica ha finalmente coscienza del problema e si unisce per denunciare. Dove i politici non provvedono, tradendo il mandato che gli hanno conferito gli elettori, si trovano di fronte alle proteste. È finito il tempo in cui ci si affidava alla classe politico dirigenziale. Oggi la gente ha capito che deve muoversi in prima persona».

L'America è oramai la sua seconda patria. Ma ci sono anche lì "terre dei fuochi" o è un fenomeno made in Italy?

«È innegabile che anche l’America viva il problema dell’inquinamento. La differenza rispetto all’Italia consiste nella certezza della pena. I colpevoli, una volta assicurati alla giustizia, pagano anche attraverso importanti risarcimenti ai danneggiati e alle loro famiglie. Inoltre, la classe politica americana così come quella amministrativa è più sensibile ed educata alla tutela del territorio. Forse perché beneficia, da sempre, di un maggiore e più costante ricambio generazionale».

Nel 1992, ha individuato e clonato il gene oncosoppressore RB2/p130, che ha una funzione di primaria importanza nel ciclo cellulare dal momento che controlla la corretta replicazione del DNA e, quindi, previene l'insorgenza del cancro. Lei, ad oggi, dirige lo Sbarro Istitute di Philadelphia: quali passi avanti sono stati fatti dalla sua scoperta? Ci sarà davvero un giorno la cura per il cancro? E, infine, crede che se ci fosse una cura "alternativa" questa potrebbe essere ostacolata dalle multinazionali farmaceutiche che non avrebbero interesse a diffonderla?

«I passi fatti dagli scienza dagli anni Novanta ad oggi sono immensi e sono sicuro che nel prossimo futuro ci saranno delle cure sempre più specifiche e tagliate su misura rispetto al male del paziente. Del resto questo già sta accadendo. Relativamente alle multinazionali posso dire che il condizionamento della ricerca da parte loro si concretizza maggiormente in quei Paesi in cui la ricerca è poco finanziata dal Governo, come ad esempio avviene in Italia. In America, invece, questo fenomeno è fortemente ridotto. Le grandi scoperte avvengono all’interno delle Università da sempre sostenute dal Governo Federale Americano.  Mi auguro, quindi, maggiori investimenti nel settore della ricerca scientifica in Italia. Nessuno è immune, nessuno è innocente, nessuno che può tirarsene fuori. Tra gli attori del disastro sinonimo di morte che ha infangato anche l’immagine di ciò che ancora c’è di buono, c’è anche la stampa. E senza nascondersi dietro ad un dito, lo sottolinea il giornalista Chiariello: “Il ciclo dei rifiuti – spiega – era in mano ad aziende proprietarie di importanti testate nazionali ed è per questo che i messaggi in passato non sono stati divulgati, anche perché allora senza i social network, non c’era interesse a che le informazioni passassero. Oggi c’è un bel pezzo di società che ha capito che bisogna liberarsi da un'informazione non corretta”»

Una criminalità onnipresente, uno Stato inerme, una politica collusa, un'imprenditoria malsana, una scienza negazionista. E un'informazione che tace. Questi gli attori dello scempio, come descriveresti le responsabilità di ciascuno?

Qualunque discorso serio intorno ai veleni che respiriamo, alle acque avvelenate, alle terre che hanno ingoiato rifiuti d’ogni genere, non può prescindere da una premessa: non esiste solo una terra dei fuochi in Campania. È un dramma che colpisce anche altre regioni dove però si finge che il problema non esista. L’Italia è un Paese che deve sciogliere un nodo serio: ogni anno il giro d’affari in euro del traffico di rifiuti speciali, ossia della sola produzione industriale, si aggira sui sette miliardi di euro. Quel che inquieta è la discrasia nei dati tra rifiuti industriali prodotti e quelli smaltiti. In pratica sappiamo che produciamo un tot di tonnellate di rifiuti industriali, ma poi di fatto legalmente abbiamo dati secondo cui vengono smaltite decine di migliaia di tonnellate in meno. Che fine fanno questi rifiuti industriali che mancano all’appello? Dove vanno a finire? Chi li smaltisce? Dove vengono smaltiti? Molte tonnellate le stiamo trovando sotto terra tra Napoli e Caserta. Noi lo sappiamo. Sappiamo che questi rifiuti sono stati affidati a cifre irrisorie da imprenditori del Nord ai camorristi del clan dei Casalesi che hanno fatto fortune incredibili interrando tutto in Campania e in altre regioni del Sud. Se ne parla poco inspiegabilmente ma Lazio, Molise, Puglia hanno subito lo stesso affronto, le stesse ferite. E ora veniamo al resto della domanda. Tutto questo è potuto succedere perché Stato e Antistato spesso sono andati a braccetto. Negli anni passati si è realizzato tra Napoli e Caserta un patto scellerato tra Stato, Camorra e imprenditoria deviata, sulla pelle dei cittadini».

L’informazione è stata silente, ha taciuto?

«I fatti dicono che un giornalista è stato ucciso (Giancarlo Siani) perché voleva fare luce sui rapporti Stato-camorra. I fatti dicono che uno scrittore, Roberto Saviano, vive scortato, da fantasma, ed è costretto a stare fuori dai confini nazionali perché vogliono ucciderlo in quanto colpevole di aver acceso un faro permanente sui loschi traffici del clan dei Casalesi, quelli che hanno accumulato miliardi di euro con i rifiuti interrati sotto i nostri piedi. I fatti dicono che senza questi giornalisti e senza la gente che è scesa in piazza, si è ribellata, il dramma della terra dei fuochi non avrebbe mai avuto l’attenzione che meritava. Quanto alla scienza negazionista o positivista, non amo partecipare ai dibattiti sul nulla. La scienza si fa nei laboratori e negli istituiti specializzati, dove nasce una sana competizione. Quando la scienza esce da questi ambiti, diventa marketing e spesso fa anche cattiva comunicazione non è più scienza ma qualcos’altro. Non ne posso più di politici che parlano di scienze, scienziati che fanno politica, giornalisti che dicono messa e preti che fanno i reporter».

Vittime delle terre dei fuochi sono i cittadini. Quanta consapevolezza credi ci sia oggi rispetto al passato?

«Credo che l’attenzione e la consapevolezza della gente sia massima in questo momento. Troppi morti per tumori, troppa disattenzione dello Stato hanno costretto la gente a documentarsi, a confrontarsi anche con esperti per capire che cos’è successo, che cosa sta succedendo nella loro terra, perché tanti di loro muoiono di tumori, che cosa c’è di vero nella questione delle falde acquifere avvelenate, dei camorristi che hanno interrato i veleni».

Molti studi sulla terra dei fuochi, che in realtà sono "le" terre dei fuochi, partono dall'America: credi che all'estero ci sia una diversa libertà di ricerca e di conoscenza e, soprattutto, di espressione?

«In Italia libertà e indipendenza della ricerca scientifica, così come la libertà d’espressione e d’informazione sono aspetti della nostra quotidianità da incentivare, migliorare. C’è sempre troppa politica dietro scienza e informazione. Se siamo arrivati tardi a stimolare una sensibilità seria rispetto ai temi dell’ambiente forse la responsabilità è stata anche di una informazione un po’ superficiale e di una scienza che non sempre ha brillato per indipendenza dal potere politico. Sapere che il Governo federale americano trova risorse per finanziare una ricerca sulla salubrità dell’ambiente e delle acque in un pezzo d’Italia (la zona tra Napoli e Caserta) dove ci sono suoi concittadini che lavorano (militari e civili delle basi USA) fa piacere, fa rabbrividire che l’Italia non usi la stessa attenzione per i suoi cittadini sul suo territorio».

Molto spesso la stampa tace perché (come sottolineavi) è condizionata da chi ne detiene la proprietà. Questo significa che in Italia non esiste un'informazione libera? Come può un cittadino fidarsi degli organi di informazione?

«La libertà d’informazione quando è condizionata non la si può più definire libertà, proprio perché ha un limite nel momento in cui può essere condizionata. Dire che dietro certi gruppi editoriali importanti ci sono gruppi economici o anche politici è la rappresentazione di una verità fattuale che rende il nostro Paese una sorta di unicum nella comunità internazionale occidentale. In fondo quando parliamo di confitto di interessi, concentrazioni editoriali, a questo ci riferiamo. Poi però devo aggiungere che anche in questi gruppi editoriali, è il giornalista che può e anzi deve ritagliarsi il massimo della libertà. È qui, in questi contesti, che un giornalista italiano riesce a stabilire se è un cane da guardia delle istituzioni piuttosto che un cane da salotto o da riporto dei potenti di turno».

Monnezza di Stato descrive meccanismi e collusioni. Quali sono le difficoltà che incontra chi vuole raccontarli?

«L’Italia è un grande Paese, una grande democrazia e qualunque difficoltà incontri sul tuo cammino per raccontare una tragedia come quella della terra dei fuochi, dei veleni interrati, del futuro dei nostri figli avvelenato da camorristi e imprenditori senza scrupoli può essere superata grazie alla grande capacità che abbiamo di raccontare la realtà. Non esiste alcun impedimento se non la tua intelligenza nel cogliere il dramma, la tua capacità nel trovare le fonti giuste per raccontarlo e soprattutto il modo per illuminare pagine buie della nostra storia recente. Nella questione terra dei fuochi lo Stato ha avuto gravi comportamenti omissivi e commissivi. Lo Stato è andato a braccetto con i mafiosi in alcuni frangenti. Lo Stato ha agevolato l’esportazione verso la Campania di rifiuti industriali smaltiti illegalmente. Lo Stato ha ora l’obbligo di bonificare e controllare che le risorse usate non finiscano nuovamente nelle mani dei camorristi che hanno sporcato».

Carpiano, la terra dei fuochi in versione lombarda. Veleni oltre i limiti di legge: contaminati ettari di terreni tra il Pavese e il Milanese, scrive Patrizia Tossi il 16 settembre 2015 su “Il Giorno”. Dodici ettari di terreni contaminati dai veleni, un’area agricola coltivata tra il Sud Milano e il Pavese piena zeppa di metalli pesanti, diossina e sostanze potenzialmente pericolose per i geni umani. Secondo il dossier dell’Agenzia di ricerca europea di Ispra, i livelli di diossina presenti nel suolo sarebbero 25 volte superiori ai limiti di legge a causa di presunti «sversamenti pirata». Tutti sapevano da anni: il primo dossier europeo risale al 2007 e poi ce n’è stato un altro nel 2011, ma finora una fitta coltre di silenzio ha avvolto quel «quadrilatero nero» tra Carpiano, Landriano, Pairana e Bascapè. «L’ennesima terra dei fuochi lombarda», denuncia la consigliera regionale del Movimento 5 Stelle Iolanda Nanni, prima firmataria di un’interrogazione al Pirellone: «Ho iniziato a scavare tra le carte a seguito di una segnalazione dei cittadini – spiega Nanni, da tempo in prima linea per denunciare i problemi ambientali del territorio lombardo – ed è emersa una situazione inquietante. Le due ricerche Ispra attestano la contaminazione oltre i limiti di legge dei terreni da metalli pesanti, Pcb, furani, composti geno-tossici (vale a dire in grado di alterare il Dna, scatenando nel medio-lungo periodo l’insorgenza di tumori), che avrebbero inquinato i suoli con ricadute tossiche e nocive sulla catena agro-alimentare. Le istituzioni sapevano da anni, ma nessuno è mai intervenuto». Il dossier dell’Agenzia europea per l’ambiente non lascia spazio a dubbi e parla di un’area, per la maggior parte, «direttamente e soprattutto indirettamente pericolosa per la salute degli animali e dell’uomo». Ma non solo. «Ispra ipotizza uno ‘spargimento pirata’ di rifiuti tossici sui terreni – continua Nanni – e nello studio 2011 denuncia uno “stato di compromissione del suolo e della stessa vita degli organismi vegetali e animali che sono presenti nel suolo” della zona. È un’emergenza sanitaria gravissima, la Regione non può più tacere. Alla nostra interrogazione devono seguire risposte concrete». La cosa assurda è che quei terreni sono coltivati con prodotti destinati alla vendita, senza che nessun ente abbia mai imposto la sospensione dell’attività agricola, almeno a livello precauzionale. «Mi domando come sia possibile che le istituzioni competenti non abbiano immediatamente denunciato la situazione alla Procura competente – conclude Iolanda Nanni – affinché si verificassero le responsabilità penali, allertando contemporaneamente la Procura Antimafia di Milano. E come sia possibile che, dal 2007 a oggi, le istituzioni non abbiano vietato la coltivazione dei terreni contaminati, al contempo ingiungendo in modo perentorio all’azienda proprietaria dei terreni l’immediata e tempestiva bonifica dei terreni stessi, nonché il sequestro di qualsiasi prodotto agro-alimentare frutto dei terreni contaminati già presente sul mercato». E il sindaco di Carpiano? Nessuna denuncia, nessuna ordinanza per vietare la coltivazione dei terreni, nessun allerta per i cittadini. «E' vero che il caso è noto da tempo –risponde il primo cittadino Paolo Branca – ma la competenza sulla materia ambientale è del Pirellone. La Regione ha aperto un tavolo tecnico per approfondire la vicenda e noi, come Comune, abbiamo partecipato. È stata chiesta all’Arpa un’attualizzazione dei dati con nuove analisi sull’eventuale presenza di sostante inquinanti sui terreni, ma non ha ancora risposto». E prosegue: «Non mi risulta che esista un esposto in Procura. Come Comune non possiamo fare nulla. Il nostro è un territorio molto vasto, quei terreni si trovano lontano dal centro abitato e riguardano più da vicino gli abitanti di Landriano. Non ci sono odori, il caso è talmente datato che la componente volatile di eventuali sostanze inquinanti è già evaporata anni fa. Penso che sia più probabile che ci siano più metalli pesanti e sostanze tossico nocive nel terreno». E la falda? «Difficile valutare se sia stata contaminata la falda, bisognerebbe fare un’indagine accurata. L’agricoltore è attento a non coltivare una determinata area, ma 12 ettari sono tanti, non si tratta di un fazzoletto di terra, non posso dire se i veri perimetri sono gli stessi di quelli indicati dall’agricoltore».

Rifiuti, è qui la terra dei fuochi. Cinque volte più della Campania. La denuncia di fondatore di Marino Ruzzanenti, ambientalista fondatore di «Cittadini per il riciclaggio»: «La provincia di Brescia smaltisce 57 milioni di metri cubi di rifiuti tossici, quella di Caserta, nella Gomorra di Saviano, 10 milioni», scrive Bruna Bianchi il 5 giugno 2015 su “Il Giorno”.

Terra dei Fuochi del Nordè un’espressione che fa inorridire.

«E allora chiamiamola l’immondezzaio d’Italia». Marino Ruzzenenti ha l’età della memoria storica, quella di chi ha accumulato la lunga esperienza di cittadino di Brescia e la forza morale di un ambientalista convinto. Non è fanatico, non fa barricate: mette in fila i fatti e i dati. «La provincia di Brescia smaltisce 57 milioni di metri cubi di rifiuti tossici, quella di Caserta, nella Gomorra di Saviano, 10 milioni».

La verità fa male se si mettono in fila altri dati: l’incanto delle colline moreniche dei laghi, quelle dolci e succose di Franciacorta, le bellezze della Brescia antica attorniate da cave piene di amianto, pcb, metalli ferrosi. Ogni tanto qualcosa si incendia, i fumi neri escono dai comignoli degli impianti di trattamento e poi tutto tace e il lavoro dei camion e dello smaltimento prosegue, un tempo selvaggio, ora approvato a suon di piani e delibere.

«La situazione del Bresciano è del tutto eccezionale. Noi tumuliamo in discarica circa il 70 per cento dei rifiuti speciali della Lombardia. Questo territorio è diventato di rifiuti per vocazione»

Torniamo indietro nel tempo.

«Fino agli anni ’80 non c’era una legge sullo smaltimento dei rifiuti speciali e le cave di terra e sabbia erano buche perfette. Le aziende pagavano il proprietario e buttavano tutto lì».

Che tipo di scorie?

«Il 50 per cento dei rottami dell’industria siderurgica ha trovato posto in tutta la provincia di Brescia».

Altro?

«Non ci manca proprio niente! Abbiamo anche quattro discariche di scorie radioattive. Per una sola, a Lumezzane, è stato costruito un bunker».

E sottoterra c’è quello che ancora non è stato trovato...

«Decine e decine di cave chiuse nascondono rifiuti fantasma ricoperti da terra e erba. Sappiamo che esistono ma non sappiamo dove siano».

Signor Ruzzenenti, lei, insieme a Legambiente e altre associazioni ha fatto un lavoro certosino di denuncia.

«C’è un’indagine in corso alla procura di Brescia sui rifiuti tossici provenienti dall’estero. Come si dice? Rifiuto chiama rifiuto. Ormai qui è stata fatta una scelta produttiva, come le armi. Ad esempio, lo smaltimento dell’amianto a Montichiari in teoria è legale, ma quando un camion si è rovesciato è stato scoperto che non era trattato come avrebbe dovuto essere prima di finire in discarica. I controlli sono praticamente impossibili. Con l’autocertificazione si possono trasformare rifiuti pericolosi in non pericolosi».

È un bell’affare, no?

«Lo stanno facendo a spese nostre. Compreso Manlio Cerroni, il re della monnezza di Roma».

I bresciani cosa dicono?

«Cominciano a ribellarsi, osteggiano le nuove discariche. Hanno già dato tanto».

C’è anche l’inceneritore più potente d’Europa.

«Anche quello. In una città già avvelenata dalla Caffaro...»

Pure la Valcamonica ha scoperto la sua gatta da pelare...

«Il sindaco di Berzo Demo si è ritrovato in casa migliaia di metri cubi di scarti di alluminio provenienti dall’Australia».

Cosa chiede ai politici?

«Basta discariche e almeno una mappatura per sapere dove sono nascosti altri veleni. Non è tutto inquinato, sia chiaro: dobbiamo solo individuare il marcio per evitare che si estenda».

"Terra dei fuochi" alle porte di Torino, scoperta una discarica con 450 tonnellate di veleni. I finanzieri torinesi nella discarica abusiva a ridosso dell'abitato. Blitz della Guardia di finanza a San Gillio, alle porte del capoluogo: denunciato il titolare di un'immobiliare proprietaria dell'area dove erano stoccati rifiuti industriali pericolosi di ogni tipo compresi 120 quintali di amianto. I complimenti del ministro Galletti: "Liberiamo l'Italia dagli inquinatori", scrive il 28 agosto 2015 “La Repubblica". C'erano 450 tonnellate di rifiuti speciali pericolosi in un capannone industriale abbandonato a San Gillio, nel Torinese, alle porte del capoluogo e a ridosso del centro abitato. A scoprire la "terra dei fuochi" piemontese sono stati i militari del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Torino. I finanzieri hanno notato sul piazzale, visibile anche dall'esterno, "cumuli disomogenei" di rifiuti in evidente stato di abbandono. Dopo aver individuato il proprietario e l'utilizzatore dell'area, che si estende per circa cinquemila metri quadrati, i "baschi verdi" sono entrati per le verifiche sui materiali eseguite insieme all'Arpa Piemonte. E' stata confermata la grave pericolosità dei materiali, riconducibili in parte all'attività di officina meccanica ed elettromeccanica e di stampaggio di materiali a freddo, svolta negli anni scorsi da una ditta di San Gillio dichiarata fallita nel maggio 2006, e in parte ad una società immobiliare attuale proprietaria del sito. Al termine delle attività di rilevazione, spiega la Finanza, sono stati sequestrati rifiuti speciali e pericolosi per circa 450 tonnellate, delle quali 430 provenienti da lavori di demolizione, 12 da fibra d'amianto e la restante parte, per oltre 6 tonnellate, di prodotti chimici da decontaminare. Il percolato dei materiali rinvenuti dai finanzieri, in parte, avrebbe potuto finire negli scarichi per il recupero dell'acqua piovana. Al momento l'amministratore unico dell'immobiliare proprietaria del sito è stato denunciato per deposito incontrollato di rifiuti; è anche stato segnalato al Comune per le violazioni in materia di edilizia e urbanistica, per avere effettuato lavori di demolizione in assenza di autorizzazione. Proseguono gli accertamenti per la messa in sicurezza del sito e per verificare eventuale contaminazione ambientale. "Liberare l'Italia dagli inquinatori": ribadendo questo obiettivo il ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, si è complimentato con la Guardia di finanza. "Le mie congratulazioni - ha detto - per l'importante operazione che ha permesso il sequestro di 450 tonnellate di rifiuti pericolosi nel Torinese. Contro chi avvelena il nostro territorio abbiamo scelto di condurre una battaglia senza quartiere, affiancando al tenace lavoro di magistrati e forze dell'ordine l'introduzione degli ecoreati nel Codice penale: una vera svolta per restituire la certezza ai cittadini di vivere in zone sicure sotto il profilo ambientale e liberare l'Italia dagli inquinatori".

Duemila incendi l’anno, ecco la terra dei fuochi de’ noantri, scrive Grazia Maria Coletti il 12 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Situazione esplosiva nei campi rom. I romani stremati dal fumo si ribellano. E in Campania l’Istituto di Sanità accerta aumento di tumori in 55 comuni La mappa dei roghi. Se ogni porta di casa deve essere una Porta Santa, tuteliamo anche le porte sante delle case dei romani, soffocate dal fumo dei rom. È questo il messaggio che arriva dagli esposti piovuti sui tavoli del prefetto di Roma, Franco Gabrielli e del commissario Francesco Paolo Tronca, impegnati nei giorni del Giubileo e dell’allarme terrorismo. Duemila roghi tossici in un anno e un solo arresto (due rom fermati dai carabinieri a Castel Romano a settembre), è questa la caporetto delle pene esemplari del decreto "terra dei fuochi" che non hanno fermato la terra dei fuochi "de’noantri". E i romani esasperati, chiedono un piano di salvataggio dai "terroristi-rom", «gli unici al momento - dicono - ad attentare alla vita di adulti, vecchi e bambini». Hanno ragione di temere? I risultati drammatici della ricerca dell’Iss sui 55 comuni della "Terra dei fuochi" campana ci dicono che in quella zona «si muore di più che in altre zone d’Italia», ci si ammala «più di cancro», anche tra i «bambini» nella fascia «0-14», e si «registrano più ricoveri». L’Europa ha condannato Roma più volte. 172mila390 i metri quadri di terreno, l’equivalente di 40 campi da calcio, sequestrati come discariche abusive dallo Spe della polizia locale del vicecomandante del Corpo Antonio Di Maggio. Interpellanze del parlamentare europeo Giovanni La Via e della Angelilli. Ma a Roma nessuno ha ancora monitorato l’aria prodotta dai quasi 2mila roghi, contati da Il Tempo con l’aiuto dei cittadini di ogni quadrante, perché una mappa ufficiale ancora non c’è. Considerando una media di 3-4 roghi a settimana, tutti i giorni d’estate, e giorno e notte, accesi anche più volte al dì, nei campi legali e tollerati - che ci costano 24 milioni di euro l’anno - si arriva a quasi mille. Altrettanti nella miriade di accampamenti abusivi, nella riserva delle Valle dell’Aniene, sotto i cavalcavia, sgomberati e ripopolati, con fonderie illegali in ogni quartiere: da Magliana a Tor Sapienza, da Ponte di Nona, a Ciampino, dal Nuovo Salario a Ciampino, da La Rustica fino alla provincia romana, specialmente a est. Come racconta la mappa pubblicata qui a fianco. E quando tira il vento non si salvano nemmeno i Parioli, come aveva già denunciato su queste pagine anche il comico Enrico Montesano. Mentre il web fa il pieno di post sulla pagina facebook "richiesta la chiusura del campo di via di Salone", dove i vigili del fuoco di La Rustica vengono presi sempre a sassate, che porterà alla manifestazione popolare in primavera per chiedere la chiusura anche di via Salviati, La Barbuta, vicino all’aeroporto di Ciampino, Castel Romano sulla Pontina, la Monachina, sull’Aurelia, Lombroso a Torrevecchia. Ma gli inceneritori a tutti gli effetti di rifiuti tossici speciali, da cui si sprigiona diossina, sono presenti anche in centinaia di microaccampamenti nelle radure del Pratone delle valli, nelle valli di Quartaccio, segnalazioni nel quartiere Quintiliani, Pietralata, via dei Durantini. Il comitato di quartiere Tor Sapienza è stato il primo a contare i roghi: «155 roghi in 15 mesi da via Salviati», con il presidente Roberto Torre che nei giorni scorsi lanciava l’anatema contro l’immobilismo. «152 roghi tossici in un anno da via di Salone» dice Franco Pirina, del Caop Ponte di Nona - qui i roghi, ultimamente, durante la notte e solo al mattino la gente si rende conto dell’aria irrespirabile». Il conto sale vertiginosamente con il campo di via Candoni, alla Magliana, e Candoni bis, fucina che arde, notte e giorno, e avvelena l’aria dei quartieri Marconi, Magliana, Casetta Mattei, Muratella, agli autisti della rimessa Atac servono gli antinebbia. Il capogruppo di Forza Italia in XI Municipio, Marco Palma, ha chiesto «l’esercito» al posto dei vigili urbani. «Già messi "ko" da schiere di minorenni». Aperte le «indagini» a un anno dall’esposto in Procura presentato dal consigliere regionale Fabrizio Santori.

Brucia la città, ma nessuno spegne i roghi, scrive Maria Lombardi il 4 febbraio 2016 su “Il Messaggero". Il fumo s'alza sulla via Olimpica, poco prima dello svincolo per Tor di Quinto, e disegna un arcobaleno nero. Dalla nuvola bassa e puzzolente sbucano comitive di rom, scavalcano il guardrail e attraversano la strada anche se non ci sono strisce pedonali, lasciandosi alle spalle il villaggio di lamiere che perennemente arde. C'è una Roma che brucia senza sosta, ignorata, ci sono intere zone della città condannate ai roghi, un inferno velenoso, peggio di qualsiasi altro inferno. C'è un'altra terra dei fuochi a dieci chilometri dal Quirinale e si va allargando. Quartieri soffocati dalle nubi pesanti delle baraccopoli. Magari ci fossero solo le polveri sottili, qui si respira aria ancora più malata e non si sa di che. Anneriranno in fretta le lenzuola bianche che i cittadini hanno appeso alle finestre, verranno presto corrose dai vapori di diossina. «Basta roghi criminali», c'è scritto. Decine e decine di striscioni nei palazzi di Conca d'Oro, Tiburtina, San Basilio, Casal Bertone, La Rustica, Tor Sapienza, Ponte di Nona. Chi abita in queste zone si sente perduto, il fumo dei rifiuti bruciati nei campi per prendere il rame può uccidere. Gli appelli finora non sono serviti, adesso è il momento della protesta corale, l'urlo esibito ai balconi. Roghi criminali, appunto, perché di crimini si tratta. Il reato esiste dal dicembre 2013 «combustione illecita di rifiuti», prevede il carcere dai 2 ai 5 anni, stessa pena per chi trasporta gli scarti con l'intenzione di dargli fuoco. Eppure gli incendi di Roma nessuno riesce a spegnerli.

Terra dei Fuochi, il sequel. Terni, Rieti e Viterbo nuova frontiera per rom e colletti bianchi, scrive “Libero Quotidiano” il 5 febbraio 2016. Terra dei Fuochi, il sequel. Come al cinema, il cancro criminale che affligge la Campania ha un seguito... a Roma e non solo. A raccontarlo è il giudice Mauro Santoloci, gip di Terni, membro della Commissione ministeriale per la revisione del Testo Unico ambientale e autore, con Valentina Vattani, di una collana di pubblicazioni sul tema delle eco mafie, intervenuto a Corretta informazione sui temi ambientali. Fonti ufficiali e fonti ufficiose, corso di aggiornamento promosso dall'Ordine dei Giornalisti dell'Umbria. "Sorvolando Roma di notte – ha spiegato Santoloci – non è difficile individuare un corollario di fuochi, in particolare nei pressi della tangenziale. Sono i roghi appiccati nei campi rom, destinati a smaltire rifiuti. Un meccanismo pericoloso, per la salute e per l'ambiente, nonché nocivo per le attività legali di smaltimento". Secondo le informazioni in possesso del magistrato "i rom si appoggiano ad una flotta di furgoni, guidati talvolta da schiavi bianchi, vale a dire persone disagiate, ad esempio immigrati, che per pochi euro ti smontano un pannello di amianto senza rispettare alcuna regola di sicurezza, lo caricano su un camion, lo portano alla discarica abusiva. Una giro per orchestrato, grazie anche alla conoscenza delle lacune (buchi neri, li chiama il gip, ndr) della nostra giustizia. Ad esempio, un vigile urbano mi ha raccontato che, in due mesi, ha fermato lo stesso mezzo trentasette volte, senza riuscire però a sequestrarlo". Il sequestro non è possibile, perché? La risposta è nell'ex art. 240 co. 1 c.p., che elenca i requisiti di confiscabilità di un autoveicolo usato per un illecito e la cui applicazione potrebbe sollevare incertezze sul nesso di asservimento/strumentalità che deve legare la cosa al reato. Interpretazioni normative a parte, ciò che lascia basiti è la ramificazione di questa piccola criminalità: seppure non classificabile come eco mafia, infatti, la rete rom è estesa è guarda già oltre la Campania e la zona di Roma. Ad esempio, Rieti, Viterbo, Terni sono "candidate" ad diventare una nuova Terra dei Fuochi. Santoloci: "In seguito ad azioni di repressione delle forze dell'ordine, è plausibile che l'attenzione dei criminali si sposti altrove, in città poco distanti dalla Capitale come questa (Terni, ndr) o come il reatino e il viterbese. Dopo aver appurato, chiaramente, che le aree interessate siano più 'tranquille', gli illeciti potrebbero trovare nuovi siti". I campi nomadi nei quali si "accendono" i fuochi sono un problema, vero, ma ostacolo non inferiore è quello dei colletti bianchi, vale a dire professionisti ed imprenditori insospettabili che alimentano il giro di affari che ruota intorno allo smaltimento abusivo. Il gip: "Alla Guardia Costiera chiedo di controllare non solo la bolla di carico, ma anche di aprire i container: i documenti sono in regola, però a bordo della nave hai tonnellate di materiale che poi viene trasformato e che torna, in Italia, sotto forma di prodotto per il mercato". Ecco cosa significa "colletto bianco": far apparire corretto ciò che non lo è. Come uscirne? Fra le soluzioni, il giudice propone anche una "formazione continua" sul tema dei rifiuti per le forze dell'ordine, sia per capire le modalità di gestione del traffico illegale, sia per rendersi conto che la domanda "è di mia competenza"? di fronte ad un potenziale illecito non è assolutamente da porsi. Nessun riferimento, invece, alla questione inceneritori che, proprio in queste settimane, ha ri-assistito a polemiche e manifestazioni di protesta dei comitati ambientalisti. In particolare, nelle ultime ore, il Comitato No Inceneritori di Terni ha aspramente criticato il voto favorevole all'articolo 35 dello Sblocca Italia, che permette la creazione di una rete di smaltimento a livello nazionale. Secondo il Comitato, infatti, ciò andrebbe a scapito di Terni i cui due impianti si troverebbero così a bruciare consistenti quantitativi di immondizia. Una circostanza che nulla ha a che vedere con la lotta al malaffare, ma che tuttavia lascia perplesse le organizzazioni cittadine, preoccupate per le eventuali conseguenze a livello ambientale e sanitario.

Terra dei Fuochi in Toscana, scrive Vanessa Roghi, storica, l'11 luglio 2015 su “Internazionale". Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna. Quando Beppe Fenoglio scrive Un giorno di fuoco, negli anni della sua giovinezza, l’acqua del fiume Bormida è già rossa, porca e avvelenata, ma la parola ambientalismo, in Italia, non esiste o è patrimonio di illuminate minoranze. Non si pronuncia mai, tuttavia, in presenza di un’altra parola: lavoro. Semmai fabbrica, ma lavoro no. Perché, come nella morra cinese, lavoro spazza via ambiente; che, come la carta, avvolge il sasso, la fabbrica. Ma è sempre meno forte della forbice, il lavoro appunto. Quando Beppe Fenoglio descrive il fiume Bormida, l’Acna di Cengio la conoscono solo i suoi abitanti e gli operai che ogni giorno timbrano il cartellino e producono coloranti e gas tossici, da più di mezzo secolo. Quando nel 1963 esce Un giorno di fuoco, Beppe Fenoglio è morto di cancro, ed è passato solo un anno dalla sentenza che ha costretto i contadini della val Bormida a risarcire l’Acna, ora di proprietà della Montecatini, per le spese di un processo durato 24 anni nel quale gli abitanti della valle hanno osato far notare che in effetti va bene l’acqua rossa, ma il fatto che nei campi non cresca un filo d’erba non va bene, o no? La Montecatini è cresciuta negli anni del fascismo, ha allargato la sua attività in vaste aree del Piemonte, della Liguria, della Toscana, dell’Emilia Romagna: risorse da sfruttare, acqua, manodopera a basso costo e sono nate alcune delle industrie più importanti della chimica italiana. “Montecatini”, scrive Alberto Prunetti Amianto “non è quella famosa delle terme e di Miss Italia, ma la Montecatini aspra delle Colline metallifere della Val di Cecina, in alta Maremma. La Montecatini che diventerà Edison, poi Montedison, poi si smembrerà in altre società, svenderà alcuni stabilimenti (…)”. La Montecatini, dalla quale sgorgheranno fiumi e fiumi di storie, storie di minerali e di fabbriche, storie di lavoro, scrive ancora Prunetti, “che hanno avvelenato e rovinato i polmoni con la silicosi, per poi impestare di fanghi rossi il mare di fronte all’arcipelago toscano e alla Corsica, smaltire ceneri di pirite nelle miniere scavate decenni prima e intossicare di metalli pesanti i fiumi e il mare”. Risorse naturali, acqua, manodopera a basso costo: vengono scavate nuove miniere, ampliate quelle esistenti: rame, zolfo, piriti, fino al grande incidente, quello del 1954, quando a Ribolla, vicino Grosseto, esplode il pozzo Camorra e muoiono 43 minatori. La storia è nota. Luciano Bianciardi e Carlo Cassola sulla tragedia pubblicano I minatori della Maremma. Poi arriva la prima grande crisi industriale dopo gli anni del boom, la crisi che porta l’Eni a rilevare la Montecatini, è il 1966, nasce la Montedison, l’Italia è in fase di “congiuntura”, ma l’industria chimica continua a crescere, a creare centinaia di posti di lavoro. La parola ambientalismo è sempre poco usata, poco la usa anche Antonio Cederna, pure tra i pochi in Italia a porre all’attenzione della politica il problema della tutela dell’ambiente insieme a quello della qualità della vita dei cittadini. Proprio nel 1966 pubblica su L’Espresso un’inchiesta sulla distruzione delle coste italiane, la sua attenzione è rivolta principalmente alla speculazione edilizia, nessuno ancora si pone il problema di come ben più grave sia la questione dell’inquinamento. Eppure gli abitanti della val Bormida continuano le loro battaglie, denunciano l’Acna, ancora non esiste l’orrenda espressione nimby (non nel mio giardino) e nessuno si permette di trattarli come dei terroristi, come succederà anni dopo ai loro omologhi della val Susa; ma in quei primi anni settanta lavoro vince su fabbrica che vince su ambiente. Questo fino al 1976 quando esplode a Seveso un reattore chimico destinato alla produzione di triclorofenolo, parola incomprensibile, ma tutti, dai quarant’anni in su ne ricordano un’altra: diossina. Ascoltatelo Marco Gisotti che racconta quel 10 luglio e la diossina sprigionata nell’aria che ricopre tutta la Brianza. Bisogna ricordarsele queste tappe, partire da lontano, allargare lo sguardo nel lungo periodo se vogliamo ricucire le tappe che da Seveso e diossina, e Acna e Cengio, portano a un altro luogo della memoria del movimento ambientalista italiano, ovvero l’incidente della Farmoplant che oggi possiamo ricordare attraverso un libro, La terra bianca, chi l’ha scritto si chiama Giulio Milani, la storia che racconta è questa. 17 luglio 1988. Il serbatoio Rogor della Farmoplant esplode. Tutti ricordano la nube nera che si solleva dalla fabbrica e spinge le persone a fuggire dalla città avvelenata. Quasi un anno prima, il 25 ottobre del 1987 il 75 per cento degli aventi diritto aveva votato per il referendum che chiedeva la chiusura immediata della fabbrica. È il primo referendum consultivo d’Europa per chiedere la chiusura di una fabbrica. L’eco ormai attutita di Seveso è appena stata risvegliata dal boato di Cernobyl. Risponde sì il 71,69 per cento, la fabbrica deve essere chiusa, perché dall’anno della sua apertura, il 1976, ci sono stati quaranta incidenti, il più grave, un incendio nel 1980 al magazzino esterno del Mancozeb – un pesticida cancerogeno tutt’ora impiegato in viticoltura. Segue la revoca immediata delle licenze per la produzione di Rogor e di Cidial, i due insetticidi considerati più pericolosi. Il 2 novembre 1987, scrive Milani, “la gerenza della Farmoplant licenzia in tronco tutti i dipendenti, perché afferma che senza la produzione di queste due richiestissime sostanze non ci sono le condizioni per proseguire l’attività”. Ma la Farmoplant vince il ricorso e tutti i lavoratori sono di nuovo assunti. Lo stabilimento riprende la produzione. “Naturalmente il Comune di Massa, Lega ambiente e i Verdi fanno ricorso al Consiglio di Stato contro la sospensione del Tar, e a marzo del 1988 il Consiglio di Stato sospende la sospensione”. Seguono mesi di commissioni, ricorsi e controricorsi. Il ministro dell’ambiente è Giorgio Ruffolo, la persona giusta al posto sbagliato, come titolerà il mensile di Legambiente, per la sua inerzia nell’affrontare il disastro che gli si riversa addosso. E arriva l’estate del 1988: gli ambientalisti propongono di impiegare gli operai, “durante la riconversione dell’impianto, nella bonifica dei 65 ettari di terreno contaminato dal complesso industriale, ma il progetto non viene neppure preso in considerazione dalla Montedison”. Nessuno si pronuncia, né il sindaco, né il ministero, né il consiglio dell’azienda. “In questa attesa il 17 luglio esplode proprio il serbatoio dei formulati liquidi che conteneva Rogor e cicloesanone”. L’annuncio del tg diffonde il panico nelle regioni confinanti malgrado il tono pacato al telegiornale di Luigi Frajese. Muoiono i pesci, muoiono le anguille, il divieto di balneazione appare sulle spiagge di Massa. Ma cresce la consapevolezza che senza determinate condizioni di sicurezza lavorare uccide, non stanca, come scrive nel suo libro un altro figlio di queste terre, Marco Rovelli. Un disastro ambientale che riguarda però anche un altro fondamentale settore produttivo, e questa è l’altra grande storia che Milani ricostruisce: “È stata Tangentopoli a indicare in che misura anche per il versante ligure-apuano e apuo-versiliese l’infiltrazione mafiosa – insieme all’arrivo della chimica di Raul Gardini – abbia accompagnato la nascita di un’economia di rapina a esclusivo appannaggio delle multinazionali del carbonato di calcio, fondata sul riciclaggio di proventi al nero e il commercio di rifiuti pericolosi”. Salvatore Calleri è il presidente della fondazione Caponnetto e, racconta Milani, ha denunciato come la Toscana, con trentacinque diverse organizzazioni criminali censite, non sembrasse rendersi conto di rappresentare una potenziale terra di conquista delle mafie. La chiama, Calleri, auto-omertà. Un silenzio indotto dalla paura di andare a incidere negativamente sulla rappresentazione pubblica della Toscana, marchio nel mondo, di buongoverno unito ad assenza di inquinamento del territorio, ma la “terra dei fuochi”, dice uno dei testimoni del libro di Milani “è anche qui, da noi e da ben prima”. Decidere quale sia la vocazione di un’area non è cosa semplice: polo chimico o cave di marmo, o addirittura turismo, o altro? “La Farmoplant”, scrive Milani, “chiude nel 1988. La Dalmine nel 1990, è l’ultima grande industria ad andarsene dalla zona. Gli operai della Dalmine sono l’aristocrazia. Ma dalla sera alla mattina perdono il lavoro in 1.500”. A quel punto la vocazione sembra essere una e una solo, quella del marmo: “Adesso i sindaci si stracciano le vesti per i lavoratori del lapideo”, dice a Milani un operaio in pensione, “ma in tutta la provincia è un miracolo se contano ancora duemila occupati con l’indotto e sono disposti a perdere la ricchezza delle montagne e dell’acqua, a sborsare cifre colossali per il continuo ripristino del dissesto prodotto dall’escavazione, dai trasporti su camion e dalla strozzatura della rete fluviale, a mettere a repentaglio la vita delle persone sotto le alluvioni e le frane pur di salvarli: chiediamoci come mai”. Qualche anno fa Roberto Barocci ha pubblicato un prezioso libretto, ormai esaurito, per Stampa alternativa, si intitolava ArsENIco. Come avvelenare la Maremma fino alla catastrofe ambientale. In questo si faceva la stessa, identica domanda: perché le istituzioni avevano accettato l’inquinamento delle zone minerarie della bassa Toscana, il colpevole ritardo delle bonifiche ambientali, ritardo che aveva finito per avvelenare terreni e corsi d’acqua, e corpi, dalle Colline Metallifere giù fino alla costa? Si domandava l’autore nell’introduzione: “Chi governa nel nostro paese? Nella Regione Toscana? Dove vengono prese le decisioni importanti che riguardano le risorse strategiche, dalla salute alle risorse idriche, al lavoro, alla qualità dell’ambiente…? Chi sono i mercificatori che si piegano a interessi di pochi e riescono ad imporre queste scelte anche agli onesti? Come può avvenire tutto ciò?”. “Avevamo bisogno di lavorare e le cose che dicevano sulla pericolosità delle produzioni ci parevano esagerate. Le istituzioni, i partiti, i sindacati, i tecnici: per tutti l’insediamento era sicuro, anzi, una vera benedizione per la zona industriale e per il nostro avvenire. I quadri dell’azienda abitavano nei dintorni della fabbrica, ma anche i politici abitavano non lontano. Se il pericolo c’era, c’era per tutti. Come si poteva pensare di essere ingannati fino a questo punto?”. Alla fine, comunque, questo rimane l’interrogativo più lacerante lasciato aperto dall’inchiesta di Milani, non le mafie, non le morti, non la fine del lavoro, ma questo: se il pericolo c’era, c’era per tutti, perché inquinare, avvelenare, uccidere? Mi raccontava qualche anno fa Sandro Veronesi una scritta che aveva visto una volta su muro: “Chi inquina l’acqua beve pure lui”. Ci ho pensato tutto il tempo a questa scritta mentre leggevo il libro di Milani, così come ho pensato alle acque rosse del fiume Bormida, all’arsenico della Maremma. Chi inquina la terra ci vive pure lui. Deve essere dunque solo una questione d’amore, senza altre spiegazioni, come suggerisce nella sua recensione a Milani, Annalisa Andreoni, parafrasando Brecht: “Sventurata la terra che non è amata dai suoi”.

“L'incredibile e strana persecuzione di due Magistrati pugliesi: Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis, scrive ancora Michele Imperio su "Ok Notizie Virgilio" il 9 luglio 2011. Nove mesi fa avevamo postato la notizia dell’arresto quasi contemporaneo di due magistrati pugliesi Giuseppe De Benedictis e Matteo Di Giorgio, entrambi classificabili come Magistrati dell’area di centro destra, tendenza beninteso manifestata al di fuori dell'esercizio delle funzioni nell'ambito delle quali i due magistrati erano assolutamente irreprensibili. Giuseppe De Benedictis aveva addirittura concesso l’arresto dell’on.le Raffaele Fitto (PDL). E dato il clamore di certa stampa avevamo lanciato l’allarme che poteva trattarsi di un odioso piano dei giudici di Magistratura Democratica, i quali stavano cominciando ad avviare una sorta di pulizia etnica oltre che di uomini politici anche di Magistrati di altra estrazione politica, utilizzando anche contro costoro (i colleghi Magistrati) lo strumento della incriminazione penale e della carcerazione preventiva. In questa perversa ottica si collocavano – secondo noi - le due quasi contemporanee carcerazioni dei magistrati pugliesi Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis arrestati a distanza di soli quattordici giorni l’uno dall’altro, un evento che non si era mai verificato in tutta la storia della Puglia. Anzi in passato il Magistrato veniva rispettato in quanto tale. I panni sporchi, se c'erano, si lavavano - come si dice - in famiglia, onde non generare disdoro per le Istituzioni. Ora invece anche i Magistrati, classificabili come vicini ad ambienti politici di centro-destra, possono essere destinatari di questa iniziativa plateale e clamorosa che è l'incriminazione penale e il mandato di cattura che - lo ricordo - non è "pane e fichi" ma è una misura particolarmente umiliante e estremamente invasiva che bisogna adottare - stando alla legge - solo in presenza di situazioni di particolare gravità. Il dott. Matteo Di Giorgio già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, insignito per meriti acquisiti sul campo dell’incarico di delegato della Procura distrettuale antimafia di Lecce presso il Tribunale di Taranto, è stato all'improvviso arrestato l’11 novembre 2010 con una serie di accuse per fatti vetusti, risalenti alcuni addirittura al 2001, alcuni dei quali già prima facie di scarsissima o nulla rilevanza penale (per esempio far mantenere aperto un bar dalla Amministrazione Comunale di Castellaneta anche se non era in regola con le licenze). Lo stesso mandato di cattura parlava di concussione ma escludeva in modo assoluto che il Dott. Matteo Di Giorgio avesse mai preteso denaro per se o per altri soggetti per queste operazioni ipotizzandosi a suo carico soltanto la volontà di perseguire "mire e utilità politiche". Infatti con riferimento alle elezioni amministrative del 2008 (e questa è la sua vera colpa) egli aveva tentato, senza riuscirci, di candidarsi presidente della Provincia di Taranto senza coordinarsi con la Massoneria e con le alte sfere della magistratura associata che, evidentemente, nei Tribunali di Potenza e Taranto godono di spazi particolari. Vedi per esempio caso Cannizzaro-Genovesi-Restivo-Claps. Ora anche i profani sanno che perchè si configuri invece il reato di concussione occorre che l’attività estorsiva del pubblico ufficiale sia finalizzata a conseguire denaro o altra utilità (ovviamente simile al denaro). Ed è molto discutibile allo stato attuale della giurisprudenza che tra queste "altre utilità" rientrino le “utilità politiche” perché allora bisognerebbe incriminare del reato di concussione almeno il 90% della classe politica di destra di centro e di sinistra. Il mandato di cattura a carico del dott. Matteo Di Giorgio già per questi motivi appariva quindi anche al profano un mandato di cattura esagerato dato che il Magistrato può disporre - per legge - la cattura di un individuo solo se è certo che il fatto determinerà una condanna a una pena detentiva che superi il limite della sospensione condizionale della pena (anni due di reclusione). Peraltro il Procuratore Capo della Repubblica di Potenza Giovanni Colangelo, insediatosi però a Potenza quando già l'indagine era stata avviata, quel mandato di cattura non lo ha voluto firmare. Evidentemente non era d'accordo. Peraltro "voci" riferiscono che a Potenza non ci vuole stare più. Vorrebbe trasferirsi a Napoli. Torno ora a parlare di questa vicenda perché proprio qualche giorno fa la Corte di Cassazione ha annullato ben due dei quattro capi di accusa mossi al dott. Matteo Di Giorgio e precisamente: 

1. aver indotto la prima vittima tal Giuseppe Di Fonzo a non denunciare il suo presunto strozzino, parente del Magistrato, promettendogli il suo interessamento per l'iter di accesso al fondo antiusura; 

2. aver indotto la seconda vittima tal Giovanni Coccioli a ritrattare le accuse a lui stesso mosse dal Coccioli nell'ambito di un'annosa diatriba con un senatore del posto Rocco Loreto, facendogli ottenere in cambio la gestione di un bar abusivo allo stadio di Castellaneta. 

Il primo capo di accusa è stato annullato senza rinvio (cioè cancellato completamente) l'altro è stato annullato con rinvio al Tribunale del riesame di Potenza per nuovo esame. Ora è raro che la Cassazione annulli i capi di accusa di un mandato di cattura senza rinvio. Se lo fa è perchè evidentemente si tratta proprio di una castroneria, nella specie confermata (ahimè;) dal Tribunale del riesame di Potenza. 

Annullati questi due capi di accusa rimangono a carico del Magistrato Matteo Di Giorgio altre due imputazione: 

1. aver esercitato presunte pressioni sul proprietario di un villaggio turistico "Città del Catalano" per far revocare il servizio di vigilanza a tal Vito Pentassuglia (esponente, secondo l'accusa, dello schieramento politico avversario al suo quello di Sinistra) e poi aver fatto altre pressioni sempre sul titolare di quel villaggio turistico per farsi concedere due mesi di vacanza "quasi" gratuiti in due appartamenti del residence medesimo;

2. aver costretto alle dimissioni un consigliere comunale di Sinistra tal Domenico Trovisi dietro la minaccia di far arrestare due suoi familiari. 

Ora la Cassazione - come tutti sanno - non entra nel merito delle vicende processuali perchè si limita a valutare solo i profili di legittimità (ossia il rispetto della legge sostanziale e processuale da parte del Magistrato che ha emesso il provvedimento). Però appare strano che un Magistrato si esponga fino a quel punto solo per farsi "quasi" pagare (e perchè non per intero?) una vacanza in un villaggio turistico della sua stessa città. Questo può capitare a un impiegato di quart'ordine che non ha il denaro sufficiente per pagarsi la vacanza ma non a un Magistrato il quale è lautamente retribuito. Inoltre "voci" apparse anche sulla stampa (settimanale locale "Wemag";) riferiscono che gli episodi relativi alle dimissioni del consigliere comunale di Sinistra Domenico Trovisi non si sono svolte affatto come è stato raccontato nel mandato di cattura, ma si sono verificati con queste modalità: in quel periodo il Magistrato concittadino Matteo Di Giorgio si trovava ad esaminare per ragioni del suo ufficio alcune intercettazioni telefoniche dalle quali emergeva che due giovani familiari di Domenico Trovisi, persona molto in vista in città in quanto titolare di oleifici, discoteche ed altre importanti attività economiche, fossero responsabili di un grave reato. Per pietà e per senso di concittadinanza il giovane familiare non è stato arrestato dal Magistrato Matteo Di Giorgio e il Trovisi ha pensato bene - per decenza - di dimettersi spontaneamente da consigliere comunale. Però...... "voci"..... Mi chiedo: ma si può trattare un Magistrato come una pezza da piede per fatti di questo genere? Peraltro - come ho detto - tutti i capi di imputazione annullati o non annullati dalla Cassazione si riferiscono a vicende vecchie, datate nel tempo (intorno al 2001 circa) che ormai affondavano nelle polveri degli archivi della Procura della Repubblica di Potenza tanto era stato il tempo trascorso dalla loro archiviazione disposte queste archiviazioni da un valoroso Magistrato che allora era in forza alla Procura della Repubblica di Potenza, che si chiamava John Woodcock. Solo il trasferimento di questo Magistrato dalla Procura di Potenza a quella di Napoli ha consentito che quelle denunce fossero riprese e valorizzate. Per verificare queste denunce poi è stata messa in moto la macchina giudiziaria come per le grandi occasioni, riguardanti fatti gravissimi di criminalità organizzata, sono stati addirittura impiegati anche ex Carabinieri allontanati dall’Arma per ragioni disciplinari o penali e per ben due anni (pensate!) tutte le stanze del Tribunale di Taranto sono state disseminate di cimici per le intercettazioni ambientali!!!!!!!!!!! Al punto che personalmente una volta mi è capitato di essere invitato da un Magistrato a interloquire con lui nel bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, proprio per la presenza – risaputa - di queste invasive cimici. Inoltre è successo pure che molti Magistrati del Tribunale di Taranto e - praticamente quelli più valorosi - infastiditi da tante pressioni, hanno chiesto e ottenuto il trasferimento presso altre sedi. E’ il caso per esempio della dott.sa P.N., del dott. G.D., del dott. G.C. e di altri. Anzi addirittura il dott. G.C., benchè giovanissimo, ricopriva nel Tribunale di Taranto, sua provincia di residenza, il prestigioso ruolo di presidente del collegio penale. Ebbene egli ha preferito chiedere il trasferimento presso un altro Tribunale e autoretrocedersi a Pretore di piccoli paesi pur di sfuggire al clima giacobino e velenoso che, per via di queste intrusioni, si è creato nell'ambiente giudiziario tarantino. Mi chiedo: ma data l’inezia delle accuse e la mole delle forze messe in campo non sarà per caso che l'inchiesta contro il Magistrato Matteo Di Giorgio sia stata solo un pretesto e che invece da Potenza e forse da più in là qualcuno voleva inquisire tutti i Magistrati del Tribunale di Taranto per tentare una sorte di pulizia etnica a sfondo politico? Capisco che questa è un'ipotesi suggestiva ma l'arresto altrettanto plateale e contemporaneo del dott. Giuseppe De Benedictis di Bari a soli quattordici giorni di distanza e anche questo - come vedremo - carico di simbologia, è opera - formalmente - di un'altra Procura esterna, la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. In quel periodo si vociferava di intrusioni del dott. Matteo Di Giorgio nella vicenda dei parchi eolici, un'inchiesta che partiva da Roma e precisamente dal P.M. dott. Giancarlo Capaldo, fratello di quel Pellegrino Capaldo, grande amico di Nicola Mancino, il noto e diabolico stratega del 1992. Questa inchiesta sui parchi eolici doveva fare strage di uomini politici e di Magistrati dell'area meridionale e poi invece si è rivelata un flop, un'autentica bolla di sapone. Ma ci ha fatto capire che la testa del drago di questa e di altre inchieste non sta a Taranto. E - forse - nemmeno a Potenza. Sta a Roma. Ed è - guarda caso! - la stessa testa pensante che ha gestito lo scandaloso processo a carico di Raniero Busco per la morte avvenuta venti anni fa di Simonetta Cesaroni (la compiuterista asseritamente assassinata negli Uffici di copertura del Sisde dal fidanzato impazzito Raniero Busco). .......Bha.......a pensar male - dicono - si fa peccato. Però qualche volta si coglie il giusto!............”

Altrettanto non si può dire della Procura di Taranto che ha visto un suo magistrato Matteo Di Giorgio arrestato a seguito di un’inchiesta coordinata dal pm di Potenza, Laura Triassi, e condannato in 1° grado dal Tribunale di Potenza a 15 anni per concussione e corruzione in atti giudiziari. Ma non è tutto. Come pena accessoria è stata disposta anche l’interdizione perpetua del magistrato dai pubblici uffici, motivo per cui è stato attualmente sospeso dalle funzioni dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Sentenza processo al pm Di Giorgio, i fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino, scrive “Il Corriere del Giorno" il 28 ottobre 2015. La sentenza “integrale” del processo che ha condannato il pm Matteo Di Giorgio e per cui il Tribunale di Potenza ordinò ai sensi dell’art. 207 c.p.p. la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti di Argentino e Petrucci (ex procuratore capo) per il reato di falsa testimonianza. Dalle motivazioni della sentenza del processo di primo grado a carico dell’ex pm Matteo Di Giorgio escono con le ossa rotte insieme al principale imputato (condannato a 15 anni di reclusione) anche le istituzioni tarantine, i massimi esponenti del passato e attuali della Procura di Taranto, nella fattispecie l’ex procuratore capo Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto Pietro Argentino, rappresentanti delle Forze dell’ordine, agenti della Digos, il vicequestore vicario in servizio fino a qualche anno fa, Michelangelo Giusti, un sostituto commissario della sezione di pg della Polizia di Stato  della Procura e numerosi Carabinieri in servizio nelle caserme di Castellaneta e Ginosa. I due magistrati, poliziotti e militari dell’Arma dei Carabinieri, sono fra i 21 testimoni esaminati in dibattimento per i quali, con l’accusa di falsa testimonianza, il collegio del Tribunale di Potenza ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura lucana. Nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, principio sacrosanto sancito dalla Costituzione, ma quello delineato nelle 665 pagine delle motivazioni è uno scenario inquietante. Dal processo basato su intercettazioni e numerose testimonianze emerge quello che viene battezzato “sistema Di Giorgio”, descritto come “una struttura a piani sovrapposti, le cui fondamenta erano costituite dall’esercizio o dallo sviamento delle sue funzioni giudiziarie o della sua qualità”. Un sistema, stando alla sentenza, che faceva leva sulla “connivenza di altri funzionari pubblici che operavano nella stessa struttura o diversamente abusando, a proprio profitto, delle ‘maglie larghe’ di una organizzazione dell’ufficio che prevedeva pochi controlli e lasciava ampi margini di discrezionalità nella assegnazione e nella gestione dei procedimenti”. (vedi Allegato 1 – pag. 15) I fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino sono emersi dalle testimonianze di due carabinieri. Il maresciallo Leonardo D’Artizio, all’epoca dei fatti in servizio alla compagnia di Castellaneta, ha riferito di un incontro tenuto di pomeriggio in Procura a Taranto con Argentino, sostituto procuratore, da lui e dal capitano Gabriele Stifanelli, comandante della compagnia (attualmente tenente colonnello). Argomento: presunti illeciti al comune di Castellaneta e pressioni di Di Giorgio sul consigliere comunale Domenico Trovisi per far cadere l’Amministrazione guidata dal sindaco e senatore Rocco Loreto. Tali circostanze gli erano state riferite da un assessore comunale, Pontassuglia, il quale, però, non aveva voluto mettere nero su bianco. Le sue dichiarazioni, comunque, erano state registrate dal maresciallo. D’Artizio ha raccontato che Stifanelli prese appuntamento con Argentino ma, quando spiegarono il motivo della loro presenza in Procura, il magistrato li condusse dal procuratore capo Aldo Petrucci. Quest’ultimo disse loro che non si poteva iniziare un’indagine così delicata con quegli elementi. La vicenda finì lì, “perché non c’è mai stata la possibilità di iniziare un’indagine”. Sarebbe stata insabbiata sul nascere, stando alle dichiarazioni rese non solo da D’Artizio. Il racconto trova conferma in quanto riferito dal comandante Stifanelli. Quest’ultimo, l’anno successivo, il 2004, in un altro contesto, l’indagine sul suicidio di un carabiniere in servizio a Castellaneta, riferì al pm Vincenzo Petrocelli dell’incontro avvenuto nel 2003 e di una relazione acquisita dallo stesso Argentino. “Era fine estate, ricordo. E poi non se ne fece niente”. Sono state le parole dell’ufficiale dell’Arma, uno dei migliori in fatto di produttività e di contrasto al crimine in provincia di Taranto da diversi anni a questa parte. Una deposizione definita “genuina” dal collegio in quanto il teste è estraneo al contesto del processo Di Giorgio e, al tempo stesso, “in stridente contrasto” con quelle di Argentino e Petrucci i quali, malgrado l’avvertimento del presidente del collegio su possibili responsabilità penali che potevano emergere dalle loro dichiarazioni, hanno negato di aver ricevuto il capitano Stifanelli e di aver acquisito la relazione. “Può ipotizzarsi un comune interesse a coprire, forse, la loro responsabilità, per avere omesso di formalizzare e inoltrare la denuncia di D’Artizio e Stifanelli. Verosimilmente perché essa coinvolgeva pesantemente il loro collega e amico Di Giorgio”. Altrimenti, sono sempre le motivazioni della sentenza, non si spiega la ragione per la quale, dopo tre anni, nel 2006, dopo aver appreso delle dichiarazioni rese da Stifanelli, Petrucci ha chiesto una relazione ad Argentino che l’ha fornita. “I dottori Petrucci e Argentino, a parere del collegio, hanno così tentato di creare una copertura reciproca, formalizzando a “futura memoria” le rispettive posizioni in un atto scritto che non riportava però fedelmente i fatti accaduti”. Un rimedio peggiore del male, stando alle conclusioni dei giudici. Durante la testimonianza, Argentino ha dichiarato di aver incontrato due marescialli dei quali non ricordava il nome ma non il capitano Stifanelli e ha sostenuto che non gli fu fatto il nome della fonte, non gli fu riferito del possibile coinvolgimento di Di Giorgio e non gli fu consegnata alcuna relazione. Anche sul contenuto dell’incontro la sua deposizione stride con quella dei testi ritenuti attendibili, D’Artizio e Stifanelli, è scritto nella sentenza, “non è credibile”. La relazione di servizio dei Carabinieri, si legge nella sentenza, avrebbe dovuto essere trasmessa a Potenza dal procuratore Petrucci ma ciò non avvenne mai. Anzi, il capitano Stifanelli rischiò di essere perseguito sotto il profilo disciplinare per una nota di censura inviata dalla Procura al comando provinciale. Riuscì ad evitare provvedimenti soltanto perché non più in servizio in Puglia. Quei fatti sono datati e le presunte responsabilità dei magistrati non sono più perseguibili per via della prescrizione. Quella stessa prescrizione prevista dal Codice, ed osteggiata dalla Magistratura. Nel frattempo, il processo a carico di Di Giorgio ed altri imputati è approdato in appello.

PARLIAMO DELLA CALABRIA.

…DI REGGIO CALABRIA. Operazione Mammasantissima: 'ndrangheta, massoneria e politica nel mirino. Ecco i segreti dell'indagine antimafia che scuote i salotti buoni di Reggio Calabria. E mette a nudo i rapporti tra criminalità e Stato, scrive Gianfranco Turano il 21 settembre 2016 su “L’Espresso”. La tempesta sta per arrivare. C’è chi conta i giorni: fine settembre, ottobre al massimo. C’è chi per la paura dà i numeri: centodieci candidati al carcere. Un’enormità per una città come Reggio Calabria. Significa uno ogni mille abitanti circa. Se poi non saranno centodieci, saranno pochi in meno e farà poca differenza. Zona altamente sismica, Reggio. Quasi mezzo secolo di edilizia politica arditissima, realizzata con i materiali in teoria antagonistici di ’ndrangheta, massoneria e Stato, rischia di crollare sui grandi architetti che l’hanno ideata. È un oggetto con molti nomi che si può chiamare Santa o Cosa Unita ma fino a poco tempo fa è stato Cosa Ignota. L’elenco dei vip è già piuttosto robusto. Mammasantissima e le altre inchieste della direzione distrettuale antimafia reggina hanno già inguaiato parlamentari, ministri, politici: l’ex deputato Amedeo Matacena, latitante da quasi tre anni, il senatore Antonio Caridi, che nel 2010 andava in visita a casa del boss Giuseppe Pelle ed è stato arrestato il 4 agosto scorso, l’ex ministro Claudio Scajola a processo ma ancora invitato vip alla festa della polizia dello scorso 26 maggio, Giuseppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio ed ex governatore calabrese. Fondatore del Ncd con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, Scopelliti è stato condannato in primo grado a sei anni per le malversazioni delle finanze municipali. È ancora sotto scorta in quanto minacciato dalla ’ndrangheta (dal 2004) e dalle Brigate Rosse (dal 2012). Nelle carte figurano anche Angela Napoli, già membro della commissione antimafia, l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio che, secondo il braccio destro di Scopelliti arrestato, Alberto Sarra, era il suo consigliere insieme al sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino. E poi ci sono gli amici dei bei tempi della destra, Gianni Alemanno e Maurizio Gasparri. La Reggio bene, la Reggio che conta non solo a Reggio è investita da un’onda che, per alcuni, è tardiva e per altri meglio tardiva che sospesa in eterno. Si teme che gli effetti collaterali colpiscano anche chi non è colluso, ma semplice vittima dell’attitudine reggina al “me la vedo io”, quando qualcuno offre qualcosa, senza chiedere nulla in cambio o non subito. Giuseppe De Stefano, “Crimine” del clan di Archi oggi al 41 bis, l’ha battezzata brillantemente “la banca dei favori”. È un istituto di credito che ha prosperato oltre ogni speranza, in simbiosi con le strutture istituzionali, trasformandosi in apparato statale fin dagli anni in cui la Cosa Nostra di Totò Riina dichiarava guerra alla Repubblica. Il procuratore Federico Cafiero de Raho e il suo sostituto Giuseppe Lombardo hanno impresso una svolta. Adelante con juicio, per dirla con il Manzoni. Per dirla con Totò, chi sa dove vogliono arrivare. «La procura mette in ginocchio la città», risponde Massimo Canale, ex Comunisti Italiani e poi candidato sindaco per il Pd sconfitto nel 2010 dal centrodestra di Demetrio Arena, lo scopellitiano che guiderà Reggio allo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Oggi Canale è tornato al suo mestiere di avvocato e difende Marcello Cammera, uno dei funzionari più influenti e chiacchierati del Comune di Reggio, alla guida del settore lavori pubblici. Si dichiara garantista a oltranza ma si chiede dov’era lo Stato quando Caridi, consigliere comunale con la prima giunta del sindaco Scopelliti, veniva eletto in Senato a rappresentare, secondo l’accusa che lo ha portato dietro le sbarre, un’organizzazione criminale che non si può più chiamare ’ndrangheta e forse neppure criminale vista la presenza di magistrati, imprenditori, avvocati patrocinanti in Cassazione e commercialisti con studio in centro a Milano. Un’organizzazione che controlla sistemi operativi di rilievo internazionale come il porto di Gioia Tauro, dove sono attivi Cia, Mossad e MI6, e ha accesso ai più evoluti strumenti finanziari del globo, dalle grandi banche svizzere a fondi come il malesiano 1MDB, una vasca da miliardi messa sotto sequestro negli Stati Uniti. Il fondo asiatico è uno dei fronti di indagine in fase di sviluppo, come quello che riguarda il banchiere Robert K. Sursock, numero uno di Gazprombank a Beirut. Un investigatore che da anni lavora sul cono d’ombra della città dello Stretto dice: «Qualcuno si è chiesto come mai il Credito Svizzero, che sponsorizza solo le nazionali elvetiche di calcio e il tennista Roger Federer, doveva comparire per due anni sulle magliette della Reggina in serie A tra l’altro con soldi mandati attraverso la branch di Hong Kong?». Quasi fra le righe di Mammasantissima torna un nome di grande peso a Lugano, quello di Vittorio Peer, ex proprietario dell’isola di Budelli, amministratore della Ciga e mediatore di opere d’arte, citato dai pentiti Nino Fiume (clan De Stefano) e dal colletto bianco massone Michele Amandini, oggi collaboratore di giustizia dopo che, scrivono i magistrati, «aveva svolto, per conto della ’ndrangheta, il compito di riciclare, attraverso canali finanziari svizzeri, i proventi dei sequestri di persona a scopo di estorsione». Giuliano Di Bernardo, ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la maggiore obbedienza massonica italiana, sta spiegando la sua uscita dal Goi proprio con l’infiltrazione della ’ndrangheta nelle logge (28 su 32 secondo l’allora vice del Goi). Di Bernardo ha anche detto di avere messo al corrente della situazione il capo supremo della massoneria inglese, il principe Edward duca di Kent, che per questo motivo non ha voluto riconoscere il Goi. La nuova interpretazione del rapporto fra ’ndrangheta e massoneria è che sia stata proprio la seconda a infiltrare la prima dopo una sorta di “reverse merger” operato dalla componente gelliana fin dai primi anni Settanta. Con la nascita della Santa, la ’ndrangheta è rimasta una cosa per “quattro storti”, i quattro stupidi di cui parla Pantaleone “Luni” Mancuso del clan di Limbadi. Sono i manovali del crimine che i capi sacrificano in nome delle relazioni diplomatiche con il potere ufficiale. «Non ho mai conosciuto un grande boss che non fosse il confidente di polizia, carabinieri, finanza o servizi», dice Enzo Macrì, procuratore capo ad Ancona, ex numero due della Dna e uno dei magistrati di Olimpia, il primo processo su ’ndrangheta e politica. «Soprattutto gli apparati di intelligence controllano Reggio fin dagli anni Settanta». “Mammasantissima” ha due assi nella manica. Uno sono le dichiarazioni di Alberto Sarra, ex consigliere regionale, amico d’infanzia e di basket dell’ex sindaco e governatore Giuseppe Scopelliti. I verbali di Sarra sono definiti “dirompenti” da chi sta seguendo l’inchiesta. Ma c’è un secondo personaggio capace di portare l’indagine a livelli altissimi. È Cosimo Virgiglio, curiosa figura di imprenditore implicato in un processo (“Maestro”) con potenzialità enormi poi rimpicciolito a un traffico di merci contraffatte sbarcate al porto di Gioia Tauro. Lì erano emerse le relazioni di Virgiglio con il clan Molè, da una parte, e con un contesto eterogeneo rappresentato dal piduista Giorgio Hugo Balestrieri, autore di un memoriale su ’ndrangheta e politica finora rimasto lettera morta, e da esponenti del clan Casamonica. Attivo nell’immobiliare e proprietario della stazione dei carabinieri di Rosarno, Virgiglio sta descrivendo riti e affari di un’organizzazione che non può essere definita semplicemente criminale perché include gli uomini dello Stato e diventa essa stessa apparato dello Stato. Nell’ordinanza Mammasantissima i verbali di Virgiglio sono in larga parte coperti da omissis perché vengono integrati in corso d’opera con i riscontri sull’enorme deposito di documenti e fotografie trovato a Villa Vecchia, l’albergo di Monte Porzio Catone al quale erano interessati gli uomini del clan Molè. L’ordinanza Mammasantissima non è solo, come la definisce il sindaco Giuseppe Falcomatà, «la madre di tutte le inchieste». Raccoglie il lavoro fatto in vent’anni, dai processi Olimpia e Meta a Crimine-Infinito. Chi ha interesse a smontare la madre di tutte le inchieste ripete una cantilena già sentita: possibile che Paolo Romeo, o il senatore Antonio Caridi o uno qualunque degli altri imputati in arrivo, siano il capo dei capi? Ma è un falso problema. Si chiami Santa o Cosa Nuova o Stato, il potere nato nel cono d’ombra di una città del sud di 200 mila abitanti e cresciuto fino a essere l’interlocutore delle potenze statali internazionali, oltre che potenza economica globale in sé, è un’oligarchia. L’oligarchia, per definizione, non ammette monarchi. Un magistrato che ha vissuto la lotta alla ’ndrangheta fin dagli anni Novanta si mostra più critico e avverte che bisogna stare attenti a distinguere, all’interno del reale, tra fossili e esseri viventi. Ma da questo punto di osservazione, uno dei “Mammasantissima” arrestati dovrebbe essere un fossile. Invece è piuttosto un mediatore politico dotato di eccezionale longevità. Paolo Romeo, 69 anni, inizia la carriera quasi mezzo secolo fa, quando da militante di Avanguardia nazionale porta le bombe a mano dentro l’università di Roma durante gli scontri studenteschi del 1968. Nello stesso anno, il fratello Vincenzo uccide per futili motivi - una lite per un ballo alla Festa della Madonna della Consolazione patrona di Reggio - il camerata Benedetto Dominici, a sua volta fratello di Carmine che diventerà uno dei principali collaboratori di giustizia sulle vicende al confine fra ’ndrangheta ed eversione neofascista. Iscritto al Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, e fermato per partecipazione a manifestazione sediziosa durante i Moti per Reggio capoluogo del 1970-1971, Romeo prende presto la strada giusta al bivio dei rivoluzionari neri. Con la sveltezza ideologica prescritta dal trasversalismo santista, diventa deputato del partito socialdemocratico. Non dimentica di aiutare i camerati in difficoltà, come i fuggitivi Stefano Delle Chiaie e Franco Freda, ma mette a disposizione la sua influenza anche verso i compagni con i quali si è preso a sprangate. Per usare la terminologia bolscevica, diventa il commissario politico del clan De Stefano mentre il collega avvocato Giorgio De Stefano, anch’egli patrocinante in Cassazione, determina le strategie affaristico-militari della famiglia del quartiere Archi. «Per loro la condanna come concorrenti esterni in associazione mafiosa è stata meglio di un’assoluzione», ha detto il pm Lombardo. Il terzo dei concorrenti esterni è Amedeo Matacena junior, figlio di uno dei finanziatori dei Moti per Reggio capoluogo del 1970, vera data di nozze fra massoneria, servizi segreti e quella che allora era nota come mafia calabrese, perché non aveva nemmeno un nome proprio. Dopo cinquant’anni dai suoi esordi, Paolo Romeo parlava con tutti, dava ordini a tutti. A dispetto delle sue condanne, suggeriva al presidente di Confindustria Reggio, Andrea Cuzzocrea, editore del “Garantista”, l’assunzione della giornalista Teresa Munari, ritenuta utile in quanto amica del componente dell’Antimafia Angela Napoli. Pochi giorni prima di essere di nuovo arrestato, Romeo era nelle sale del Comune, a partecipare a incontri sulla città metropolitana come membro dell’associazione Forum Reggio Nord 2020, creando imbarazzi a un sindaco eletto contro il blocco di potere santista. Del resto, Romeo considerava la città metropolitana una sua creatura. Lo ha rivendicato lui stesso davanti al tribunale del Riesame: se non era per lui, Reggio non entrava nella shortlist. Alla faccia, si può aggiungere, di città più grandi e più ricche, come Brescia o Verona. In fondo, è la vecchia storia della mafia che dà lavoro. Il rischio è che i sequestri giudiziari e la chiusura di lidi, negozi, bar, siano il colpo di grazia a un’economia fragile. Falcomatà la cui candidatura è stata imposta a un Pd a rischio di infiltrazioni dal reggino più potente del momento, il sottosegretario ai servizi segreti Marco Minniti, sta formulando un piano sul modello Expo per consentire alle imprese impegnate in lavori pubblici urgenti ma colpite da interdittive antimafia di completare le commesse sotto controllo. «Non deve passare il messaggio che con la ’ndrangheta si lavora e con lo Stato no», dice il sindaco che invita la città a reagire nei suoi corpi intermedi, senza affidarsi alle sole inchieste di polizia. Lui non lo può dire ma il marcio è lì, nelle associazioni gestite dai professionisti dell’antimafia e della mafia, fra gli imprenditori, negli ordini professionali che mantengono nell’albo gli avvocati Romeo e De Stefano, che propongono come probi viri legali coinvolti in inchieste di ’ndrangheta, che conservano l’iscrizione al dottore commercialista Pasquale “Lino” Guaglianone, ex tesoriere dei Nar di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Ma la reazione c’è. C’è sempre stata, a smentire la leggenda razzista sull’incapacità genetica dei calabresi a ribellarsi. Continua a esserci. Dopo il cuoco Filippo Cogliandro, il commerciante di prodotti sanitari Tiberio Bentivoglio, il costruttore Gaetano Saffioti, il gestore di agriturismo Cristofaro Tedioso, emigrato di ritorno dal Canada, c’è un fioraio che si chiama Vincenzo Romeo, nessuna parentela con Paolo. Il fioraio aveva un chiosco al centro commerciale Perla dello Stretto a Villa San Giovanni. Per non avere firmato l’accordo con il consorzio il cui dominus era l’avvocato Paolo Romeo, nella notte del 3 giugno 2015 il chiosco è stato bruciato. Un servizio sul network la C ha trasmesso le telefonate dopo il rogo fra il commerciante e il suo finanziatore di Unicredit. «Senti, vedi che glielo puoi segnalare alla banca. Io domani mattina sono là che ricostruisco», dice Romeo cercando con scarso successo di non piangere. «A me se mi ammazzano... La mia famiglia campa sempre là. Campa là perché non so dove andare. A 50 anni non so dove andare. Non so rubare. Mi possono ammazzare. Sono sempre là». Il funzionario di Unicredit riferisce ai superiori di Milano, che in conference call reagiscono sghignazzando. Alla fine, uno dei manager replica, finalmente preoccupato: «E adesso che cacchio gli vendiamo? Il suolo?» Ma il titolare del chiosco è stato di parola e ha tenuto duro. La Perla dello Stretto, il centro commerciale controllato dall’avvocato Romeo, è stata riaperta dopo il sequestro giudiziario disposto nell’inchiesta Fata Morgana. Se passate da Villa San Giovanni e vi servono fiori, sapete dove andare.

Massoneria, mafia, politica e servizi: ecco la “nuova” ‘ndrangheta. “In Calabria 28 logge su 32 controllate da clan”, è scontro. "Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria", spiega il pentito Lo Giudice ai pm che indagano sulla cupola degli "invisibili". Il Gran Maestro Bisi attacca sui verbali del suo predecessore Di Bernardo: "Avrebbe avuto gli strumenti per intervenire", scrive Lucio Musolino il 18 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria”. È il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice detto il ‘Nano’, assieme al pentito Cosimo Virgilio, a dare al sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo i riscontri sui cosiddetti “invisibili” che tirano le fila a Reggio Calabria. Le carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, nell’ambito della quale è stato chiesto al Parlamento l’arresto per associazione mafiosa anche del senatore Caridi, rischiano così di riscrivere la storia, non solo politica, di una città dove sono ancora troppe le domande che non hanno avuto una risposta. Punti interrogativi che possono essere svelati solo dopo aver letto tra le pieghe del rapporto massoneria -‘ndrangheta – politica - servizi segreti deviati. A partire dai tre panetti di tritolo piazzati nell’ottobre del 2004 in un bagno di Palazzo San Giorgio e trovati grazie a tre informative firmate dal numero due del Sisde Marco Mancini. Una bomba, collegata a un telefonino, che non poteva esplodere perché non aveva l’innesco. Le barbe finte del Sismi avvertirono la squadra mobile di allora che era stata la ‘ndrangheta a piazzare l’ordigno e che questo era indirizzato al sindaco Giuseppe Scopelliti, messo sotto scorta ancora prima del rinvenimento dei panetti da parte degli uomini del questore Vincenzo Speranza. A distanza di 12 anni, nessuno era riuscito a scoprire quale famiglia mafiosa aveva gestito l’operazione ma solo che il tritolo era quello della “Laura C”, la nave affondata a largo della costa jonica con tonnellate di esplosivo nella stiva diventata il supermarket della ‘ndrangheta. Solo pochi giorni fa, il procuratore De Raho ha spiegato che la collocazione di quell’esplosivo sarebbe stato un avvertimento del gruppo Romeo-De Stefano per ottenere un duplice effetto: da una parte condizionare Scopelliti e dall’altro dare di lui l’immagine di un amministratore bersaglio della ‘ndrangheta, favorendone l’ascesa politica. Una messa in scena, quindi, organizzata nei minimi particolari dalle stesse persone in grado di lasciare fuori l’ala militare delle cosche, fare arrivare il messaggio al vice di Pollari e, allo stesso tempo, creare le condizioni affinché di quel tritolo non si sapesse più nulla. Alla luce anche di questo, è più comprensibile quanto il pentito Lo Giudice spiega al pm Lombardo il 21 giugno scorso: “In questa nuova organizzazione, la parte identificabile con la vecchia ‘ndrangheta è incaricata di gestire i rituali e di svolgere una funzione di parafulmine rispetto alla componente più importante e riservata, che attraverso i rapporti con ulteriori apparati massonici gestisce un enorme potere anche in campo politico ed economico”. Nino il “Nano” riferisce ai magistrati quello che in cella gli ha raccontato il collaboratore Cosimo Virgilio, profondo conoscitore dei grembiulini calabresi che aveva svelato alla Dda come le cosche della Piana di Gioia Tauro avevano imposto la mazzetta del 3% alle imprese che hanno ammodernato la Salerno-Reggio Calabria. “(Virgilio, ndr) mi confidò – dice Lo Giudice – che faceva parte di una società segreta chiamata massoneria e che era costituita da tre tronconi: una legalizzata (di cui facevano parte professionisti di alto livello come giudici, servizi segreti deviati e uomini dello Stato), la seconda da politici, avvocati e commercialisti, e la terza da criminali con poteri decisionali e uomini invisibili che rappresentavano il tribunale supremo che giudicavano la vita e la morte di ogni affiliato, tutti uniti in unica potenza incontrastata”. È ancora più chiaro lo stesso Virgilio che al pm Lombardo illustra come “materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale”. Nel gergo massonico lo chiamano la “breccia di Porta Pia”. In realtà è una sorta di camera di compensazione a una sola entrata, un “varco” tra il mondo della ‘ndrangheta e quello dei grembiulini costituito da una “nuova figura criminale che è identificata con la Santa”. “È importante – continua Virgilio – precisare che, attraverso quel “varco” costituito dai santisti (soggetti insospettabili), il mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa, per quello che io ho vissuto e percepito. Devo precisare ancora che il ruolo di santista all’interno della ‘ndrangheta non consente in automatico il contatto con la massoneria: è necessario, invece, perché questo contatto avvenga, che si individuino ulteriori soggetti “cerniera”, che noi definivamo soggetti in giacca, cravatta e laurea, che fossero in grado di curare queste relazioni senza che fossero direttamente individuabili”. Mafiosi e massoni insieme quindi. In numerose inchieste ci sono tracce del fascino per la squadra e il compasso nutrito dai boss. Con l’operazione “Mamma Santissima”, però, scopriamo che è avvenuto soprattutto il contrario: sono i massoni che aprono quel “varco” dove i loro interessi si mescolano con quelli della ‘ndrangheta. “Il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di ‘ndrangheta, – è sempre il pentito Virgilio a parlarne con il pm Lombardo – aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ‘ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria”. Nelle carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, il racconto dei pentiti si incastra alla perfezione con quello dei massoni. A parlare ai magistrati è il professore Giuliano Di Bernardo, Gran maestro del Grande Oriente d’Italia, “non un quisque del populo” chiarisce il gip nell’ordinanza di custodia cautelare. Interrogato nel marzo del 2014, infatti, Di Bernardo “ha illustrato quella che lui stesso aveva percepito essere una sorta di compenetrazione fra una certa massoneria e la criminalità organizzata, specie calabrese”. “Entrato in massoneria nel 1961, – sono le sue parole – nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal Goi (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d’Italia, nel 2002 … in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d’Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il Goi disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della massoneria inglese che è la vera massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel Goi, nel corso di una riunione della Giunta (una sorta di cda del Goi in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetta situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avuti dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”. La rievocazione dei verbali di Di Bernardo provoca la dura reazione di Stefano Bisi, Gran maestro dl Grande Oriente d’Italia. “Il Grande Oriente d’Italia, pur non avendo nulla a che fare in termini di ruolo, di logge e dei suoi iscritti” con l’inchiesta, sostiene Bisi, “è stato poi strumentalmente e forzatamente evocato in tale contesto dagli organi d’informazione”. Secondo il Gran Maestro, “tirare in ballo un morto, che non può minimamente contraddire o puntualizzare la versione dei fatti attribuitagli, è sin troppo facile e da furbi”. Poi l’attacco a Di Bernardo, che “avrebbe avuto tutti gli strumenti massonici a sua disposizione e sarebbe dovuto prontamente intervenire per sciogliere le Logge in presunto odore d’illegalità di cui ha parlato nel 2014, o denunciarne i fatti alle autorità competenti. Il non averlo fatto allora sarebbe ancora oggi un atto estremamente grave e incomprensibile”. Dal racconto di Di Bernardo emerge come massoneria, ‘ndrangheta, Cosa Nostra e destra eversiva erano impegnate a sostenere i movimenti separatisti siciliani e meridionali. In sostanza l’oggetto dell’inchiesta “Sistemi criminali” che l’ex procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato non riuscì a portare avanti. Un’indagine in cui era stato coinvolto Paolo Romeo, uno dei presunti componenti della cupola degli “invisibili” assieme al senatore di Gal Antonio Caridi e all’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra. “Seppi dai miei referenti calabresi e non solo – mette a verbale il Gran maestro Di Bernardo – che all’interno del Goi all’inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l’origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del Goi. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del Goi era al centro di un traffico di armi con paesi extra-europei”. Intanto oggi a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, c’è stata una nuova perquisizione dei carabinieri del Ros e del Reparto Operativo. L’obiettivo degli investigatori è trovare altri riscontri sulla posizione dell’ex sottosegretario della Regione Alberto Sarra, fino al 2005 assessore al Personale e nei cinque anni successivi consigliere di minoranza. Uomo di Paolo Romeo (considerato la mente della ‘ndrangheta reggina), Alberto Sarra è uno dei due politici regionali coinvolti nell’inchiesta “Mamma Santissima”. L’altro è il senatore Caridi che, prima di essere eletto al Parlamento, è stato assessore regionale alle Attività produttive. Entrambi, così come Paolo Romeo, erano di casa a Palazzo Campanella dove, anche adesso, hanno i loro referenti. Non è escluso che la Dda stia cercando di ricostruire come i due politici, che gestivano importanti budget, possano aver contribuito con emendamenti e proposte di legge a rafforzare gli amici dei clan.

'Ndrangheta: il senatore Caridi al vertice della "cupola segreta" calabrese. Cinque uomini tra politici e avvocati avrebbero condizionato gli appuntamenti elettorali e deciso chi doveva sedere in Parlamento, scrive Nadia Francalacci il 15 luglio 2016 su "Panorama". Il senatore Antonio Caridi, sarebbe uno dei cinque elementi della “cupola segretissima” di vertice della 'Ndrangheta. Avrebbe condizionato gli appuntamenti elettorali in ambito comunale, provinciale, regionale individuando, assieme ad altri quattro uomini, persino i propri affiliati da proiettare in Parlamento. Questo è quello che hanno scoperto i Carabinieri del Ros di Reggio Calabria che questa mattina, nell’operazione “Mammasantissima”, hanno stroncato la cupola arrestando tutti gli illustri e insospettabili appartenenti. Assieme a Caridi, senatore di Gal, la cui ordinanza di custodia in carcere stata inviata alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, infatti, sono stati arrestati anche l'ex deputato del Psdi Paolo Romeo, già in carcere dal 9 maggio scorso, l'ex consigliere regionale e sottosegretario della Giunta regionale di centrodestra Alberto Sarra, l'avvocato Giorgio De Stefano e Francesco Chirico. La "struttura segreta di vertice" della 'Ndrangheta, in base all’indagine dei Ros, avrebbe dato le direttive a tutta l'organizzazione e tenuto contatti di "alto livello", nei vari ambienti politici, istituzionali ed imprenditoriali per infiltrarli ed asservirli ai propri interessi criminali. L'ordinanza di custodia cautelare, eseguita stamani dai carabinieri, è stata emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria secondo cui i cinque destinatari del provvedimento sono tutti accusati di associazione mafiosa. Sempre secondo la procura, la “cupola” composta dai cinque uomini era in grado di condizionare gli appuntamenti elettorali a tutti i livelli: dal locale al nazionale. "La misura cautelare di oggi rappresenta un ulteriore sviluppo del quadro 'ndranghetistico-massonico descritto che figura in provincia di Reggio Calabria. Si tratta di un livello superiore", ha commentato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, in merito all'inchiesta". Solo pochi giorni fa, un’altra operazione dei carabinieri aveva sgominato un’organizzazione criminale facente capo alle ‘ndrine calabresi che era riuscita a gestire gli impianti idrici e di depurazione delle acque in numerose località Italia. Un vero e proprio "comitato d'affari" composto da dirigenti, funzionari pubblici e imprenditori capaci di gestire la "macchina amministrativa comunale" nell'interesse della 'ndrangheta, l’organizzazione criminale calabrese che era riuscita ad infiltrarsi nell’apparato dello Stato e a gestire dall’interno appalti milionari attraverso gare truccate, estorsioni e mazzette.

Antonio Caridi, il senatore "dirigente della cupola di 'ndrangheta". "Mammasantissima" è l'indagine sulla mafia calabrese che fa tremare la politica italiana. Per il parlamentare ex Ncd è stato chiesto l'arresto. Ma nelle carte spuntano i nomi di Gasparri e Alemanno, che non sono indagati, scrive Giovanni Tizian il 15 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il senatore Antonio Caridi è un «dirigente ed organizzatore della componente "riservata" della ‘Ndrangheta». Così scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza con cui viene chiesto l'arresto del politico calabrese. Punto di riferimento nazionale, insomma, di quella che la procura di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho definisce una struttura segreta e di vertice dell'organizzazione criminale. Un'accusa pesantissima per il parlamentare ex Ncd, ora nel gruppo Gal, Grande autonomia e libertà. Su Caridi dovrà ora esprimersi la giunta per le autorizzazioni di palazzo Madama. Intanto la richiesta è già partita per Roma. La componente riservata, dicevamo. Un'entità che assomiglia molto a una super loggia massonica. E, del resto, in tempi non sospetti è stato uno dei padrini più influenti della regione a spiegare, intercettato, la mutazione genetica della mafia calabrese: «La ‘ndrangheta fa parte della massoneria» esclamava con il suo sodale qualche tempo fa Pantaleone Mancuso, sovrano di Vibo Valentia. Di questa cupola elitaria fanno parte al momento cinque persone. I capi sono due avvocati (e già questo la dice lunga sulla natura di questa entità) Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Entrambi hanno segnato la storia criminale dello Stretto. Dai boia chi molla in poi, tra massoneria deviata, eversione nera e fittissimi intrecci con il potere anche nazionale. Accanto a loro c'è, ipotizzano investigatori e pm, Alberto Sarra, già sottosegretario nel governo regionale guidato da Giuseppe Scopelliti. Poco più sotto nella gerarchia si trova l'imprenditore Francesco Chirico. E infine, il politico che è arrivato a Roma: Antonio Caridi. Del senatore Caridi, agli atti dell'inchiesta "Mammasantissima" coordinata dal pm Giuseppe Lombardo, c'è tutta la sua carriera politica. Un percorso, ora emerge, viziato dal continuo appoggio delle cosche reggine. Per esempio: «Fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, cosca De Stefano, in occasione di tutte le consultazioni elettorali alle quali prendeva parte, dalla prima candidatura (elezioni comunali 1997) alle elezioni regionali del 2010»; «Fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, clan Crucitti e Audino in occasione delle elezioni regionali del 2005». Così anche, ma con sostegno di famiglie diverse, per le regionali del 2000, per le comunali del 2007 e così via. Avrebbe, inoltre, utilizzato una 'ndrina della città, i Tegano, per «individuare l'autore di un'intimidazione subita nova anni fa». Non solo. Per il sistema di cui fa parte avrebbe deciso nomine nella partecipate, fatto assunzioni pilotate e canalizzato finanziamenti. Tutto questo per agevolare l'associazione. Anche «mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico, delle cariche di volta in volta ricoperte all’interno del Consiglio Comunale di Reggio Calabria, della Giunta Comunale di Reggio Calabria, del Consiglio Regionale della Calabria, della Giunta Regionale della Calabria e del Senato della Repubblica». Da questo e molto altro Caridi si dovrà difendere davanti ai colleghi senatori. Che, con tutta calma, dovranno valutare se la richiesta d'arresto è fondata su solide basi. Non è il solo politico di caratura nazionale citato nei documenti dell'accusa. Gianni Alemanno (in fondo all'articolo la sua replica), per esempio, viene tirato in ballo per le elezioni europee del 2004. Il gip scrive - nella parte riguardante Alberto Sarra, uno degli arrestati - che l'ex sindaco di Roma (imputato in mafia Capitale) ha ricevuto l'appoggio elettorale del gruppetto finito sotto inchiesta. C'è anche Maurizio Gasparri, attualmente vice presidente del Senato, nelle carte. Uno degli episodi, di qualche anno fa, citati da un collaboratore riguarda delle assunzioni chieste da Giuseppe Scopelliti, ex primo cittadino di Reggio e poi governatore della Regione. «Per le assunzioni non parlava … solo una volta ha parlato con me di un suo protetto … era il cameriere del Cordon Bleu, che era amico intimo di Gasparri. Infatti, ha chiamato Gasparri direttamente a Scopelliti. È stata l’unica volta che entrando a Palazzo San Giorgio che il Sindaco mi chiese di assumere direttamente questo qua». Il riferimento, racconta un imprenditore-pentito, è ai posti di lavoro promessi in una S.p.a., la Fata Morgana. Società che si occupava della raccolta differenziata in città. L'imprenditore ha rivelato ai magistrati che la politica, incluso Scopelliti, faceva enormi pressioni per pilotare assunzioni. E a "cantare" non è un collaboratore di giustizia qualsiasi. Ma l'ex responsabile tecnico della S.p.a., parente stretto di Orazio De Stefano, nome e volto del gotha delle 'ndrine reggine. Clientele, criminalità, massoneria. L'intreccio è diabolico. Ecco come il pentito Cosimo Virgiglio, in un recentissimo verbale, descrive la commistione tra mafia e logge: «Ribadisco che il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di ‘Ndrangheta, aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ‘Ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria». Sembra l'incipit di un romanzo di le Carré. Invece è la realtà. Che l'antimafia di Reggio Calabria ritiene di aver smascherato. Una rete di "invisibili" che negli ultimi tempi stanno diventano sempre più visibili.

La nota di Gianni Alemanno in risposta al nostro articolo: "Smentisco nella maniera più categorica qualsiasi mio collegamento con gli uomini coinvolti nell'inchiesta sulla cosiddetta "Mamma Santissima" dell'ndrangheta. Nella fattispecie non ho mai conosciuto nè politicamente nè personalmente il senatore Antonio Caridi, mentre con l'ex sottosegretario regionale Alberto Sarra non intrattengo più alcun rapporto da almeno dieci anni. In ogni caso la mia azione nella regione Calabria è sempre stata di natura politica ed elettorale senza nessun contatto con ambienti o logiche di tipo affaristico. Vi diffido pertanto dal pubblicare il mio nome negli articoli relativi a questa inchiesta senza alcun riscontro possibile nelle carte che sono attualmente coperte dal segreto istruttorio".

Cosa nostra e 'ndrangheta? "Una Cosa sola". Le riunioni comuni per progettare le stragi del '92. Il no dei calabresi al bagno di sangue. E la nuova saldatura nel dopo Riina. Così due organizzazioni hanno modellato negli anni una joint venut che oggi fa paura, scrive Giovanni Tizian il 15 luglio 2016 su "L'Espresso". Mentre la politica immaginava il mega ponte sullo Stretto, le mafie che dominavo le rispettive sponde ne avevano già realizzato uno, assai solido e resistente alle bufere. Nell'inchiesta “Mammasantissima” coordinata dalla procura antimafia di Reggio Calabria che ha svelato la cupola dei membri invisibili della 'ndrangheta c'è anche questo: lo strettissimo rapporto tra mafiosi siciliani e calabresi. La ricostruzione dei pm attraverso le dichiarazioni di numerosi pentiti è un tuffo nell'oceano di misteri e alleanze che permetteranno di rileggere anche fatti drammatici avvenuti nel Paese. Come gli anni delle stragi, per esempio, e le successive trattative. Giuseppe Costa è uno dei collaboratori che ha raccontato questi legami per molto tempo rimasti avvolti nel silenzio. E che in molti non volevano neppure vedere: «Come ho già riferito in altri interrogatori, i legami fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta erano strettissimi. Non so in concreto per quanto tempo, nè con quali risultati operativi, ma, sicuramente, si arrivò, anche a progettare e poi a dare forma (parliamo del periodo immediatamente successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) ad una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la c.d. Cosa Nuova. Si trattava di una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa Nostra che quelli della ‘Ndrangheta. Ciò avrebbe consentito uno scambio di favori ancora più intenso e continuo fra siciliani e calabresi. Ma non solo: Cosa Nuova serviva anche ad inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese, persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche...Tenga presente che, come pure ho già spiegato, io ero legato alla cosca dei Piromalli, che, a loro volta, insieme ai De Stefano, erano la famiglia storicamente più legata a Salvatore Riina e a Cosa Nostra. Con riferimento ai rapporti fra Massoneria e mondo criminale voglio precisare anche che a me era noto, in quanto ‘ndranghetista e in quanto me lo aveva detto personalmente Giuseppe Piromalli nel corso di una comune detenzione nel carcere di Palmi, che si trattava di rapporti molto intensi specie in Calabria. Più in Calabria che in Sicilia... Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del giudice Scopelliti». Anche pentiti siciliani hanno riferito di queste relazione tra le mafie divise solo dallo Stretto. Gioacchino Pennino - uomo d'onore, politico e massone - racconta di una joint venture economica e culturale tra le organizzazioni: «Mio zio mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60’, ospite del clan Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme massoni, ‘Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980-81, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate (boss della mafia palermitana ndr) mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo». C'è poi un aspetto, forse il più inquietante, in questa storia di malacarne e notabili insospettabili. Lo rivela l'ex autista di Leoluca Bagarella, braccio destro di Riina, ai magistrati. L'uomo dei Corleonesi rivela «l’esistenza di una struttura “riservata” all’interno di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, destinata a gestirne le relazioni e gli affari di maggior rilievo». Il leader del club dei “riservati” siciliani sarebbe stato proprio Bagarella. Era lui, dunque, a dialogare con i mammasantissima al di là dello Stretto. E sarebbero stati proprio questi due “club” esclusivi a organizzare le riunioni in Calabria per progettare la stagione stragista. O meglio: Cosa nostra voleva tirare dentro anche la 'ndrangheta. Ma l'unico dei boss calabresi che aveva dato la disponibilità era stato Franco Coco Trovato, capo indiscusso di Milano ma legato a doppio filo con il potere criminale reggino. Ma se per le bombe il gotha della 'ndrangheta ha fatto un passo indietro, per il post-stragi - è questa l'ipotesi su cui la procura di Reggio lavora da tempo - la storia ha preso una piega diversa. Perché è dopo gli omicidi eccellenti che 'ndrangheta e Cosa nostra, ora in versione sommersa, ritrovano obiettivi comuni. Impunità e business. Un unico grande sistema criminale mafioso. Dove le differenze si assottigliano. Con l'obiettivo di spartirsi il Paese. E non solo.

Platì è mafiosa? Già, ma ha eletto Rosy Bindi, scrive Ilario Ammendolia il 7 giugno 2016 su “Il Dubbio”. In questi giorni di vigilia elettorale, Platì, paese di tremila abitanti della Locride, in Calabria, è andato sulla prima pagina di tutti i più importanti quotidiani nazionali. Domenica s’è votato ed i candidati a sindaco sono due normalissime persone del luogo: Ilaria Mittica, funzionaria regionale e Rosario Sergi assicuratore. Elezioni normali come in tutti i paesi d’Italia ed, a tratti, quasi noiose. Ma per gli inviati speciali che per tutta la giornata si sono aggirati ai seggi con penna e taccuino, quella di ieri non è stata una normale manifestazione di libertà e di democrazia. A Platì, dietro ogni cosa, c’è sempre la ndrangheta anche se non è spuntata la lupara né il coltello. Anche se uomini e donne sono andati gioiosamente ai seggi e senza pistola alla tempia. Inutile. Qui si è colpevoli a prescindere. L’inviato di un importante quotidiano nazionale dinanzi alla gente che va al voto scrive che a «Platì siamo al Medioevo. Questa è una terra che è Italia solo sulla carta geografica».  (La Repubblica) Ed è vero. Questa è una Terra che non è Italia gli ospedali somigliano tremendamente ai lazzeretti. Non è Italia perché ha il tasso di disoccupazione più alto di Europa. Perché la garanzie costituzionali sono state sospese da tempo. Perché uno Stato intriso di mentalità mafiosa si arroga di sciogliere i consigli comunali democraticamente eletti. Non è Italia perché le classi dirigenti hanno seminato per decenni la malapianta della ndrangheta trasformando un popolo di lavoratori in popolo di emarginati. Non è Italia perché i parlamentari e la classi dirigenti regionali ha scambiato per mezzo secolo i voti della ndrangheta con favori accordati ai mafiosi. Infatti, la ndrangheta per decenni è stata uno di strumento di governo cresciuta persino (o soprattutto) nelle caserme e nei tribunali. Non è Italia perché le disuguaglianze sono più evidente che altrove. Non è Italia perché qui è stata eletta Rosy Bindi che, chiusa in una caserma di Locri, e debitamente a distanza dai “lebbrosi” che l’hanno eletta, pontifica come una vestale del tempio sulla mafiosità dei calabresi. Non è Italia perché il presidente del consiglio dei ministri indica il candidato a sindaco di Platì dal palco della Leopolda. Perché l’on. Fava si è permesso di affermare che i candidati di Platì pur essendo in regola con i criteri dell’antimafia sono comunque sospetti, ci mancherebbe altro! Non è Italia perché l’indegno spettacolo che in occasione del 2 giugno del 2015 il PD ha messo in scena a Platì, ha dimostrato la consistenza e la serietà dei partiti calabresi. Sostanzialmente uguali! Non è Italia perché il procuratore della Repubblica di Reggio, ha dichiarato che sarebbe utile affiancare al nuovo sindaco di Platì un funzionario per controllare ogni atto della futura amministrazione. Un super controllo a Platì mentre le classi dirigenti fanno sparire nel nulla i miliardi che sarebbero destinati alla sanità o all’ambiente. Si vuole una Calabria ridotta tout-court alla sola dimensione criminale (che esiste) perché ciò fa molto comodo alla “catena di comando”. I mafiosi ci sono e vanno fieri dell’attenzione che ricevono dai giornali, dai “partiti”, dalle istituzioni. In questa nottata in cui tutti i gatti sono neri, loro ci sguazzano come pesci nel mare. In tutta la Calabria il voto è stato espressione di un disagio estremo. Ovunque si notano segnali di una rivolta strisciante contro lo Stato e che solo Dio sa come potrebbe andare a finire. A Cosenza più che per il “buongoverno” del sindaco uscente si è votato contro gli oligarchi del potere. A Napoli De Magistris, che in Calabria, si è mosso come rigoroso custode dell’ordine costituito, è diventato il Masaniello che agita il “Sud ribelle” contro il Gran Ducato di Toscana. Napoli e Platì sono distanti solo in apparenza. Per usare il linguaggio di Sciascia è la linea della Palma che avanza. Chi vuole ridurre la questione meridionale che oggi si allarga sino a diventare una “questione Mediterranea” a mera questione criminale o di ordine pubblico si assume sulle spalle e per intero le responsabilità storiche di quanto potrebbe accadere. Nel Mezzogiorno, probabilmente la rabbia, lungamente repressa, non troverà sbocco nel movimento “5 Stelle” ma potrebbe sbucare come un fiume carsico nei luoghi più impensati con conseguenze che nessuno in questo momento è in grado di prevedere.

I cento padroni di Palermo, da “I Siciliani”, giugno 1983. Camminare a Palermo. Il viale bianco di sole. Le grandi nuvole che arrivano da Punta Raisi, la loro ombra corre sul viale più veloce delle auto. Il cielo sul mare è abbagliante, il cielo sulle montagne a sud, è nero di tempesta. Il gelato da Roney. Tre signore di mezza età stanno sulle poltroncine verdi, con le sopracciglia alte e le boccucce delle signore di Tolouse Lautrec, sedute al divano rosso. Fumano con boccate avide, l’una racconta e continuamente ride, scuote la cenere in aria, l’altra sorride melliflua, la terza annuisce. Sorbiscono granita di mandorla. Tre boccucce eguali come fossero state dipinte dalla stessa mano.  Camminare a Palermo. Il cuore del vecchio mercato a mezzogiorno. Almeno cinquemila persone in un groviglio di vicoli che affondano tutti verso la piazzetta. Cento bancarelle sormontate dai giganteschi ombrelloni rossi, pesce, verdura, carne, mele, noci, aragoste, i quarti insanguinati di vitello, i capretti sventrati che pendono dagli uncini, i banditori urlano tutti insieme, lottano così l’uno contro l’altro, in mezzo alla folla. Camminare a Palermo. Il circolo della stampa, con i soffitti bassi, il sentore e l’odore della catacomba, il buio, la luce verde del bigliardo senza giocatori, tre bizzarri individui che ti vengono incontro da tre direzioni diverse, si rassomigliano incredibilmente tutti e tre, saluti gentilmente e nello stesso momento tutti e tre ti salutano con l’identico sorriso, sono gli specchi che dagli angoli bui riflettono la tua immagine. Silenzio. Un aroma di caffè, un cameriere vecchissimo, allampanato che appare vacillando, da un angolo d’ombra all’altro, e scompare. Su un divano tre vecchi signori impassibili dinnanzi a un televisore in bianconero che pispiglia qualcosa. Uno dei signori ha il bastone col manico d’argento, le ghette, il panama bianco. Si alza levando dolcemente il bastone a mo’ di saluto: “Ho fatto tardi!”. Se ne va adagio, si volge solo un attimo con un mormorio. Non si capisce se abbia detto: “Debbo morire!”. Camminare a Palermo? Gli osceni edifici a dodici, quindici piani, che si affollano l’uno sull’altro, lungo la riva del canalone che scende dalla collina al mare, con un rivolo d’acqua putrida al centro, e giù in basso i tuguri dove si ammassano venti persone, a due metri da quel rigagnolo giallo. I bambini che giocano da una riva all’altra. Bambini così, anche cani così che corrono in mezzo ai bambini, li ho visti solo a Palma di Montechiaro. Anche il colore, anche il fetore di quel rigagnolo è lo stesso di quel liquame che scorre orribilmente fra le rupi di Palma. Tutto questo è retorica, lo so. A Palma di Montechiaro però tre bambini su dieci muoiono prima di arrivare all’età scolare. E da qualche parte, in questa immensa città, c’è qualcuno che sta discutendo quale sarà il destino di questi bambini di Palermo per i prossimi venti o trent’anni. E quale sarà il suo guadagno. Palermo è una delle città più belle d’Europa e certamente una delle più infelici. Forse più della stessa Napoli. Palermo è sontuosa e oscena. Palermo è come Nuova Delhi, con le reggie favolose dei maharajà e i corpi agonizzanti dei paria ai margini dei viali. Palermo è come Il Cairo, con la selva dei grattacieli e giardini in mezzo ai quali si insinuano putridi geroglifici di baracche. Palermo è come tutte le capitali di quei popoli che non riuscirono mai ad essere nazioni. A Palermo la corruzione è fisica, tangibile ed estetica: una bellissima donna, sfatta, gonfia di umori guasti, le unghie nere, e però egualmente, arcanamente bella. Palermo è la storia della Sicilia, tutte le viltà e tutti gli eroismi, le disperazioni, i furori, le sconfitte, le ribellioni. Palermo è la Spagna, i Mori, gli Svevi, gli Arabi, i Normanni, gli Angioini, non c’è altro luogo che sia Sicilia come Palermo, eppure Palermo non è amata dai siciliani. Gli occidentali dell’isola si assoggettano perché non possono altrimenti, si riconoscono sudditi ma non vorrebbero mai esserne cittadini. Gli orientali invece dicono addirittura di essere di un’altra razza: quelli sicani e noi invece siculi, quelli cartaginesi, saraceni, andalusi, napoletani; noi greci, romani, svevi, milanesi. I catanesi hanno proposto due capitali dell’isola per due popoli diversi, si tratta di uno sberleffo, ma nella realtà in cosa potranno mai essere rassomigliati (concetto dell’uomo o pensiero sulla vita) Verga e Tomasi di Lampedusa, oppure Vitaliano Brancati e Leonardo Sciascia? Pirandello, che stava in contemplazione a metà strada fra questi due concetti dell’essere, probabilmente dovette pensare quanto l’essere siciliano in definitiva fosse fantastico e improbabile. I siciliani non amano Palermo e Palermo lo sa perfettamente ma non se ne cura. I siciliani non amano Palermo poiché essa è la capitale che esige soltanto tributi e obbedienza, e in verità Palermo vuole questo soprattutto, come è giusto che sia il rapporto fra sudditi e sovrano. Il catanese, il siracusano, il messinese, il ragusano, si azzannano a vicenda, ma se qualcuno forestiero gli chiede la provenienza, dicono: Siciliano! E basta. Il palermitano dice: palermitano, che a parer suo è cosa inimitabile e sovrana. I Siciliani non amano Palermo. C’è qualcosa che impaurisce e respinge. Io ho visto per le strade di Catania auto sbucare di colpo, e uomini balzare fuori con le armi in pugno e cominciare a sparare addosso ad altri uomini, e chinarsi urlando a sparare il colpo di grazia alla nuca. Ho visto corpi insanguinati di ragazzi uccisi, giacere in mezzo alla strada e la gente che continuava ad andare, le auto a correre. Ho visto cortili fracassati dalle raffiche di mitra e dalle schegge delle bombe a mano, e colava dai muri e le polpette ancora fumanti sulla mensa. Ho visto madri avanzare piangendo verso i corpi degli uccisi, sostenute pietosamente da parenti che però avevano la sigaretta fumante in bocca. La morte a Palermo è diversa, la morte violenta. Più profonda, più arcana e fatale. Esige contemplazione: una fila di sedie tutt’intorno al corpo insanguinato, in mezzo alla strada, e ai parenti seduti immobili, in silenzio, a guardare. I ragazzini immobili e attenti. La morte è spettacolo da non perdere. La morte ha sempre una ragione d’essere. A Palermo essa va meditata e capita. Chi sono i padroni di Palermo? Coloro che hanno nel pugno il destino di questa grande, splendida e infelice capitale del Sud? E’ una domanda essenziale poiché essere padroni di Palermo non significa soltanto governare taluni giganteschi affari per migliaia di miliardi, ma per infinite, invisibili vie governare anche lo sviluppo politico dell’isola e quindi del Meridione: per esempio stabilire in quali banche debba essere depositato il pubblico denaro, e chi debba dirigere queste banche; per esempio indicare quali funzionari meritino carriera per propiziare e garantire giganteschi affari di vertice; e via via, sempre per esempio, spirali sempre più difficili e più alte e segrete, designare coloro i quali dovranno essere deputati, assessori, sottosegretari, ministri. Bisogna stare attenti. In Sicilia, e quindi naturalmente a Palermo, si verifica un fenomeno straordinario: e cioè che in Italia tutto quello che accade, nel bene e nel male, dipende dai partiti oramai despoti della vita nazionale, ma questo potere nel Sud si sgretola, degrada, corrompe, privatizza. Un uomo politico può diventare presidente o ministro, e la gente pensa che sia domineddio, ma nella realtà egli è diventato ministro o presidente per amministrare una situazione, una proposta, un compromesso che altri hanno discusso e deciso prima di lui e gli hanno semplicemente affidato. Altrove, a Torino, Milano, Bologna, persino a Napoli, un ministro può essere il padrone. Qui, non essere nessuno. Chi sono dunque i padroni di Palermo? Badate bene: i padroni, non il padrone, poiché a Palermo accade anche questo fenomeno straordinario, e cioè che non è ammesso il tiranno, il condottiero, colui il quale per carisma, per virtù propria di talento o violenza, possa emergere su tutti gli altri ed al quale tutti gli altri debbano rispetto e obbedienza. Se spunta un Cesare ci sono subito le Idi di marzo. Palermo rassomiglia alla Roma del basso impero con le congiure, i pretoriani, i Caligola che fanno senatori i loro cavalli, le clientele che fluttuano dall’uno all’altro vincente. Ma più ancora Palermo rassomiglia all’Atene della decadenza, con gli oligarchi, oratori, guerrieri, reggitori che in mezzo a loro non permisero mai venisse fuori un capo. Le virtù che contano a Palermo non sono quelle di un Pericle, ma piuttosto di un cardinale Mazzarino, di chi sappia intrigare, unire, collegare, non conoscere mai la vera identità dell’assassino e tuttavia da quell’assassinio trarre sicuro vantaggio, né mai essere in prima persona nell’affare da cento o mille miliardi, ma amabilmente avere la certezza di un dieci per cento, metà del quale da distribuire ad amici, confidenti, alleati e delicatamente anche a taluni avversari. Né Pericle, né Alcibiade. La storia moderna di Palermo, che è anche la storia politica del Sud e in gran parte anche della violenza che ciclicamente scuote la nazione, si potrebbe raccontare attraverso storie esemplari di alcuni uomini. Ecco: qui diventa perfetta la storia di Piersanti Mattarella, da raccontare tuttavia con umana sincerità affinché ognuno possa capire le cose come veramente accaddero e quindi trarre una ragione, un cifrario per le cose che continuano ad accadere. Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiedevano un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta. Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo. Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò, quanto meno, a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità – provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola – le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo. Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioè gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse, gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato. Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere. La storia di Mattarella è davvero una storia esemplare all’interno del racconto sul potere a Palermo. Palermo non può avere un solo padrone, nemmeno un primus inter pares: se qualcuno tenta di esserlo viene distrutto in qualche modo, oppure più semplicemente ucciso. Naturalmente non accade mai che la decisione dell’assassinio sia presa dalla piccola società degli oligarchi, questo appartiene alla fantascienza mafiosa, tutti hanno il medesimo interesse ma in definitiva sono soltanto due o tre di loro, i più offesi o spietati, che prendono la decisione. Individuarli non è possibile mai: bisognerebbe prima identificare e catturare gli esecutori dell’assassinio; che costoro confessassero da chi hanno avuto mandato di uccidere, e questi mandanti a loro volta indicassero l’anonimo barone che ha commissionato il delitto. Una serie di ipotesi assolutamente impossibile che, tutte insieme, configurano appunto il perfetto delitto di mafia. Chi sono dunque i padroni di Palermo? I metodi di identificazione sono due: l’uno politico, l’altro finanziario, cioè anzitutto l’identificazione dei politici che attraverso leggi e azioni di governo determinano i grandi affari pubblici, compresi i sistemi di affidamento; e quindi la identificazione degli operatori che si aggiudicano tali grandi affari e ne diventano perciò i protagonisti. Attualmente, nella città di Palermo ci sono una ventina di grandi affari pubblici. Messi insieme formano un pacchetto di duemila-tremila miliardi. Scegliamone quattro, i più semplici da capire: il porto scogliera, l’appalto per la pubblica illuminazione, il risanamento del centro storico, l’appalto per la manutenzione stradale. Il porto-scogliera dovrebbe sorgere lungo quel tratto di litoranea fra la nazionale per Messina e il Foro Italico, cioè in quel tratto di spiaggia dove si scaricano le immondizie di mezza città e le acque luride delle fiumare, un tratto di mare che è divenuto una sola immensa fogna, oramai perduto per qualsiasi utilizzazione commerciale e turistica. Il problema è quello di bonificare la zona, evitando che essa diventi una sempre più micidiale concentrazione di immondizie putrefatte, di topi, mosche, cani randagi, zanzare, miasmi, epidemie. Il progetto è semplice: costruire in mare a qualche centinaio di metri dalla riva una scogliera artificiale, una specie di immensa barriera frangiflutti, in modo da creare all’interno, fra tale scogliera e la spiaggia, una specie di mare morto nel quale andranno a scaricarsi quotidianamente tutti i materiali da riporto dell’intera città, pietre, rottami, rifiuti, calcinacci. Nel giro di pochi anni il mare, o meglio quel putrido stagno, scomparirà per sempre e diventerà un immenso pianoro di terraferma. La proposta è che la ditta appaltatrice dei lavori, la Sailem, esegua i lavori gratuitamente, aggiudicandosi tuttavia la proprietà delle aree di risulta, cioè di quell’immenso pianoro che si sostituirà al mare. Naturalmente tutta area fabbricabile, nel cuore di Palermo, lungo il mare, in una zona che – eliminato l’inquinamento – potrà diventare prezioso luogo di insediamenti turistici, residenziali e alberghieri. Il tratto di litoranea interessato è lungo circa due chilometri, la scogliera sarà costruita a trecento metri dalla spiaggia, un’area dunque di circa sessantamila metri quadrati. Il prezzo delle aree fabbricabili nelle zone urbanistiche di eccellenza si aggira sulle cinquecentomila lire a metro quadrato. Fate i conti. L’appalto per la pubblica illuminazione, per centodieci miliardi. Esso non è avvenuto per pubblico concorso ma a licitazione privata. Con delibera della giunta presieduta dell’ex sindaco Martellucci, che attende solo la ratifica del consiglio comunale, è stato approvato il rinnovo dell’appalto alla ditta ICEM, di cui è grande manager l’ingegnere Parisi. La grande storia di Palermo è fatta di alcune grandi storie umane ma anche di tante piccole storie esemplari che si debbono mettere tutte insieme, l’una accanto all’altra, nel posto giusto. L’ingegnere Parisi è il presidente del Palermo calcio: pare abbia fatto egli stesso candida ammissione di non avere per il calcio alcuna passione o competenza. E tuttavia, soavemente invitato dagli ambienti politici della Dc ad assumere la gestione del Palermo calcio per ricondurlo in serie A, altrettanto soavemente egli accettò di rendere questo servizio alla città e agli uomini che la governano. Gli è costato due miliardi! Non sono stati spesi bene, ma non sono neanche molti. Il piano di risanamento del centro storico di Palermo. L’ultima preda! L’alleanza criminale fra politici e imprenditori ha infatti letteralmente divorato, sfregiato, saccheggiato oramai tutta l’immensa periferia della capitale, rovinandola per sempre. Il prezzo pagato dalla città è stato tragico. Almeno duemila assassinii: uomini giustiziati in mezzo alla strada, murati nei piloni di cemento degli stessi palazzi, gettati in mare con una pietra alle caviglie. Una pirateria di circa cinquantamila miliardi la cui spartizione ha consentito l’insorgere di almeno cinque nuovi tremendi focolai di potenza mafiosa che (per evoluzione criminale e capacità finanziaria) hanno potuto impadronirsi anche del contrabbando della droga, determinando un terrificante salto di qualità e di potenza dell’intera struttura criminale. L’unica area urbanistica residua, nella quale sono possibili operazioni urbanistiche, appunto l’ultima preda, è il centro storico di Palermo, cioè quella che fu la splendida, orgogliosa capitale della civiltà mediterranea e nella quale arabi e normanni profusero i tesori della loro architettura. Spettacolo di miseria e grandezza. Vicoli nei quali dilaga un’umanità urlante e feroce, palazzi di straordinaria bellezza che però cadono a pezzi, tuguri nei quali si intanano migliaia di sventurate e fameliche famiglie del sottoproletariato, cattedrali, reggie, teatri di ineguagliabile maestà, spazi fatiscenti dove si accumulano le immondizie di interi quartieri, migliaia di edifici pericolanti dai quali gli esseri umani sono stati stanati a forza come bestie. Il progetto di risanamento che sta per essere ultimato, deve salvare i grandi palazzi prima che crollino, cancellare migliaia di tuguri, programmare il restauro di centinaia di edifici ora abbandonati e la costruzione di migliaia di altri nelle aree di risulta. Un progetto gigantesco. Un affare che prevede un investimento pubblico di duemila miliardi, e perlomeno quindici/ventimila miliardi di investimenti e quindi profitti privati. Facile immaginare quale drammatica lotta si sia già scatenata in quella fantastica città mafiosa, invisibile all’occhio e tuttavia perfettamente compenetrata (una città sull’altra e dentro l’altra) a Palermo. Si tratta di capire chi si presenterà a chiedere gli appalti e come essi saranno dati, con quali facoltà e vantaggi. I grandi personaggi del potere si stanno squadrando e valutando, cercando di leggersi negli occhi per capire chi sarà alleato, concorrente o nemico. I catanesi che hanno un’ironia piuttosto ruvida, quasi sempre conclusa con una grande risata direbbero: “Si stanno curando in salute!”. I palermitani che sono più tristi e perciò anche più sottili nell’ironia, dicono: “Si stanno guardando lo scarto”, che nel terziglio è il momento in cui il giocatore solo contro gli altri due, va a riguardarsi le quattro carte di scarto che solo lui conosce, per fare la giocata decisiva. Gettare subitaneamente la scartina e brutalmente uscire di napoletana. Con ironia più esplicita, qualcuno a Palermo più semplicemente dice: “Duemila miliardi a chi sparerà per primo!”. Infine l’appalto per la manutenzione stradale. Anche tale appalto, per un importo di centotrenta miliardi, sarà rinnovato alla ditta LESCA di cui è protagonista e manager il conte Cassina. Ecco un’altra piccola storia per raccontare la grande storia di Palermo. Cassina è conte! I palermitani, la cui ironia spesso è così tagliente da sembrare cinismo, dicono ai catanesi: “Voi avete i cavalieri del lavoro, noi abbiamo i conti! C’è un abisso. Cassina è conte, è milanese ed è Gran Bali, per tutto il Sud, dei cavalieri del Santo Sepolcro, associazione di personaggi eccellenti i quali hanno diritto di paludarsi in cappa nera, feluca e spadino, e in tal guisa scortare il Papa nelle grandi cerimonie ufficiali. Al Gran Bali spetta il governo della loggia (si chiama così, come nella massoneria) e la designazione dei nuovi cavalieri. Della loggia di Palermo, negli ultimi anni, sono entrati a far parte questori, magistrati, professori di università, artisti, luminari della medicina e delle lettere, operatori economici, cavalieri del lavoro. Il conte Cassina li convoca, li governa e li affabula. Ecco, il conte Cassina è uno dei padroni di Palermo. E’ amabile, colto, intelligente, non ha la prepotenza mentale e la temerarietà dei cavalieri di Catania, per i quali non c’è impresa che non possa essere tentata e che non si abbia il diritto di tentare, ma la prudente saggezza di colui il quale vive in una capitale in cui c’è un limite a tutto, anche alla potenza dell’uomo. E’ un uomo che può invitare a cena ministri, prefetti, giudici e conversare affabilmente sul destino della Sicilia. Da buon milanese ha uno straordinario rispetto per il denaro e quindi è anche tenuamente avaro. Si dice che un cavaliere di Catania, invitando a cena nella sua villa prefetti e ministri, facesse galantemente trovare, sotto il tovagliolo, graziosi monili d’oro per le consorti dei convitati. Il conte Cassina si limita agli spaghetti, e per le gentili signore, una piccola orchidea. Un padrone di Palermo il quale sa perfettamente che non si deve mai essere l’unico padrone di Palermo, ma che bisogna convivere con gli altri e tutto sta semmai nel garbo con cui si è capaci di riconoscerli. E i politici. Anche nella politica la situazione è mutata. Il tiranno non esiste più. Mattarella tentò di imporre una regola morale a tutti, pensò di avere il carisma del capo. Morì. Prima di lui aveva tentato, con altro stile e altre convinzioni, Vito Ciancimino, certo il personaggio più famoso della democrazia cristiana e quindi della politica palermitana. In effetti ci fu un momento storico in cui parve il padrone di tutto, il solo e incontrastato governatore della volontà politica nella capitale dell’isola. Non ci fu affare, né opera pubblica, né appalto, né alleanza o compromesso che non fosse sua iniziativa o non si avvalesse del suo consenso. Lo distrussero. Comandava troppo. Però sopravvisse. Vito Ciancimino non era Piersanti Mattarella, egli era tanto astuto quanto quello era candido, egli era tanto attore quanto quello condottiero. Non avendo la vocazione di Alcibiade capì per tempo quanto meglio valesse essere Mazzarino, cioè paziente, silenzioso, ironico. Fra gli uomini politici italiani, rassomiglia più di ogni altro a Giulio Andreotti (nella speranza che nessuno dei due si offenda). Parlando di potere politico a Palermo si deve subito pensare a Vito Ciancimino, il geometra Ciancimino, come egli spavaldamente ama presentarsi; ecco, questa è un’altra piccola storia da raccontare dentro la grande storia di Palermo, e nemmeno tutta la storia dell’uomo, ma solo un minuscolo episodio del personaggio, perché si possa ancora più perfettamente capire Palermo. Vito Ciancimino crollò nell’ultima fase delle indagini dell’antimafia. Venne accusato, lui prima assessore all’urbanistica e poi sindaco, di aver lasciato sbranare Palermo dalla mafia. La democrazia cristiana ebbe paura. Non poteva certo partecipare al linciaggio perché sarebbe stato come mettere sotto accusa tutte le operazioni di potere che il partito aveva sollecitato e giustificato, una specie di suicidio; e però non poteva nemmeno difendere l’uomo perché le accuse erano troppo gravi, c’era il rischio di essere coinvolti e travolti. La democrazia cristiana non ha lo stoicismo tra le sue regole morali. Il suo principio è il silenzio estatico, la sua forza il tempo. Il silenzio avvolge, confonde, non consente approfondimenti, dibattiti. Il tempo ammorbidisce, logora, stanca, dilapida, suscita smarrimenti, la gente muore, la gente dimentica. Col tempo e nel silenzio svanì e si perse per sempre anche il come e il perché, vita e morte del bandito Giuliano. Figuratevi! Dinnanzi a Vito Ciancimino la Dc si tirò addosso un velo sepolcrale: lo deferì ai probiviri del partito perché stabilissero se poteva giustamente stare dentro il partito a testa alta o dovesse esser cacciato con ignominia. Tempo e silenzio. Finché vennero le elezioni politiche del 1979. Vito Ciancimino non poteva candidarsi poiché era nel limbo, ma aveva però quaranta/cinquantamila voti di preferenza sulla piazza di Palermo, un formidabile pacchetto elettorale che poteva manovrare a suo piacimento. Erano voti suoi, conquistati, allevati, guadagnati, difesi anno dopo anno, con mille amicizie, protezioni, minuscole alleanze, favori, benevolenze. Li aveva proprio nel portafogli, cosa sua, manovrando quei cinquantamila voti di preferenza, cioè spostandoli dall’un candidato all’altro, poteva determinare disfatte e trionfi. Per i leaders politici palermitani oltretutto non è importante solo essere eletti al parlamento, ma anche il numero delle preferenze, poiché queste stabiliscono gerarchie, ingigantiscono prestigio, candidano alle cariche ministeriali. Ora si racconta come nella fase pre-elettorale, il ministro Ruffini mandasse segnali di fumo al geometra Ciancimino per esprimere il suo gradimento a quei cinquantamila voti di preferenza, e come il Ciancimino stanco di essere tenuto alla gogna, facesse sapere che sì, quei cinquantamila voti sarebbero stati suoi, purché il ministro Ruffini l’avesse aiutato ad avere finalmente una sentenza assolutoria dai probiviri della Dc. E ancora si narra come il ministro Ruffini gli promettesse il suo leale appoggio in tal senso, organizzando un incontro con il segretario nazionale Piccoli a Roma: appuntamento a Roma alle sette del mattino, nella villa del segretario Piccoli. Vito Ciancimino arrivò in tassì, con una valigetta di cuoio piena di documenti che avrebbero dovuto comprovare la sua innocenza e comunque indurre ad una benigna valutazione il segretario nazionale della Dc. Erano i tempi della grande paura e del terrorismo trionfante. Gli uomini di vertice viaggiavano in autoblindo. La villa di Flaminio Piccoli era circondata dai carabinieri con i mitra puntati: si videro venire incontro questo sconosciuto, con gli occhietti neri da siciliano, i baffetti, e quella valigetta di cuoio. Sono il geometra Ciancimino, ho un appuntamento con l’onorevole Piccoli, in questa valigia ci sono carte personali… Documenti, perquisizione, verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato un tale, pretendendo di avere appuntamento con l’onorevole Piccoli, ha esibito documenti intestati al ragioniere Vito Ciancimino, di Palermo…In quell’istante scortato da motociclisti e auto della polizia, arrivò in auto blindata il ministro Ruffini. Così narrano. Carabinieri sull’attenti. Il ministro spiegò che poteva garantire lui per il signor Ciancimino, il quale effettivamente era atteso dall’onorevole Piccoli. Agli ordini eccellenza. I carabinieri sono sempre carabinieri: misero diligentemente a verbale. Quello che si dissero nello studio di Piccoli nessuno lo sa. Il candidato Ruffini ebbe centocinquantamila voti di preferenza. E venne il caso Sindona: lo scandalo, l’arresto di Spatola il quale era amico di Ciancimino e disse agli inquirenti d’essere andato una volta a cena con il ministro Ruffini, il quale a sua volta disse che non sapeva nemmeno chi fosse questo Spatola, glielo avevano presentato un giorno per caso, piacere, molto lieto e basta, e che comunque non conosceva quel tale Ciancimino di cui gli parlavano. Allora Ciancimino scrisse una lettera a mano, con un foglio di carta carbone sotto, per averne copia, “Caro Ruffini, leggo che dici di non conoscermi nemmeno. Sei un…!”. L’epiteto fu crasso e stentoreo. Piegò il foglio, senza nemmeno metterlo in busta e lo spedì per raccomandata espresso. Conservò nel portafogli quella copia, ogni tanto la tira fuori e la tiene appesa a due dita in faccia all’interlocutore. Ride: “Non mi conosce? C’è quel verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato il ragioniere Vito Ciancimino. Il sopraggiunto ministro Ruffini, ecc., ecc… “. Chi sono i padroni politici di Palermo? Il ministro Ruffini, l’onorevole Lima, l’ex sindaco Valenzi? Certo! Forse ancora, da qualche parte, in qualche modo con qualche pacchetto di cinquantamila voti in tasca, Vito Ciancimino. Epperò anche infiniti altri. In realtà fino a non molto tempo fa, c’erano a Palermo i grandi, inviolabili boss politici. Giovanni Gioia era Luigi XIV. Tutto passava per il loro consenso. I grandi capi esistono ancora, ma sono stati esautorati, c’è stata la rivolta dei peones, sono almeno cento: ognuno di loro restando all’ombra del capo e rispettandone ufficialmente il potere si è costruito il suo piccolo feudo di potere, secondo competenza. Tutto quello che passa per il suo feudo paga, per taluni può essere soltanto la devota riconoscenza, per altri invece un tenue dieci per cento sul totale dell’affare. Anche il suo legittimo è pulito. Pensate a un galantuomo che deve avere un contributo o un mutuo da un miliardo: se lo fanno aspettare un anno ci rimette gli interessi bancari attivi quindi il 18%, e subisce l’impoverimento per svalutazione di un altro 14-15%. Con quella garbata tangente del dieci per cento, li ottiene subito secondo diritto. Ci guadagna! La figura giuridica sarebbe quella della cosiddetta servitù di passaggio, oppure in taluni casi, i più sofisticati (i giuristi mi perdonino l’audacia) dell’enfiteusi che è il diritto di godere di una cosa altrui, con l’obbligo di pagare periodicamente un canone. Solo che la cosa altrui, stavolta, è la cosa pubblica. Ma è un particolare ininfluente la cosa pubblica a Palermo, è la cosa dei cento padroni che possiedono Palermo. Palermo! Camminare per Palermo. Camminare sfiorando gli stupendi palazzi dove un giorno vissero svevi, normanni, emiri, angioini, ed ora anche le facciate stanno cadendo a pezzi, dietro queste facciate pavimenti e soffitti sono sfondati, le scale crollate. Camminare nei vicoli di Palermo assordati dal grido di centinaia di venditori, in mezzo ad una folla che sembra vagare con il moto pazzo delle formiche su un torsolo di mela. Camminare nelle stradine fetide e senza selciato, con le bancarelle fumanti attorno alle quali si aggruma la gente povera a mangiare gli scarti bolliti dei macelli. Camminare in mezzo ai tuguri di Palermo dove si intana la gente sradicata, cacciata via dalle case antiche che stavano per crollare. Tutto questo è folclore, lo so. Però, in questa grande capitale del Sud, migliaia di bambini vivono veramente dentro le tane come le bestie umane; e decine di migliaia di uomini vivono miserabilmente di espedienti, commerci infinitesimali, elemosine, ruberie; e centocinquanta esseri umani sono stati assassinati in un anno in mezzo alle strade, ed altri centocinquanta sono scomparsi, eliminati dalla lupara bianca. Tutto questo è retorico. Quando la verità è insultante si dice che essa è retorica, è sempre retorico tutto quello che non rientra nei limiti del possibile, trecento assassinii sono dunque retorica. Salire la scalinata del Palazzo delle Aquile e sapere che da qualche parte, in qualche stanza, venne perpetrata la spartizione di cinquantamila miliardi per la devastazione urbanistica di Palermo, e alcuni di quegli uomini furono o ancora saranno fra i governatori di questa città. In qualche stanza di questo palazzo c’è il nuovo sindaco, Elda Pucci, medico, cinquantenne, nubile, adamantina la quale dice: “L’ex sindaco Valenzi fu il mio maestro. Il modello al quale mi ispiro!”. Vincente oratoria. A loro è lasciato il compito difficile di governare nel modo più garbato possibile, elaborare i grandi sistemi quali che siano, garantire che la macchina funzioni. Abbiamo revisionato, cambiato i pezzi logori, guardate come corre.

Ecco a voi il "nano" e il circo dell'antimafia, scrive Simona Musco il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Nino Lo Giudice, il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria, accusa il poliziotto Giovanni Aiello, "Faccia di mostro", di essere l'autore della strage di via D'Amelio. «È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias "Faccia da mostro", a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D'Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all'Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona. Aggiunse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui l'omicidio Agostino. Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sono parole forti quelle riportate da Il Fatto Quotidiano, parole che portano la firma di Nino Lo Giudice, alias "il nano" il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria. Parole che il due volte pentito, ex boss dell'omonimo clan, mette a verbale tra Reggio e Catanzaro e che arrivano in Sicilia, dove si indaga sulle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino. In quei verbali, Lo Giudice spiega i motivi della sua fuga e le sue paure. «Ho iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l'incontro con Donadio (Gianfranco, ex procuratore aggiunto della Dna, ndr) mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi. Mi fecero salire su una Punto e notai che erano armati di Beretta. Mi portarono fuori città. La Punto si fermò vicino a una Bravo marrone e mi fecero salire a bordo. C'erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro». Chi è "faccia da mostro" - Il nome di Aiello, 69 anni, originario di Montauro, in Calabria, in servizio al ministero degli Interni fino al 1977, finisce in diverse inchieste. Da quella sul tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino alla strage di via D'Amelio, passando per il delitto del commissario Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Lo chiamano "faccia da mostro" per una ferita sul volto che lo rende inconfondibile. Dopo il congedo si rifugia in Calabria, dove ufficialmente fa il pescatore. Per lunghi periodi di lui si perdono le tracce. Il suo nome, però, viene tirato in ballo più volte da diversi pentiti. Tra questi anche Consolato Villani, ex braccio destro del "nano" e autore degli attentati contro i carabinieri compiuti a Reggio Calabria tra il '93 e il 94. «Nino Lo Giudice mi parlò di ex esponenti delle forze dell'ordine, appartenenti ai servizi segreti deviati, che un uomo deformato in volto, insieme a una donna avevano avuto un ruolo nelle stragi di Falcone e Borsellino dice in udienza a novembre 2014 -. Mi disse che questi personaggi erano vicini alla cosca Laudani ed alla cosca catanese di Cosa nostra». Il pentito controverso. Ma il "nano" può ritenersi davvero credibile? Le sue parole stanno ancora confluendo nelle indagini della Dda reggina. L'ultima, in ordine di tempo, è quella che ha messo in luce l'esistenza della cupola di invisibili che governerebbe Reggio Calabria. Per il pm Giuseppe Lombardo, che ha seguito l'indagine "Mamma santissima", le parole di Lo Giudice sono attendibili. Così come lo sono quelle di Villani. Ma sul suo curriculum di pentito pesano la fuga, dopo due anni e mezzo di collaborazione, e due memoriali in cui smentisce le precedenti dichiarazioni e per i quali è indagato a Catanzaro. Il suo nome è al centro di una stagione infuocata di veleni tra toghe. Appena inizia a cantare, svela al magistrato Giuseppe Pignatone di essere l'autore degli attentati in procura del 2010. Ma il "nano" va oltre e insinua che tra il fratello Luciano ed alcuni magistrati, ci sia un rapporto "speciale". Si tratta dell'allora numero due della Dna, Alberto Cisterna, e l'attuale procuratore generale della corte d'appello di Roma, Francesco Mollace. In un vortice di dichiarazioni contrastanti, Lo Giudice arriva a dire che per far scarcerare suo fratello Maurizio, Luciano avrebbe sborsato «molti soldi» a Cisterna. Che finisce indagato, vedendo la sua carriera andare in pezzi: da vice di Pietro Grasso finisce a fare il giudice a Tivoli. Poi, però, la sua posizione viene archiviata. Mollace, dall'altro lato, finisce pure davanti ai giudici a Catanzaro, con l'accusa di aver omesso di svolgere indagini sulla cosca in cambio di favori. Anche lui, però, viene assolto perché il fatto non sussiste. Nel mezzo ci stanno i memoriali ritrovati dopo la fuga. In quelli Lo Giudice nega di essere l'autore degli attentati e le accuse alle toghe e parla di un vero e proprio complotto. «A Reggio c'erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo scempio degli amici di una delle due parti». Una cricca, diceva, composta da «Di Landro, Pignatone, Prestipino, Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese». Dopo essere stato riacciuffato, si è chiuso in un lungo silenzio. Poi, alla fine dello scorso anno, ha ripreso a parlare.

Lo Giudice: ''Faccia da mostro dietro via d'Amelio''. Il pentito calabrese: "Fu lui a premere il pulsante per la strage", scrive “Antimafia Duemila” il 09 Agosto 2016. Un altro pentito torna a parlare di "faccia da mostro", l'uomo dei servizi che secondo alcuni collaboratori di giustizia (tra cui i siciliani Vito Galatolo e Vito Lo Forte, e il calabrese Consolato Villani) avrebbe preso parte a molte stragi ed omicidi eccellenti. È Nino "il nano" Lo Giudice, scrive di Walter Molino il 9 agosto 2016 su Il Fatto Quotidiano, a parlare nuovamente di quel personaggio che sarebbe stato riconosciuto nell'ex poliziotto Giovanni Aiello. “È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta" ha detto il pentito calabrese, aggiungendo che "fu lui a schiacciare il pulsante in via d’Amelio" e a confidarglielo è stato, ha precisato, "Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona" ma "quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi”. Scotto, condannato in primo grado ma poi assolto in appello per aver intercettato i telefoni di casa Borsellino, è fratello di Gaetano, imputato per l’omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi da Cosa nostra nel 1989, oggi in libertà. La storia della collaborazione di Lo Giudice è tra le più travagliate: tre giorni prima dell'udienza, nel giugno 2013, nella quale il pentito doveva comparire a deporre al processo "Archi-Astrea" a Reggio Calabria, l'ex mafioso si era allontanato dalla località protetta senza lasciare alcuna traccia, tranne un memoriale nel quale ritrattava le sue deposizioni sostenendo che era stato costretto e “spronato da più parti”. E una pen drive con delle immagini dove il collaboratore diceva “non mi cercate, tanto non mi troverete mai”. Poi però era stato arrestato, a novembre, in un appartamento alla periferia della città. Ora che è tornato a collaborare le sue dichiarazioni sono state verbalizzate dalle procure di Reggio Calabria e Catanzaro, oltre ad essere condivise con quelle oltre lo Stretto in Sicilia. Sulle sue dichiarazioni poggiava il lavoro del sostituto Gianfranco Donadio, allora incaricato dal presidente del Senato Piero Grasso di fare luce sulle indagini riferite alle stragi del '92 e '93, in particolare sul ruolo che avrebbero ricoperto elementi riconducibili ai servizi segreti e ad ambienti “deviati” dello Stato. Lo Giudice, nel memoriale, aveva accusato proprio Donadio di averlo costretto a fare nomi di persone a lui sconosciute, tra cui anche quello di “faccia di mostro”. Il superprocuratore Franco Roberti, il 6 settembre 2013, aveva avocato su di sé le indagini. Poi ci fu una misteriosa fuga di notizie sulle colonne de Il Sole 24 ore e L’Ora della Calabria in merito al resoconto di due riunioni nel quale il pm aveva esposto gli sviluppi di un’indagine. Sarà solo a settembre 2014 che il pentito 'ndranghetista chiarirà il perchè del suo agire, spiegando ai pm di aver "iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l’incontro con Donadio, mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi". In seguito, proseguiva Lo Giudice, "mi portarono fuori città" dove "c’erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro. Io risposi che avevo una registrazione in cui smentivo tutto. Loro vennero a casa e gliele consegnai”. Ora il collaboratore confermerebbe di aver riferito a Donadio solo circostanze veritiere, aggiungendo poi altri dettagli su "faccia da mostro": "Pietro Scotto mi parlò di Aiello come di un calabrese con la faccia bruciata, coinvolto nella strage di via d’Amelio. Disse che era stato mandato dai servizi deviati per far saltare Borsellino. Anche Scotto e suo fratello avevano partecipato alla strage ma il pulsante, a suo dire, venne premuto da Aiello. Io lo conobbi personalmente anni dopo. Mi fu presentato dal capitano Saverio Spadaro Tracuzzi (condannato in appello a 10 di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa,ndr) che ne parlava come di un collega. Mi disse che era uno dei servizi, che si erano conosciuti in Sicilia perché Aiello aveva contatti con Cosa nostra. Io, pensando al racconto di Pietro Scotto, lo riconobbi dalla faccia bruciata”. “La seconda volta - continuava - Aiello venne a trovarmi nel 2007. Era insieme a una donna bionda, con accento calabrese, che mi presentò come Antonella” e in seguito “Aiello mi confermò quello che avevo saputo su di lui all’Asinara. Disse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui aver ucciso l’agente Agostino”. Anche per queste dichiarazioni Lo Giudice è stato recentemente sentito dal pm di Palermo Nino Di Matteo. Ed è proprio per l'omicidio Agostino che oggi lo stesso Aiello è indagato a Palermo assieme ai boss Gaetano Scotto e Antonino Madonia. Vincenzo, padre di Nino Agostino, pochi mesi ha riconosciuto "faccia da mostro" in Aiello, durante un confronto all'americana nel quale ha confermato che si tratta dello stesso personaggio presentatosi a casa sua pochi giorni prima dell'omicidio chiedendo del figlio. Lo Giudice nelle sue dichiarazioni parla di Aiello anche in riferimento all'assassinio del commissario Ninni Cassarà, datato 6 agosto 1985, alla barbara uccisione del piccolo Claudio Domino (colpito da proiettili a 11 anni), al fallito attentato all'Addaura e alla strage di Capaci, entrambi contro il giudice Giovanni Falcone. "Il nano", tra l'altro, è il solo a dichiarare di aver ricevuto "di prima mano" le parole confidenziali di Aiello. Ma altri ex mafiosi di Cosa nostra parlano di "faccia da mostro" dichiarando che “frequentava Fondo Pipitone” a Palermo (feudo della famiglia mafiosa dei Galatolo, ndr) e che era “a disposizione della mafia anche per compiere omicidi”.

«Io prete, vi ricordo mio padre: giudice ucciso da Riina e dimenticato da tutti». Padre Giuseppe, prete a Imola, è il figlio di Alberto Giacomelli, giudice ucciso a Trapani il 14 settembre del 1988 su ordine di Totò Riina: «Mio padre non ha nulla di meno di altri magistrati uccisi dalla mafia», scrive Nino Luca l'11 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il coraggio di una firma». Questo potrebbe essere il titolo di un libro dedicato al magistrato Alberto Giacomelli. Ma quel libro non è stato mai scritto. Nessuno l’ha potuto leggere. Nessuno ci ha pensato. Anche per questo il vile omicidio di Alberto Giacomelli è caduto nell’oblio, in mezzo ai tanti morti negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa nostra. Trovare una foto di Alberto Giacomelli su internet è una impresa. Un solo video, di un vecchio Tg Rai, racconta la sua morte. Una mattina come tante, quella del 14 settembre 1988. Alberto Giacomelli, magistrato, a sua volta figlio di un giudice, è in pensione da quindici mesi. Alle 8 del mattino, saluta la moglie ed esce dalla sua casa padronale immersa tra le palme e i gerani, nelle campagne di Trapani, frazione Locogrande. A bordo della sua Fiat Panda, percorre la strada sterrata, poi svolta a sinistra per immettersi sulla provinciale che conduce in città. Gli assassini, probabilmente due, a bordo di una vespa rally 200, lo attendono nascosti tra gli uliveti. Lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto, poi gli sparano tre colpi con una Taurus, calibro 38, con matricola abrasa, di fabbricazione brasiliana: alla testa, al cuore e all’addome. Quando muore Alberto Giacomelli ha 69 anni. Nessuna targa in queste strade polverose ne ricorda il sacrificio. Nel 1985 Giacomelli, presidente della sezione del tribunale di Trapani «Misure di prevenzione», aveva disposto il sequestro di una villetta e dei relativi terreni a Mazara del Vallo. Beni riconducibili a Gaetano Riina, fratello del capomafia corleonese Salvatore Riina. La sua firma doverosa sul documento di confisca derivava da una delle prime sentenze di applicazione della legge «Rognoni -La Torre». Giacomelli aveva compiuto il suo dovere di giudice. Due anni dopo i Riina impugnarono il sequestro. Gaetano, fratello per più famoso capo dei capi, cercò di mantenere il possesso della casa facendosi nominare «affidatario». Ma un’altra sentenza, di altri giudici, confermò la confisca decisa da Giacomelli. L’anno dopo la «vendetta» fu consumata. «Giacomelli - svelò il pentito di Mazara Vincenzo Sinacori - fu ammazzato per “una questione di famiglia”. Non famiglia “Cosa nostra” ma “famiglia di sangue”». Dopo 14 anni di depistaggi, il 28 marzo 2002, Totò Riina viene condannato all’ergastolo per esserne stato il mandante. La sentenza definitiva il 12 marzo 2003.Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani è stato assolto. I killer non sono stati mai individuati con certezza. Quello di Alberto Giacomelli resta l’unico caso di omicidio di un magistrato in pensione nella storia d’Italia. La sua firma di servitore dello Stato, lo condannò a morte. A distanza di 28 anni, il figlio Giuseppe, sacerdote a Imola, ha voglia di raccontare la storia del padre. Innanzitutto perché la sua figura rischia di essere dimenticata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Poi, per ristabilire la verità, quella verità troppe volte «mascariata» (macchiata) da falsi pentiti: «Giocava alle corse clandestine di cavalli organizzate a Locogrande», si disse. Oppure: «Bisogna indagare nelle sue proprietà terriere...». Tutto falso. Un anno prima, sconosciuti avevano bruciato la villa dei Giacomelli a Custonaci: «La casa si riempì di fumo - racconta padre Giuseppe - ma allora non abbiamo dato peso eccessivo all’episodio. Mio padre riceveva qualche telefonata di minacce... ma lui riattaccava senza raccontare nulla». Oggi padre Giuseppe reclama per la propria famiglia il riconoscimento di vittima della mafia. «Il rammarico più grande - afferma dalla sacrestia della chiesa del Pio Suffragio di Imola - è l’oblio in cui è caduto l’omicidio, quasi ci fossero vittime eccellenti ed altre meno. Non c’è una gerarchia delle vittime della mafia. Lui si sentiva in missione, mandato dallo Stato per applicare la giustizia. Ed è morto da servitore dello Stato. Di fronte ad un uomo così, perché questo silenzio?».

E PARLIAMO PURE DI ANTIUSURA.

Usurati e ingannati: storie di ordinari raggiri. Sempre più italiani si rivolgono a associazioni che garantiscono cause “gratis”. Contro banche troppo esose. Ma poi le promesse non vengono mantenute. E alcuni “benefattori” hanno fedine penali poco pulite...scrive Francesca Sironi l'11 agosto 2016 su L’Espresso”. Li incontri alla Camera nei caldi pomeriggi d’estate, impegnati a presentare l’ultimo libro, l’ultima associazione nazionale. Sono ospiti a convegni al fianco di imprenditori e rappresentanti delle istituzioni. E poi in televisione e sul web. O nelle aule di tribunale: sono i paladini dell’anti-usura. Avvocati o associazioni che offrono consulenze “gratis” - dietro corpose parcelle - per fare causa alle banche. È un mercato di mezzo, popolato da enti in buona fede come da ex truffatori, che si è scatenato sulle vittime d’usura bancaria. Su chi, cioè, è stato costretto dal proprio istituto di credito a versare interessi superiori rispetto a quelli previsti dalla norma. Evenienza frequente, spiegano gli esperti. E chi denuncia, se ha buone basi per farlo ed è seguito bene, può ottenere risarcimenti importanti. La prospettiva di riprendersi dei soldi - miraggio per migliaia di italiani infragiliti dalla crisi - li convince a pagare perizie e pareri legali pur di ottenere un rimborso. Le battaglie sui contratti bancari hanno così preso il largo: nel 2015 ne sono state portate in mediazione obbligatoria, passaggio necessario prima di arrivare a processo, 46.094, in crescita rispetto all’anno precedente, come a quello prima. Inaugurando l’anno giudiziario, a marzo, il presidente della Corte d’appello di Roma e quello di Milano hanno notato il «rilevante e continuo aumento del numero di cause bancarie». Nella capitale il salto è stato del 26,7 per cento in un anno: mentre il resto del contenzioso civile cala o segna il passo, quello sul credito aumenta, accumulando centinaia di arretrati. Ma in questo arrembaggio nazionale agli istituti che lucrano sui propri correntisti c’è di tutto. Ci sono studi seri. Come anche altre realtà. Più ambigue. La nave ammiraglia del settore cause-alle-banche, in Italia, è Sdl Centrostudi. Sede nel bresciano, uffici anche a Roma e Reggio Calabria, un fatturato nel 2014 di 45 milioni di euro, oltre 4 milioni di utile, si presenta come specializzata nella «consulenza aziendale gratuita in merito ad anatocismo, usura bancaria, anomalie finanziarie, mutui e derivati». La parte gratuita riguarda però la sola pre-analisi dei casi. Le valutazioni tecniche vanno invece dai duemila euro in su, crescendo in proporzione agli interessi che si ritengono arpionati ingiustamente dalla banca. Poi c’è l’avvocato, che dal 2016, spiegano, ha un costo fisso di 700 euro a dossier; altrettanti per il tecnico di parte; e quindi la spartizione del risarcimento, se arriverà: il 25 per cento andrà a Sdl, che ne tiene l’11 per sé, ne dà il 10 ai legali e il resto lo distribuisce a chi «ha generato il contatto». Già, perché la forza di Sdl è avere «migliaia di agenti attivi in tutta la penisola», come spiega l’attuale presidente, l’ex magistrato Piero Calabrò, insediatosi alla guida della S.p.a lo scorso autunno. Queste migliaia di agenti sono motivati a darsi da fare: più vittime riusciranno a trovare, quindi più clienti, maggiore sarà la loro provvigione su ogni mandato firmato, come mostrano i dépliant distribuiti a una convention dell’azienda dedicata ai futuri procacciatori d’affari. «Essere grandi non è una colpa, diamo lavoro a tanti giovani avvocati in gamba, e portiamo risultati in tribunale. Da quando sono arrivato stiamo cambiando le professionalità e le perizie ora sono più serie che in passato», garantisce Calabrò. Sdl stava infatti accumulando critiche: di analisi copia-incolla e difensori impreparati che lasciavano i clienti con i cocci. A giugno del 2015 la società aveva risposto pubblicizzando un accordo per la formazione con l’Istituto Nazionale Professionisti Gestione del Debito. Che è però un ente di Sandro Musso, consigliere della stessa S.p.a bresciana. «Lo rivedremo», promette Calabrò, che presenta le sue novità: dal fondo internazionale che finanzierà le spese legali a chi non può permettersele all’apertura di «sportelli anti-usura nelle città, in accordo con la Lega delle autonomie. Ne ho appena inaugurato uno a Ladispoli», spiega. Ma non è pubblicità? «Anche, ma anche un servizio». Nella galassia Sdl gravita anche Giovanni Pastore, classe 1949, decine di interviste sulla stampa o in tv per raccontare la propria esperienza di imprenditore immobiliare strozzato dalle banche, coraggiosamente ribellatosi e vincitore, “grazie a Sdl”, di una causa contro il proprio istituto di credito. Prima di diventare un paladino degli usurati però Giovanni Pastore aveva dovuto patteggiare, lui, una condanna per usura, con una pena (sospesa) di un anno e 10 mesi di reclusione. Era imputato per aver dato prestiti per 100mila euro a una società di costruzioni, con tassi d’interesse fra il 5 e il 10 per cento mensili, pretendendo in garanzia, e poi ottenendo, in cambio, un complesso residenziale dal valore dichiarato di 400mila euro, insieme a un altro immobile da 150mila euro a fronte di un prestito da 30. Tre volte tanto il valore anticipato insomma. A novembre scorso, Pastore era in cattedra a Bari, nella sede del consiglio della Città Metropolitana, come relatore a un convegno dell’associazione Favor Debitoris, di cui è fondatore insieme all’avvocato Biagio Riccio. Il 30 maggio 2016 appuntamento a Firenze, stesso tema: «Come difendersi dall’usura bancaria». Il 25 luglio erano entrambi alla Camera. Per un Bilancio sulla legge anti-usura del 1996. Favor Debitoris è una delle tante gemmazioni dell’ammiraglia bresciana. È un’associazione culturale, mentre altri si sono buttati sul business, provando a replicare il successo dei pionieri. «Un loro ex dipendente, che ha aperto la sua srl, mi ha chiesto di collaborare. L’ho incontrato a Milano», racconta Maria Grazia Carbonari, commercialista, consulente tecnico del tribunale di Perugia e consigliere regionale del Movimento 5 Stelle. Le chiesero, spiega, di quantificare nelle sue perizie sia l’usura oggettiva, che è il superamento della soglia stabilita dalla Banca d’Italia per i tassi d’interesse, un calcolo matematico, sia quella soggettiva, «per la quale ci vogliono invece molti più presupposti, e bisogna conoscere bene, approfonditamente il caso. Non si può imputare così, dai soli numeri», spiega lei: «Dissi che era sbagliato, ma loro insistevano: “lei lo rilevi, poi ce la giochiamo noi”». Ha rifiutato. Racconta che altri sono andati da suoi colleghi, in Umbria, «dicendo che se avessero segnalato clienti in difficoltà di bilancio avrebbero avuto una percentuale del rimborso». La caccia si fa grossa così su imprenditori semplici, potenzialmente interessati alla lite perché afflitti dalla crisi e dalle banche. Sdl è stata fondata nel 2010 da Stefano Pigolotti e Serafino di Loreto, tuttora al comando della Blukivos Srl, il vertice di una rete di società che vanno dalla Sdl Centrostudi (da cui sarebbero stati estromessi da poco) alla Tax and Duty consulting, alla Personal finance Check srl. Di Loreto, fino a poco fa, era solito salire sul palco per motivare i suoi agenti, invitando alle convention personaggi come Gerry Scotti, o presentando alla stampa rapporti nazionali su 170mila conti analizzati e anomali nel 99 per cento dei casi. Adesso, però, si occupa soprattutto di pallone: il 21 marzo è stato nominato infatti presidente della Calcio Servizi Lega Pro, e ha da seguire, insieme al socio Sandro Musso, la ricerca di nuovi sponsor per la squadra di Mantova, società che hanno acquisito lo scorso anno. Nel suo curriculum vitae, si presenta come collaboratore di tre università e docente di fondamenti dei mercati finanziari e bancari alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Popolare degli Studi di Milano. Un ateneo che, seppur dal proprio sito web pubblicizzi corsi di laurea e una scuola di giornalismo è stato più volte diffidato dal ministero dell’Istruzione perché non potrebbe «rilasciare titoli accademici», come conferma a “l’Espresso” il Miur con una nota. C’è un altro timoniere del mondo anti-usura legato da un ruolo allo stesso ateneo, di cui sarebbe, secondo la sua biografia, rettore emerito. È Giuseppe Catapano. Nato a Ottaviano nel 1964, Catapano da mesi gira l’Italia per presentare il suo ultimo libro: “Banche e anomalie. Come difendersi”, 266 pagine, pubblicato nel 2015, portato davanti a platee di Roma, Termoli, Napoli, Spoleto, Bologna, Milano. Il 22 luglio era alla Camera dei Deputati, per la presentazione della Accademia Universitaria degli studi Giuridici Europei di cui veniva eletto quel giorno rettore. Catapano si presenta infatti in varie vesti: è rettore di Auge, appunto, ma anche rappresentante della Accademia europea per le relazioni economiche e culturali, o ancora professore-portavoce di Assicont - Albo europeo assistenti del contenzioso, ente per il quale promuoveva su Facebook, il 25 marzo 2016, l’ultimo corso di alta specializzazione. Eppure la conferma in Cassazione della sentenza di condanna per truffa, falso, bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in concorso è solo di un anno fa. Catapano aveva patteggiato nel settembre 2011 una pena di 4 anni e 5 mesi. Le indagini del Gico di Napoli l’avevano indicato infatti come vertice di un’associazione a delinquere che attraeva aziende in crisi fingendo di salvarle, per poi invece costringerle, attraverso società fittizie e prestanome, a cedere gli attivi e fallire. Così aveva sottratto patrimoni a imprenditori di Ravenna, Pisa, Padova, Brescia, Sassari e Bologna per milioni di euro. Uno dei membri dell’associazione imputati (gli era stato chiesto di reclutare persone cui attribuire cariche da prestanome) era Salvatore Onda, figlio di Arturo Onda, fratello di Umberto, pluriomicida, considerato fino al suo arresto reggente del clan camorristico Gionta. Giuseppe Catapano girava volentieri in auto blu, presenziava ai convegni del Forum nazionale Anti Usura e promuoveva la sua Fondazione Ope impresa Onlus. Ora sale su altri palchi, con altre associazioni, dichiara guerra alle banche e a Equitalia. Il 22 luglio, al suo fianco, indossava la toga dell’Accademia di studi Francesco Petrino, che si presenta come professore, siede nel consiglio direttivo dell’Istituto Etico per l’Osservazione e la Promozione degli Appalti e ha fondato un sindacato specializzato nel problema: Snarp, Sindacato nazionale anti-usura mobilitazione protestati. «Viviamo in un mondo di pecore, imprenditori che mi chiedono aiuto ma poi si tirano indietro». M. L. S. era combattiva, il 21 maggio 2015, a un incontro organizzato da Assimpredil, l’ente istituzionale delle imprese edili lombarde, uffici a 300 metri da piazza Affari. Parlava dal palco in qualità di presidente della Associazione Nazionale Antiracket Antiusura Lotta contro tutte le mafie Onlus. «Io purtroppo l’ho provato sulla mia stessa pelle», diceva, per mettere in guardia da «professionisti che non sono all’altezza». Quattro mesi prima il Consiglio di Stato aveva respinto un ricorso presentato da lei per fermare le procedure esecutive avviate su un imprenditore. Il ministero dell’Interno, mostra la sentenza, rilevava che la sua associazione non aveva la «legittimazione a ricorrere», «non essendo iscritta nell’elenco provinciale delle associazioni e delle fondazioni antiracket e antiusura». Cosa ben diversa sono le fondazioni antiusura, riconosciute e iscritte in un apposito elenco del Viminale, che svolgono in favore di soggetti in difficoltà economiche un’importante opera di solidarietà, di aiuto nel promuovere le denunce, di assistenza e di prestazione di garanzie presso le banche, per un più facile accesso al credito. Titolare oggi di due società - la Salute tutela risarcimento e il Centro tutela famiglia e impresa dal sovraindebitamento – M. L. S. nel 2007 era stata condannata in primo grado a Brescia a un anno e sei mesi di reclusione per esercizio abusivo della professione e truffa. Il processo era partito dalla Dental Group, fallita nel 2009: dove oltre che titolare, lei avrebbe lavorato da igienista dentale senza averne la specializzazione e soprattutto avrebbe convinto almeno una paziente a far causa ai dentisti precedenti, per ottenere un indennizzo e sostenere nuove operazioni. Il reato è stato cancellato per prescrizione, ma dal lato civile l’associazione nazionale dei dentisti aspetta ancora una sentenza per il rimborso del danno. Dalla provincia di Brescia, a Erbusco, è partita anche la cavalcata di Jd Group, che si presenta come la «prima e più importante azienda italiana per la verifica dei rapporti bancari». Fatturato da quasi due milioni di euro, oltre a uno studio legale in proprio, la Jd Group vanta l’apertura in franchising di sportelli a Padova (aprile 2016), Modena, Campobasso, Monza, Cremona, Verona. Il vento favorevole sembra avere origine nell’ordine. Un Ordine, in particolare: la Confederazione dei cavalieri crociati. Il rappresentante della società, Daniele Scandella, si presenta infatti sul sito anche come Cavaliere templare e Gran Priore d’Italia, nonché Cavaliere di Malta. Fra le società specializzate nel settore, c’è anche la Sarc Srl.Fondata nel 2014, ha un punto di forza: è partner ufficiale di Dirittialdiritto un’associazione il cui presidente onorario è Luigi Pelazza, l’inviato della trasmissione tv delle Iene. Per l’ente, Pelazza è il volto ufficiale, presente in tutte le comunicazioni. Due anni fa, in una serie di servizi per Mediaset, Pelazza aveva trattato il tema dell’usura bancaria, riscuotendo successo, per il coraggio delle denunce, e l’importanza del tema. In video, interveniva più volte Gabriele Magno, un avvocato proprio di Dirittialdiritto. L’azienda partner che offre poi i necessari Specialisti nell’Analisi e Recupero del tuo Credito bancario, la Sarc srl, è stata amministrata fino ad aprile da Federica Monica Arlandi. Che è a sua volta socia, al 60 per cento, di una srl di cui Pelazza ha il resto delle quote: la Nea Entertainment. In Rete sono centinaia i siti web che si definiscono “centri”, “movimenti”, “onlus” e offrono consulenze per ottenere i rimborsi dagli istituti di credito. A Roma e Milano piccoli e grandi studi legali si stanno buttando nel campo «perché in fondo si raccoglie parecchio, come vittorie e risarcimenti, nelle cause alle banche», spiega Roberto Marcelli, titolare di un noto studio di commercialisti di Roma e presidente dell’Associazione nazionale dei consulenti per i tribunali: «Quantomeno vendono spesso illusioni, però, questi soggetti, perché raramente raggiungono quanto promettono. Quando non offrono proprio dei pessimi servizi». «I ricorsi che arrivano a noi sono di frequente infondati», aggiunge Andrea Tina, professore alla Cattolica e consigliere dell’Arbitro della Banca d’Italia, a cui nel 2014 sono arrivate 11mila richieste di mediazione, di cui oltre 800 per usura (raddoppiate rispetto all’anno precedente): «Ci sono somme improprie, errori, perizie che si vedono esser state spinte, e scritte, da professionisti non “professionali”». Per fermare l’ondata di cause senza basi alcuni giudici hanno iniziato a contro-denunciare per lite temeraria chi avanza pretese fantasiose. Il rischio è che a soffrirne, e a dover quindi risarcire di tasca propria, sia anche l’usurato. Doppiamente gabbato, così. La questione è così importante e opaca da essere stata sottolineata durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario da Maria Chiara Malacarne, presidente vicario del tribunale di Milano: «Anatocismo, interessi ultralegali, commissioni, valute fittizie: il succedersi delle riforme normative, spesso frammentarie e di non chiara comprensione quanto a contenuto e regime transitorio, in questo ambito, alimenta nuovo contenzioso, incidendo su giudizi in corso e rallentando il formarsi di orientamenti giurisprudenziali consolidati», ha detto. Vecchia e nuova confusione si accumula fra i giudici. E fuori, sul mercato. A rimetterci, gli stessi: le vittime d’usura bancaria.

LA PIU' FORTE DELLE MAFIE. Rapporti tra 'ndrangheta e altre organizzazioni criminali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La 'ndrangheta è un'organizzazione che non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione.» (Saverio Morabito, pentito.) La 'ndrangheta rispetto alle altre realtà criminali si è sviluppata più tardi, ma nonostante ciò con le altre mafie si è avuto in generale un rapporto di reciproco rispetto e di parità, anche ora che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali in Europa e nel mondo e la più potente in Italia. Non si è mai schierata nelle guerre di altre organizzazioni. Vi è stato nel corso della storia invece una forte collaborazione per i traffici di sigarette, droga e tutte le varie attività illecite.

Il rapporto con Cosa Nostra è stato molto stretto tanto che capibastone di spicco come Antonio Macrì, Giuseppe Piromalli, Mico Tripodo (compare d'anello di Totò Riina) si affiliarono a Cosa Nostra e viceversa, capi della mafia siciliana si affiliano alle ndrine. Quindi vi erano persone che possedevano due affiliazioni come per esempio il messinese Rosario Saporito, personaggio di spicco della cosca dei Mazzaferro o Calogero Marcenò, capo locale della cosca calabrese Zagari. La mafia messinese inoltre nacque con l'appoggio della 'ndrangheta, dalla quale apprese i riti e le usanze. Vennero sottomesse tutte le cosche messinesi grazie all'operato di un certo Gaetano Costa. A Messina inoltre la cosca di Mangialupi che opererebbe in città quasi completamente da sola ha strettissimi rapporti con le cosche dell'area jonica, tale da custodire loro arsenali.

La 'ndrangheta e la Camorra. Si è a conoscenza di doppie affiliazioni anche con la Camorra napoletana: per esempio i calabresi De Stefano e Raffaele Cutolo. I Cutolo uccisero addirittura Mico Tripodo per piacere dei De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa lo 'ndranghetista Trovato Coco affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.

La 'ndrangheta e la mafia lucana. I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Per nascere ha ottenuto il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno. La criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese è controllata, dunque dalle cosche che fanno capo alla 'ndrangheta di Rosarno[8]. Sembra abbiano avuto contatti con essa anche con i Morabito.

La 'ndrangheta e la mafia pugliese. La 'ndrangheta con la mafia pugliese e nella fattispecie con la Sacra Corona Unita ha un rapporto ancora più influente e fondamentale che con Cosa Nostra o la Camorra, poiché né è addirittura l'artefice in parte della sua nascita. Dal rapporto del ROS dei carabinieri. Dal 1993 si è a conoscenza che la Sacra Corona Unita fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della SCU vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabresi come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari,Antonio e Riccardo Modeo. La 'ndrangheta fu d'aiuto anche alla creazione della Rosa dei Venti, altra organizzazione criminale mafiosa che opera nel territorio pugliese, e precisamente aLecce. Fu fondata da Giovanni De Tomasi e Vincenzo Stranieri col volere e il permesso delle cosche calabresi. Praticamente Bari, Brindisi e Lecce erano sotto il controllo ndranghetista, e Taranto, tramite un accordo, fu lasciata alla Camorra.  Il 18 ottobre 2012 si conclude l'operazione Revolution che porta all'arresto 29 persone affiliate alle cosche di Bovalino, Africo e San Luca accusate di associazione mafiosa e traffico internazionale di cocaina e altri reati tra cui l'introduzione di un titolo di stato statunitense falso del valore di 500.000.000 di dollari. Da questa operazioni, oltre ad essere evidenziati i legami con narcotrafficanti sudamericano si registrano contatti con esponenti della Sacra Corona Unita sin dal 2010. Le basi logistiche europee per il traffico internazionale erano: Anversa in Belgio, Amsterdam nei Paesi Bassi, Duisburg, Oberhausen e Düsseldorf in Germania.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali sarde. Dall'indagine Santa Barbara del 2005[11] si è scoperta un'alleanza fra la potente ndrina dei Nirta di San Luca e la criminalità sarda di Cagliari, Nuoro e Oristano per il traffico di cocaina ed eroina. I carabinieri sospettano anche che i proventi della droga potessero servire per investire nel settore immobiliare turistico sardo.

La 'ndrangheta e la Banda della Magliana. Durante l'operatività della Banda della Magliana alcune 'ndrine hanno avuto contatti con essa. In particolare i De Stefano di Reggio Calabria e i Facchineri di Cittanova.

La 'ndrangheta e il clan dei Casamonica. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali internazionali.

'ndrangheta e mafia albanese. La Ndrangheta con le organizzazioni criminali albanesi ha rapporti basati sul traffico di esseri umani, prostituzioni e armi da come si evince dall'ANSA del 13 dicembre del 2005 e dall'operazione Harem. Con il beneplacito della mafia calabrese gli albanesi potevano agire in varie regioni d'Italia portando prostitute albanesi, moldave, ucraine e romene in cambio di droga ed armi. Sono state arrestate nell'operazione 80 persone di cui la metà albanesi le altre italiane legate alle 'ndrine dei paesi di Corigliano Calabro e di Cassano all'Ionio. In Lombardia commerciano anche in droga, durante l'operazione Crimine 3 sono stati scoperti in alleanza con il Locale di Erba, capeggiato da Pasquale Varca, e legato ai Nicoscia-Arena in un traffico di cocaina con i colombiani e dove i Pesce-Oppedisano che dovevano recuperarla al porto di Gioia Tauro se ne impossessarono mettendo nei guai il locale con gli stessi albanesi (i cui capi risiedono in Nord Europa) e i colombiani da cui era stata comprata. Nei Paesi Bassi per il controllo del porto di Rotterdam. Il 9 luglio 2015 si conclude l'operazione Overting, iniziata nel 2005 ha portato all'arresto di 44 persone tra cui persone legate ai Mancuso, in collaborazione con un gruppo criminale albanese di Fiano Romano per traffico internazionale di cocaina. La droga proveniva dal Cile, Venezuela e Colombia e grazie anche al broker ndranghetista Domenico Trimboli pentito dal 19 marzo 2015. L'incontro con i narcos per l'accordo sullo scambio avveniva invece in Spagna. In Calabria, a Spilinga c'era la raffineria per recupera la cocaina liquida impregnata in partite di vestiti o allo stato solido in piastrelle per pavimenti. Gli albanesi almeno una volta hanno tenuto in ostaggio un vibonese come garanzia del traffico.

'ndrangheta narcos colombiani e Autodefensas Unidas de Colombia. La collaborazione con i narcos colombiani nasce dal crescente mercato della cocaina che soprattutto in anni recenti si è sostituita all'eroina proveniente dall'Asia per i continui conflitti presenti nell'area. Portando così questa droga dei "ricchi" a diventare droga comune e diffusa. Uno dei tanti protagonisti di spicco in questi traffici è Roberto Pannunzi, un broker di origine calabrese internazionale che faceva da mediatore fra i cartelli e i gruppi calabresi dei: Morabito, Coluccio-Aquino, Romeo, Bruzzaniti, Sergi, Trimboli e Papalia. Hanno avuto contatti anche col movimento paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia tramite uno dei capi Salvatore Mancuso Gómez sempre per motivi legati al traffico di droga. Il 29 aprile 2013 viene arrestato in Colombia dal ROS dei Carabinieri e dalla Policia Nacional Grupo Siu il latitante, dal 2006, Santo Scipione (1933) detto papi accusato di gestire un vasto traffico di cocaina tra la Autodefensas Unidas de Colombia e i Mancuso per cui è stato condannato nel 2012 a 15 anni di carcere. Grazie alla stretta collaborazione con i colombiani la ndrangheta dal 2000 in poi è riuscita a ottenere il monopolio della cocaina in Europa raggiungendo cifre da capogiro. A poco a poco si è sostituita a Cosa Nostra tanto che succede a volte che per i clan siciliani e camorristici faccia da garante in caso di mancati pagamenti e addirittura convenga alle altre mafia italiane comprare la cocaina direttamente in Italia dai calabresi.

'ndrangheta e FARC. Il 17 giugno 2015 si conclude un'operazione della Dda di Reggio Calabria e del Gico di Catanzaro con il contributo della DEA statunitense e della Guardia Civilspagnola che blocca un traffico internazionale di droga tra gli Alvaro, i Pesce e i Coluccio-Aquino insieme ad un comandante delle FARC colombiane. L'organizzazione aveva basi in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro. Durante l'operazione è stato sequestrato un carico di cocaina presente nell'imbarcazione Pandora Lys a largo di Viana do Castelo tra Spagna e Portogallo.

'ndrangheta e Cartello del Golfo. Il 14 luglio 2011 vengono arrestate oltre 40 persone nell'ambito dell'operazione internazionale dei carabinieri Crimine 3. Le persone sono accusate di traffico di droga internazionale e associazione mafiosa e sono state arrestate per lo più in Italia, alcune in Spagna, Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Il traffico veniva gestito insieme al Cartello del Golfo e ai cartelli colombiani, per la 'ndrangheta c'erano presunti affiliati agli Ierinò, Commisso, Coluccio, Aquino e Pesce. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Los Zetas. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti al cartello messicano dei Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina,la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina. I contatti fra le due organizzazioni venivano prese tramite elementi del cartello messicano a New York. Sono stati arrestati anche 16 esponenti dei Coluccio e degli Aquino tra New York e la Calabria. L'accordo con i Los Zetas è avvenuto dopo l'arresto dell'ecuadoriano Luis Calderon, principale fornitore per queste 'ndrine. Durante l'operazione Crimine 3, si scopre che il trafficante di droga calabrese Vincenzo Roccisano faceva da tramite con i Los Zetas e le 'ndrine calabresi e le cosche siciliane. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Mafia serba e criminalità montenegrina. Secondo Michele Altamura dell'Osservatorio Italiano la mafia serba con l'aiuto della 'ndrangheta la mafia serba è riuscita ad entrare nei traffici internazionali di stupefacenti. Negli anni '90, dai serbi acquistò armi (tra cui bazooka ed esplosivi) costruite in Serbia.

'ndrangheta e mafia russa. Dagli anni '90 la 'ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi.

'ndrangheta e Big Circle Boys. Sempre negli anni '90 questa organizzazione criminale era alleata anche con i Big Circle Boys per la gestione del traffico di droga in Canada.

'ndrangheta e Cosa Nostra americana. L'11 febbraio 2014 termina un'operazione della Polizia e dell'FBI statunitense contro elementi presunti affiliati agli Ursino e ai Simonetta e ed esponenti vicino ai Gambino di Cosa nostra statunitense, accusati di traffico internazionale di droga. Tra gli arrestati anche Francesco Ursino, presunto attuale capo della cosca e figlio di Antonio (in carcere) e Giovanni Morabito, nipote di Giuseppe Morabito. Il 7 maggio 2015 durante l'operazione Columbus vengono arrestate 16 persone per traffico internazionale di droga proveniente dal Costa Rica. Fu coinvolto anche il titolare della pizzeria "Cucino a modo mio" nel Queens a New York. Il proprietario della pizzera Gregorio Gigliotti, originario di Pianopoli (CZ) ma residente da 30 anni a Whitestone (New York) sarebbe stato in contatto anche con Anthony Federici, vicecapo della famiglia Genovese di cosa nostra statunitense. In Calabria era invece in contatto a Francesco e Carmine Violi vicini agli Alvaro di Sinopoli. Gigliotti avrebbe occupato nel narcotraffico il posto di Giulio Schirripa dopo il suo arresto nel 2008, il quale già doveva dei soldi allo stesso Gigliotti.

'ndrangheta e Primeiro Comando da Capital. Nel 2016 una denuncia del Ministero pubblico federale del Brasile afferma dell'esistenza di relazioni tra il gruppo criminale brasiliano del Primeiro Comando da Capital con l'organizzazione calabrese, e viene citata nel 2014 nell'operazione Oversea, la più grande operazione contro il traffico di droga in Brasile. La droga veniva importata dalla Bolivia, passava per il Brasile per giungere in Italia nel porto di Napoli...

GUERRA DEI BOSS, VINCE LA 'NDRANGHETA. Da New York all'Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini, scrivono Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci l'8 agosto 2016 su “La Repubblica”. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”. Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell’’ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso 'Cucino a modo mio' citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell’’ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.

Inchiesta: i boss di Cosa nostra al servizio della ‘ndrangheta, scrive Alberto Di Pisa su “Sicilia Informazioni” il 28 giugno 2016. Intervenendo qualche giorno fa ad un convegno organizzato “In memoria di Cesare Terranova” il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone ha affermato che la mafia siciliana è in crisi e in difficoltà ed è subalterna alla mafia campana e calabrese. Ed ha aggiunto: “Dal mio osservatorio di Roma, quando sento di tentativi di ricostruzione di mandamenti o della vecchia Cupola, penso subito che, comunque, si tratta di tentativi non riusciti e che la situazione rispetto al passato è molto diversa, rispetto ai tempi degli omicidi eccellenti”. Questa supremazia di altre organizzazione criminali quali la Ndrangheta o la camorra, sulla mafia siciliana, sembra trovare un riscontro in quanto dichiarato dal Procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato la quale ha detto: “Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro….Ed ancora: “I rapporti tra malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili, contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina, non c’è niente di nuovo”. Ed ha spiegato che “la leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati”. Lo stesso Nicola Gratteri, ex Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, oggi Procuratore della Repubblica di Catanzaro, aveva già in passato sottolineato come si fossero ormai invertiti i rapporti di forza tra calabresi e siciliani. Aveva infatti detto: “Ora è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti (….) Adesso la mafia americana si affida ai calabresi per spaccio e traffico soprattutto di cocaina”. E’ proprio quindi in virtù della potenza economica e criminale che deriva alla ‘ndrangheta dal traffico di droga a livello mondiale che Matteo Messina Denaro ha deciso di affidarsi, per la propria latitanza, agli esponenti di tale organizzazione criminale. Va poi sottolineato che fin dagli anni settanta la ‘ndrangheta è riuscita a favorire l’ingresso di propri uomini nei partiti di governo, nelle istituzioni in occasione delle competizioni elettorali. Ma a parte questa caratteristica, la ‘ndrangheta ha assunto un vero e proprio ruolo imprenditoriale per ciò che riguarda il traffico di armi e di droga, attività che, come evidenziato da Gratteri, si è estesa al di fuori dell’ambito della propria regione, così soppiantando quelle che era state alcune delle principali attività criminali della mafia siciliana che oggi ha finito con l’assumere un ruolo subalterno rispetto alla ’ndrangheta e alla camorra. Va ricordato, per quanto riguarda l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni, come, in conseguenza della elezione di ‘ndranghetisti negli organi rappresentativi comunali si verificò, negli anni 80-90 lo scioglimento di diversi consigli comunali calabresi tra cui quelli di Taurianova e Lamezia Terme. Si legge in proposito nella relazione Cabras: “L’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che ha svolto davanti al Procuratore della Repubblica una dettagliata confessione sulla corruzione politico-amministrativa della città, già nel luglio del 1991 affermava: “(….) a proposito dei consiglieri comunali: ce ne sono almeno 10-15 per cento eletti consapevolmente con voti della mafia” (relazione cit., pag. 34). Per quanto riguarda il narcotraffico, mentre negli anni 60 la ‘ndrangheta era legata da un rapporto organico con la mafia siciliana per cui trafficanti calabresi e siciliani operavano su un piano di parità, oggi, proprio grazie al notevole potere economico e criminale raggiunto dalla ‘ndrangheta insieme alla situazione di difficoltà in cui versa la mafia siciliana, è quest’ultima che è costretta a rivolgersi, per rifornirsi di droga, alla ‘ndrangheta che ormai detiene il monopolio delle sostanze stupefacenti. È appena il caso di ricordare che negli anni 70- 80 il traffico di droga era monopolio della mafia palermitana che aveva realizzato, proprio a Palermo, dei laboratori dove, con l’intervento di esperti chimici francesi, veniva raffinata e trasformata in eroina la morfina base proveniente dal medio oriente, eroina che poi veniva inviata negli USA dove, attraverso le pizzerie facenti capo a mafiosi siciliani, veniva spacciata al minuto. La mafia americana, quale pagamento della droga ricevuta, inviava in Italia valige contenenti migliaia di dollari. Un pagamento di droga fu certamente il rinvenimento, da parte del Dirigente della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, all’aeroporto di Punta Raisi, di una valigia proveniente dagli Usa e contenente 500mila dollari. Una dimostrazione del ruolo determinante della ‘ndrangeta nel traffico di stupefacenti è dato dalla maxi operazione che, nel settembre del 2015, portò all’arresto di 48 persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. In questa operazione vennero colpite le famiglie potenti della fascia jonica-reggina. In occasione di tale operazione Nicola Gratteri ebbe a dichiarare: “Oggi è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti”. Questa operazione ha inoltre accertato come la ‘ndrangheta abbia estromesso Cosa Nostra dai contatti con la mafia americana nel traffico di droga indebolendo il legame che tradizionalmente esisteva, come si è visto, con quest’ultima. In occasione di altra operazione antidroga relativa ad un traffico internazionale di stupefacenti che ha visto coinvolti esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, il comandante dei ROS ha affermato: “Il ruolo centrale ce l’hanno le cosche della ‘ndrangheta che hanno confermato ancora una volta lo straordinario livello raggiunto nel traffico internazionale di cocaina, grazie anche alla solidità di rapporti instaurata nel tempo con i broker sudamericani”. Si trattò di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che nell ‘ottobre del 2012 portò all’arresto di più di 50 persone. L’indagine accertò che gli esponenti delle cosche calabresi avevano creato “un cartello” con la mafia siciliana per il commercio della cocaina che avrebbe dovuto essere smistata tra Italia, Belgio, Germania, Olanda e Austria. La droga arrivava dall’Ecuador e dalla Colombia ed entrava in aereo o nei container della navi commerciali, occultata tra gamberi e banane. Ma la potenza acquisita dalla ‘ndrangheta non deriva soltanto dal traffico di droga ma anche dal fatto che ha raggiunto, in vaste aree, il controllo militare del territorio, eliminando dal mercato numerose imprese, e, come è stato scritto “ha conquistato quasi il monopolio del movimento terra, negli inerti, nell’edilizia e ha costruito un fisco parallelo a quello dello Stato imponendo un pizzo generalizzato”. La ‘ndrangheta dispone poi di killer altamente professionali e temuti che uccidono le persone designate in qualunque luogo esse si trovino anche nelle piazze dei paesi o delle città, sia di giorno che di notte. Basta ricordare l’omicidio di Francesco Fortugno, consigliere comunale e vice presidente della Regione, ucciso a Locri il 16 ottobre 2005 nel giorno delle primarie dell’Unione, all’interno del seggio, da un killer a volto coperto con cinque colpi di pistola. La DIA ha inoltre evidenziato come la ‘ndrangheta abbia parzialmente ma visibilmente, messo da parte i metodi criminali aggressivi per creare “vere e proprie Holding imprenditoriali”. Ciò, sempre secondo la DIA, avrebbe determinato una vera e propria fusione con l’economia regionale grazie alla quale i clan sono “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La Dia ha inoltre segnalato come sia stata accertata la presenza di esponenti delle ‘ndrine in Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana Lazio, Molise, esponenti attraverso i quali i clan calabresi gestiscono le loro attività illecite. In particolare, per quanto riguarda il Piemonte la DIA ha evidenziato come la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi (…..) e c’è il coinvolgimento di alcuni personaggi rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore (…) che hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative” La stessa DIA aveva chiesto un razionale programma di prevenzione al fine di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta in previsione delle opere previste per l’Expo 2015. Dal rapporto della DIA emerge poi come la ‘ndrangheta sia tra le organizzazioni criminali quella “meno visibile sul territorio ma la meglio strutturata e la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale”. E si trae sempre dalla relazione della DIA come la “ndrangheta si caratterizzi, più delle altre organizzazioni criminali, per la sua straordinaria rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del cambiamento tanto che le sue ‘ndrine hanno dimostrato una elevata abilità nell’utilizzare gli strumenti delle innovazioni tecnologiche”. Gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia non trascurano poi di evidenziare la crescente pericolosità della ‘ndrangheta “nel panorama criminale nazionale ed internazionale” nonché la sua “grande determinazione nel volere accreditare maggiormente la propria influenza nell’area del grande crimine mafioso”. Le indagini quindi ci presentano una organizzazione criminale particolarmente viva ed attiva nel circuito della finanza internazionale e per questo estremamente pericolosa. La relazione della Commissione parlamentare antimafia parla di rapporti tra la mafia calabrese ed “esponenti del mondo bancario ed istituzionale di Milano” che è risultata essere la città di riferimento più importante per la ‘ndrangheta e la più inquinata. E sempre la suddetta Commissione, parla di “sistematica omissione di controlli da parte degli amministratori pubblici”. Si diceva dell’utilizzo, da parte della ‘ndrangheta degli strumenti delle innovazioni tecnologiche. Ebbene la ‘ndrangheta ha tentato, fortunatamente senza successo, di inserirsi nella posta elettronica della Deutsche Bank di Milano per clonare i titoli al portatore e rinegoziarli presso altre banche, tentando quindi di attuare un sofisticato sistema di riciclaggio. Per dare un idea del salto di qualità compiuto dalla ‘ndrangheta e di come la stessa si sia, a differenza di Cosa nostra, adeguata ai tempi, basta leggere quanto dichiarato da un ufficiale della Guardia di finanza il quale ha detto di avere accertato l’esistenza di 120 tonnellate metriche di oro o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari e tutto con procedure bancarie telematiche che consentono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un euro esca dalle tasche. La Guardia di Finanza ha anche individuato conti correnti all’estero, nella Bahamas, in Russia, nella ex Jugoslavia, in Austria. Sono state inoltre accertate presenze, in alcune logge massoniche, di personaggi collegati alla ‘ndrangheta in rapporto e connivenza con uomini delle istituzioni, professionisti, avvocati, notai, imprenditori, magistrati. La ‘ndragheta ha inoltre adottato un diverso sistema di impiego degli enormi profitti che provengono dal traffico di cocaina. Questi proventi infatti non vengono più impiegati, come avveniva tradizionalmente, ripartendo il denaro tra i diversi prestanome ma inviandolo direttamente all’estero. Alcuni anni fa infatti, un commercialista milanese trasferì il capitale di 26 società della ‘ndranheta con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano avvenuta in soli 15 giorni. Le mani della ‘ndrangheta arrivarono anche al palazzo di giustizia di Milano come testimoniato dall’arresto per mafia, qualche anno fa, di un alto magistrato in pensione che era riuscito a pilotare sentenze anche dopo il pensionamento e di un legale che dopo l’omicidio del collega Raffaele Ponzio sarebbe diventato il nuovo collettore delle mazzette giudiziarie. Entrambi sono stati accusati di corruzione e di associazione mafiosa. Secondo l’accusa sarebbero stati complici esterni ma anche organici di due potenti famiglie della ‘ndrangheta. In cambio di mazzette (da un milione a un miliardo) avrebbero aggiustato processi, garantendo assoluzioni, irrogando condanne tenui, assicurando scarcerazioni. Una pentita della ’ndrangheta, Rita Di Giovine ha parlato dell’ingresso del giudice di cui sopra in una camera di consiglio tenuta da altri giudici con una bustarella consegnatagli dal boss Emilio. Ha riferito anche della scarcerazione di Antonio Morabito per la quale il giudice avrebbe ricevuto un assegno di venti milioni e dell’annullamento, in appello, delle condanne di Francesco Sergi, Antonio Parisi e Saverio Morabito, tutti affiliati alla ‘ndrangheta, che nel 1993 erano stati condannati per traffico di droga. Diverso il comportamento della ‘ndrangheta nei confronti dei magistrati incorruttibili. In questo caso si fa ricorso alle intimidazioni, agli attentati, alle bombe in ufficio. Alla luce di quanto fin qui detto la ‘ndrangheta che è sempre stata considerata la parente povera e rozza di Cosa Nostra ha compiuto un salto di qualità che ha fatto si di ridurre Cosa Nostra ad una posizione subalterna non più in posizione di preminenza tra le associazioni criminali mafiose. Nessuno oggi potrebbe più dire che la ‘ndrangheta è un residuo arcaico. Alberto Di Pisa

La 'Ndrangheta si aprì la strada al primato, dicendo no al terrorismo anti Stato di Riina, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 13 gennaio 2013. Già nel 1993 le 'ndrine si potevano permettere di rifiutare gli inviti dei corleonesi. Poi in vent'anni sono cresciute, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. Che con i soldi della cocaina possono comprare tutto, soprattutto in un periodo di crisi economica. Quando gli emissari di Totò Riina chiesero alla 'Ndrangheta di entrare in guerra contro lo Stato, i calabresi risposero che loro i magistrati "non li ammazzano", ma che "se li comprano, o li distruggono minandone la credibilità". Era il 1993 e già allora la 'ndrangheta poteva dire di no ai corleonesi.  Erano potenti e avevano capito tutto. Loro avevano i soldi della cocaina e lo Stato era concentrato sulla Sicilia. Con Cosa nostra fuori gioco, per i clan dell'Aspromonte si apriva una prateria sterminata.  Territori criminali da conquistare. E in vent'anni i boss reggini hanno occupato militarmente il mercato di mezza Europa, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. L'episodio chiave dell'ascesa dei calabresi è stato raccontato anche di recente. A luglio scorso, durante il maxi processo "Meta" che si sta celebrando nell'aula bunker di Reggio Calabria, in aula c'era Nino Fiume, killer di fiducia della famiglia De Stefano del quartiere Archi, pentitosi all'inizio degli anni 2000. Fiume racconta dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro (pochi chilometri da Reggio), su commissione dei siciliani. Era il giudice di Cassazione che doveva gestire il Maxi processo di Palermo e Riina lo voleva morto. Un favore in nome della vecchia amicizia tra siciliani e calabresi. Non è un caso che don Mico Tripodo, capo indiscusso della 'Ndrangheta reggina (assassinato a Poggioreale, su ordine di Raffaele Cutolo e richiesta dei De Stefano), qualche anno prima era stato ospite d'onore al matrimonio di Totò u curtu e compare d'anello degli sposi. Nel '91 gli "amici" furono accontentati. Due anni dopo no. Cosa Nostra tentò di coinvolgere la 'Ndrangheta calabrese nella strategia della tensione che Fiume definisce di "attacco allo Stato".  Furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. "Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi", ha spiegato Fiume. La prima riunione, quella di Rosarno, avvenne all'hotel Vittoria. "In quella occasione -  ricorda - c'erano i siciliani. Per i calabresi c'erano Carmine e Giuseppe De Stefano, Franco Coco, il suo braccio destro, Nino Pesce. Forse qualcuno dei Bellocco. Pietro Cacciola, che frequentava Coco Trovato a Milano". La seconda riunione, di poco successiva: "Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia (in provincia di Vibo Valentia). Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c'era anche un traffico di droga da definire. C'erano presenti Luigi Mancuso, Peppe De Stefano, Peppe Piromalli, Pino Pesce, e Coco Trovato. Tenete presente -  spiega Fiume - che a queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto". Ai siciliani, all'epoca, fu detto di no. Solo Franco Coco Trovato era possibilista.  Per Peppe De Stefano invece, la strategia dei siciliani era controproducente. Diceva - riferisce Fiume -che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie". Quella scelta fece la fortuna della 'Ndrangheta. Con i siciliani impegnati a fare la guerra con lo Stato, le 'ndrine si consolidarono al nord Italia e all'estero, dove furono creati dei "locali" di mafia identici, per struttura e regole, a quelli della casa madre. I broker si stabilirono direttamente in Colombia a trattare con i cartelli della "coca" che iniziò ad arrivare in Europa a tonnellate. La "droga dei ricchi non uccide", dicevano. "E noi la facciamo diventare la droga di tutti". I calabresi sono affidabili, non hanno pentiti e pagano puntuali. Per questo ottengono il monopolio. Oggi sono in grado di mettere sul mercato un grammo di cocaina tagliata a meno di 40 euro. Robaccia, ma i "poveri non guardano alla qualità". Gestendo il 70% dei carichi che arrivano in Europa, secondo la Commissione parlamentare antimafia, contano su capitali spaventosi. Con la droga sono arrivati i soldi e i soldi vanno reinvestiti. Comprano tutto e comprano da tempo. C'è un'intercettazione tra un boss della 'Ndrangheta e un suo contatto al nord, cui impartisce ordini negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino: "Vai all'Est e compra tutto, non mi interessa cosa, compra case, ristoranti, negozi, compra quello che vuoi basta che compri". Ed è così ovunque. Tanto più con la crisi di liquidità degli ultimi anni. Sono gli unici ad avere contante, utile ad entrare nelle aziende con partecipazioni, per fare prestiti o per rilevare aziende decotte. Secondo la recente relazione della Dia che fa riferimento ai primi sei mesi del 2012, se da un lato c'è Cosa Nostra che, forse per la prima volta, "inizia a confrontarsi con un'apprezzabile perdita di consenso", dall'altro si registra un'ulteriore salto in avanti della 'Ndrangheta, che consolida la sua "evoluzione affaristico imprenditoriale". I calabresi si stanno allargando in un contesto "in cui la crisi economica e la contrazione del credito producono un effetto moltiplicatore dei fattori di rischio".  Entra nell'economia la 'ndrangheta calabrese, ma dilaga anche nella politica. "La corruzione -  scrive la Dia -  rappresenta un punto di forza delle mafie. I gruppi criminali sono adusi a coltivare cointeressenze con la cosiddetta "zona grigia" dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica, al fine di ottenere agevolazioni e condividere gli illeciti profitti". I numeri sono solo una spia. In sei mesi le persone denunciate per scambio elettorale politico mafioso sono solo sette, ma ciò "non corrisponde alla diffusione dei fenomeni corruttivi e concussivi". Soldi amicizie importanti sono la chiave della 'ndrangheta. Gli emissari dei boss entrano dalla porta principale della politica e dell'economia. E, quando è possibile, lo fanno senza mettere bombe.

E ora la ’ndrangheta supera cosa nostra.  Intervista a cura di Sebastiano Gulisano del dicembre 2007. La struttura familiare e “orizzontale” dell’organizzazione criminale calabrese la rende meno vulnerabile, consentendole un più stretto controllo del territorio e l’espansione di traffici e affari in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina. La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali. La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”. La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria. Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.

Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?

«Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca. Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…»

Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.

«Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano. Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi».

La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.

«Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero. Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano».

Oggi è ancora così?

«Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra».

In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?

«Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province. A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici»

La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?

«Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta.  Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”».

Cos’è la Santa?

«A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche. La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati».

Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.

«Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra. La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana. Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia».

Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?

«Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi».

Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?

«Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.»

Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?

«È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione».

E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?

«La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina».

E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?

«Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima».

Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?

«Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita».

Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?

«Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…»

Sembra la sorte dei comunisti di oggi…

Vogliamo fare la storia e non subirla: al lavoro! Un milione di voti comincia ad essere un carico pesante per un Partito come il nostro, scrive Benito Mussolini, pubblicata Martedì 02/08/2016 “Il Giornale”. Bando alle illusioni e parliamoci chiaro, ora che il momento è opportuno. Che il Partito Socialista abbia condotto una buona battaglia e che i suoi sforzi siano stati coronati dal più lusinghiero successo, nessuno contesta più. È un fatto. Sono cifre. Ma... son dolori se il Partito crede o s'illude di aver compiuta l'opera spazzando via dalla scena politica parecchi rappresentanti della reazione dernier cri, e i dolori aumenteranno se la elezione di 53 deputati sembrerà a taluno giustificazione sufficiente per ricadere nell'inerzia fatalistica che ha seguito sempre ogni agitazione elettorale. Diciamo la verità, noi, prima degli stessi avversari: un milione di voti comincia ad essere un carico alquanto pesante per un Partito come il nostro. Noi abbiamo vinto un po' per virtù nostra, ma moltissimo per la debolezza dei Partiti che ci stavano di fronte, e per un complesso di circostanze a noi propizie. Sulle quali si potrà - a tempo opportuno - ragionare. Noi non sappiamo se in un'altra «congiuntura» per dirla con un tedeschismo, riusciremo a strappare una così brillante vittoria. E poiché i Partiti si organizzeranno come noi, formando gruppi e federazioni; poiché la storia - checché si possa dire in contrario - non si ripete, ma presenta sempre nuove situazioni di fatto e nuovi problemi, è necessario non abbandonarci ai facili entusiasmi cui seguono immancabilmente le dolorose sorprese. È necessario agguerrirci. È necessario agguerrire il Partito che è l'organo delle nostre conquiste politiche. Questo diciamo ai deputati vecchi e nuovi, i quali hanno dispiegato un'attività veramente encomiabile durante il periodo elettorale; questo diciamo ai propagandisti - illustri o no - del Partito che hanno corso in lungo e in largo l'Italia portando la parola del socialismo dalle città ai borghi, alle campagne; questo diciamo ai quarantamila inscritti del Partito che leggono, o dovrebbero leggere, le nostre parole. Noi diciamo che paragonato a ciò che resta da fare, il già fatto è poco. Noi sappiamo una cosa sola: che la piattaforma elettorale del Partito Socialista ha trovato quello che si direbbe un ambiente «simpatico», ma niente ci autorizza a ritenere che questo ambiente sarà lo stesso domani o non sarà invece indifferente o refrattario. Noi non possiamo fare eccessivo calcolo sulla massa elettorale e per ragioni intuitive: la nostra milizia è il Partito. Ora, riflettano bene i socialisti italiani, il pericolo che si delinea è uno solo: quello, cioè, che il Partito resti schiacciato sotto il pondo inaspettato delle sue stesse vittorie elettorali. Il caso non è nuovo nella storia e nella vita. Si può cadere toccando una meta, si può morire nell'atto di dare la vita, si può essere dei vinti vincendo. Dinanzi a tali eventualità, noi, come si vede, non indugiamo molto a lanciare il nostro grido d'allarme. Prima del suffragio universale accadeva spesso di udire tra i socialisti italiani frasi di questo genere: Ah se noi avessimo un milione di voti!...Ecco: il milione di voti c'è; e, forse, abbondante. Questa enorme massa elettorale ci ha creduto, ha riposto fiducia in noi e...aspetta. Ma noi saremo incapaci di realizzare uno solo dei postulati del nostro programma elettorale, se il Partito non raddoppierà almeno i suoi contingenti; se i quarantamila inscritti non diventeranno ottanta o centomila; se questo giornale non circolerà sempre più diffusamente fra le moltitudini che l'esperimento del 26 ottobre ha lanciato nel girone della vita politica. Un Partito come il socialista, non può rassegnarsi ad avere un'influenza meramente elettorale. Prima di tutto perché le elezioni non sono che un episodio preliminare di una più vasta attività politica; in secondo luogo perché nella vita dei popoli moderni ci sono avvenimenti dai quali - pena il suicidio - il Partito non può essere dominato o travolto. Il milione di voti che noi volevamo toccare e abbiamo toccato, è cagione di legittimo orgoglio, ma è anche di gravissima preoccupazione e responsabilità. Noi non possiamo più retrocedere, e nemmeno sostare. Alle prossime elezioni politiche - diciamo prossime perché è convincimento generale che la nuova legislatura non avrà lunga vita - se noi non aumenteremo ancora il numero dei voti, gli avversari ritorneranno a cantarci più noioso e insistente l'elogio funebre. E se i nostri voti diminuissero che cosa diventerebbero - nel ricordo - i funerali simbolici che noi abbiamo fatto nei giorni scorsi agli altri? Questi interrogativi ci dicono tutta la portata e l'«urgenza» del compito che il Partito è chiamato ad assolvere. Avanzare! questa è la parola d'ordine. Gli uomini moderni vanno in fretta più che i morti della ballata di Burger e noi socialisti abbiamo più fretta degli altri. Noi vogliamo vedere trasformarsi sotto ai nostri occhi la realtà e coll'opera delle nostre mani. Noi vogliamo «fare» la storia e non subirla. Incidere sulle istituzioni e sugli uomini che ci circondano sempre più profondo il segno della nostra volontà. Al lavoro! Al lavoro! La strada è aspra e la meta è lontana. 4 novembre 1913

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Senza dimenticare i misteri d'Italia.

4 agosto 1974: la strage del treno Italicus. Italicus: segreto di Stato? Fu apposto nel 1982, ma tolto nel 1985. Nell’anniversario della strage del treno si torna a parlare delle norme che tolgono il segreto di Stato. In realtà la lenta desecretazione incide poco sulla ricerca della verità, scrive Valeria Palumbo il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera.” Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 il treno espresso 1486 “Italicus” stava viaggiando da Roma a Monaco di Baviera. Alle ore 1.23 mentre attraversava la galleria di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta carrozza. I morti furono 12, i feriti 44. Tra le vittime anche un giovane ferroviere di 24 anni, Silver Sirotti, che era sopravvissuto alla bomba, ma morì cercando di salvare i passeggeri dal terribile rogo che si era sviluppato. A Sirotti, già medaglia d’oro al valor civile, il 4 agosto 2016, è stato intitolato un parco a Forlì, la sua città (in via Ribolle): il sindaco e i familiari hanno partecipato alla cerimonia commemorativa. I colpevoli della strage non sono stati mai individuati, ma la Commissione parlamentare sulla loggia P2 scrisse negli atti che: «La strage dell’Italicus è ascrivibile ad un organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana»; che «la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale». Il processo si concluse con l’assoluzione generale di tutti gli imputati. Ma soprattutto, a differenza di altre stragi (con cui condivide piste, depistaggi e inchieste infinite e mai conclusive), per quella dell’Italicus fu effettivamente posto il segreto di Stato: a proposito di Claudia Ajello, che fu sentita parlare della strage da una tabaccaia, e che lavorava per il Sid, l’allora servizio segreto italiano. Fu rinviata a giudizio per falsa testimonianza, prima condannata e poi assolta. Ma ciò che interessa è che l’informativa chiesta dal tribunale di Bologna ai Servizi segreti conteneva alcuni omissis. Il 14 maggio 1982 il tribunale chiese una copia integrale del testo; Nino Lugaresi, allora capo del Sismi (che nel 1977 aveva sostituito il Sid), rispose che le parti mancanti erano coperte dal segreto di Stato. La questione fu girata all’allora presidente del Consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, che, in settembre, confermò il segreto. Nel 1985, però, come annunziò il Corriere della Sera in prima pagina il 5 febbraio (e richiamo in quarta), il premier Bettino Craxi fece togliere il segreto sugli omissis per l’Italicus e per Piazza Fontana. Emerse che l’Ajello era infiltrata negli ambienti degli esuli greci: proprio nel 1974, a seguito della guerra per la questione di Cipro, cadde la giunta dei colonnelli greci, che, come è emerso più volte, interessavano molto i nostri servizi segreti. Questo però risultò ininfluente per la strage dell’Italicus e la faccenda finì lì. Quindi oggi non dovrebbero esistere altri documenti inediti sull’attentato al treno, oscurati dal segreto di Stato. In realtà la relativa inutilità della rimozione anticipata del segreto di Stato, voluta dal premier Mateo Renzi nella primavera del 2014, era già stata sottolineata allora. Il segreto non era già opponibile ai magistrati sui fatti di strage, di mafia e di eversione dell’ordine democratico. Con la legge 124 del 2007, che segnava l’ennesima riforma dei servizi segreti, si stabiliva che il segreto sarebbe stato a tempo e ci sarebbe stata un progressivo slittamento dei livelli di classificazione (segretissimo-segreto-riservatissimo-riservato). In realtà non sono mai stati completati i regolamenti attuativi. Fu questo che, nel 2014, gli esperti chiesero al premier, oltre alla pubblicità di dove siano gli archivi.

Italicus: una strage, un treno, tanti binari, scrivono Paolo Rastelli e Silvia Morosi su “Il Corriere della Sera” tratto da “Poche Storie” il 4 agosto 2016. Agosto. Improvviso si sente un odore di brace. Qualcosa che brucia nel sangue e non ti lascia in pace, un pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato: qualcosa che urla, che esplode, qualcosa che crolla. Un treno è saltato (Claudio Lolli, “Agosto”, 1976). Attorno all’una di notte del 4 agosto 1974, all’uscita dalla galleria degli Appennini, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), un ordigno ad alto potenziale esplode nella quinta vettura del treno Espresso 1486 Italicus, diretto a Monaco di Baviera. Il punto, vale la pena ricordarlo, è lo stesso dove a distanza di dieci anni, il 23 dicembre 1984, si verificherà la strage del Rapido 904 o strage di Natale, ai danni del rapido proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’attentato dell’Italicus, che provoca la morte di dodici viaggiatori e il ferimento di circa 50 persone (se la bomba fosse esplosa in galleria, la strage sarebbe stata ben peggiore), viene rivendicato con un volantino nel quale si legge: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti». Una delle vittime, Silver Sirotti, ferroviere 25enne, era uscito incolume dall’esplosione, ma imbracciò un estintore e risalì sulla carrozza devastata salvando molte vite, prima di essere sopraffatto da fiamme e fumo. Racconta un testimone della strage: «Il vagone dilaniato dall’esplosione sembra friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzano su. Su tutta la zona aleggia l’odore dolciastro e nauseabondo della morte». I due agenti di polizia che hanno assistito alla sciagura raccontano: «Improvvisamente il tunnel da cui doveva sbucare il treno si è illuminato a giorno, la montagna ha tremato, poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per forza di inerzia, è arrivato fin davanti a noi. Le fiamme erano altissime e abbaglianti. Nella vettura incendiata c’era gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente poiché le lamiere esterne erano incandescenti. Dentro doveva già esserci una temperatura da forno crematorio. ‘Mettetevi in salvo’, abbiamo gridato, senza renderci conto che si trattava di un suggerimento ridicolo data la situazione. Qualcuno si è buttato dal finestrino con gli abiti in fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vettura un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili macchie rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva esserci una persona impigliata. ‘Vieni via da lì’, gli abbiamo gridato, ma proprio in quel momento una vampata lo ha investito facendolo cadere accartocciato al suolo» (da “Gli anni del terrorismo” di Giorgio Bocca). Il 1974 è l’anno che molti storici identificano con l’inizio dei cosiddetti «anni di piombo», teatro, purtroppo, di omicidi mirati, attentati, stragi. Da Pasolini, a Moro, da Piazza della Loggia alla Stazione di Bologna. I processi instauratisi a seguito della strage sono stati caratterizzati da esiti diversi. Gli imputati, appartenenti a gruppi dell’estremismo di destra aretino, vengono dapprima assolti per insufficienza di prove, poi condannati in grado di appello e, infine, definitivamente assolti nel 1993. Uno degli imputati, Mario Tuti, si rende peraltro autore – durante le indagini sulla strage – degli omicidi del brigadiere Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo (che stavano procedendo a perquisizione nella sua casa) nonché, dopo l’arresto per tali delitti, dell’omicidio di uno degli imputati che in primo grado erano stati condannati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e che veniva ritenuto disposto a collaborare. Secondo la Relazione che il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani tenne durante la seduta parlamentare di lunedì, 5 agosto 1974: I primi rilievi tecnici eseguiti dal personale della direzione di artiglieria e dai vigili del fuoco, basati anche sul ritrovamento di un fondo di sveglia con applicati due contatti, lasciano supporre che si sia trattato di un ordigno a tempo, caricato con notevole dose (tra i tre e i quattro chilogrammi) di tritolo. La Cassazione, pur confermando l’assoluzione degli estremisti di Arezzo per la strage sul treno Italicus, ha peraltro stabilito che l’area alla quale poteva essere fatta risalire la matrice degli attentati era «da identificare in quella di gruppi eversivi della destra neofascista». A simile conclusione era pervenuta anche la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica “Propaganda 2″ (più nota come P2), richiamata anche in elaborati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. In mezzo a tante supposte verità e spiegazioni, negli anni se ne è fatta avanti una dai tratti oscuri. La figlia di Aldo Moro (all’epoca Ministro degli Esteri del Governo Rumor), Maria Fidia Moro, ha detto che era il padre il vero obiettivo dell’attentato all’Italicus. Aldo Moro, infatti, era solito recarsi in villeggiatura a Bellamonte, in Val di Fiemme e pare avesse scelto proprio quel treno per recarvisi. Salito sul treno alla stazione Termini, venne fatto scendere da alcuni funzionari del Ministero, suoi collaboratori, a causa di alcune carte che avrebbe dovuto firmare. Ci misero un po’ e gli fecero perdere il treno. Lo scorso 22 aprile, il Governo Renzi ha tolto il segreto di Stato su tutte le stragi degli anni ’70 e ’80, Italicus compresa. 

27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».

Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?

«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».

E quindi lei cosa pensa che contengono?

«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».

Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?

«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».

La pista della presenza di caccia stranieri, invece?

«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».

C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...

«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».

2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».

Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».

«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.

Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?

«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».

Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.

«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».

Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.

«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».

E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?

«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».

In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?

«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».

Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?

«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».

Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?

«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».

E questo che cosa significa?

«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».

In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?

«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».

Che fare dunque ora?

«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».

La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.

Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.

La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”.  Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.

«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.

Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?

«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».

A che cosa si riferisce?

«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».

Non si trattò di una strage voluta?

«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».

A che cosa serviva quell’esplosivo?

«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».

Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?

«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».

Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?

«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».

Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?

«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».

Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?

«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».

Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.

«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».  

E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.

Chi è veramente Luigi Bisignani, uomo del mistero? Un identikit dell'uomo che sussurra ai potenti, scrive "Wuz". Un libro Chiarelettere che va esaurito nel giorno stesso in cui arriva nelle librerie. Al centro della curiosità vorace dei lettori, la figura di Luigi Bisignani, affarista conosciuto e temuto da moltissimi politici. Di lui, Berlusconi ha avuto a dire che era "l'uomo più potente d'Italia"... ma quali sono le cose che sappiamo con certezza, su questo Richelieu in sedicesimo la cui discrezione è direttamente proporzionale al potere che è in grado di esercitare? Ecco un breve estratto dal libro-intervista pubblicato da Chiarelettere, e firmato dal giornalista Paolo Madron. Sono solo poche righe, per tratteggiare un carattere che vedremmo bene portato sul grande schermo da Sorrentino, magari sulla falsariga di quella grottesca commedia del potere ammirata ne Il divo (che raccontava dell'esempio cui massimamente Bisignani si è ispirato nella sua quarantennale carriera dietro le quinte, e cioè Giulio Andreotti). Quello di Bisignani è un libro la cui lettura consigliamo; ci permettiamo però di consigliare qualche cautela nel prendere per buono tutto ciò che in esso viene raccontato. Se è vero che l'uomo è arrivato dove è arrivato grazie alle sue capacità strategiche e alla sua grande cautela, infatti, è difficile pensare che all'improvviso Bisignani abbia deciso di mettere sul piatto i segreti di cui è geloso custode (e al cui mantenimento è probabilmente legato l'ascendente di cui gode presso i politici). Più facile invece che Mister B. abbia deciso, anche in seguito alle sue recenti, travagliate vicende giudiziarie, di offrire a (tutti) i suoi potenziali lettori l'assaggio di una cena che sarebbero in pochi ad aver voglia di gustare fino in fondo. Diciamo che in queste pagine si respira il fumo (saporito, non c'è che dire) di un arrosto che il nostro cuoco tiene ben caldo in forno, portata principale che immaginiamo non arriverà a tavola tanto presto. Sul libro: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione - si dice - in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In "L'uomo che sussurra ai potenti", per la prima volta, Bisignani "vuota il sacco" e decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti: da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. L'uomo che sussurra ai potenti non appare mai in tv, naturalmente. Non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza - da questo punto di vista - è realmente unica. Quindi questo libro ci offre un cannocchiale privilegiato per gettare uno sguardo da vicino sul potere più forte e inossidabile: il potere vero, che fa economia di parole e si muove con assoluta efficacia fra le stanze di Palazzo.

IDENTIKIT – cosa il signor B. dice di sé stesso:

1. Inguaribile ottimista, amo il sole e il mare;

2. Le mie conversazioni sono rapide, in genere non superano i 15 minuti;

3. Il mio segreto è che resto sempre a disposizione dei miei amici;

4. Non cerco ritorni;

5. So come va il mondo;

6. Non mi piace apparire;

7. Non partecipo a cene con più di sei persone;

8. Gianni Barbacetto mi ha definito L’uomo dei collegamenti;

9. Maurizio Crozza dice che ho più amici di facebook;

10. Qualcuno dice che sono un battitore libero senza padroni né padrini;

11. Io direi che sono uno stimolatore d’intelligenze: quando una persona valida mi piace immagino quale ruolo potrebbe ricoprire.

L'uomo che sussurrava ai potenti. Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici. Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica. E ora fa tremare il sistema Berlusconi, scrive Marco Damilano su “L’Espresso” il 23 giugno 2011. Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé. "Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro. Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi". Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "È come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti". Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto. La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto. Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona. A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato). Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini. A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore. L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991. Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech. Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi. E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai. Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente. "Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.

Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.

“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».

Nemmeno al mare si può stare tranquilli.

Cazzotti, toilette da incubo e sesso sfrenato Le spiagge diventano gironi infernali. I vigili di Follonica aggrediti dagli ambulanti ultimo capitolo del degrado estivo, scrive Michela Giachetta, Martedì 02/08/2016, su "Il Giornale". Agenti aggrediti da venditori abusivi in Toscana, centinaia di immigrati che, prima ancora del sorgere del sole, invadono il bagnasciuga in Liguria. Ma anche coppie che fanno sesso in riva al mare, in pieno giorno, senza curarsi dei bambini, che sono lì, a pochi metri, a giocare con la sabbia. E poi la sporcizia, le bottiglie di plastica o di vetro abbandonate, i cumuli di rifiuti che incorniciano panorami che sarebbero solo da ammirare, se non ci fosse quel degrado. Da Nord a Sud, le spiagge italiane sono in preda a incuria, trascuratezza, trattate malissimo in alcuni casi, come se non fossero uno dei nostri patrimoni da tutelare. Gli esempi negativi non mancano. A Castel Porziano, a due passi da Roma, dove c'è anche la tenuta presidenziale, prima ancora di arrivare in spiaggia si è accolti dai parcheggiatori abusivi. La situazione poi si complica se durante la giornata bisogna andare in bagno: le toilette o mancano o sono inavvicinabili per odore e sporcizia. Una situazione di degrado che si può trovare anche in altri posti. A giugno Legambiente Arcipelago ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la spiaggia della Cala, a Marciana Marina, nella splendida isola d'Elba: quello che resta di vecchie imbarcazioni giace completamente abbandonato, così come sono abbandonate e fatiscenti le strutture che le ospitano. «Per non parlare della tettoia, ormai ridotta a pochi e pericolosi elementi di copertura». Rimanendo in Toscana, qualche giorno fa, a Follonica (Grosseto), tre agenti della polizia municipale, che stavano effettuando controlli di routine sulle spiagge, sono stati aggrediti da una decina di venditori ambulanti, che si sono opposti a quei controlli, reagendo con calci e pugni contro i vigili. Gli agenti sono riusciti a fermare solo una persona, gli altri sono tutti scappati, creando il parapiglia in spiaggia. Nella stessa località un episodio simile si era già verificato una decina di giorni prima. Scene che hanno a che fare poco col degrado, ma molto con quella serenità che dovrebbe regnare sulle spiagge. In Liguria, invece, ha raccontato La Stampa, centinaia di immigrati, per lo più del Sud America, prima dell'alba, arrivano sulla spiaggia libera di Laigueglia (Savona), per passare una giornata al mare. Partono col buio da Milano o da Torino, spesso in pullman. Quando il sole si sveglia, lì trova già tutti lì, con i loro teli, i giochi per i bambini, i frigoriferi portatili che contengono i loro pranzi fai da te. Le lamentele non mancano: perché la spiaggia a fine giornata bisogna pulirla, ma gli immigrati non hanno speso nulla nelle strutture circostanti, i bagni inoltre sono pochi e comunque insufficienti, così come i controlli. L'assenza di controlli è un leitmotiv che accompagna tutta la penisola: già a maggio, i giornali locali calabresi raccontavano il degrado e l'incuria di alcune spiagge a Vibo Marina, frazione di Vibo Valentia. A giugno a Salerno le proteste dei comitati di zona non sono mancate: nella parte orientale della città gli arenili erano ostaggio di topi scorrazzanti fra i bagnati e blatte volanti, una situazione disastrosa. Anche a Villasimius, in Sardegna, alcune spiagge sono state lasciate al più completo abbandono e piene di rifiuti. Così come a Brindisi, dove a maggio, alcune persone hanno preso il sole circondate non solo dal rumore del mare, ma anche da un cumulo di sporcizia. Non ci sono però solo l'immondizia e i rifiuti con cui fare i conti: che l'estate sia la stagione degli amori, si sa, ma capita che alcuni quel detto lo prendano fin troppo alla lettera: accade che, presi dalla passioni, si spoglino anche di quel poco che hanno indosso per fare sesso in spiaggia, in pieno giorno, sono gli occhi dei bimbi (che forse non capiscono) e sotto gli sguardi degli adulti che capiscono bene e spesso sono costretti a chiamare le autorità competenti per far cessare l'amplesso. È capitato a maggio nelle Marche, a Civitanova: due italiani sono stati denunciati. Stessa sorte di una coppia di tedeschi: in una spiaggia vicino a Venezia un uomo e una donna, completamente nudi, hanno scelto di fare sesso, completamente nudi. Spiaggia che vai, degrado che trovi. E se non è degrado, è trascuratezza. Da nord a sud. Per fortuna però le eccezioni esistono.

Come conoscere gli altri?

Chiedendogli se puoi accendere il climatizzatore in auto o in casa. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da passeggera (anche se posteriore) fa spegnere il climatizzatore in auto, accusando mal di gola, mentre all’esterno ci sono 40°, costringendo gli altri passeggeri ed il proprietario dell’auto a fare bagni di sudore. E la stessa cosa costringerà a fare negli uffici e nelle case altrui. La mancanza di rispetto per gli altri, specialmente verso i familiari, sarà costante ed alla fine, quando l’orlo è colmo e lo farai notare, lo rinnegherà esaltando le sue virtù ed, anzi, ti accuserà di intolleranza e per ritorsione ti affibbierà qualsiasi difetto innominabile.

Chiedendogli come programma le cose da fare.  Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando pretende e dà per scontato l’ausilio altrui, anche quando gli altri hanno programmi alternativi ai suoi.

Chiedendogli cosa pensa delle persone che dalla vita e dal lavoro hanno avuto soddisfazione. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da nullafacente e nullatenente sparlerà di chi ha successo nella vita e lo accuserà di aver rubato per ottenere quello che egli stesso non ha.

Salvo eccezioni.

"Fiat brava gente": così gli Agnelli hanno rapinato l'Italia lungo un intero secolo, scrive “L’Antidiplomatico il 27 luglio 2016. Hanno deciso di abbandonarla definitivamente anche come sede legale e fiscale, dopo che, scrive correttamente Giorgio Cremaschi oggi, non resta più nulla da spolpare e poi è sempre meglio essere lontano (tra Stati Uniti e Olanda) quando si tratta di chiudere i prossimi stabilimenti o licenziare i prossimi dipendenti. "Come le peggiori classi parassitarie che hanno saccheggiato questo paese nei lunghi secoli della sua spesso triste storia, gli Agnelli lasciano l'Italia dopo aver usato ed abusato del sacrificio di milioni di persone e di una montagna di soldi pubblici. Migrano come cavallette, cavallette europeiste", scrive Cremaschi. Ma la Fiat e la famiglia Agnelli hanno una storia molto lunga legata al nostro paese. In un lungo e dettagliato articolo del 2011 Maria Rosa Calderoni su Liberazione (ripreso anche da Marx 21) la ripercorreva tutto. Il 2011 è un anno importante, l'inizio della rivoluzione di Marchionne di cui subiamo ancora oggi tutti i drammatici effetti nell'Italia di Renzi.  "Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina", concludeva l'articolo di Calderoni. E' giunto il momento che come contribuenti e cittadini derubati ci si mobilitasse per chiedere la restituzione dei nostri soldi. Di Maria Rosa Calderoni su Liberazione. Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l'Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E' una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare - alla luce dell'ultimo blitz di Marchionne - tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent'anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt'oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. Nel suo libro - "Licenziare i padroni?", Feltrinelli - Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell'ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L'aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto "regolare". Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, "piani di sviluppo" così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell'imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave "meridionalistica") in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce "conto capitale". Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge - allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all'epoca del 40% del mercato - sulla rottamazione delle auto. Per non parlare dell'Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all'indirizzo dell'Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altissimo è poi quello che va sotto la voce "ammortizzatori sociali", un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile "privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite"): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione - scrive sempre Mucchetti nel libro citato - Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l'uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell'integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l'onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su "Proteo", Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l'appropriato titolo "Cent'anni di improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat". Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di motori per navi e soprattutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l'anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli "scioperi impulsivi"; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l'industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell'interventismo. I profitti (anzi, i "sovraprofitti di guerra", come si disse all'epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell'80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila. «Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l'invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l'applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del '22 un collaborativo Agnelli batte le mani al "Programma economico del Partito Fascista"; nel '23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel '24 approva il "listone" e non lesina finanziamenti agli squadristi. Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l'importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel '31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l'importazione e l'uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il "sistema Bedaux", cioè il "controllo cronometrico del lavoro": ottimo per l'intensificazione dei ritmi e la congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E' infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l'Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d'Etiopia - scrive Giacché - fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». L'Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo "posto". Nel '47 risulta essere praticamente l'unica destinataria dell'appena nato "Fondo per l'industria meccanica"; e l'anno dopo, il fatidico '48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere... E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina.

Terrorismo, qualcosa non torna…scrive Diego Fusaro su "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2016. Stragi su stragi. Senza tregua. Quasi una al giorno, ormai. Chissà perché, poi, questi orrendi attentati si abbattono sempre nei luoghi pubblici facendo strage di povera gente, di persone comuni, lavoratori e disoccupati, ragazzi e studenti. Mai una volta – avete notato? – che l’ira delirante dei terroristi si abbatta nei luoghi del potere e della finanza. Mai. Mai un signore della finanza colpito, mai uno statista, mai un “pezzo grosso” dell’Occidente. Strano, davvero, che i pazzi alfieri del terrorismo, che in teoria – si dice – avrebbero dichiarato guerra all’Occidente non prendano di mira chi l’Occidente davvero lo governa. Se non ci dicessero un giorno sì e l’altro pure che il terrorismo islamico ha dichiarato guerra all’Occidente si avrebbe quasi l’impressione che si tratti di una guerra di classe – gestita poi da chi? – contro lavoratori, disoccupati, classi disagiate: una lotta di classe tremenda, ordita per tenere a bada i dominati, per tenerli sotto tensione, proprio ora che, mentre stanno perdendo tutto, iniziano a sollevarsi (è il caso della Francia della “loi travail”, uno dei Paesi più colpiti dal terrorismo). E intanto, a reti unificate, ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano permanente dell’economia di mercato. Ci fanno credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, il fautore delle “riforme” che uccidono il mondo del lavoro: il conflitto Servo-Signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Nell’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo, quali ne siano gli agenti, è un’arma nelle mani dei potenti: fa il loro interesse. E lo fa per più ragioni. Intanto, perché frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (Islamici vs Cristiani, Orientali vs Occidentali): lo “scontro di civiltà” di Huntington va a occultare la “lotta di classe di Marx”. Il tutto condito con le tirate à la Fallaci. In secondo luogo perché attiva il paradigma securitario, modello “Patriot Act” Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Et voilà, il gioco è fatto. In terzo luogo, si crea adesione al partito unico della produzione capitalistica anche in chi avrebbe solo motivi per contestarla: l’Occidente “buono” contro l’Oriente cattivo e terrorista. In quarto luogo, si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre in nome del terrore, come fu in Afghanistan (2001) e non molto fa con i bombardamenti in Siria. Il terrorismo diventa una “opportunità” - sit venia verbo – per guerre di aggressione imperialistiche. Questo lo scenario. V’è poco da stare allegri. Ma è meglio essere informati, se non altro.

La faida dei Ricchi, scrive Piero Sansonetti il 26 luglio 2016 su "Il Dubbio". È logico, è ragionevole che un signore che guadagna circa 18 mila euro al mese (per non fare molto: cioè, per fare il deputato...) si incazzi come un diavolo perché un direttore di telegiornale guadagna troppo, sebbene questo direttore (o questa direttrice) di telegiornale, guadagna circa la metà di lui? Vediamo prima i fatti, e poi proviamo a ragionare, giusto per poche righe. Nel fine settimana è scoppiato lo scandalo Rai. Perché l’azienda - unica in tutt’Italia - ha deciso di rendere noti gli stipendi alti dei propri dipendenti. Cioè tutti gli stipendi superiori ai 200 mila euro lordi all’anno (che, all’ingrosso, equivalgono a un po’ meno di 7000 euro al mese). L’elenco è piuttosto lungo, ma i nomi innalzati sulla croce sono una quindicina. Prima di tutti quello del direttore generale (che è colui che ha dato via libera all’operazione trasparenza) e cioè il famigerato Campo Dall’Orto che prende uno stipendio lordo di 650 mila euro. Poi il presidente, Monica Maggioni, con uno stipendio un po’ superiore ai 300 mila. Poi un gruppetto di direttori di rete o di telegiornale, tutti oscillanti, come la presidente, sui 300 mila. Infine un certo numero di presunti nullafacenti, i quali negli anni scorsi sono stati emarginati e privati dei loro incarichi (per motivi politici, o professionali, o talvolta, magari, di scarsa obbedienza) ma non licenziati in tronco. La pubblicazione di queste cifre ha scatenato un putiferio. I giornali che le hanno riportate (dal “Fatto” al “Corriere della Sera” a “Repubblica” a tutti gli altri), hanno gridato allo scandalo, al tradimento, all’estorsione. E poi hanno gridato allo scandalo i politici, a cominciare da Matteo Orfini, presidente moralizzatore del Pd, e -naturalmente – Fico e tutti i cinque stelle d’Italia. E hanno chiesto innanzitutto che tutti gli stipendi siano tagliati e riportati sotto i 240 mila euro, e poi che siano cacciati via, o comunque privati dello stipendio, i giornalisti superpagati e emarginati, compresi fior di professionisti come, ad esempio, Carmen Lasorella. E’ giusta questa levata di scudi? Il problema – credo – non sono tanto gli scudi, ma chi li leva. Nel senso che la maggior parte degli indignati prende stipendi più alti di quelli per i quali si indigna. I parlamentari, innanzitutto, ma anche i giornalisti. Voglio confessarvi un segreto: so per certo che le grandi firme dei giornali italiani, quasi tutte, guadagnano più di 20 mila euro al mese (cioè, circa mezzo milione lordo all’anno), qualcuno di loro guadagna anche di più. Voi pensate che ogni volta che vanno a ritirare la busta paga si auto-indignano? No. E se glielo fai notare, ti dicono: ma io lavoro per una azienda privata. Embe? Richiede più talento, più merito, e impone più responsabilità dirigere un telegiornale della Rai o dirigere un quotidiano privato, o scrivere un servizio per il tal giornale? E allora da dove nasce questa indignazione? Nasce da una spinta popolare. Alla quale tutti si adeguano. E strillano, strillano, per mettersi in vista. La spinta è anche giusta, intendiamoci, perché – lo ho scritto altre volte – l’eccesso di ricchezze secondo me non è una bella cosa. Il problema è che quelli che si incazzano come api sono gli stessi che urlano plaudenti e ammirati se parlano Santoro, o Floris, o Belpietro, o Giannini o – soprattutto – Crozza o Benigni. E’ questo cortocircuito che mi fa paura: l’indignazione usata come carburante del proprio potere da chi dovrebbe esserne l’oggetto. P. S. Ho una proposta: vietare il diritto all’indignazione a chiunque guadagni più di 100 mila euro all’anno. Immaginate voi che silenzio, nei giornali e in tv...

2 giugno 1946: monarchia o repubblica? Nord e Sud sempre divisi su tutto. Gli italiani al voto, scrive Giancarlo Restelli. Per decidere se l’Italia sarebbe stata una repubblica o ancora una monarchia gli italiani andarono alle urne il 2 giugno del ’46 con un referendum. Il risultato fu la vittoria della repubblica ma con uno scarto poco ampio di voti: 12.717.923 per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia a cui dobbiamo aggiungere un milione e mezzo di schede bianche e nulle. La repubblica ottiene quindi poco più del 54 per cento dei voti. A esprimersi nel referendum è un’Italia spaccata tra Nord e Sud. Il Nord vota a maggioranza repubblicana mentre il Sud è compattamente monarchico. Vediamo qualche percentuale. In Piemonte, culla dei Savoia, la repubblica ottiene il 57 per cento, in Lombardia il 64 per cento, in Toscana il 71; percentuali simili l’Umbria e le Marche. La regione dove il consenso alla repubblica è più alto è il Trentino con l’85 per cento. Per la monarchia la percentuale più elevata è nella circoscrizione Napoli-Caserta con il 79.9 per cento. I partiti di sinistra (Partito comunista, Partito socialista, Partito d’Azione) si espressero decisamente per la repubblica mentre la Dc non diede indicazioni di voto perché nel partito c’era una forte spaccatura sulla questione istituzionale. La chiesa dà indicazioni di voto a favore della monarchia. Gli americani cautamente si esprimono per la repubblica. Churchill per la monarchia, ma Churchill non è più al potere in Gran Bretagna. Perché questa spaccatura tra Nord e Sud? A parte le storiche differenze tra le due parti d’Italia contarono molto le diverse esperienze delle due aree durante la guerra: il Nord conobbe la Resistenza (il “vento del Nord”) e una presa di coscienza politica che invece il Sud non ebbe perché l’avanzata anglo-americana fu relativamente rapida almeno fino a Montecassino e quindi non ebbe tempo di formarsi la resistenza ai nazifascisti. Ma dietro il voto monarchico si celava il timore che le forze di sinistra mutassero l’Italia sulla base dei propri obiettivi. Spaventava molto il legame fortissimo tra il Pci e l’Unione Sovietica e nello stesso tempo il forte radicamento del partito di Togliatti tra gli operai del Nord e i contadini del Centro-Sud. La monarchia era vista quindi come baluardo conservatore di fronte alle incognite del dopoguerra. Dopo aver appoggiato il fascismo per i propri interessi, ora masse di borghesia piccola e media votavano a favore della conservazione politica identificandosi con i Savoia. Vittorio Emanuele III tentò un colpo a sorpresa per “lavare” l’immagine fosca della monarchia in Italia: abdicò a favore del figlio Umberto (molto meno compromesso con il fascismo rispetto al padre), che così divenne Umberto II. Il passaggio di potere avvenne alla vigilia del referendum nel maggio ’46, così Umberto II divenne il “re di maggio”. Nonostante l’estremo e tardivo tentativo di salvare il trono, la monarchia è sconfitta perché ha dato il potere al fascismo al tempo della Marcia su Roma, non ha agito contro Mussolini quando Matteotti fu assassinato, ha accolto con soddisfazione la nascita dell’“Impero”, ha firmato senza battere ciglio le Leggi Razziali, ha voluto la guerra al pari di Mussolini e si è dissociata da Mussolini e dal fascismo solo quando la guerra era compromessa (25 luglio ’43) per conservare il trono. Con l’8 settembre del ‘43 il re, fuggendo vergognosamente da Roma, condannava il Paese al caos dell’armistizio. È una delle tante leggende che continuano a circolare nel nostro Paese: la presenza di brogli che avrebbero favorito la vittoria della repubblica. Oggi non c’è storico serio che dia credito a questa tesi. Furono i monarchici a sostenere l’idea di una vittoria ottenuta manipolando i voti perché in quei giorni ci fu, dopo il voto, una imbarazzante confusione agli alti livelli dello Stato. Basta pensare che i risultati definitivi furono proclamati dalla Cassazione solo il 18 giugno (!), sedici giorni dopo il voto. Altro fatto sconcertante, dopo la conta le schede furono subito bruciate in tutta Italia, quindi fu impossibile il riconteggio. Mentre la Cassazione tardava a fornire i risultati definitivi corsero voci di golpe da parte delle forze monarchiche che cercarono di coinvolgere Umberto II nel rovesciamento del governo retto in quel momento da De Gasperi. Non ci fu nessun tentativo significativo di colpo di Stato probabilmente perché Umberto II si rese conto che l’eventuale azione militare non avrebbe riscosso molto successo nell’esercito e nel mondo economico; anche gli americani non volevano che l’Italia precipitasse di nuovo nella guerra civile. Fu così che il “re di maggio” lasciò l’Italia il 13 giugno per il Portogallo non attendendo neppure il risultato definitivo del referendum. L’entusiamo per la nascita della Repubblica durò pochi giorni perché sempre nel giugno ’46 Togliatti (leader e figura storica del Pci), in quel momento ministro di Grazia e Giustizia, emanò la famosa amnistia grazie alla quale migliaia di fascisti furono scarcerati e tornarono a occupare posti di potere. La reazione di molti partigiani fu prima di incredulità e poi di aperta protesta ma le cose non cambiarono. Fu così che Togliatti diventò “ministro della Grazia ma non della Giustizia”. Altra delusione di quei giorni fu l’elezione a Capo provvisorio dello Stato dell’avvocato Enrico De Nicola, notorio monarchico così come per la monarchia si era espresso il suo partito, il Partito liberale italiano. De Nicola, esponente di quella classe dirigente liberale che con troppa facilità aveva ceduto al fascismo al tempo della Marcia su Roma, è colui che aveva spedito a Benito Mussolini un telegramma di auguri per il Congresso di Napoli dei Fasci che preparò gli avvenimenti del 28 ottobre 1922. Ma De Nicola fu anche colui che elogiò il re Vittorio Emanuele III quando conferì a Mussolini l’incarico di formare il primo governo di fascisti e liberali nei giorni convulsi della Marcia. Insomma un monarchico a capo della repubblica! Contemporaneamente il 2 giugno del ’46 si votò a favore della Costituente, ossia di quella assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere la nuova Carta costituzionale (1 gennaio ’48). I risultati sono a favore della Dc che ottiene il 35 per cento mentre il Pci è fermo al 19 e il Psi al 20. Scompare il Pd’A di Parri, Valiani, Bauer, Calamandrei, ossia un partito che nella Resistenza espresse quadri politici e militari di notevole livello e fu a capo di numerose organizzazioni partigiane. Ormai il sistema politico ruota attorno ai tre partiti di massa mentre monarchici, repubblicani, liberali sono ridotti a percentuali irrisorie. L’anno dopo, il 1947, le sinistre sarebbero state escluse dal governo (maggio ’47, quarto governo De Gasperi) e la prima repubblica italiana si preparava a una lunga egemonia democristiana.

“La costituzione più brutta del mondo” di Federico Cartelli. Libro pubblicato nella collana “Fuori dal Coro" de “Il Giornale” il 19 maggio 2016. La Costituzione «nata dalla Resistenza», concepita settant’anni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire qualcosa di sacro e intoccabile. Mettere in discussione la più bella del mondo è un’eresia. Ma una Costituzione non dev’essere bella: dev’essere efficiente. La nostra invece è la radice di ogni male italiano, dal debito pubblico al fisco, dai giochi di palazzo agli eccessi sindacali. La Carta è la pietra angolare del conservatorismo che protegge quello status quo politico ed economico che tutti, a parole, vorrebbero cambiare. 

“Costituzione, Stato e crisi”, intervista a Federico Cartelli di Riccardo Ghezzi del 31 agosto 2015 su "Quelsi”. La Costituzione italiana è davvero la più bella del mondo? Non secondo Federico Cartelli, direttore del sito The Fielder, che nel suo libro “Costituzione, Stato e crisi – Eresie di libertà per un paese di sudditi”, disponibile su Amazon, mette sotto processo uno dei miti della nostra società: la Costituzione “nata dalla Resistenza”. Un libro con la prefazione del filosofo liberale Carlo Lottieri. In questa intervista con l’autore ne approfondiamo le tematiche.

Federico, innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro?

«Stavo preparando un articolo sui difetti della nostra Costituzione e stavo ricercando del materiale. Dopo un po’ mi sono accorto che trovare libri o paper critici nei confronti della Carta era pressoché impossibile. Praticamente tutte le fonti che stavo consultando non osavano metterne in dubbio la sacralità, né muovevano dei rilievi su quelle parti che sono palesemente superate dalla Storia. A quel punto, con un po’ di sana incoscienza e senza prendermi troppo sul serio, ho deciso che mi sarei impegnato personalmente per colmare questa lacuna. Avevo sempre pensato di scrivere un libro, e questa è stata l’occasione giusta».

Non ti sembra azzardato che una persona “qualunque” possa scrivere un libro di critica nei confronti di quella che è pur sempre la nostra Costituzione?

«Senz’altro. È molto azzardato. Però credo che in questo libro, più che altro un manifesto, si possano cogliere sia lo spirito polemico delle mie osservazioni, sia l’intenzione di discostarmi da certi modelli populisti in salsa grillina che non sanno andare oltre il pensiero breve. In verità, “Costituzione, Stato e crisi” è proprio un manifesto contro il pensiero breve, più precisamente quel pensiero breve sessantottino e progressista che da decenni blocca l’Italia e le impedisce di diventare un Paese moderno. È un manifesto contro la retorica collettivista, contro il benecomunismo che si respira in ogni articolo della nostra Carta e che ogni giorno ci viene propinato da certi giornali e da certi politici. Bisogna dirlo forte è chiaro: no, non è la Costituzione più bella del mondo. Anzi, è una delle peggio riuscite».

Credi che i lettori abbiano apprezzato questo messaggio?

«Per adesso, direi proprio di sì. Sono rimasto sorpreso dai molti messaggi ricevuti e dalle valutazioni lasciate su Amazon. Alcuni mi hanno scritto in privato per complimentarsi e hanno apprezzato il fatto di poter leggere, finalmente, una critica alla “più bella del mondo”. Posso già ritenermi soddisfatto, e spero che le mie “eresie” si diffondano in più possibile».

Ma secondo te, perché c’è sempre questa ossessiva retorica adulatoria nei confronti della Costituzione?

«Perché la Costituzione è di fatto il lucchetto che mantiene tutto com’è. È la suprema garanzia dello status quo. In nessun altro Paese europeo c’è questa ossessione nei confronti della Costituzione sacra e intoccabile. Perché sì, è vero che è stata cambiata nel corso degli anni: ma non sono mai state toccate né la parte riguardanti i rapporti economici, né i principi fondamentali (che in ogni caso non posso essere soggetti a modifiche). Non è mai stato toccato quel nucleo che rappresenta, di fatto, l’Italia dell’immediato dopoguerra che vedeva nello Stato un padre-padrone. La parte riguardante i rapporti economici è, di fatto, un imbarazzante manifesto socialista. Servirebbe un’assemblea costituente, perché questa Carta è davvero tutta da rifare».

C’è un capitolo del libro al quale sei più legato?

«Il quinto, senza dubbio, “Il lavoro non è un diritto”. Ed è anche il capitolo che più ha suscitato la curiosità nei lettori. Molti, lasciandosi ingannare dal titolo – evidentemente provocatorio – si sono detti: questo è matto, perché mai il lavoro non dovrebbe essere un diritto? In realtà poi, una volta letto il capitolo, si sono ricreduti».

Nel capitolo 8 fai una lunga critica al cosiddetto “federalismo all’italiana”. Ha ancora senso parlare di federalismo in Italia?

«Sì, e aggiungo che in Italia si deve parlare di federalismo. Ma di vero federalismo, non di quel pasticcio compiuto dal centrosinistra nel 2001 e poi degenerato definitivamente con Monti. Il federalismo all’italiana non è vero federalismo, è solo un altro salasso fiscale ai danni dei contribuenti, che si sono visti aumentare le tasse e moltiplicare i centri di spesa, mentre certe regioni e certi comuni in completo dissesto finanziario continuano a battere cassa a Roma. È per questo che ho dedicato un capitolo al federalismo: perché ho voluto mettere un po’ d’ordine e far capire ai lettori che una rivoluzione federalista è l’unica vera possibilità di cambiare il Paese. Credo che anche in futuro tornerò su questo argomento».

Come vedi l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia?

«Faccio parte di quelli che il nostro magnifico presidente del Consiglio definisce “gufi”. Purtroppo sono affetto da una malattia molto grave: il realismo. E non riesco davvero ad emozionarmi per i tweet del nostro Matteo, che pensa di coprire i fallimenti di questo governo con un modus operandi da bulletto di periferia. I numeri dicono il tanto decantato Jobs Act è in realtà un Flop Act, e nonostante tutti i fattori esterni favorevoli – politiche accomodanti dalla Banca Centrale Europea, costo delle materie prime ai minimi storici solo per citarne alcuni – non c’è stata alcuna reale ripresa, ma solo qualche “zero virgola” che in termine concreti non vuol dire nulla. Dall’altra parte, non c’è alcune reale opposizione. Il cosiddetto “centrodestra” è solo un cumulo di macerie, senza alcun piano maggioritario per governare il Paese a lungo termine. Insomma, di questo passo tra qualche anno l’Italia diventerà l’Argentina dell’Europa».

A proposito di Europa, cosa pensi dell’attuale Unione Europea?

«Dieci anni fa, ai tempi dell’università, ero un convinto sostenitore dell’Unione Europea e della moneta unica. Ma davanti ai fatti – sempre a causa di quella malattia, il realismo – mi sono dovuto ricredere. Quest’Unione non funziona più, è una caricatura di se stessa, persa tra vertici infiniti dagli esiti mai chiari, divisa in politica estera, sempre più lontana dai cittadini. Basta vedere come, in questi giorni, viene gestito il problema dell’immigrazione: ognuno per sé, con l’Italia che rischia – come spesso accade – di pagare il prezzo più alto. Poi è inutile piangersi addosso perché aumenta il consenso ai cosiddetti partiti populisti. Per ciò che concerne l’euro, è evidente che sono necessari aggiustamenti, perché le calende greche dell’estate appena conclusa sono destinate a ripetersi».

La Costituzione italiana: la più brutta del mondo, si legge su “Risveglio nazionale” il 09/05/2015. La costituzione che garantisce l’impunità e la protezione all’eletto che tradisce i suoi elettori!… Ovvero: la costituzione più antipopolare, più immorale, più demagogica, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!…La nostra “sacra costituzione” voluta da Rothschild è davvero la più brutta del mondo. Una costituzione a sovranità limitatissima, che il popolo non può cambiare. I nostri “padri costituzionalisti”, seguendo alla lettera le direttive di Rothschild, ci hanno fatto credere di averci dato in eredità qualcosa di sacro, che se viene cambiato ci farà solo del male. Oggi la Costituzione, oltre ai più che ambigui “principi fondamentali”, presuppone un sistema decisionale lento, se non completamente bloccato e un gioco di pesi e contrappesi a tutti i livelli che non dà una chiara definizione di chi debba decidere cosa e praticamente permette tutto ed il contrario di tutto al soggetto socialmente più forte: Rothschild. E’ ora di riflettere, guardarci in faccia e di ammettere una volta per tutte che l’assetto istituzionale italiano, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, comprese quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese, poiché i tempi sono evidentemente cambiati. Infatti, non dobbiamo più leccarci le ferite morali e materiali aperte dai bombardamenti e incancrenite per la fame e la miseria e avvelenate dalla umiliazione della sconfitta e dalla paura di fronte ai vincitori e per la brutale invasione e la feroce occupazione “alleata”, quindi l’assemblearismo estremo non è mai stato e meno che mai è adesso un valore aggiunto. L’Italia non ha affatto bisogno di superpartiti “assopigliatutto”, con annessi supersindacati, supertraditori e superassociazioni varie che intrallazzano in tutti i modi, che sono sempre in disaccordo fra loro per spartirsi qualche osso. Persone docili e ubbidienti col loro signore e padrone Rothschild per fare le “riforme” contro il popolo più povero per fargli buttare sangue a pagare l’usuraio, enorme, crescente ed eterno “debito pubblico”. E’ necessario avere governi che governino realmente a favore del popolo e non per finta, e di un legislatore controllato veramente dal popolo, e che sia costretto dal popolo a fare leggi giuste per il bene del popolo e non per il bene dei “mercati” di Rothschild. Siamo arrivati al punto da capire sulla nostra pelle e di dire, e di urlare, che la “nostra” costituzione non è affatto “nostra” e non è affatto la “costituzione più bella del mondo”, perché non si salva neanche… uno… dei malignamente ambigui e contraddittori articoli fondamentali, e che quella che gli scagnozzi di Rothschild ci hanno appioppato è “la Costituzione più brutta del mondo”.

Questo volere difendere ad ogni costo questa loro demagogica e truffaldina costituzione serve proprio, e solo, alle alte sfere del potere antipopolare per potere preparare un ritorno forzato all’autoritarismo più biecamente capitalista e schiavista assoluto. E’ bene ricordare che la restaurazione “democratica” rothschildiana, seguita alla sconfitta della prima guerra mondiale, regalò al povero popolo tedesco la corrotta, tirannica, terribile e mostruosa “Repubblica di Weimar” con il popolo minuto che faceva la fame molto, molto, molto peggio che in seguito gli ebrei ad Auschwitz e con gli avidi, viziosi e debosciati capitalistoni ebraici, vassalli al seguito del satanico Rothschild che debordavano a vista d’occhio in tutto e per tutto, dappertutto nella società come porci da ingrasso scatenati e lasciati liberi in un campo di grano!… Voglio solo ricordare: Art. 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Tralasciando il “non sense” del primo comma, fondata sul lavoro, che non vuol dire assolutamente nulla, faccio solo notare che nel secondo con la mano destra dà ciò che con la mano sinistra toglie (nello spazio di una virgola). Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Quindi, la religione cattolica può avere teoricamente norme in contrasto con l’ordinamento italiano. Ergo, non tutte le confessioni sono egualmente libere (vedi a questo proposito anche l’art. 7). Ultimamente abbiamo assistito a polemiche sulle croci e sui presepi e ad attacchi contro la religione cattolica e contro la religione islamica, che vengono spesso vilipese volgarmente, oscenamente e pesantemente in pubblico anche dai mass media. Malgrado questo, si vede chiaramente che la magistratura massonica ebraica rothschildiana, di questo regime coloniale vigente in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente, è estremamente tollerante. Una magistratura che non dice nulla, chiude tutti e due gli occhi, non interviene o, se lo fa, interviene addirittura a favore di chi le vilipende, creando le premesse tra le masse popolari di forti contraddizioni ideologiche e religiose, di profondo scontento e di gravi ed anche gravissimi e tragici incidenti. Invece, ecco che dall’altra parte c’è tutto un fiorire di iniziative mediatiche e legislative per conferire uno status privilegiato alla religione ebraica, alla etnia ebraica, al sionismo, allo stato di Israele, a tutta la questione dell’olocausto, della “shoah”, etc. Guai se ci si permette anche solo di dire, di sussurrare o di pensare qualcosa anche solo di costruttivamente critico nei confronti di questi argomenti, perché scatta subito l’accusa di “antisemitismo”, e sono cavoli amari, condanne pesantissime, discriminazioni addirittura odiosamente razziste e comunque seccature di ogni genere!… Ma da tutto questo movimento di legiferazione e di attività giudiziarie scandalosamente improntate al criterio dei due pesi e delle due misure, anche i più ignoranti, i più ottusi ed i più ipocriti, capiscono e son costretti ad ammettere che a quanto pare, anche se costituzionalmente si afferma formalmente che “tutte le confessioni sono egualmente libere”, invece, gli ordini di scuderia del vigente regime massonico, ebraico, rothschildiano sono prioritariamente orientati a tenere un atteggiamento di estremo riguardo per i soggetti e gli argomenti talmudici sopra accennati. Sembra quindi che questo articolo della costituzione non valga un fico. Art. 13 comma V: la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. Il mio diritto alla libertà personale, il mio diritto a non essere privato di essa prima di un regolare processo e di una condanna definitiva è nelle mani di deputati e senatori (la parte migliore del paese, vero?), anziché essere fissati almeno nelle linee guida. Art. 68. I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questo articolo, tanto breve quanto apparentemente “innocente”, è in realtà il nocciolo della truffa rothschildiana sedicente “democratica” e quindi della profonda ed anzi essenziale rothschildianità di questa costituzione truffaldina ed antipopolare. Infatti è ovvio anche per uno sprovveduto che il parlamentare, pur eletto a seguito di suoi solenni giuramenti e grandi promesse ai suoi elettori che farà gli interessi, i loro interessi,… invece, il neo eletto, strafregandosene altamente di giuramenti e promesse ha già voltato gabbana e peggio di Giuda Iscariota si è già venduto al miglior offerente anche per meno di trenta denari d’argento. Ovvero, trattandosi di soldi, chi più di Rothschild, l’uomo più ricco e potente del mondo, potrà comprare chi vuole a qualsiasi prezzo e dominare qualsiasi parlamento corrompendolo come gli pare? In effetti succede sistematicamente ormai dal 1861, cioè da quando, più di un secolo e mezzo fa, Rothschild impose a mano armata, e poi reimpose sempre “manu militari” nel 1943 la sua truffaldina e farsesca “democrazia” massonica, ebraica, antipopolare, proprio congegnata per fregare il popolo, appunto in nome della “libertà di coscienza” di poter tradire impunemente il popolo, ovvero i più poveri; e per poterlo fare a cuor leggero, sancì, beffa delle beffe, che il tradimento potesse essere fatto proprio protetti dalla “sacra ed inviolabile” costituzione e dalle “democraticissime” leggi conseguenti, invocate ed applicate zelantemente da giudici, forze dell’ordine , massmedia, etc. In Italia, ormai, tutti massonicamente condizionati e opportunamente assoggettati con le buone o con le cattive agli ordini del più ricco, ovvero del solito Rothschild, ovvero del più pericoloso associato a delinquere: il capo supremo di tutte le massonerie del mondo!… e cioè sempre e comunque Rothschild. Tutto questo è tanto vero che è famosissima la frase appunto: “datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi”- Mayer Amschel Rothschild 1815. Art.75 comma II: Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio (quelle appunto che riguardano i… soldi… e sono proprio quelle che interessano più di tutte a Rothschild), di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Decisamente il mio articolo preferito. La Costituzione spiega come, per quanto riguarda le cose davvero importanti (proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano sia troppo stupido per esprimere serenamente la propria opinione. Meglio negargli la possibilità solo a chiacchiere e per modo di dire (ma non era una repubblica democratica secondo l’art. 1?). La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale della Repubblica italiana, ovvero il vertice nella gerarchia delle fonti di diritto dello Stato italiano. Approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio1948.

I Rothschild sono una famiglia europea di origini tedesco-giudaiche. Cinque linee del ramo austriaco della famiglia sono stati elevati alla nobiltà austriaca, avendo ricevuto baronie ereditarie dell'Impero asburgico dall'Imperatore Francesco II nel 1816. Un'altra linea, del ramo inglese della famiglia, fu elevata alla nobiltà britannica su richiesta della regina Vittoria. Nel corso dell'Ottocento, quando era al suo apice, la famiglia si ritiene abbia posseduto di gran lunga il più grande patrimonio privato del mondo. Oggi, i business dei Rothschild sono su scala più ridotta anche se comprendono una vasta gamma di settori, tra cui: gestione dei patrimoni privati, consulenza finanziaria, policoltura.

La Costituzione italiana: ambigua, immorale, demagogica, antipopolare. La costituzione che garantisce l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori!... Ovvero: la costituzione più immorale, più demagogica, più antipopolare, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!...La “sacra” costituzione dell’attuale classe dominante, al di là della messa in scena retorica di facciata, è a limitatissima sovranità popolare, anche se i suoi “padri costituzionalisti” hanno cercato di farci credere, con la complicità del monopolio mediatico del loro regime, di aver scritto la costituzione più bella del mondo. Anche i principi fondamentali in essa contenuti sono talmente ambigui, contraddittori ed indeterminati che la classe dominante può permettersi tutto ed il contrario di tutto a tutti i livelli, con le buone o con le cattive, in modo tale da detenere sempre e comunque la stragrande parte del potere possibile nelle sue mani. Infatti, perfino quando le sue leggi elettorali truffa, i suoi brogli ed imbrogli senza fine, non permettessero ai suoi politicanti di avere la maggioranza in parlamento e senato, le permetterebbero comunque senza particolari difficoltà di ricorrere, di nuovo come in passato, alle maniere forti di un regime apertamente militare con tanto di coprifuoco e di leggi marziali per salvare il suo Stato, ovvero per salvaguardare il primato del suo potere egemone sul popolo e contro il popolo. La nostra costituzione è stata scritta nel 1947, ed è andata in vigore nel 1948. Già l'art. 1 della Costituzione è una vera e propria presa in giro.

Art. 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tralasciando il primo comma, che è una formula ambigua che si fonda su una idea astratta e indeterminata di lavoro, invece che sulle precise e concrete persone fisiche dei lavoratori o dei cittadini. Nel secondo comma, a proposito della sovranità popolare, si dà con una frase quello che, subito dopo una virgola, si toglie con una frase sostanzialmente opposta.

Art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.” Anche su questo articolo potremmo discutere a lungo. Oltre alle polemiche, alle prevaricazioni e alle ingiustizie che specie in questi ultimi tempi si fanno contro i cristiani e contro gli islamici, avallate dai mass media e dalla magistratura del regime, si assiste anche a tutto un fiorire di leggi e controleggi, che privilegiano, contro la stessa costituzione e contro lo stesso diritto di libertà di pensiero e di parola, la religione ebraica, l'etnia ebraica, la shoah, l'olocausto, ecc... 

Art. 59: “È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. In parlamento, in senato ed a capo dello Stato, in rappresentanza del popolo sovrano, dovrebbero stare solo i rappresentanti eletti direttamente dal popolo, e nessun altro.

Art. 67. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

Art. 68. ”I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni”. Questi due articoli 67 e 68, tanto brevi quanto apparentemente "innocenti", sono in realtà il nocciolo centrale della truffa e della sedicente "democrazia" rothschildiana. Questi articoli garantiscono l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori, svuotando la vera rappresentatività popolare e democratica di qualsiasi eletto ed annullando il reale e sovrano potere del popolo in qualsiasi e sedicente democrazia.

Art.75 comma II: “Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio.” Ecco un altro articolo truffaldino nei confronti del popolo, a cui viene sottratta la possibilità di esercitare un controllo diretto su questioni economiche, che lo riguardano direttamente e che spesso sono vitali. La Costituzione infatti afferma con detto art. 75 come, per quanto riguarda le questioni economiche concrete e davvero importanti (appunto proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano debba essere di proposito e maliziosamente trattato come se fosse troppo stupido per essere in grado di esprimere saggiamente una giusta opinione. Meglio quindi dargli, solo a chiacchiere e per modo di dire, la possibilità di esprimersi, ma poi, perfidamente, negargliela nei fatti!...(ma non era una repubblica "Democratica"?... che, all’art. 1, spiega che il Popolo è Sovrano?).

Non lasciamoci ingannare dalle parole dolci, suadenti, sentimentali dei lupi travestiti da pecore...e se l'Italia ha la Costituzione più bella del mondo come mai ha generato la classe politica e dirigente più ladra, più corrotta, più criminale, più infame, più delinquente, più mafiosa? La risposta si trova in un passo evangelico: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere». Mt 7, 15-20. Sarebbe il caso di ammettere una volta per sempre che l'assetto costituzionale, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, in particolare quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese. (s. brosal - d. mallamaci).

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

E’ il dio denaro e le ricchezze che da sempre fanno muovere il mondo e le montagne religiose ed ideologico.

Le masse si smuovono dalla loro apatia solo se indotti dai loro bisogni primari, non conoscendo altri virtù.

Già i romani indicavano in “Panem et Circenses” le aspirazioni della plebe. Gli illuminati, pochi ricchi e potenti, sin dall’antichità usano i bisogni della plebe per disegnare il loro Ordine Mondiale. Gli strumenti per attuare le loro mire di destabilizzazione: religioni ed ideologie, prime tra tutte il comunismo.

Marxismo e immigrazione proletaria (da «il comunista»; N° 113; Luglio 2009). Il fenomeno dell'immigrazione dei proletari non ha nulla di nuovo e i marxisti hanno spessissimo trattato questo tema, a cominciare da Engels nel 1845 nel suo libro su «La situazione della classe operaia in Inghilterra». Marx ne parla nel Capitale, fra gli altri nel passaggio seguente: «Il progresso industriale che segue la marcia dell'accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l'operaio individuale deve fornire. nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l'uomo con la donna, l'adulto con l'adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l'offerta sovrabbondante, in un parola per fabbricare una sovrapopolazione. «L'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25). Riassumendo, la borghesia utilizza l'importazione di lavoratori stranieri allo scopo di ingrossare l'esercito industriale di riserva e aumentare la concorrenza, questa «guerra di tutti contro tutti», fra proletari. Marx dettaglia questo fenomeno della concorrenza fra operai «nazionali» e immigrati con i casi degli operai irlandesi in Inghilterra e le sue osservazioni sono estremamente ricche di insegnamento: «A causa della concentrazione crescente della proprietà della terra, l'Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese. «E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di luiè molto simile a quella dei poveri bianchi" verso i "negri" degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870). Anche oggi la classe capitalista è perfettamente cosciente che la divisione fra proletari immigrati e italiani è un fattore chiave della paralisi della classe operaia, e naturalmente fa di tutto per mantenere e rafforzare questa divisione, questa ostilità, questo razzismo, questo sentimento di superiorità nazionale. Anche nel caso in cui, come succede ora in Italia col governo Berlusconi, in cui ha una certo peso la Lega Nord, il governo borghese si prenda il gusto di tormentare la popolazione proletaria immigrata con leggi vessatorie sulle loro condizioni di esistenza. Mai era successo che la situazione fisica di esistenza, come sbarcare in territorio italiano alla ricerca di una sopravvivenza meno precaria, fosse trasformata in reato penale (mentre sono stati depennati dal penale i falsi in bilancio, bancarotta ecc.!). Un altro punto, il ruolo potenzialmente molto importante per la lotta proletaria e per il suo internazionalismo che gioca l'immigrazione, è sottolineato da Lenin: «Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei paesi. «Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di verste. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali. «Non c'è dubbio che solo l'estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall'oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l'arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell'America, della Germania, ecc.» E vi aggiunge: «La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un'altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l'inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati» (Lenin, Il capitalismo e l'immigrazione operaia, 1913). Ecco quale deve essere l'attitudine costante dei proletari e delle loro organizzazioni di classe, ecco qual è la nostra prospettiva!

Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003.  “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.

Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.

«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.

Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.

1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?

2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.

3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.

4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.

5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.

Massoneria. Rivoluzioni e conquiste.

La Brexit come disegno ordito dalla massoneria.

L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.

La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.

“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.

Il monopoli o domino massonico destabilizzante continua il 23 giugno 2016. Il Regno Unito ha votato la sua uscita dall'Unione Europea. Ma la domanda è: Il Regno Unito ci è mai entrato nell'Unione Europea? E se lo ha fatto con quali intenzioni? Sia l’entrata che l’uscita dall’Unione Europea dell’Union Jack non è forse un tentativo di destabilizzare la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati europei ed impedire la loro unificazione politica, economia e monetaria, oltre che ostacolare l’espandersi dei rapporti amichevoli con la Russia che è vista come antagonista degli Usa nell’egemonizzazione del mondo?

Dominato dall'orgoglio francese, ma anche perché non li considerava "europeizzabili", Charles de Gaulle non voleva gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti massoni.

"Leggo dello sconforto di Jacques Delors, ex presidente della Commissione: «Avremmo fatto meglio a lasciare fuori gli inglesi». Ero a Parigi nel 1966, quando si discuteva già se permettere o no l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. De Gaulle era contrarissimo, mentre la maggior parte degli altri partner europei erano favorevoli. In uno dei tanti discorsi che soleva tenere alla tv, De Gaulle fece questa profezia: «Fate entrare l’Inghilterra e l’Europa non sarà mai fatta». Può dirmi, alla luce di quanto sta accadendo, se «l’Europa delle Patrie» dallo stesso De Gaulle tanto auspicata, avrebbe intrapreso forse un cammino più rapido verso una vera Unione europea simile a quella degli Usa?" Domanda di Rocco Caiazza a Sergio Romano del 5 dicembre 2012 su “Il Corriere della Sera”. “Caro Caiazza, Non ricordo la frase da lei citata, ma sul problema dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea la posizione di De Gaulle fu sempre chiara ed esplicita. Era convinto che Londra sarebbe stata il «cavallo di Troia» dell’America nell’organizzazione europea e non esitò a boicottare i negoziati con una clamorosa conferenza stampa il 14 gennaio 1963.” Fu la risposta di Romano. In effetti, dal 1975, da quando cioè il Regno Unito attraverso un altro referendum convocato sulla permanenza nell'Ue ad appena tre anni dal suo ingresso ufficiale ha optato per il «sì» a Bruxelles, le relazioni tra Londra e il blocco comunitario non sono mai state idilliache, scrive Arianna Sgammotta su “L’Inkiesta” il 22 giugno 2016. Non soltanto. Oltremanica l'Unione europea è sempre stata o ignorata o accusata di tutto quello che non funzionava in patria. Non stupisce quindi che fino al 2008, agli anni precedenti la crisi economica e finanziaria, l'etichetta euroscettico fosse a uso e consumo dei britannici, quasi a porsi come un sinonimo del carattere nazionale. In trent'anni di convivenza difficile il Regno Unito ha ottenuto una serie di deroghe all'implementazione di vari regolamenti validi invece per tutti gli altri Stati membri. Questo grazie alla cosiddetta clausola dell'opt-out. Ma non basta, grazie alla leader di ferro, Margaret Tatcher, Londra gode di un deciso sconto sul contributo annuale al bilancio comunitario. All'origine della diatriba tra Regno Unito e resto delle capitali Ue, la visione stessa del progetto comunitario. Per Londra una mera area di libero scambio solo se per sé vantaggiosa, per i Paesi fondatori - tra cui l'Italia - le basi di un'unione politica, economica e monetaria. Tant’è che il Regno Unito non è nell’area Euro né nello spazio Schenghen.

Allora, anziché rammaricarci del risultato, perchè non brindiamo per la vittoria che gli europeisti continentali hanno ottenuto ed analizziamo le notizie ed i dati offerteci dai media con maggior approfondimento e distacco ideologico? Come chiederci: gli antieuropeisti come gli europeisti fallimentisti, che con il formalismo e la burocrazia minano le basi dell’Unione, sono mica massoni?»

Massoneria come entità sopranazionale e trasversale, comunque vincente, checchè ne dicano i soliti idioti che stanno sempre lì a commentare le ovvie verità nei miei scritti. Ecco perché a Strasburgo vediamo che il Parlamento Europeo vota per l’uscita immediata dalla UE del Regno Unito ed a votare contro troviamo il leader inglese che ha fomentato la Brexit e con lui hanno votato il Movimento 5 Stelle, ed i movimenti di Le Pen e Salvini.

Ed i precedenti italiani di destabilizzazione?

Per scaricare Renzi i poteri forti rispolverano la massoneria, scrive il 20 febbraio 2016 Stefano Sansonetti su “La Notizia Giornale”. Ormai non c’è giorno senza che arrivi un pessimo segnale per la tenuta del Governo guidato da Matteo Renzi. Se poi questi segnali arrivano direttamente dall’estero, o sono comunque veicolati da profili legati a centri di potere internazionali, per il premier l’effetto non può che essere allarmante. Soprattutto quando tra le accuse viene ritirata in ballo la “massoneria”. Tra quelli che stanno lanciando missili c’è senza dubbio Mario Monti, ex commissario europeo, molto stimato da alcune cancellerie nonché membro dei comitati esecutivi delle più influenti e chiacchierate lobby mondiali, dalla Trilateral all’Aspen. Ebbene, qualche giorno fa Monti aveva dato un antipasto a Montecitorio criticando il presidente del consiglio per la strategia assunta in Europa. “Presidente Renzi, lei non manca occasione per denigrare le modalità concrete di esistenza della Unione Europea, con la distruzione sistematica a colpi di clava e scalpello di tutto quello che la Ue ha significato finora”, aveva detto Monti in quell’occasione, aggiungendo che “questo sta introducendo negli italiani, soprattutto in quelli che la seguono, una pericolosissima alienazione nei confronti della Ue. Con il rischio di un benaltrismo su scala continentale molto pericoloso”. Ieri, in un colloquio con il Corriere della sera, Monti è stato ancora più affilato, evocando addirittura la massoneria. Senza mai citare direttamente Renzi, l’ex premier ha spiegato che “molti politici nazionali, che sovente si professano europeisti – e magari perfino credono di esserlo – sono diventati maestri muratori della decostruzione europea”. E’ appena il caso di far notare che in termini storici la massoneria viene fatta risalire proprio alle corporazioni dei muratori del Medioevo. Lo stesso termine “massoneria” deriva dal francese “maçon”, che significa appunto muratore. Senza contare che in genere il “gran maestro” rappresenta il ruolo di vertice all’interno della gerarchia massonica. Insomma, ci sono sin troppi indizi che fanno capire come non sia stato certo casuale il riferimento di Monti ai “maestri muratori”. Questa durissima insinuazione, seppur indiretta, ha peraltro trovato spazio sulle colonne del Corriere della sera, non nuovo a lanciare accuse di questo tipo. Nel settembre del 2014, in un editoriale dell’allora direttore Ferruccio de Bortoli, il patto del Nazareno tra Renzi e gli emissari di Silvio Berlusconi venne accostato allo “stantio odore della massoneria”. Ma non è finita qui. Se nei giorni scorsi il Financial Times aveva scritto che “la fortuna di Renzi si sta esaurendo”, ieri in un’intervista a Qn è stato il politologo americano neocon, Edward Luttwak, a dare al premier italiano l’avviso di sfratto: “Renzi ha fallito perché doveva fare riforme importanti e non le ha fatte. Non ha fatto la spending review e non ha messo mano alla burocrazia della pubblica amministrazione”. Quanto al possibile complotto Ue contro Renzi, per Luttwak “non esiste, c’è stato sicuramente per Berlusconi, ma non nei confronti di Renzi”. Infine la superstoccata finale, quella che può aiutare a capire cosa si agiti nella mente di alcuni osservatori internazionali. Basti leggere il modo in cui, secondo Luttwak, Renzi dovrebbe andare avanti: “Innanzitutto lasciando a casa le ragazzine e i dilettanti e circondandosi di personaggi qualificati”. Riferimento neanche troppo velato a Maria Elena Boschi e a Marianna Madia. E chi dovrebbe essere recuperato da Renzi? “Pierluigi Bersani per le liberalizzazioni, poi Romano Prodi ed Enrico Letta. E anche Giorgio Napolitano, che potrebbe avere un ruolo nella riforma della giustizia italiana”. Ora, da che pulpito vengano queste richieste è domanda più che legittima. Ma è il contesto generale di pressione a dover far riflettere. Una spia di come certi poteri stiano scaricando il premier può essere ravvisata anche dal trattamento riservatogli da alcuni giornali. Per carità, il presidente del consiglio può ancora “consolarsi” con il sostegno mediatico fornitogli da La Repubblica del gruppo De Benedetti, da La Stampa della famiglia Agnelli, e da Il Messaggero dell’immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone. Ma certo un bel po’ di preoccupazione sarà indotta nel premier dagli strali lanciati dal Corriere della sera nelle ultime 48 ore. E non è solo per via di Mario Monti. Due giorni fa un editoriale di Antonio Polito era eloquentemente titolato “la spinta smarrita di Renzi”. Ieri un commento economico del vicedirettore, Federico Fubini, ha accusato Renzi si sbagliare completamente strategia quando minaccia di opporsi alla proposta tedesca di mettere un tetto al possesso dei titoli di Stato da parte delle banche. L’assunto è che Berlino “non sosterrà mai un sistema europeo di garanzie sui depositi bancari”, a cui l’Italia dice di tenere molto, “finché le banche stesse saranno così esposte sul debito dei rispettivi governi”. La sintesi, allora, è che “quando Renzi respinge la richiesta tedesca, di fatto rinuncia proprio a ciò che fino a ieri lui stesso chiedeva con urgenza”. Per carità, da tutto questo dedurre un avviso si fratto al premier sarà esagerato. Ma siamo molto vicini a una messa in mora.

L'ultimo tassello che dimostra il complotto di Napolitano & C. Le carte pubblicate da Repubblica sono solo la conferma dello scenario sul golpe del 2011. Prima l'attacco speculativo sui mercati, poi le manovre per far cadere il governo Berlusconi, scrive Renato Brunetta, Mercoledì 24/02/2016 su “Il Giornale”. Un fatto di gravità inaudita è stato rivelato ieri da Repubblica, che ha attinto da Wikileaks la notizia provata delle intercettazioni che uno Stato amico e alleato ha compiuto ai danni del nostro Paese e della sua legittima autorità di governo, rubando le telefonate del nostro presidente del Consiglio e dei suoi più stretti collaboratori. Questo Stato si chiama Stati Uniti d'America, negli anni di Barack Obama, e il presidente del Consiglio italiano è Silvio Berlusconi. Si tratta di una violazione che si configura come attacco alla nostra sovranità nazionale. Ma a questo credo che saprà (o no?) rispondere da par suo (ahinoi!) Matteo Renzi. Il quale, visto che chiama gli oppositori interni gufi, come minimo dovrà dare della iena a Obama. Figuriamoci. Qui restringiamo il campo a chi ha fornito le prove di questo scempio: Repubblica. E Repubblica, se possibile, è peggio degli spioni. Infatti la chiave di lettura che essa dà di questo crimine è di compiacimento, poiché vuol convincere il mondo che questa infamia fornisce nuovi proiettili contro il nemico storico, Silvio Berlusconi e il suo governo. In particolare nell'editoriale di Claudio Tito usa le telefonate carpite per negare l'esistenza di qualsivoglia complotto contro l'ultimo premier legittimato dal voto e di conseguenza contro il nostro Paese. Lo scopo è chiaro: volgarmente si direbbe, mettere le mani avanti. Più raffinatamente, trattasi della classica operazione di disinformacija. Tito, e Calabresi-De Benedetti, vogliono creare il mainstream, il pensiero unico su questa vicenda, obbligando tutti i commenti a instradarsi su questi binari, ad accettare l'agenda proprio di coloro che ordirono il complotto, i quali stavano e stanno non solo all'estero, ma in Italia, e proprio molto vicino all'area politico-culturale di Repubblica-Espresso. Perché queste intercettazioni sono solo nelle loro mani? Hanno per caso pagato per averle? Perché non le hanno anche gli altri giornali? Si fa per caso un uso selettivo di WikiLeaks? L'asino però casca sull'ignoranza, voluta o determinata dal pregiudizio proprio e della casa madre, qui non importa. Il diavolo sta nei dettagli. E i dettagli dicono topiche clamorose nell'impostazione delle fondamenta di una tesi smentita dalla realtà. Ma è proprio questa miseria morale e deontologica a essere la caratteristica espressiva non solo del giornalismo del gruppo editoriale di De Benedetti, ma della sinistra intellettuale e politica in quanto tale. Uno spirito di diserzione rispetto agli interessi nazionali, abbandonando quel minimo di patriottismo che sarebbe naturale riscontrare in chiunque ami il proprio Paese e lo veda ferito con strumenti di scasso che mettono in pericolo la sicurezza di tutti. Il Giornale ha, nel maggio del 2014, pubblicato e diffuso un libro che porta la mia firma e si intitola Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto. Le rivelazioni odierne forniscono in realtà totale conferma della mia narrazione di quegli eventi che videro l'Italia, soprattutto nel secondo semestre del 2011, sotto attacco speculativo. Prima partì l'aggressione finanziaria ai titoli di Stato, mentre i fondamentali della nostra economia erano stati ben valutati dalla Commissione europea. Dal complotto finanziario si passò senza soluzione di continuità al complotto politico, bene assecondato in Italia dal Quirinale (e da Repubblica). Dalle telefonate intercettate in particolare al consigliere politico e deputato Valentino Valentini, che partecipò ai colloqui riservati di Berlusconi con i leader franco-tedeschi, si evince che Sarkozy e Merkel misero sotto pressione fortissima Berlusconi anche in privato. Contemporaneamente ordirono nei corridoi e in incontri riservati al vertice del G20 di Cannes quello che il segretario del Tesoro americano Tim Geithner ha definito nelle sue memorie the scheme, il complotto. A cui si sottrasse, non volendosi «macchiare le mani del sangue» di Berlusconi. Ps. Ecco a uso della scuola di giornalismo e magari alla attenzione dell'Ordine dei giornalisti per la diffusione di notizie false. Prima il testo di Tito, poi la confutazione delle topiche. «Il governo venne umiliato in Parlamento: incapace di approvare la legge di Stabilità... La paura di essere travolti dal buco nero italiano diventava il vero incubo dell'Unione europea e di tutti gli alleati internazionali. Non è un caso che in quei giorni (autunno 2011, ndr) la Deutsche Bank - allora ancora solida - si liberava in un colpo solo dell'88% dei titoli di Stato italiani che aveva in cassaforte. Quasi in contemporanea, dal vertice europeo di Nizza di ottobre arrivava un altro schiaffo. La Cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy ironizzavano con un sorriso eloquente sulla capacità dell'esecutivo berlusconiano di mettere al riparo i conti dello Stato». Il governo non era «incapace di approvare la legge di Stabilità». La legge di Stabilità non era allora in questione. Si trattava, invece, del voto sul rendiconto generale dello Stato, un atto dovuto, e peraltro approvato dalla Camera. La Deutsche Bank non vende «per paura di essere travolti dal buco nero italiano» dopo l'estate, ma sono le decisioni dei suoi vertici a causare ad arte questa paura innescando la tempesta perfetta sui mercati. La Deutsche Bank cedette i titoli di Stato italiani tra marzo e giugno 2011. La Bundesbank impose lo stesso comportamento a tutti gli istituti presenti sul suolo tedesco ai primi di luglio. Fu questa vendita preordinata e in blocco a causare la crescita artificiosa dello spread. I sorrisetti di Merkel e Sarkozy non furono «durante il vertice europeo di Nizza», ma durante una conferenza stampa a Bruxelles il 23 ottobre 2011. Il vertice europeo di Nizza si svolse un po' prima, esattamente tra il 7 e il 9 dicembre 2000, e c'erano Giuliano Amato, Jacques Chirac e Gerhard Schröder. In effetti lì non ci fu nessun complotto. Lo spread non ha mai «sfiorato» 600 punti base, ma al massimo 529 il 15 novembre 2011, quando Berlusconi, tra l'altro, si era già dimesso. Ciò detto, a chi giova oggi questa divulgazione di informazioni? Chi è il vero obiettivo di questa campagna? È l'operazione verità rispetto al passato, per cui noi abbiamo già chiesto l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta, oppure l'obiettivo è l'attuale governo? È un avvertimento a Renzi? Domande inquietanti, che chiedono risposte immediate. Ha niente da dire il solitamente ciarliero presidente del Consiglio italiano?

Napolitano e tutto il PD hanno approvato un piano massonico sequestrato nel 1981. Il senatore del Movimento 5 Stelle Sergio Puglia, con un video pubblicato su “Libero Quotidiano Tv” il 13 ottobre 2015, accusa l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di aver portato avanti il programma della P2. Il senatore del Movimento registra un video nel transatlantico di Palazzo Madama, dopo che il suo gruppo è uscito dall’aula, quando l’ex presidente della Repubblica ha preso la parola. Puglia dice: “Napolitano ha preso il programma della loggia massonica P2 e lo ha imposto ai presidenti del Consiglio. Lui è l’autore di tutto questo macello istituzionale”.

La sinistra massone lo sa che con i suoi apparati politici, mediatici e culturali, influenza le masse ignoranti. E la massa vota con la pancia, non con la testa.

Ed allora parliamo del Gruppo Bilderberg.

I massoni e la sinistra italiana, scrive Andrea Cinquegrani, tratto da "La Voce della Campania". Il Gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma viene ufficializzato due anni più tardi, a giugno del 1954, quando un ristretto gruppo di vip dell’epoca si riunisce all’hotel Bilderberg di Oosterbeek, in Olanda. Da quel momento le riunioni si sono svolte una o due volte all’anno, nel più totale riserbo. In occasione di una delle ultime, nella splendida e appartata resort di Sintra, in Portogallo, il settimanale locale News riportò una notizia secondo cui il Governo avrebbe ricevuto migliaia di dollari dal Gruppo per organizzare «un servizio militare compreso di elicotteri che si occupasse di garantire la privacy e la sicurezza dei partecipanti». Ma torniamo agli esordi. I primi incontri si sono svolti esclusivamente nei paesi europei, ma dall’inizio degli anni ’60 anche negli Usa. Tra i promotori - precisano alcuni studiosi della semi sconosciuta materia - occorre ricordare due nomi in particolare: sua maestà il principe Bernardo de Lippe, olandese, ex ufficiale delle SS, che ha guidato il gruppo per oltre un ventennio, fino a quando, nel 1976, è stato travolto dallo scandalo Lockheed; e Joseph Retinger, un faccendiere polacco al centro di una fittissima trama di rapporti con uomini che per anni hanno contato sullo scacchiere internazionale della politica e dell’economia. «La loro ambizione - viene descritto - era quella di costruire un’Europa Unita per arrivare a una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali. Fin dalla prima riunione vennero invitati banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali degli Usa e dell’Europa occidentale, per un totale di un centinaio di personaggi circa». Ecco cosa hanno scritto alcuni giornalisti investigativi inglesi nel magazine on line di Bbc News a pochi giorni dal meeting di Stresa. «Si tratta di una delle associazioni più controverse dei nostri tempi, da alcuni accusata di decidere i destini del mondo a porte chiuse. Nessuna parola di quanto viene detto nel corso degli incontri è mai trapelata. I giornalisti non vengono invitati e quando in qualche occasione vengono concessi alcuni minuti a qualche reporter, c’è l’obbligo di non far cenno ad alcun nome. I luoghi d’incontro sono tenuti segreti e il gruppo non ha un suo sito web. Secondo esperti di affari internazionali, il gruppo Bilderberg avrebbe ispirato alcuni tra i più clamorosi fatti degli ultimi anni, come ad esempio le azioni terroristiche di Osama bin Laden, la strage di Oklaoma City, e perfino la guerra nella ex Jugoslavia per far cadere Milosevic. Il più grosso problema è quello della segretezza. Quando tante e tali personalità del mondo si riuniscono, sarebbe più che normale avere informazioni su quanto sta succedendo». Invece, tutto top secret. Scrive un giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol: «Secondo alcune indiscrezioni che ho raccolto, il primo luogo nel quale si è parlato di invasione dell’Iraq da parte degli Usa, ben prima che ciò accadesse, è stato nel meeting 2002 dei Bilderberg». Di parere opposto un redattore del Financial Times, Martin Wolf, più volte invitato ai meeting: «L’idea che questi incontri non possano essere coperti dalla privacy è fondamentalmente totalitaria; non si tratta di un organismo esecutivo, nessuna decisione viene presa lì». Fa eco uno dei fondatori, anche lui inglese, lord Denis Healey: «Non c’è assolutamente niente sotto. E’ solo un posto per la discussione, non abbiamo mai cercato di raggiungere un consenso sui grandi temi. E’ il migliore gruppo internazionale che io abbia mai frequentato. Il livello confidenziale, senza alcun clamore all’esterno, consente alle persone di parlare in modo chiaro». Ed ecco cosa scrive un altro studioso di ordini paralleli e di gruppi e associazioni che agiscono sotto traccia, Giorgio Bongiovanni. «Bilderberg rappresenta uno dei più potenti gruppi di facciata degli Illuminati (una sorta di super Cupola mondiale, ndr). Malgrado le apparenti buone intenzioni, il vero obiettivo è stato quello di formare un’altra organizzazione di facciata che potesse attivamente contribuire al disegno degli Illuminati: la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale e di un Governo Mondiale entro il 2012. Sembra che le decisioni più importanti a livello politico, sociale, economico-finanziario per il mondo occidentale vengano in qualche modo ratificate dai Bilderberg». «Il Gruppo - scrive ancora Bongiovanni - recluta politici, ministri, finanzieri, presidenti di multinazionali, magnate dell’informazione, reali, professori universitari, uomini di vari campi che con le loro decisioni possono influenzare il mondo. Tutti i membri aderiscono alle idee precedenti, ma non tutti sono al corrente della profonda verità ideologica di alcuni membri principali». I veri “conducator”- secondo questa analisi - i quali a loro volta fanno anche parte di altri segmenti strategici nell’organigramma degli Illuminati. Due in particolare: la Trilateral e la Commission of Foreign Relationship, nata nel 1921, la quale riunisce a sua volta tutti i personaggi che hanno fra le loro mani le leve del comando negli Usa. «Questi membri particolari - prosegue Bongiovanni - sono i più potenti e fanno parte di quello che viene definito il ‘cerchio interiore’. Quello “esteriore”, invece, è l’insieme degli uomini della finanza, della politica, e altro, che sono sedotti dalle idee di instaurare un governo mondiale che regolerà tutto a livello politico e economico: insomma, le ‘marionette’ utilizzate dal cerchio interiore perché i loro membri sanno che non possono cambiare il mondo da soli e hanno bisogno di collaboratori motivati e mossi anche dal desiderio di danaro e potere». Passiamo, per finire, alla Trilateral, vero e proprio luogo cult del Potere nascosto, in grado comunque di condizionare i destini del mondo. Ovviamente ‘sponsorizzato’ della star dell’imprenditoria multinazionale, come Coca Cola, Ibm, Pan American, Hewlett Packard, Fiat, Sony, Toyota, Mobil, Exxon, Dunlop, Texas Instruments, Mutsubishi, per citare solo le più importanti. L’associazione nasce nel 1973, sotto la presidenza “democratica” di Jimmy Carter e del suo consigliere speciale per la sicurezza, Zbigniew Brzezinsky, il vero deux ex machina. A ispirare il progetto, le famiglie Rothschield e Rockfeller, i Paperoni d’America. Un progetto che ha irresistibilmente attratto i potenti del mondo, a cominciare proprio dai presidenti Usa, con un Bill Clinton in prima fila. Così descriveva Giovanni Agnelli la Trilateral: «Un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (Usa, Europa e Giappone, ndr) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse». Il solito ritornello. Di diverso avviso il giornalista Richard Falk, che già nel 1978 - quindi a pochissimi anni dalla nascita - scrive sulle colonne della Monthly Review di New York: «Le idee della Commissione Trilaterale possono essere sintetizzate come l’orientamento ideologico che incarna il punto di vista sopranazionale delle società multinazionali, che cercano di subordinare le politiche territoriali a fini economici non territoriali». E’ la filosofia delle grandi corporation, che stanno privatizzando le risorse di tutto il pianeta, a cominciare dai beni primari, come ad esempio l’acqua: non solo riescono a ricavare profitti stratosferici ma anche ad esercitare un controllo politico su tutti i Sud - e non solo - del mondo. La logica della globalizzazione. E i bracci operativi di questo turbocapitalismo sono proprio due strutture che dovrebbero invece garantire il contrario: ovvero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. «Entrambi - scrive uno studioso, Mario Di Giovanni - sotto lo stretto controllo del ‘Sistema’ liberal della costa orientale americana. Agiscono a tutto campo nell’emisfero meridionale del pianeta, impegnate nella conduzione e ‘assistenza’ economica ai paesi in via di sviluppo». E proprio sull’acqua, la Banca Mondiale sta dando il meglio di sé: con la sua collegata IFC (Internazionale Finance Corporation) infatti sta mettendo le mani sulla gran parte delle privatizzazioni dei sistemi idrici di mezzo mondo, soprattutto quello africano e asiatico, condizionando la concessione dei fondi all’accettazione della privatizzazione, parziale o più spesso totale, del servizio. Del resto, è la stessa Banca a calcolare il business in almeno 1000 miliardi di dollari… Scrive ancora Di Giovanni: «Le decisioni assunte dai vertici della Trilateral riguarderanno sempre di più quanti uomini far morire, attraverso l’eutanasia o gli aborti, e quanti farne vivere, attraverso un’oculata distribuzione delle risorse alimentari. Decisioni che riguarderanno l’ingegneria genetica, per intervenire nella nuova ‘umanità’. In una parola, tutto ciò che definitivamente distrugga il ‘vecchio’ ordine sociale, cristiano, per la creazione di un nuovo ordine. Ma tutto questo senza particolari scossoni. Non vi sarà bisogno di dittature, visto che le democrazie laiche e progressiste, condotte da governi di ‘centrosinistra’, servono già così efficacemente allo scopo. Governi che riproducono - conclude - una formula già sperimentata lungo l’intero corso del ventesimo secolo e plasticamente rappresentata dal passato governo Prodi-D’Alema: l’alleanza fra la borghesia massonica e la sinistra, rivoluzionaria o meno».

LE 13 FAMIGLIE CHE COMANDANO IL MONDO, scrive “Informare per resistere” l'8 agosto 2012. “Illuminati” o “portatori di luce”. Appartengono a tredici delle più ricche famiglie del mondo e sono i personaggi che veramente controllano e comandano il mondo da dietro le quinte. Vengono, da molti, anche definiti la “Nobiltà Nera”. La loro caratteristica principale è quella di essere nascosti agli occhi della popolazione mondiale. Il loro albero genealogico va indietro migliaia di anni, alcuni dicono che risale alla civiltà sumera/babilonese o addirittura che siano ibridi, figli di una razza extraterrestre, i rettiliani. Sono molto attenti a mantenere il loro legame di sangue di generazione in generazione senza interromperla. Il loro potere risiede nel controllo specie quello economico (gruppo Bilderberg ecc…), “il denaro crea potere” è la loro filosofia. Il loro controllo punta a possedere tutte le banche internazionali, il settore petrolifero e tutti i più potenti settori industriali e commerciali. Sono infiltrati nella politica e nella maggior parte dei governi e degli organi statali e parastatali. Inoltre negli organi internazionali primo fra tutti l’ONU e poi il Fondo Monetario Internazionale. Ma qual è l’obiettivo degli Illuminati? Creare un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) con un governo mondiale, una banca centrale mondiale, un esercito globale e tutta una rete di controllo totale sulle masse. A capo ovviamente loro stessi, per sottomettere il mondo ad una nuova schiavitù, non fisica, ma “spirituale” ed affermare il loro credo, quello di Lucifero. Questo progetto va avanti, secondo alcuni, da millenni ma ebbe un incremento nella prima metà del 1700 con l’incontro tra il “Gruppo dei Savi di Sion” e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale. L’incontro portò alla creazione di un manifesto: “I Protocolli dei Savi di Sion”. Suddiviso in 24 paragrafi, viene descritto come soggiogare e dominare il mondo con l’aiuto del sistema economico. Rothschild successivamente aiutò e finanziò l’ebreo Adam Weishaupt, un ex prete gesuita, che a Francoforte creò il famigerato gruppo segreto dal nome “Gli Illuminati di Baviera”. Weishaupt prendendo spunto dai “Protocolli dei Savi di Sion” elaborò verso il 1770 “Il Nuovo Testamento di Satana” un piano che porterà una piccola minoranza di persone al controllo globale. La sua strategia si basava sulla soppressione dei governi nazionali e alla concentrazione di tutti i poteri sotto unici organi da loro controllati. Loro hanno un piano ben preciso che portano avanti a piccoli passi, proprio per non destare alcun sospetto. Creare la divisione delle masse, è un passo fondamentale, in politica, nell’economia, negli aspetti sociali, con la religione, l’invenzione di razze ed etnie ecc… Scatenare conflitti tra stati, così da destabilizzare l’opinione pubblica sui governi, l’economia e incutere timore e mancanza di sicurezza nella popolazione.  Corrompere con denaro facile, vantaggi e sesso, quindi rendere ricattabili i politici o chi ha una posizione di spicco all’interno di uno stato o di un organo statale. Scegliere il futuro capo di stato tra quelli che sono servili e sottomessi incondizionatamente. Avere il controllo delle scuole: dalla scuola infantile all’Università per fare in modo che i giovani talenti siano indirizzati ad una cultura internazionale e diventino inconsciamente parte del complotto. Indottrinando la popolazione su come si può o non può vivere, su quali sono le regole da rispettare, gli usi e i costumi ecc… Infiltrarsi in ogni decisione importante (meglio a lungo termine) dei governi degli stati più potenti del mondo. Facendo coincidere queste decisioni con il progetto finale. Controllare la stampa e l’informazione in generale, creando false notizie, false emozioni, paura ed instabilità. Abituare le masse a vivere sulle apparenze ed a soddisfare solo il loro piacere ed il materialismo così da portare la società alla depravazione, stadio in cui l’uomo non ha più fede in nulla. Arrivare a creare un tale stato di degrado, di confusione e quindi di spossatezza, che le masse avrebbero dovuto reagire cercando un protettore o un benefattore al quale sottomettersi spontaneamente. Uno dei loro obbiettivi è scippare la popolazione così da manipolare il loro pensiero ed il loro comportamento, oltre che rendere molto facile la loro identificazione e localizzazione. Tutto questo con la scusante della sicurezza personale. Nel 1871 il piano di Weishaupt viene ulteriormente confermato e completato da un suo seguace americano, il gran maestro, Albert Pike che elaborò un documento per l’istituzione di un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) attraverso tre Guerre Mondiali. Lui sosteneva che attraverso questi tre conflitti la popolazione mondiale, stanca della violenza e della sofferenza, avrebbe richiesto spontaneamente protezione e pace e la creazione di organi mondiali che controllassero ciò. Dopo la Seconda Guerra Mondiale venne fatto il primo passo in questa direzione con la formazione dell’ONU. Per Pike, la Prima Guerra Mondiale doveva portare gli Illuminati, che già avevano il controllo di alcuni Stati Europei e stavano conquistando attraverso le loro trame gli Stati Uniti di America, ad avere anche la guida della Russia. Quest’ultima sarebbe poi servita alla divisione del mondo in due blocchi. La Seconda Guerra Mondiale sarebbe dovuta partire dalla Germania (cosa che accadde), manipolando le diverse opinioni tra i nazionalisti tedeschi e i sionisti politicamente impegnati. Inoltre avrebbe portato la Russia ad estendere la sua zona di influenza e reso possibile la costituzione dello Stato di Israele in Palestina. La Terza Guerra Mondiale sarà basata sulle divergenze di opinioni che gli Illuminati avranno creato tra i Sionisti e gli Arabi (occidente cristiano contro l’Islam cosa che si sta avverando e anche velocemente), programmando l’estensione del conflitto a livello mondiale. Ovviamente non potevano pensare di conseguire i loro obiettivi da soli, avevano ed hanno bisogno di una “struttura operativa”, composta da organizzazioni o persone che esercitando del potere ed operino più o meno consapevolmente nella stessa direzione. La loro strategia ha fatto leva su 2 capisaldi: la forza del denaro, loro hanno costituito e controllano il sistema bancario internazionale; la disponibilità di persone fidate, ottenuta attraverso il controllo delle società segrete (logge massoniche). Gli Illuminati e chi con loro controlla queste società, sono pressoché Satanisti e praticano la magia nera e sacrifici umani. Il loro Dio è Lucifero e attraverso pratiche e riti occulti manipolano e influenzano le masse. Molti asseriscono che è anche da questa scienza di tipo occulto che gli Illuminati hanno sviluppato la teoria sul controllo mentale delle masse. Poco tempo fa sono emersi anche i nomi delle suddette famiglie: ASTOR, BUNDY, COLLINS, DUPONT, FREEMAN, KENNEDY, LI, ONASSIS, ROCKFELLER, ROTHSCHILD, RUSSELL, VAN DUYN, MEROVINGI.

Famoso discorso, fatto da John Fritzgerald Kennedy, il 27 aprile 1961, sulla reale minaccia, che le società segrete, costituiscono per tutto il mondo, e per la libertà, di ogni essere umano. Kennedy denunciò apertamente i poteri occulti che nell’ombra governano il mondo, poi quando decise di stampare una banconota di stato svincolata dalla FED fu fatto fuori. Casualità???

L’INGHILTERRA E’ CONTROLLATA DAI ROTHSCHILD, scrive “I Complottisti” il 30/06/2016. L’Inghilterra è un’oligarchia finanziaria gestita dalla corona che si riferisce alla City of London e non alla Regina. La City of London è gestita dalla Banca d’Inghilterra, una società privata. La City è uno stato sovrano, come il Vaticano del mondo finanziario, e non è soggetta alla legge britannica, al contrario i banchieri danno gli ordini al Parlamento Britannico. Nel 1886 Andrew Carnegie scrisse che "6 o 7 uomini possono spingere il paese in una guerra senza consultare il Parlamento”. Vincenzo Vickers direttore della Banca d’Inghilterra dal 1910 al 1919 ha accusato la City per le guerre nel mondo. L’impero britannico era un’estensione degli interessi finanziari dei banchieri. In effetti, tutte le colonie non bianche (India, Hong Komg, Gibilterra) erano corone colonie. Appartenevano alla City e non erano soggetti alla legge inglese. La Banca d’Inghilterra ha assunto il controllo degli USA durante l’amministrazione Roosevelt (1901-1909) quando il suo agente J.P. Morgan acquisì oltre il 25% del business americano. Secondo l’American Almanac i banchieri fanno parte di una rete chiamata club of Isles che è un’associazione informale di famiglie reali prevalentemente europee tra cui la Regina. Il club of Isles gestisce una cifra stimata di 10 miliardi di dollari in assets come la Royal Dutch Shell, Imperial Chemical Industries, Lloyds of London, Unilever, Lonrho, Rio Tinto Zinc, e anglo americana De Beers. Domina la fornitura mondiale di petrolio, oro, diamanti, e molte altre materie prime vitali ed impiega questi assets a disposizione della propria agenda geopolitica. Il loro obiettivo è ridurre la popolazione mondiale ad 1 miliardo di persone entro le prossime 2/3 generazioni, per mantenere il proprio potere globale e feudale. La storia Jeffrey Steinberg scrisse: “Inghilterra, Scozia, Galles ed in particolare l’Irlanda del Nord sono oggi poco più di piantagioni di schiavi e laboratori di ingegneria sociale per soddisfare le esigenze della City of London”. Queste famiglie costituiscono un’oligarchia finanziaria e sono il potere dietro il trono Windsor. Considerano se stessi come eredi dell’oligarchia veneziana che si sono infiltrati ed hanno sovvertito l’Inghilterra dal periodo 1509-1715 ed ha stabilito un nuovo più virulento ceppo anglo-olandese svizzero del sistema oligarchico dell’impero di Babilonia, Persia, Roma e Bisanzio…La City of London domina i mercati speculativi del mondo. Un gruppo strettamente interdipendente di imprese, materie prime coinvolte nell’estrazione, finanza, assicurazioni, trasporti e produzioni di cibo, fa la parte del leone nel controllo del mercato mondiale. Sembra che molti membri di questa oligarchia erano ebrei. Cecil Roth scrisse “il commercio di Venezia è stato il nodo schiacciante concentrato nelle mano degli ebrei, i più ricchi della classe mercantile (La storia degli ebrei a Venezia 1930). William Guy Carr nel libro Pawns in the game spiega che sia Oliver Cromwell che Gugliemo d’Orange sono stati finanziati da banchieri ebrei. La Rivoluzione Inglese (1649) è stata la prima di una serie di rivoluzioni progettate per dare loro egemonia mondiale. L’Inghilterra è stato uno stato ebraico per oltre 300 anni.

I 25 PUNTI SCRITTI DAI ROTHSCHILD PER LA CONQUISTA DEL MONDO, scrive “I Complottisti” il 22/03/2016. PREMESSA: I ROTHSCHILD, SONO UNA DELLE POCHE FAMIGLIE A CONTROLLARE SIN DAGLI ALBORI LE BANCHE, QUINDI LE ECONOMIE E QUINDI I GOVERNI MONDIALI. Anno 1773. Poco prima di presentare il suo piano, in 25 punti, per “dominare le ricchezze, le risorse naturali e la forza lavoro di tutto il mondo”, Amschel Mayer Rothschild, ai suoi dodici ascoltatori, svelò «come la Rivoluzione Inglese (1640-60) fosse stata organizzata e mise in risalto gli errori che erano stati commessi: il periodo rivoluzionario era stato troppo lungo, l’eliminazione dei reazionari non era stata eseguita con sufficiente rapidità e spietatezza e il programmato “regno del terrore”, col quale si doveva ottenere la rapida sottomissione delle masse, non era stato messo in pratica in modo efficace. Malgrado questi errori, i banchieri, che avevano istigato la rivoluzione, avevano stabilito il loro controllo sull’economia e sul debito pubblico inglese». Rothschild mostrò che questi risultati finanziari non erano da paragonare a quelli che si potevano ottenere con la Rivoluzione francese, a condizione che i presenti si unissero per mettere in pratica il Piano rivoluzionario che egli aveva studiato e aggiornato con grande cura. Questi 25 punti sono:

1. Usare la violenza e il terrorismo, piuttosto che le discussioni accademiche.

2. Predicare il “Liberalismo” per usurpare il potere politico.

3. Avviare la lotta di classe.

4. I politici devono essere astuti e ingannevoli – qualsiasi codice morale lascia un politico vulnerabile.

5. Smantellare “le esistenti forze dell’ordine e i regolamenti. Ricostruzione di tutte le istituzioni esistenti.”

6. Rimanere invisibili fino al momento in cui si è acquisita una forza tale che nessun’altra forza o astuzia può più minarla.

7. Usare la Psicologia di massa per controllare le folle. “Senza il dispotismo assoluto non si può governare in modo efficiente.”

8. Sostenere l’uso di liquori, droga, corruzione morale e ogni forma di vizio, utilizzati sistematicamente da “agenti” per corrompere la gioventù.

9. Impadronirsi delle proprietà con ogni mezzo per assicurarsi sottomissione e sovranità.

10. Fomentare le guerre e controllare le conferenze di pace in modo che nessuno dei combattenti guadagni territorio, mettendo loro in uno stato di debito ulteriore e quindi in nostro potere.

11. Scegliere i candidati alle cariche pubbliche tra chi sarà “servile e obbediente ai nostri comandi, in modo da poter essere facilmente utilizzabile come pedina nel nostro gioco”.

12. Utilizzare la stampa per la propaganda al fine di controllare tutti i punti di uscita d’ informazioni al pubblico, pur rimanendo nell’ombra, liberi da colpa.

13. Far sì che le masse credano di essere state preda di criminali. Quindi ripristinare l’ordine e apparire come salvatori.

14. Creare panico finanziario. La fame viene usata per controllare e soggiogare le masse.

15. Infiltrare la massoneria per sfruttare le logge del Grande Oriente come mantello alla vera natura del loro lavoro nella filantropia. Diffondere la loro ideologia ateo-materialista tra i “goyim” (gentili).

16. Quando batte l’ora dell’incoronamento per il nostro signore sovrano del Mondo intero, la loro influenza bandirà tutto ciò che potrebbe ostacolare la sua strada.

17. Uso sistematico di inganno, frasi altisonanti e slogan popolari. “Il contrario di quanto è stato promesso si può fare sempre dopo. Questo è senza conseguenze”.

18. Un Regno del Terrore è il modo più economico per portare rapidamente sottomissione.

19. Mascherarsi da politici, consulenti finanziari ed economici per svolgere il nostro mandato con la diplomazia e senza timore di esporre “il potere segreto dietro gli affari nazionali e internazionali.”

20. L’obiettivo è il supremo governo mondiale. Sarà necessario stabilire grandi monopoli, quindi, anche la più grande fortuna dei Goyim dipenderà da noi a tal punto che essi andranno a fondo insieme al credito dei dei loro governi il giorno dopo la grande bancarotta politica.

21. Usa la guerra economica. Deruba i “Goyim” delle loro proprietà terriere e delle industrie con una combinazione di alte tasse e concorrenza sleale.

22. Fai si che il “Goyim” distrugga ognuno degli altri; così nel mondo sarà lasciato solo il proletariato, con pochi milionari devoti alla nostra causa e polizia e soldati sufficienti per proteggere i loro interessi.

23. Chiamatelo il Nuovo Ordine. Nominate un Dittatore.

24. Istupidire, confondere e corrompere e membri più giovani della società, insegnando loro teorie e principi che sappiamo essere falsi.

25. Piegare le leggi nazionali e internazionali all’interno di una contraddizione che innanzi tutto maschera la legge e dopo la nasconde del tutto. Sostituire l’arbitrato alla legge.

 “COME (NON) FUNZIONA LA DEMOCRAZIA DELL’UNIONE EUROPEA. INDAGINE SUI TRATTATI EUROPEI” – SPECIALE COMPLETO in TRE PARTI (a cura dell’avvocato Giuseppe PALMA del 3 luglio 2016).

PREMESSA. Dopo il voto britannico sulla Brexit (cioè sulla volontà del popolo del Regno Unito di restare o meno all’interno dell’Unione Europea), giornalai di regime e professoroni universitari, visto l’esito, hanno scatenato il putiferio! Il referendum in Gran Bretagna di giovedì 23 giugno si è concluso con una inequivocabile vittoria del LEAVE (fatta eccezione per Londra, il resto dell’Inghilterra e del Galles hanno votato per uscire dall’UE, mentre Scozia e Irlanda del Nord per rimanere). Ciò ha determinato, come ci si aspettava, un terremoto sui mercati. Ed ecco che il “vero potere” ha scatenato un’offensiva senza precedenti contro la democrazia. C’è addirittura chi, dall’alto del proprio ruolo di docente universitario ordinario, ha follemente ipotizzato la necessità di sostituire il voto eguale (cioè una testa un voto) con il voto ponderato (cioè che alcuni voti valgano più di altri a seconda dell’età e/o del titolo di studio). A questo punto, c’è da chiedersi: ma se è vero (e non lo è) che l’Unione Europea si fonda sui principi di democrazia, pace e benessere, per quale motivo una semplice consultazione elettorale (per di più di natura consultiva e non vincolante) ha determinato il crollo dei mercati e la reazione scomposta dell’establishment? Sarà mica l’Unione Europea ad essere INCOMPATIBILE con la democrazia? Giudicate Voi.

PARTE PRIMA. PERCHE’ LE NORME GIURIDICHE DELL’UNIONE EUROPEA PREVALGONO SU QUELLE NAZIONALI?

Il rapporto gerarchico nel sistema delle Fonti del diritto: gravi problematiche. Fatta salva – nei termini che si esporranno di seguito – la supremazia gerarchica della Costituzione nei confronti delle norme europee di qualunque fonte (supremazia meramente formale visto che le norme costituzionali sono state sostanzialmente superate dal contenuto dei Trattati), la produzione legislativa nazionale di rango ordinario (le leggi e gli atti aventi forza di legge) si colloca su un livello inferiore (rapporto gerarchico) rispetto alla produzione legislativa dell’UE, tant’è che, qualora una norma nazionale non fosse conforme ad una norma europea, il giudice nazionale (al quale i cittadini si rivolgono per ottenere giustizia) deve disapplicare la norma nazionale e applicare quella europea, anche se questa è antecedente alla norma interna. Ma andiamo per gradi. Cosa vuol dire rapporto gerarchico? Vuol dire che un atto giuridico deve essere conforme ad un altro atto giuridico posto su un livello superiore nella scala gerarchica delle Fonti del diritto, cioè – ad esempio – un regolamento del Governo deve essere conforme alla legge ordinaria, questa deve essere conforme al Regolamento dell’UE (che è un atto giuridico che fa parte del diritto derivato dell’Unione) e quest’ultimo non deve essere in contrasto con i Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, con la Parte Prima della Costituzione e con la forma repubblicana (intesa nel suo significato più ampio). La conformità alla Costituzione è richiesta anche al diritto europeo originario (rappresentato dai Trattati dell’UE), e a tal riguardo va evidenziato che gli atti legislativi dell’Unione sono adottati attraverso le procedure stabilite dai Trattati che nulla hanno a che fare con le procedure democratiche dettagliatamente stabilite dalla Parte Seconda della nostra Costituzione, la quale attribuisce la funzione legislativa esclusivamente ad un Parlamento eletto direttamente dal popolo (fatta eccezione per i casi del decreto legge e del decreto legislativo che sono invece di competenza del Governo, la cui funzione legislativa è comunque limitata al verificarsi di specifiche condizioni). Ciò detto, i cittadini italiani sono soggetti a norme europee (che superano quelle nazionali) adottate attraverso procedure legislative meno garantiste e meno democratiche di quelle stabilite dalla Costituzione, le quali sono costate milioni di morti. Capito adesso perché la Costituzione è stata – di fatto – esautorata sin dalle sue viscere? Come si fa a dire di essere europeisti di fronte a tali verità? Come si può accettare che la Commissione europea e il Consiglio dell’UE (quindi funzione esecutiva, iniziativa legislativa e funzione legislativa), deputati rispettivamente a proporre e ad emanare atti legislativi direttamente vincolanti e superiori alle leggi nazionali, siano composti da soggetti nominati (e quindi non eletti) che non ricevono neppure un vero e proprio voto di fiducia da parte del Parlamento, unico organismo europeo eletto direttamente dal popolo? In pratica, se la Rivoluzione francese aveva strappato la funzione legislativa dalle mani del re (e del suo “Consilium Principis”) per attribuirla ad un’assemblea elettiva che rappresentasse ed esercitasse la sovranità popolare, l’UE ha annullato le conquiste rivoluzionarie attribuendo sostanzialmente la potestà legislativa dell’Unione (il cui frutto supera la produzione legislativa nazionale) ad un organismo – il Consiglio dell’UE – i cui componenti (al pari dei componenti della Commissione), non essendo eletti dai cittadini, rispondono unicamente a logiche di potere e di interesse del tutto contrapposte alle “naturali” esigenze dei popoli. I Trattati europei (da ultimo quello di Lisbona) prevedono che la funzione legislativa dell’UE sia esercitata congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio dell’UE, ma la potestà legislativa del Parlamento europeo è circoscritta al mero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”. Nella sostanza, gli atti giuridici dell’Unione sono adottati dal Consiglio e dalla Commissione, due organi non eletti dal popolo e che non rispondono a criteri democratici! La funzione legislativa dell’Unione mira esclusivamente alla tutela del capitale internazionale (anche attraverso l’euro), al perseguimento degli scopi delle multinazionali e alla salvaguardia degli interessi dei mercati. Il rispetto della sovranità popolare e la tutela dei diritti fondamentali non fanno parte dell’agenda politica e legislativa dell’UE! Ma entriamo nello specifico. Ferma restando la palese manipolazione interpretativa dell’art. 11 Cost. La nostra Corte Costituzionale, già nel 1964, affermava che le norme comunitarie sono da porre sul medesimo piano delle leggi ordinarie, e che un eventuale conflitto tra norma interna e norma comunitaria si sarebbe dovuto risolvere attraverso il criterio della successione delle leggi nel tempo (il c.d. principio lex posterior derogat priori), ossia che la norma successiva deroga (sostituisce) quella precedente (Sent. n. 14 del 7 marzo 1964 – Costa c. Enel). Successivamente, nel 1973, la Consulta si spinge addirittura oltre riconoscendo sia il primato del diritto comunitario sul diritto interno che l’efficacia diretta dei Regolamenti (Sent. n. 183 del 1973 – conosciuta come Sentenza Frontini). Forse toccata da un sussulto di indipendenza, nel 1975 sempre la nostra Corte Costituzionale (con Sentenza n. 232/1975) enuncia il principio che, affinché potesse essere disapplicata, la norma nazionale doveva essere abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima dall’organo costituzionale competente, lasciando in tal modo allo Stato (attraverso se stessa) un minimo di controllo sull’efficacia della normativa comunitaria nell’ordinamento giuridico nazionale. Ma nel 1978 interviene un’importante Sentenza della Corte di Giustizia europea (causa Simmenthal – Sent. 9 marzo 1978) che risolve ogni empasse in favore della legislazione comunitaria: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere od ottenere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Trascorrono circa sei anni durante i quali la Consulta mantiene sostanzialmente le proprie posizioni, ma nel 1984 il conflitto tra la giurisprudenza della Corte di Giustizia e quella della Corte Costituzionale viene definitivamente risolto da quest’ultima con l’emanazione della Sentenza n. 170 dell’8 giugno 1984 (causa Granital c. Ministero delle Finanze), con la quale la nostra Consulta si è allineata totalmente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, stabilendo che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare addirittura anche la normativa nazionale posteriore confliggente con le disposizioni europee, superando in tal modo l’obbligo previsto nel 1975 di un preventivo giudizio di legittimità costituzionale. Successivamente, nel 1985 (Sent. del 23 aprile 1985 n. 113 – causa BECA S.p.A. e altri c. Amministrazione finanziaria dello Stato), la Consulta – oltre a ribadire quanto già affermato con Sentenza n. 170/1984 – chiarisce che la normativa europea entra e permane in vigore in Italia senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato, ogni qualvolta la normativa europea soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità, quindi i Regolamenti UE e – per espressa previsione – le statuizioni risultanti dalle Sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Tuttavia, l’applicazione e l’efficacia diretta delle norme del diritto europeo incontrano un limite invalicabile (quanto meno da un punto di vista formale) rappresentato dai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona, infatti la stessa Corte Costituzionale – con Sentenza del 13 luglio 2007 n. 284 – afferma: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione (del diritto interno – nda) deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona”. A tal proposito, Luciano Barra Caracciolo sostiene che tra i limiti che incontra la prevalenza del diritto europeo rispetto al diritto interno, anche in relazione all’interpretazione dell’art. 11 Cost., non vi sono solo quelli di parità con gli altri Stati o di promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni, ma anche quello sancito dall’art. 139 Cost. (La forma repubblicana, intesa nella sua accezione più vasta) e quello – come stabilito anche dalla Consulta – del rispetto dei Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. Il novero di questi limiti (cosiddetti CONTROLIMITI), inoltre, non si ferma ai diritti inalienabili della persona, ma si estende – come si è visto –, oltre che ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, anche alle disposizioni di cui alla Parte Prima della Costituzione che rappresentano la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali. Sempre in merito ai rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e prevalenza del diritto comunitario, Barra Caracciolo riporta un’illuminante argomentazione di uno dei Padri Costituenti, il calabrese Costantino Mortati, tra i più importanti giuristi italiani del XX Secolo: “Passando all’esame dei limiti, è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della Costituzione: sicché la sottrazione dell’esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al Parlamento, al Governo, alla giurisdizione,…dev’essere tale da non indurre alterazioni del nostro Stato come Stato di diritto democratico e sociale”; il che renderebbe fortemente dubbia – scrive Barra Caracciolo – la stessa ratificabilità del Trattato di Maastricht e poi di Lisbona. Tutto ciò premesso, chiarita la subordinazione gerarchica del diritto europeo ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, alla Parte Prima della Costituzione e alla forma repubblicana (dove per “forma repubblicana” non si intende solo la forma di Stato opposta alla monarchia, ma anche quell’ampio spazio creativo del concetto di Repubblica necessariamente assunto come inscindibile da quello di democrazia e di uguaglianza sostanziale), “non mi spiego” come sia stato possibile che si siano poste le basi per il superamento della legislazione nazionale a vantaggio di una legislazione sovranazionale adottata (secondo quanto previsto dai Trattati, quindi dal diritto europeo originario) attraverso meccanismi meno democratici e meno garantisti di quelli dettati dalla nostra Carta Costituzionale, cioè quelli sanciti nella Parte Seconda. La nostra Costituzione, tutta, rappresenta la madre delle Fonti del diritto dell’ordinamento giuridico italiano, quindi è la Carta fondamentale dello Stato alla cui difesa deve provvedere (da un punto di vista giuridico) la Corte Costituzionale. Pertanto, considerato che la Consulta ha la funzione di sindacare sulla conformità delle leggi alla Costituzione, si può affermare che essa non è stata sufficientemente “vigile” nei confronti del diritto europeo originario (e, nello specifico, nei confronti delle leggi nazionali di autorizzazione alla ratifica dei Trattati), il quale, nonostante sia anch’esso posto nella scala gerarchica delle Fonti del diritto su un livello inferiore rispetto alla Costituzione, ha sostanzialmente sostituito le norme costituzionali che disciplinano la funzione legislativa e il procedimento di adozione delle leggi (contenute nella Parte Seconda della nostra Costituzione) con norme meno garantiste che, anche da un punto di vista formale, tradiscono addirittura tutte quelle conquiste democratiche (costate milioni di morti) che sono l’essenza stessa dello Stato di Diritto[5]. Una su tutte quella dell’attribuzione della funzione legislativa unicamente ad un’assemblea eletta direttamente dal popolo, pilastro di civiltà costituzionale che l’Unione Europea (insieme ai Parlamenti nazionali che hanno approvato con larghe maggioranze le leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati) ha palesemente tradito attribuendo la predetta funzione ad organismi sovranazionali non eletti e sostanzialmente immuni dai processi elettorali.

PARTE SECONDA: L’ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’UE E LA MANCANZA DI DEMOCRAZIA NELLE PROCEDURE DI ADOZIONE DEGLI ATTI GIURIDICI DELL’UNIONE.

La FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione Europea. Secondo quanto previsto dai Trattati dell’Unione Europea (TUE e TFUE) la FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione (vale a dire il potere legislativo, cioè quello di fare e leggi) è esercitata – nella sostanza – dal duo Commissione europea/Consiglio dell’Unione Europea (quest’ultimo detto anche Consiglio dei Ministri o semplicemente Consiglio). In pratica la Commissione – che esercita il potere esecutivo – ha anche la titolarità dell’iniziativa legislativa, cioè sottopone sia al Consiglio dell’UE (da non confondere con il Consiglio europeo) che al Parlamento europeo le proprie proposte degli atti giuridici da adottare e, nella sostanza, il Consiglio adotta l’atto uniformando quasi sempre la sua posizione alla proposta della Commissione. Nella realtà, infatti, benché sia formalmente prevista una procedura legislativa consistente nell’adozione congiunta dell’atto da parte di Consiglio e Parlamento (che in passato era chiamata “procedura di codecisione”), quest’ultimo è di fatto esautorato da quella che dovrebbe essere la sua “funzione naturale”, cioè l’esercizio esclusivo della potestà legislativa (fare le leggi). L’aspetto drammatico, tra tutti i gravissimi aspetti di criticità evidenziabili, è quello che sono morte milioni di persone perché si giungesse alla conquista del sacrosanto principio che a fare le leggi fosse esclusivamente un’assemblea eletta direttamente dal popolo ed esercitante la sovranità popolare, ma, con l’avvento dell’Unione Europea, tale principio è stato quasi del tutto calpestato e tradito. La conquista democratica del binomio inscindibile “Parlamento eletto – Legge” ha quindi avuto attuazione attraverso le disposizioni contenute in ciascuna delle Costituzioni nazionali degli Stati membri dell’Unione, ma i Trattati dell’UE (per ultimo il Trattato di Lisbona) ne hanno – non solo sostanzialmente – evirato l’essenza! Il Consiglio dell’UE, infatti, è composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro, a livello ministeriale, di volta in volta competente per la materia trattata, il quale é abilitato ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto, ma trattasi di soggetti non eletti che il popolo il più delle volte neppure conosce; e stesso discorso dicasi anche per la Commissione, un organismo potentissimo composto da soggetti non eletti da nessuno (fatta eccezione per quanto si dirà più avanti). Riassumendo questi concetti, è bene che il lettore ricordi che la Commissione europea (esercitante sia il potere esecutivo che l’iniziativa legislativa) e il Consiglio dell’UE (esercitante la funzione legislativa), essendo entrambi composti da membri non eletti dai cittadini, sono totalmente immuni dagli eventuali “scossoni” scaturenti dai processi elettorali. E il Parlamento? Pur essendo l’unica Istituzione europea eletta direttamente dal popolo, e quindi alla quale sarebbe dovuta legittimamente spettare – come ci insegnano le conquiste democratiche costate milioni di morti –l’esercizio esclusivo della funzione legislativa, svolge sostanzialmente il ruolo di “assistente” alle decisioni del duo Commissione – Consiglio! Per di più, considerato che i due grandi partiti europei sono il PSE (Partito del Socialismo Europeo) e il PPE (Partito Popolare Europeo), in Parlamento v’è e vi sarà sempre la maggioranza assoluta per non bloccare le decisioni di Commissione e Consiglio! Ma non è finita qui: mentre la nostra Costituzione prevede che il Governo (al quale è affidato sia l’esercizio della funzione esecutiva che l’iniziativa legislativa) debba godere necessariamente della fiducia del Parlamento (altrimenti non può esercitare a pieno le sue funzioni ed è addirittura obbligato a dimettersi), in Europa non è così! Il Parlamento europeo, nella sostanza, non vota e non revoca alcuna fiducia alla Commissione (e neppure al Consiglio), la quale esercita la funzione esecutiva e l’iniziativa legislativa unicamente per volere di coloro che hanno scritto i Trattati e senza alcun controllo – neppure indiretto – da parte dei rappresentanti del popolo (in merito all’argomento fiducia/sfiducia Parlamento/Commissione, leggasi l’approfondimento tecnico a seguire). Il Parlamento europeo, per la prima volta a partire dal 2014, ha solo il diritto di eleggere (a maggioranza dei suoi membri) il Presidente della Commissione europea: considerato che alle ultime elezioni del maggio 2014 nessuno tra PSE e PPE ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, questi hanno “pensato bene” di mettere insieme i propri numeri in Parlamento esprimendo un voto corale in favore del candidato del PPE Jean-Claude Juncker (sulla base del fatto che il PPE ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi). Quindi a nulla – o quasi – sono valse le vittorie elettorali di Marine Le Pen in Francia e di Nigel Farage in Inghilterra: nel suo complesso, il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento europeo è stato concepito e realizzato proprio perché siano sempre il PSE e/o il PPE a farla da padrona!

APPROFONDIMENTO TECNICO. I Trattati dell’UE, oltre a prevedere che il Presidente della Commissione europea sia eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono e tenuto conto dei risultati elettorali per l’elezione del Parlamento medesimo (circostanza sopra evidenziata), prevedono anche che quest’ultimo (cioè il Parlamento) esprima un VOTO DI APPROVAZIONE nei confronti della Commissione (e più precisamente nei confronti del Presidente, dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati), il quale non equivale assolutamente ad un voto di fiducia come quello che – ad esempio – il Parlamento italiano esprime nei confronti del Governo; si tratta infatti di una cosa ben diversa che, nella sostanza, si traduce in un mero “giudizio di gradimento” del tutto ovvio e scontato in quanto il voto di approvazione del Parlamento è preceduto dal voto con cui questo ha già eletto il Presidente della Commissione. Per di più, dopo che il Parlamento europeo ha espresso il voto di approvazione nei confronti della Commissione, è necessario un ulteriore passaggio consistente nella nomina ufficiale della Commissione da parte del Consiglio europeo (da non confondere con il Consiglio dell’UE), e ciò dimostra come il voto di approvazione espresso dal Parlamento nei confronti della Commissione non possa considerarsi tecnicamente come un vero e proprio voto di fiducia.  Per quanto riguarda, invece, un eventuale “voto di sfiducia” del Parlamento nei confronti della Commissione (che obbligherebbe quest’ultima alle dimissioni), è opportuno anzitutto evidenziare che è del tutto azzardato parlare di “sfiducia” perché è quasi impossibile che ciò possa verificarsi nella realtà: la cosiddetta MOZIONE DI CENSURA prevista dai Trattati è una mera previsione formale del tutto irrealizzabile nella sostanza, infatti perché il Parlamento europeo possa “sfiduciare” la Commissione occorre che l’eventuale mozione di censura venga approvata con una maggioranza di addirittura i 2/3 dei voti espressi dall’aula parlamentare, sempre che il predetto risultato non sia inferiore alla maggioranza dei membri che compongono il Parlamento. Una vera e propria “truffa” che rende la forma palesemente soccombente al cospetto della sostanza. E in democrazia, si sa, la forma è elemento fondamentale e irrinunciabile. E’ pur vero che – nella forma – il Trattato di Lisbona prevede l’esercizio congiunto della funzione legislativa da parte del Consiglio dell’UE e del Parlamento europeo (posti formalmente sullo stesso piano quanto meno nella procedura legislativa ordinaria), ma è altrettanto vero che – nella sostanza – il Parlamento non esercita a pieno la funzione legislativa come invece avviene per tutte le assemblee legislative di ciascuno degli Stati membri. Il Parlamento europeo ha – di fatto – un misero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”.

Le procedure legislative dell’UE per l’adozione degli atti giuridici dell’Unione. Le procedure legislative di adozione degli atti giuridici dell’Unione Europea si distinguono in ordinaria e speciali.

LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA (che rappresenta la regola nella formazione degli atti giuridici dell’UE) è composta di quattro fasi:

Iª FASE (fase della prima lettura) – La Commissione europea presenta una proposta congiuntamente sia al Consiglio dell’UE che al Parlamento europeo, e su di essa quest’ultimo formula la sua posizione (cioè il Parlamento può presentare o meno una serie di emendamenti) e la invia al Consiglio. Qualora quest’ultimo non elabori proposte di emendamento, ovvero accetti gli emendamenti (la posizione) proposti dal Parlamento, l’atto viene adottato senza ulteriori adempimenti. Se invece il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, adotta una propria posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento;

IIª FASE (fase della seconda lettura) – Se entro un termine di tre mesi da tale comunicazione il Parlamento: a) approva la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura oppure non si pronuncia, l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, l’atto proposto si considera non adottato; c) propone, sempre a maggioranza dei membri che lo compongono, emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, il testo così emendato è inviato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti. A questo punto (cioè in quest’ultima ipotesi), entro un termine di tre mesi dal testo così emendato, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può: 1) approvare tutti gli emendamenti e quindi l’atto in questione si considera adottato; 2) non approvare tutti gli emendamenti e il suo Presidente, d’intesa con il Presidente del Parlamento, convoca entro sei settimane un organo denominato Comitato di conciliazione;

IIIª FASE (fase della Conciliazione) – Il Comitato di conciliazione (composto da membri o rappresentanti del Consiglio e del Parlamento) ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune (“testo di compromesso”) sulla base delle posizioni del Parlamento e del Consiglio in seconda lettura. Se entro un termine di sei settimane dalla sua convocazione il Comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato;

IVª FASE (fase della terza lettura) – Qualora entro il termine di sei settimane il Comitato di conciliazione riesce invece ad approvare un progetto comune, il Parlamento e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane (a decorrere dall’approvazione del progetto comune da parte del Comitato di conciliazione) per adottare l’atto in questione in base al progetto comune. Il Parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi mentre il Consiglio a maggioranza qualificata. Se entrambe le Istituzioni deliberano l’adozione dell’atto in questione, questo si intende adottato e la procedura si conclude; in mancanza invece di una decisione, ovvero qualora l’atto non venga adottato con le maggioranze predette, lo stesso si considera non adottato e la procedura si conclude.

LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI, invece, non godono di una descrizione analitica da parte dei Trattati quindi, in mancanza di specifiche indicazioni e in attesa che si consolidi una prassi nel merito, si ritiene che si possa parlare di procedure legislative speciali tutte le volte che i Trattati prevedono procedure legislative differenti da quella ordinaria. Nell’ambito delle procedure speciali, ritengo sia necessario soffermarsi sull’ipotesi in cui è il Consiglio ad adottare l’atto con la partecipazione del Parlamento. In questo caso si hanno due tipi di procedure: la “procedura di consultazione” e la “procedura di approvazione”:

La procedura di consultazione: prima che il Consiglio adotti un atto, è necessaria la consultazione del Parlamento (in tal caso la consultazione può essere obbligatoria o facoltativa, a seconda di quanto prevedono i Trattati). Il parere espresso dal Parlamento non è vincolante né per la Commissione (che non è obbligata ad uniformare la sua proposta alle osservazioni ivi contenute), né per il Consiglio, che può disattenderlo;

La procedura di approvazione: il Consiglio non può validamente legiferare in talune materie se il Parlamento non concorda pienamente, a maggioranza assoluta dei suoi membri, con il contenuto dell’atto. In mancanza di tale approvazione l’atto non può essere adottato. In pratica si tratta di un diritto di veto da parte del Parlamento nei confronti del Consiglio.

Concentrando l’analisi sulla PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, uno dei suoi aspetti di maggiore criticità è quello che nella fase della seconda lettura il Parlamento può respingere la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura solo a maggioranza dei suoi membri (cioè a maggioranza assoluta), quindi occorre un voto del 50% più uno dei componenti l’assemblea, una maggioranza che – come abbiamo visto – è possibile raggiungere solo se si sommano i deputati di PSE e PPE. Considerato che si tratta di partiti (entrambi) sui quali si fonda l’intero apparato eurocratico, è praticamente impossibile per le opposizioni parlamentari trovare la forza numerica (che ricordo è della metà più uno dei membri del Parlamento) per respingere una posizione espressa dal Consiglio. Inoltre, come il lettore ha avuto modo di rendersi conto, in seconda lettura l’atto si intende adottato nel testo corrispondente alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura se il Parlamento, entro il termine di tre mesi, non si pronuncia sulla predetta posizione. Oppure, rimanendo sempre nell’esempio della fase della seconda lettura, il Parlamento può, sì, proporre emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, ma solo e sempre a maggioranza dei suoi membri. Appare dunque evidente che, rispetto ad esempio alla normale procedura di adozione delle leggi prevista dalla nostra Costituzione (artt. 70 e segg. Cost.), le procedure dettate dai Trattati europei presentano un pericoloso deficit di democrazia, tanto più che non è previsto neppure un controllo come quello che la nostra Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, il quale ha la facoltà di rinviare la legge alle Camere per chiederne una nuova deliberazione (art. 74 Cost.)! Il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica del Trattato di Lisbona con un voto all’unanimità nel luglio 2008, senza alcun adeguato dibattito né parlamentare né mediatico. Tutto quanto sinora premesso prova che la DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE è stata ormai superata dai Trattati dell’UE, nati non per fare gli interessi dei popoli ma per esautorarne – nella sostanza – la sovranità e l’autodeterminazione!

TERZA ed ULTIMA PARTE: MONETA UNICA E PAREGGIO DI BILANCIO: LA MORTE DELL’UE.

I principali aspetti di criticità della moneta unica. Rapporto €uro/lavoro. Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1861 al 1865, ebbe modo di affermare che: “Il Governo non ha necessità né deve prendere a prestito capitale pagando interessi come mezzo per finanziare lavori governativi ed imprese pubbliche. Il Governo deve creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare il potere di spesa del Governo ed il potere d’acquisto dei consumatori. Il privilegio di creare ed emettere moneta non è solamente una prerogativa suprema del Governo, ma rappresenta anche la maggiore opportunità creativa del Governo stesso. La moneta cesserà di essere la padrona e diventerà la serva dell’umanità. La democrazia diventerà superiore al potere dei soldi”. Era il 1865. Quello stesso anno Lincoln venne assassinato. Tra i maggiori aspetti di criticità di questo euro, oltre a quello che trattasi di moneta da prendere in prestito dai mercati dei capitali privati (es. banche private) ai quali va restituita con gli interessi (costringendo i Governi ad aumentare le tasse, inasprire gli strumenti di accertamento fiscale, porre limiti troppo bassi all’utilizzo del denaro contante e tagliare selvaggiamente lo stato sociale), v’è quello che è un accordo di cambi fissi, per cui, nei periodi di crisi economica, gli Stati sono costretti – non potendo far leva sulla svalutazione monetaria – a SVALUTARE IL LAVORO, quindi a contrarre le garanzie contrattuali e di legge, a ridurre i salari e a rendere eccessivamente flessibile il rapporto di lavoro (vedesi Riforma Fornero e  Jobs Act). Il tutto a scapito dei diritti fondamentali e del principio supremo del lavoro sul quale la Costituzione stessa fonda la Repubblica. L’euro è una moneta costruita non per la realizzazione concreta dei principi supremi sanciti dalla Costituzione (uno su tutti il lavoro), bensì per la tutela del capitale internazionale, e ciò comporta la necessità – addirittura ammessa esplicitamente – di mantenere tendenzialmente alto il tasso di disoccupazione (o comunque di non ridurlo sotto una certa soglia), ovvero di conseguire un più alto livello occupazionale ma mantenendo salari bassi e comprimendo le garanzie contrattuali e di legge in favore del lavoratore: se non si comprende questo concetto è impossibile rendersi conto di quanto è accaduto. L’UE nasce, come espressamente scritto nei Trattati, su principi del tutto in contrasto con quelli sui quali trovano fondamento le Costituzioni degli Stati membri: l’art. 3, comma 3, del TUE stabilisce infatti – tra gli obiettivi dell’Unione –la stabilità dei prezzi in un’economia di mercato fortemente competitiva, e ciò lede palesemente l’obiettivo della piena occupazione sul quale la Repubblica italiana trova fondamento (art. 1 co. I e art. 4 Cost.) e verso il quale tendono (ipocritamente) addirittura anche gli stessi Trattati europei, i quali prevedono il perseguimento della piena occupazione e del progresso sociale ma all’interno della cornice (davvero assurdo!) della stabilità dei prezzi e della competitività selvaggia: in pratica, per dirla con parole povere, l’UE persegue principalmente due obiettivi: da un lato la piena occupazione e il progresso sociale, dall’altro la stabilità dei prezzi e l’economia di mercato competitiva, i quali non possono coesistere senza che l’uno non divori l’altro! Inoltre, a completamento dell’orribile quadro sin qui delineato, va sottolineato che la BCE (Banca Centrale Europea) – come previsto dal suo stesso Statuto (quindi chi ha costruito l’UE e l’euro sapeva benissimo cosa stava facendo) – NON FUNGE DA PRESTATRICE DI ULTIMA ISTANZA, cioè non può garantire – come invece hanno sempre fatto tutte le Banche Centrali prima dell’introduzione dell’euro – i debiti pubblici di ciascuno degli Stati dell’Eurozona, i quali, trovandosi espropriati di una delle funzioni fondamentali di politica monetaria ed economica, sono continuamente assoggettati al terrore del famigerato debito pubblico! Negli Stati che invece conservano la sovranità monetaria, il debito pubblico non costituisce affatto un problema perché, potendo la Banca Centrale (o il Tesoro) fungere da prestatrice di ultima istanza, essa sarà sempre in grado di “acquistare” (e quindi di garantire) l’intero ammontare del debito pubblico senza che il Governo scarichi il relativo peso su cittadini, imprese e stato sociale. Ed è proprio da questa argomentazione che nasce l’esigenza di spiegare, seppur brevemente, la funzione delle “tasse”: se negli Stati privi di sovranità monetaria l’imposizione fiscale serve principalmente per far fronte alla spesa pubblica (le cui voci più sensibili quali la sanità, gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni sono ovviamente soggetti a tagli selvaggi) e per “ripagare” – con gli interessi – i mercati dei capitali privati che hanno dato in prestito la moneta, negli Stati che godono di sovranità monetaria le tasse servono invece per non creare altro debito pubblico (ovvero per tenerlo “sotto controllo”) e a controllare la massa monetaria in circolazione, quindi il Governo può benissimo evitare di scaricare il peso del debito su popolo e welfare. Ciò premesso, la domanda sorge spontanea: chi svolge la funzione di prestatrice di ultima istanza negli Stati che hanno adottato l’euro? Ovviamente il popolo, attraverso l’aumento della tassazione, l’inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale, l’abbassamento della soglia massima per l’utilizzo del denaro contate e soprattutto i tagli selvaggi alle voci di spesa pubblica più delicate (istruzione, pensioni, stipendi, sicurezza, sanità, giustizia etc…). Tutto ciò premesso, i 19 Stati dell’Eurozona – non potendo più creare moneta dal nulla – devono pertanto andarsi a cercare la moneta. In che modo? Prendendola in prestito dai mercati dei capitali privati (ai quali va restituita con gli interessi) e/o andando a prenderla da cittadini e imprese attraverso le tasse, la lotta selvaggia all’evasione fiscale di sopravvivenza e i tagli allo stato sociale. Inoltre, tanto per intenderci, l’euro è una moneta fiat, cioè creata dal nulla dalla BCE (nello specifico da ciascuna Banca Centrale dei Paesi dell’Eurozona ma su decisione della BCE), quindi il crimine è doppio, infatti ciascuno Stato è costretto – nonostante l’euro sia creato dal nulla – a farsi prestare la moneta dalle banche private che, prima di prestarla, valutano con la lente di ingrandimento la capacità finanziaria dello Stato richiedente a poterla restituire. Ecco perché c’è il terrore della spesa e del debito pubblico; ecco perché l’evasione fiscale costituisce un problema… tutto questo perché si è deciso di adottare l’euro, una moneta completamente sbagliata! Ma torniamo al rapporto euro/lavoro/diritti fondamentali. Ecco un esempio pratico di come questa moneta unica – per sopravvivere – imponga ai Paesi che l’hanno adottata la SVALUTAZIONE DEL LAVORO: se la Riforma Fornero (Legge n. 92/2012) – in merito ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo – rendeva il reintegro nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato un’ipotesi residuale circoscritta a sole tre circostanze (licenziamenti orali, discriminatori e nei casi di carente motivazione o manifesta infondatezza del motivo addotto), il Jobs Act (Legge delega n. 183/2014 e successivi decreti attuativi del 2015) cancella del tutto la tutela del reintegro (sia per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che per quelli per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa), fatte salve le ipotesi meramente residuali dei licenziamenti orali, discriminatori e – solo per i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa – nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, lasciando fuori dal perimetro della tutela reale (reintegro) la sproporzionalità tra fatto contestato al lavoratore e provvedimento di licenziamento. Il Jobs Act riduce anche la forbice della tutela obbligatoria (economica), infatti, per entrambe le tipologie di licenziamento sopra indicate, la predetta tutela passa dalle 12-24 mensilità previste dalla Fornero alle 4-24 mensilità del Jobs Act! Per dirla con parole più semplici, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato quasi interamente smantellato in risposta alle criminali esigenze di sopravvivenza di questa moneta unica sbagliata. E a farlo è stata una politica di centro-sinistra che ha trovato asilo in un Parlamento di nominati, “eletto” con meccanismi elettorali dichiarati incostituzionali (Corte Costituzionale, Sent. n. 1/2014), oltre che per volontà di un Governo presieduto dal terzo Presidente del Consiglio dei ministri consecutivo privo di qualsivoglia legittimazione democratica. La folle costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio. Possibili rimedi giuridici. In ordine a tutto quanto predetto nel precedente paragrafo, si precisa altresì che se i “principi supremi” sui quali trova fondamento il nostro ordinamento costituzionale (in parte coincidenti con i Principi Fondamentali rubricati dall’art. 1 all’art. 12 della Costituzione) non possono essere soggetti a procedura di revisione costituzionale(limite implicito al quale va aggiunto quello esplicito della forma repubblicana di cui all’art. 139 Cost.), la Parte Prima della Costituzione – rappresentando la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali – è anch’essa sottratta da eventuale procedura di revisione, se non in melius! A tal riguardo mi preme portare all’attenzione del lettore quanto accaduto con la Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”), attraverso la quale il Parlamento italiano (pur rispettando la procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) ha inserito in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio (art. 81 Cost., quindi Parte Seconda della Costituzione e pertanto soggetta a revisione), ledendo – se non addirittura esautorando – uno dei “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale che è il lavoro (artt. 1 co. I, 4 e 35 e seguenti della Costituzione). In pratica, pur rispettando la forma (COSTITUZIONE FORMALE), il Legislatore ha palesemente violato e tradito la sostanza (COSTITUZIONE MATERIALE). Partiamo da un presupposto inconfutabile: l’art. 1, primo comma, della Carta costituzionale (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) rappresenta la norma più importante della nostra Costituzione, il faro dell’intera legislazione, il limite supremo ad ogni sopruso, la rotta maestra che tutte le Istituzioni della Repubblica devono necessariamente percorrere sia nell’esercizio del potere legislativo ed esecutivo, sia nell’esercizio della funzione giurisdizionale! Se i Padri Costituenti decisero di fondare la Repubblica sul lavoro (avrebbero potuto fondarla benissimo, ad esempio, sulla democrazia rappresentativa o sulla lotta ai totalitarismi) vuol dire che ammettevano senz’ombra di dubbio che lo Stato possa spendere a deficit al fine di creare piena occupazione e tutelare il diritto al lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Se così non fosse, per quale motivo i Padri Costituenti avrebbero fondato la Repubblica “sul lavoro”? Per quale motivo avrebbero scritto la parola “lavoro” addirittura al primo comma del primo articolo? E’ ovvio che l’intenzione dell’Assemblea Costituente era quella di creare uno Stato democratico che garantisse a tutti la possibilità di vivere liberi dal bisogno, garantendo a chiunque un medio benessere non scaturente dalla rendita o dalla proprietà, bensì dal lavoro (sia manuale che intellettuale)! Ma la Costituente, indomita, si spinse addirittura oltre e scrisse anche sia l’art. 4 co. I e II (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), sia gli artt. 35 e seguenti (sulla tutela del lavoro, della libertà sindacale e del diritto di sciopero). Il “principio supremo” del lavoro, rubricato sia nei Principi Fondamentali (artt. 1 co. I e 4 Cost.) che nella Parte Prima della Costituzione (artt. 35-40 Cost.), e quindi non soggetto a revisione costituzionale (se non in melius per quel che concerne la rubricazione che va dall’art. 35 all’art. 40 Cost.), di fronte alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (avvenuta – come si è già evidenziato – nel rispetto formale della procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) perde di efficacia sostanziale! Ciò detto, il nostro Parlamento ha volutamente calpestato i principi inderogabili della Costituzione (Costituzione primigenia) rendendo la Repubblica non più fondata sul lavoro bensì sulla stabilità (si fa per dire!) dei conti pubblici, mutandone completamente – con un atto di forza formalmente corretto ma sostanzialmente illegittimo – sia l’anima che l’impianto! Ciò premesso, la costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio è del tutto incompatibile con i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale. L’obbligo del pareggio di bilancio, introdotto in Costituzione nel 2012, sarebbe dovuto entrare in vigore a partire dal 2014, tuttavia il Governo Renzi – in cambio delle cosiddette riforme strutturali [soprattutto della riforma del mercato del lavoro (Jobs Act) e dell’avvio a ritmi serrati della revisione della Parte Seconda della Costituzione] – ha ottenuto da Bruxelles prima un rinvio al 2018, poi al 2019. In pratica lo “schiavo”, dopo essersi flagellato da solo convincendosi che flagellarsi fa bene, e dopo aver spontaneamente rinunciato alla libertà che gli è stata donata dai suo Padri, attende consapevole e felice la data della sua “morte” ch’egli già conosce. Tutto ciò premesso, i rimedi che offre il nostro ordinamento giuridico al fine di risolvere le gravi problematiche sinora esposte sono due: a) che il Parlamento, attraverso la procedura aggravata di cui all’art. 138 Cost., provveda all’abrogazione dell’art. 81 della Costituzione con la quale esso stesso ha introdotto il vincolo del pareggio di bilancio; b)che la Corte costituzionale, chiamata secondo le norme vigenti ad esprimersi sulla legittimità costituzionale della Legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, dichiari l’incostituzionalità della nuova formulazione dell’art. 81 Cost. per palese violazione dei principi inderogabili della Costituzione primigenia. Alla luce di tutto quanto sinora argomentato, appare quindi sufficientemente dimostrato come la moneta unica e il pareggio di bilancio incidano negativamente (se non di peggio!) non solo nei confronti del principio fondamentale del lavoro, ma anche nei confronti della DEMOCRAZIA di tutti gli Stati dell’Eurozona. Provi uno Stato che ha adottato l’euro ad indire un referendum (anche solo consultivo) sull’abbandono della moneta unica: la democrazia sarebbe soggetta ad un attacco spietato sia da parte dei mercati e della finanza, sia da parte dell’establishment eurocratico (Istituzioni europee, media, giornalisti, politici e professoroni… quelli a libro paga del sistema). Avvocato Giuseppe PALMA

Vivere sotto perenne giudizio. Ognuno di noi, durante la sua esistenza, perennemente, è sempre sottoposto al giudizio degli altri ed a questo deve essere conforme. In famiglia i genitori hanno l’obbligo di educare ed istruire i figli secondo canone generale. A scuola si insegna subdolamente la dottrina di Stato: quella laicista e di sinistra. Nei concorsi pubblici o negli esami di Stato si è sottoposti al giudizio di canoni di Stato attraverso commissari divenuti vincitori o abilitati in virtù del trucco. Nei rapporti confessionali ci si deve attenere al dettato religioso interpretato. Viviamo tra il martello del clericalismo e l’incudine dell’anticlericalismo. In questa democrazia menzoniera non c’è spazio per la libertà.

ANTICLERICALISMO e la Chiesa in Italia. Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia. Volume I - Dalle Origini All'Unità Nazionale. Voce pubblicata il 14/01/2015. Autore: Antonio Trampus. L’espressione anticlericalismo indica generalmente un complesso di idee e di atteggiamenti opposti polemicamente alle posizioni del clero cattolico espresse attraverso il clericalismo e il confessionalismo. L’aggettivo anticlericale, nel senso proprio di chi è ostile al clero, inizia a comparire nella lingua italiana alla metà del XIX secolo, divenendo poi di uso più comune negli anni sessanta e ottanta attraverso periodici come L’anticlericale. Giornale settimanale pubblicato dalla lega popolare anticlericale di Milano (1883) e il saggio di C. Lupano, La gran questione del nostro secolo: clericalismo e anticlericalismo (1889). In questo contesto il clericalismo era identificato nel governo temporale della Chiesa in Italia e l’anticlericalismo, quindi, rappresentava la sintesi delle posizioni di coloro che combattevano questo potere e si battevano per l’unità d’Italia attraverso la scomparsa dello Stato pontificio e con Roma capitale. In senso più ampio, l’espressione anticlericalismo nella cultura contemporanea italiana ha finito per indicare retrospettivamente ogni atteggiamento critico nei confronti del clero cattolico e ogni sua tendenza a estendere la sua influenza nell’ambito della società civile e dello Stato, sin dal tardo Medioevo e dalla prima età moderna. Vi vengono riassunte, quindi, tutte le tendenze razionaliste confluite nella cultura libertina di fine Seicento e in quella illuministica del Settecento. Emblematico e precorritore delle idee anticlericali appaiono, in questo senso, gli orientamenti deisti da chi, come Voltaire, sosteneva la necessità di un credo morale, di una religione naturale e di una concezione di Dio che rifiutava tanto le Chiese organizzate, quanto il loro arbitrio sui temi della superstizione e della tolleranza nonché la corruzione e la cupidigia dell’ordine sacerdotale di Antico Regime. Si tratta di atteggiamenti presenti anche in una parte della cultura illuministica italiana e in particolare negli scritti di Carlantonio Pilati e nei suoi atteggiamenti, vicini al panteismo, espressi in Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia (1767), ove si rinviene un intero capitolo dedicato alla necessità di impedire al clero di abusare del suo potere a danno dello Stato e dei suoi cittadini. Un diverso tipo di anticlericalismo è stato poi individuato storiograficamente nelle posizioni di quanti, in età moderna e dall’interno della Chiesa cattolica, si fecero portatori di esigenze di rinnovamento e di riforma che riportassero il cristianesimo ai suoi valori originari, recuperando i caratteri di umiltà e di carità propri del ministero ecclesiale e rivendicando l’immagine di una Chiesa semplice e povera, come sostenuto anche dai giansenisti. Le origini politiche dell’anticlericalismo risalgono invece alla rivoluzione francese, quando per la prima volta venne costruito un ordinamento statale laico, divenuto nell’Ottocento un modello per quanti si trovarono a combattere l’alleanza fra il trono e l’altare e la coalizione militare rappresentata dalla Santa Alleanza. In questo contesto l’anticlericalismo incontrò le istanze del laicismo e divenne strumento di lotta politica anche attraverso l’esperienza della Carboneria e della massoneria, soprattutto dopo la vicenda della Repubblica romana del 1848-49 e il rafforzamento dell’opposizione antipapale. Nel Regno di Sardegna, nell’agosto 1848, venne soppresso l’ordine dei Gesuiti e tutti i collegi vennero destinati ad usi militari, con una decisione ben presto imitata da altri Stati italiani. Posizioni anticlericali e antitemporaliste si ritrovano in scrittori come Giovanni Battista Niccolini, Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe La Farina e nella dimensione filosofica e spirituale di Giuseppe Mazzini. Con le leggi Siccardi (1850, 1855) vennero poi aboliti i privilegi del clero nel Regno di Sardegna, tra cui il foro ecclesiastico, il diritto di asilo e la manomorta fino a che, nel 1855, si giunse su iniziativa di Cavour all’abolizione di tutti gli ordini religiosi privi di utilità sociale e al conferimento dei loro beni nella Cassa ecclesiastica. Le cosiddette leggi eversive degli anni 1866-1867 stabilirono infine incameramento nel Demanio dello Stato di tutti i beni appartenenti agli enti soppressi, fra cui le congregazioni religiose, e la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui per la vita religiosa con eccezione dei seminari, delle cattedrali, delle parrocchie e dei canonicati. Con la questione romana l’anticlericalismo divenne un orientamento condiviso da differenti correnti politiche, sia liberali e moderate, sia democratiche, incrociando anche istanze provenienti dalla massoneria. In particolare, la polemica venne assumendo caratteri di radicalità concentrandosi sul potere temporale dei papi, sul clero regolare (specie i Gesuiti, ricostituiti con la Restaurazione) e sul controllo della scuola da parte del clero, almeno fino alla promulgazione delle leggi volute dalla Destra storica. Si tratta di atteggiamenti ripresi e resi popolari anche da Giuseppe Garibaldi attraverso le sue invocazioni a “liberare l’Italia dalla piaga dei preti” e dalla curia vaticana considerata il “governo di Satana”. Si comprendono perciò anche le posizioni assunte dalla massoneria italiana, attraversi il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che nel 1886 poteva considerare il clericalismo come “destituito dal nerbo principale delle sue forze” e ormai finito “nell’agonia”. L’anticlericalismo trovò poi significativo spazio nel movimento fascista delle origini e venne sostenuto da esponenti della cultura futurista tra cui Filippo Tommaso Marinetti che all’adunata nazionale dei fasci a Firenze del 9 ottobre 1919 auspicò lo “svaticanamento d’Italia”. Si tratta di posizioni sostanzialmente abbondante dal partito fascista in coincidenza con le trattative che portarono alla nascita dei Patti lateranensi (1929). Nel secondo dopoguerra l’anticlericalismo nella vita politica italiana venne espresso attraverso il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista e, soprattutto, attraverso il Partito radicale sorto nel 1955 con l’obiettivo principale di promuovere la laicità dello Stato italiano e una revisione dei Patti Lateranensi in accordo, dal 1973, con la Lega italiana per l’abrogazione del Concordato (LIAC). In questo quadro, e come parziale successo degli orientamenti anticlericali, viene posta anche la revisione dei Patti Lateranensi, avvenuta nel 1984, che ha portato ad abbondare la concezione del cattolicesimo come religione di Stato e ha reso facoltativo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Al clericalismo si contrappone politicamente il laicismo e ideologicamente l'anticlericalismo.

Il Clericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La parola clericalismo indica un agire in senso politico che mira alla salvaguardia e al raggiungimento degli interessi del Clero e, conseguentemente, si concretizza nel tentativo di indebolire la laicità di uno Stato attraverso il diretto intervento nella sfera politica e amministrativa da parte di sostenitori anche non appartenenti al Clero, o talvolta non credenti.

Il clericalismo nel mondo. Furono chiamati «clericali» nella metà del XIX secolo, in Francia e in Belgio, quei cattolici impegnati in politica ed organizzati in movimenti o partiti che si richiamavano esplicitamente alla loro confessione religiosa. I "clericali" francesi che erano stati tra i maggiori sostenitori dell'imperatore Napoleone III, influenzarono pesantemente la sua politica estera, in specie per i rapporti con il Regno d'Italia e per il problema di Roma capitale. L'invasione della Repubblica Romana e la restaurazione di papa Pio IX (1849), il fallito tentativo di instaurare un impero cattolico in Messico (1862-67), l'episodio di Mentana sempre a difesa di papa Pio IX (1867), sono gli esempi più rilevanti della subordinazione politica al Clero durante il regime di Luigi Napoleone che a garanzia dell'inviolabilità della Roma papale aveva stabilito nella città un presidio militare francese ritirato solo dopo la Convenzione di settembre nel 1864. Gli stessi eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina (1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy possono essere considerati come effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. L'affaire Dreyfus (1894) la cui accusa era sostenuta anche dai clericalisti antisemiti, organizzati nello squadrismo dell'Action française, era il segno che, alla fine dell'Ottocento, in Francia era forte la presenza di una Chiesa conservatrice contrapposta ad intellettuali laici, progressisti e in parte massoni. Il termine si diffuse poi in Spagna ed in Italia, meno in Germania e per nulla in Inghilterra, segno di una situazione tipica di aree cattoliche dove possono nascere contrasti tra Clero e società civile. Durante la Guerra civile spagnola i clericali di tutta Europa si schierarono apertamente con Francisco Franco, di cui appoggiarono il regime dittatoriale dopo la vittoria. Unica voce cattolica apertamente contraria fu quella di Jacques Maritain. Durante la seconda guerra mondiale il clericalismo supportò i regimi di Jozef Tisoin Slovacchia e di Ante Pavelić in Croazia. Quest'ultimo si salvò dal processo dopo la guerra grazie alla fuga in Spagna agevolata dal Vaticano. Entrambi i regimi furono ferocemente antisemiti.

Il clericalismo in Italia. Cavour, fin dal 1850 si era messo in luce pronunziando un discorso in difesa delle leggi Siccardi che abolivano il diritto d'asilo e il foro ecclesiastico ancora in vigore dall'età medioevale nel Regno di Sardegna. Formato nel 1852 il "grande ministero" con Urbano Rattazzi, si era proposto di modernizzare il Piemonte laicizzando lo Stato ma dovette scontrarsi nel 1855 con i clericali piemontesi guidati dal vescovo di Casale e senatore, Luigi Nazari di Calabiana contrario alla soppressione degli ordini contemplativi al punto da causare una crisi politica che provocò le dimissioni del primo ministro. Ritornato al governo dovette affrontare un nuovo contrasto con i clericali, questa volta sostenuti dal re Vittorio Emanuele II, per l'introduzione del matrimonio civile in Piemonte che sarà attuato diversi anni dopo. Lo stesso Nazari di Calabiana, nominato arcivescovo di Milano, dopo l'unità d'Italia, nel 1864, si distinguerà per le sue polemiche contro gli intransigenti antiliberali. Fin dal 1857 era comparso sul giornale torinese l'Armonia diretto dal giornalista don Giacomo Margotti l'esortazione diretta ai cattolici: «Né eletti. Né elettori». Non meraviglia quindi che, sebbene lo Stato italiano dichiarasse di rinunciare a ogni controllo giurisdizionalistico, tuttavia i tentativi di regolare i rapporti con la Chiesa secondo la formula cavouriana di «Libera Chiesa in libero Stato», effettuati dallo stesso Cavour tramite il suo collaboratore Diomede Pantaleoni, e in seguito dai primi governanti della Destra storica, fallissero per l'intransigenza del rappresentante papale. Non ancora intransigenti ma cattolici di stretta osservanza, tra il 1861 e il 1878 i credenti italiani si appartano dalla vita nazionale e si esprimono in giornali dal tono estremamente polemico. «Lentamente s'instaura quel costume, che durerà decenni e decenni, fino alla prima guerra europea per cui il cattolico politico ha associazioni professionali, circoli, scuole cui inviare i figli, esclusivamente suoi, forma una società chiusa e riduce gli incontri con persone che non dividano la sua fede al minimo possibile » La data di nascita in Italia del clericalismo coincide con l'emanazione del Sillabo (1864) di papa Pio IX (1846-1878) che, considerandosi "prigioniero dello stato italiano", condannava ogni aspetto del liberalismo e del modernismo dando vita così al movimento degli «intransigenti» cattolici che rifiutavano di riconoscere il nuovo Regno d'Italia. La Chiesa tuttavia, sente la difficoltà di non avere nel Parlamento del Regno d'Italia suoi rappresentanti ed emana una disposizione nel 1866 che consente l'elezione di deputati cattolici purché nel formulare il giuramento allo Stato essi aggiungano, alla presenza di almeno due testimoni, la formula: «salvis legibus divinis et ecclesiasticis» ("salvo quanto dispongono le leggi divine e della Chiesa"). La Camera ritenne nullo il giuramento e da quel momento la voce dei deputati cattolici fu quasi assente dalle aule parlamentari. Questa chiusura della Chiesa influì negativamente sulla politica italiana post-unitaria, acuendo il forte anticlericalismo di gran parte dei politici italiani del tempo. L’allontamento definitivo dei cattolici dalla partecipazione diretta alla vita politica dello Stato italiano si ebbe quando il 30 gennaio 1870 la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari espresse il parere che non fosse conveniente (non expedit) per i cattolici italiani partecipare alle elezioni politiche. Inoltre il Concilio Vaticano Primo iniziato nel dicembre del 1869, che si caratterizzava principalmente per la definizione del dogma dell'infallibilità del Papa quando parla ex cathedra in materia di fede e di morale (18 giugno 1870), rendeva ancora più accentuata la durezza delle posizioni del Clero nei confronti di chi cercasse con esso un compromesso. Ben 55 vescovi "antinfallibilisti", prima della approvazione del dogma si allontanarono dal Concilio che, interrotto dalla presa di Roma, non fu più ripreso. Il 13 maggio 1871 lo Stato italiano emana un originale atto di accordo internazionale unilaterale: la Legge delle Guarentigie (Legge delle Garanzie) voluta dal Parlamento per regolare i rapporti con la Santa Sede dopo la presa di Roma (20 settembre 1870). Respinta da papa Pio IX con l'enciclica Ubi nos e mai accettata dalla Santa Sede, rimase tuttavia in vigore sino alla Conciliazione del 1929. Su questa linea si costituì in seguito l'Opera dei congressi (1874) che può essere considerata come la nascita di un vero e proprio partito cattolico italiano. L'organizzazione rivendicava la rappresentanza del "paese reale" contro lo Stato liberale e si assumeva il compito di coordinare tutte le attività cattoliche di tipo sociale, cooperativistico, scolastico, giornalistico. Dopo la morte di papa Pio IX nel 1878, e l'assunzione al trono papale di papa Leone XIII (1878-1903) che mostrava dall'inizio del suo pontificato attenzione ai problemi sociali, al mondo del lavoro e dei suoi conflitti (vedi Rerum Novarum), sembrava potersi sperare in un'attenuazione dello scontro tra Chiesa e Stato. In un'enciclica del 1885 si raccomandava infatti ai cattolici europei di partecipare alla vita politica dei propri stati per non rimanere esclusi dalle decisioni dei loro governi, ma con la limitazione che questa adesione alla politica attiva «in qualche luogo…non convenga affatto (nequaquam expediat) per ragioni grandissime e giustissime». Ciò che era consentito per i paesi cattolici europei non lo era per l'Italia. Nel 1886 una circolare del Sant'Uffizio recitava così: «A togliere ogni equivoco, udito il parere degli Eminentissimi signori Cardinali inquisitori generali miei colleghi, ho ordinato che si dichiari il Non expedit contenere un divieto (prohibitionem importat) Card. Monaco.» All'interno del partito clericale italiano stava intanto nascendo una corrente che rifletteva l'azione sociale della Chiesa specie nelle campagne dove si organizzavano società cattoliche di mutuo soccorso, cooperative di consumo contadine, sindacati bianchi. Era la nuova corrente della Democrazia Cristiana che chiedeva che la sua azione sociale trovasse legittima rappresentanza e valido riconoscimento nel parlamento italiano. Senza politici che la difendessero l'organizzazione sociale cattolica non poteva sperare di sostenersi. Per questi obiettivi si batterono don Romolo Murri e il sociologo ed economista Giuseppe Toniolo subito osteggiati dai cattolici veneti, dai gesuiti e dalla Curia romana. Se prima non si risolveva il problema del rapporto Chiesa-Stato, sostenevano gli intransigenti, non si poteva affrontare la questione sociale e politica. Per i democristiani risorgeva il muro del non expedit che però sembrava potesse incrinarsi con l'avvento del nuovo papa Pio X (1903-1914), uomo di costumi semplici e popolari. Ma nel 1903 compariva invece sull'Osservatore Romano una nota ufficiale così redatta: «Siamo autorizzati a smentire le voci messe di questi giorni in giro dalla stampa cittadina e dagli altri giornali riguardo all'abolizione del Non expedit, essendo esse assolutamente prive di fondamento.» Nel 1904 Pio X decise di sciogliere l'Opera dei Congressi dove i "sovversivi" di Romolo Murri avevano acquistato la maggioranza. Il Murri sarà sospeso a divinis nel1907 e diventerà deputato nelle file dei radicali. Un altro sacerdote don Luigi Sturzo, che si era distinto in Sicilia per la sua azione sociale, obbedì all'ingiunzione pontificia in attesa di tempi migliori. Nello stesso anno la corrente moderata del clericalismo organizzata nell'Unione Elettorale Cattolica realizzò accordi prelettorali con candidati liberali moderati in maggioranza giolittiani. Giovanni Giolitti in difficoltà dopo lo sciopero generale degli anarco sindacalisti socialisti aveva infatti deciso di ricorrere alle elezioni convinto che la parte moderata del paese avrebbe punito l'ala massimalista dei socialisti. E in quest'occasione stipulò un accordo per cui i candidati liberali avrebbero avuto il voto dei cattolici, ma si sarebbero impegnati a non appoggiare leggi che contrastassero l'interesse del Clero. Il compromesso era sintetizzato dalla formula: «deputati cattolici no, cattolici deputati sì.» Lo stesso papa Pio X si mostrava favorevole in quanto tra i due mali: accordo con i liberali e la nascita di un partito cattolico democratico, che avrebbe portato a divisioni nella Chiesa, preferiva quello per lui minore. Non così la pensavano i cattolici democratici, che parlarono di «prostituzione di un voto.» Giolitti e i socialisti riformisti di Filippo Turati conseguirono una chiara vittoria elettorale, ma l'ingresso dei cattolici aveva prodotto un'accentuazione in senso conservatrice della politica italiana, quando lo stesso partito liberale avrebbe dovuto invece uscire dal suo moderatismo che non soddisfaceva più le classi contrapposte che si andavano viepiù estremizzando. Le difficoltà di governo con i socialisti, dopo l'impresa coloniale in Libia, spinsero Giolitti a ricercare un nuovo accordo con i cattolici con il Patto Gentiloni del 1912. Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916) propose ai candidati del "Partito Liberale" se avessero voluto il sostegno dei votanti cattolici di sottoscrivere i seguenti sette punti programmatici:

difesa delle congregazioni religiose,

difesa della scuola privata,

difesa dell'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche,

difesa dell'unità della famiglia,

difesa del "diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e religiosi ai quali esse s'ispirino",

salvaguardia di una migliore applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali,

conservazione e rinvigorimento “delle forze economiche e morali del paese”, per un incremento dell'influenza italiana in campo internazionale.

Alle Elezioni politiche italiane del 1913, le prime in Italia a suffragio universale maschile, il Partito Liberale ottenne una schiacciante vittoria con il 51 % dei voti e 260 eletti e di questi ben 228 avevano sottoscritto i sette punti programmatici desiderati dai cattolici. Dopo il sanguinoso intervallo della guerra mondiale, dove il cattolicesimo schierato con i neutralisti aveva apertamente espresso con papa Benedetto XV (1914-1922) la sua condanna per l'"inutile strage", nella crisi degli anni 1919 – 1922 dapprima l'Unione nazionale di Carlo Ottavio Cornaggia Medici (1919), poi il Centro Nazionale Italiano di Paolo Mattei-Gentili (1924) ed Egilberto Martire, provocarono scissioni nel Partito Popolare Italiano fondato da Don Sturzo nel 1919. Il partito che nello stesso anno aveva ottenuto un buon successo alle elezioni, nasceva minato al suo interno per la eterogeneità delle posizioni, e all'esterno per la diffidenza di Pio XI (1922-1939) e della gerarchia. Era quindi inevitabile quella scissione nel 1923 che portò una parte del partito all'opposizione al fascismo mentre l'altra, i clericofascisti, s'illudevano, collaborando con il regime, di condizionarlo. Inizialmente benvisti da Mussolini, i clericofascisti vennero ben presto emarginati sia dal fascismo che dalla stessa Chiesa, salvo la concessione di un qualche ruolo diplomatico per la soluzione della questione romana con i Patti Lateranensi del 1929. Con i Patti Lateranensi sembrò acquietarsi lo scontro tra Chiesa e Stato rappresentato dal regime fascista che colse un vasto consenso popolare dalla pacificazione con la chiesa cattolica. Ma la matrice anarchica e socialista di Mussolini rendeva poco affidabile quella politica di «buon vicinato» che i cattolici si auguravano. I primi dissensi emersero nel 1931 quando il fascismo chiese la chiusura dell'Azione Cattolica, rilanciata invece da papa Pio XI come forza organizzata di presenza nella società. L'alleanza di Mussolini con la Germania nazista e pagana, l'emanazione delle leggi razziali del 1938 resero sempre più difficili i rapporti con il regime fascista. Eletto nel 1939 a pochi mesi dallo scoppio della seconda guerra mondiale, papa Pio XII (1939-1958) passò da una dichiarata neutralità ad una adesione sempre più accentuata alle potenze occidentali e ad una condanna sempre più esplicita dei fascismi e della Russia sovietica, pur rinunciando a clamorosi atti di denuncia. Finita la guerra, per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, la Chiesa appoggiava apertamente la causa monarchica trasformando l'alternativa tra monarchia e repubblica in quella tra cristianesimo e comunismo. Il 1º giugno 1946, il giorno precedente il referendum, lo stesso papa Pio XII, rivolse un appello agli Italiani: senza accennare esplicitamente alla monarchia o repubblica invitò i votanti perché scegliessero tra il materialismo e il cristianesimo, tra i sostenitori e i nemici della civiltà cristiana. Considerato che nella campagna elettorale il fronte repubblicano annoverava in prima linea i partiti marxisti materialisti, sarebbe stato difficile fraintendere il senso di questo appello papale. Nel secondo dopoguerra Pio XII promosse un piano di grande mobilitazione dei cattolici riformando l'Azione Cattolica e sostenendo l'azione mediatica del "Movimento per un mondo migliore " di padre Riccardo Lombardi e di Luigi Gedda, cattolico intransigente, fondatore alla vigilia delle elezioni del 1948 dei Comitati Civici a sostegno della Democrazia Cristiana contro il Partito Comunista Italiano. Gli iscritti al PCI furono scomunicati da Pio XII nel 1949. Suoi i ripetuti tentativi di dirigere la politica italiana come attestano lettere del Pontefice, timoroso per l'elezione (1952) di un sindaco comunista a Roma, dirette al Presidente del consiglio Alcide De Gasperi per indurlo a formare un'alleanza politica in funzione anticomunista con il Movimento Sociale Italiano. De Gasperi si batté invece, nei limiti delle sue convinzioni cattoliche e delle opportunità politiche, per l'aconfessionalità dello Stato contenendo le spinte clericali della destra cattolica e dell'Azione Cattolica di Luigi Gedda. Il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) segnò una svolta nelle posizioni del Clero rispetto alla politica in Italia, e lo stesso Concilio Vaticano II fu espressione di questo nuovo spirito di "aggiornamento" che animava la Chiesa cattolica. In quegli anni la formazione di un governo di centro-sinistra non venne infatti ostacolata dalle gerarchie ecclesiastiche. Anche il pontificato di papa Paolo VI (1963-1978) fu improntato ad uno spirito innovatore, sebbene per alcuni aspetti venissero tenute in considerazione istanze conservatrici che già avevano animato il dibattito nel Concilio. Paolo VI riformò la Curia romana introducendovi prelati da tutto il mondo, volle la riforma liturgica, introdusse la collegialità episcopale con il Sinodo dei vescovi; interrompendo una lunga tradizione, compì alcuni viaggi all'estero, trasformò il Sant'Uffizio, abolì l'Indice dei libri proibiti. Durante il suo pontificato, L'Azione Cattolica guidata da Vittorio Bachelet compì la "scelta religiosa", che segnava la fine del collateralismo dell'associazione alla politica della Democrazia Cristiana. Contemporaneamente, però, l'Azione Cattolica smise di essere l'unica associazione laicale in Italia: in un periodo di fioritura di diversi movimenti ecclesiali, nel 1969 viene fondata da don Luigi Giussani Comunione e Liberazione, caratterizzata da un forte senso di appartenenza reciproca e da una religiosità neointransigente e di impegno sociale (Compagnia delle Opere) e di influsso sulla vita politica. La contrapposizione tra lo stile associativo dell'Azione Cattolica e quello di Comunione e Liberazione avrebbe segnato per i decenni a venire l'associazionismo cattolico del Paese. Nel corso del pontificato di Paolo VI fu introdotto in Italia l'istituto del divorzio (1970) fortemente contrastato dai cattolici, che promossero il successivo referendum abrogativo del 1974 ma ne risultarono sconfitti; nel 1978 fu anche approvata, nonostante le ripetute condanne del Clero, l'interruzione volontaria di gravidanza. Anche in questo caso, il successivo ricorso al referendum non sortì gli effetti sperati dai promotori di parte cattolica. Nello stesso 1978, l'elezione di Giovanni Paolo II, primo papa non italiano dopo molti secoli, determina il progressivo attenuarsi dell'attenzione del pontefice alle vicende politiche dell'Italia, sebbene dal 1985 la Conferenza Episcopale Italiana, sotto la guida del card. Camillo Ruini rivolgesse attenzioni crescenti alla politica e alla società italiane. La fine della Guerra Fredda in campo internazionale (1989-1991) e gli avvenimenti di Tangentopoli (1992) mutarono in pochi anni il panorama politico italiano. La stessa Democrazia Cristiana fu sciolta nel 1993: venne così meno il punto di riferimento dei cattolici nella vita politica italiana. Negli anni successivi, pertanto, il Clero avviò un atteggiamento di dialogo con partiti politici sia conservatori sia progressisti, influenzando significativamente entrambi gli schieramenti. Secondo gli osservatori più critici, tale atteggiamento ha assunto talvolta modi vicini a quelli propri dei gruppi di pressione. In ambiente cattolico il termine "clericale" designa la posizione di coloro che tendono a ridurre al minimo la partecipazione attiva dei laici all'esercizio spirituale del Clero. Ma al di là dei termini del dibattito politico e religioso, per cui si preferisce parlare di "teodem" e "teocon" contrapposti a "laicisti", sembra essere in atto uno scontro tra clericali e anticlericali, considerati, come portatori di un'ideologia relativista, materialista, con l'obiettivo di cancellare o ridurre il ruolo della religione nella vita sociale. Dal punto di vista dei laici, tuttavia, questo scontro si manifesta come un tentativo della Chiesa di imporre, attraverso una strategia di comunicazione e di lobbying, i suoi valori anche a coloro che professano fedi diverse o non credono affatto. Costoro comunque, nell'interpretazione della Chiesa, condividono gli universali principii umani che vanno salvaguardati al di là delle proprie convinzioni religiose o laiche. La contrapposizione non verte più, come in un lontano passato, sulla partecipazione o meno dei cattolici alla vita politica, ma su temi sociali di rilevanza etica, riguardo ai quali, secondo gli esponenti del clericalismo, i cattolici devono battersi per difenderne gli aspetti umani e cristiani. Una questione oggi dibattuta è sul significato da attribuire al termine "ingerenza". La gerarchia cattolica rivendica alla Chiesa, depositaria della tradizione apostolica, il diritto-dovere, secondo la sua funzione, di guidare i fedeli, e di predicare i principi morali, che i cattolici devono seguire. I sostenitori dell'ingerenza del Clero nella vita politica e morale dei cittadini rifiutano l'accusa di clericalismo ed anzi accusano di "laicismo" (ritengono infatti che si possa distinguere fino alla contrapposizione tra laicità e laicismo) chi sostiene posizioni opposte. Cosicché, quando, ad esempio, la gerarchia ecclesiastica si pronuncia sulla fecondazione medicalmente assistita e sulla ricerca scientifica sulle cellule staminali, afferma di farlo da posizioni "laiche" poiché difende il valore della vita (che del resto non è negato neppure dai laici) ritenendolo un valore non solo cristiano, ma umano. Per questo essa giudica legittimo avvalersi di cattolici impegnati nella vita politica, che sostengano non solo le posizioni della Chiesa cattolica, ma anche i principi laici della dignità umana. D'altra parte i laici, non solo rivendicano il diritto di legiferare su questi temi connessi a valori etici, ma obiettano di voler lasciare libera scelta ai cittadini, in nome della loro libertà di coscienza, se aderire o meno alle opportunità che offre la legge. Secondo questa posizione, il Clero non ha l'obbligo di astenersi, secondo la sua missione, da tutti quei pronunciamenti che abbiano significato religioso e morale ma da quelli che vogliano incidere sulle decisioni politiche; il che appare al Clero stesso una negazione della propria libertà di parola e di espressione. In questo senso gli esponenti più propriamente laici sottolineano che lo Stato italiano è costituzionalmente uno Stato non confessionale, come afferma chiaramente il combinato disposto degli art.7 e 8 della Costituzione. Sui rapporti tra Stato e Clero può servire a chiarire il problema quanto ha lasciato scritto nel febbraio 2001 Pietro Scoppola, storico, docente e politico italiano, uno dei principali esponenti italiani del cattolicesimo democratico. «La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un'altra forza politica; l'immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire a una società inquieta e per tanti aspetti lacerata, motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una Chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. È legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti ma questo diritto dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. È in questa complessa dinamica che si esprime la responsabilità dei cattolici nella vita politica. Urgente si è fatta l'esigenza della formazione del laicato cattolico alle responsabilità della democrazia. Perché mai l'Italia e i cattolici italiani debbono sempre esser trattati come "il giardino della Chiesa"?» Compromesso storico è il nome con cui si indica in Italia la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano osservata negli anni settanta. Questo possibile sviluppo politico fu chiamato anche con il nome di terza fase in ambito democristiano, mentre i comunisti preferivano la definizione alternativa democratica. Questa politica in ogni caso non portò mai il Partito Comunista a partecipare al governo in una grande coalizione ai sensi del cosiddetto consociativismo. La proposta dal neo-segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer alla Democrazia Cristiana per una proficua collaborazione di governo (aperta anche alle altre forze democratiche) doveva interrompere così la cosiddetta conventio ad excludendum del secondo partito italiano dal governo. In tal modo, si voleva anche mettere al riparo la democrazia italiana da pericoli di involuzione autoritaria e dalla strategia della tensione che insanguinava il paese dal 1969. Berlinguer si vedeva peraltro sempre più deciso a sottolineare l'indipendenza dei comunisti italiani dall'Unione Sovietica e di rendere quindi il suo partito una forza della società occidentale. Il compromesso venne lanciato da Berlinguer con quattro articoli su Rinascita a commento del golpe cileno che aveva portato le forze reazionarie in collaborazione con gli USA a rovesciare il governo del socialista Salvador Allende (11 settembre 1973). La politica del compromesso storico fu vista negativamente dal Partito Socialista Italiano e da diversi suoi esponenti, in particolare Bettino Craxi e Riccardo Lombardi, che vedevano in questo disegno un chiaro tentativo di marginalizzare il PSI e di allontanare definitivamente l'idea di un'alternativa di sinistra che portasse il PCI al governo, tuttavia con la guida dei socialisti. La scelta di Berlinguer, fondamentalmente legata alla politica di eurocomunismo, era un esempio di politica reale che non riscontrò i favori dell'area di sinistra del suo partito. Il compromesso trovò una sponda nell'area di sinistra della DC che aveva come riferimento il presidente del partito Aldo Moro e il segretario Benigno Zaccagnini, ma non ebbe mai l'avallo dall'ala destra della DC, rappresentata da Giulio Andreotti. Lo stesso Andreotti in un'intervista dichiarò: "secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all'atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista.". Un compromesso minimo si raggiunse mediante l'appoggio esterno assicurato dal PCI al governo monocolore di Solidarietà Nazionale, costituito da Giulio Andreotti nel 1976. L'incontro comunque problematico fra PCI e DC spingerà l'estrema sinistra a boicottare il PCI e porterà i terroristi delle Brigate Rosse a rapire (e in seguito a uccidere) Aldo Moro proprio nel giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV (16 marzo 1978). Caduto quest'ultimo governo per il ritiro del PCI, e senza il prezioso aiuto di Moro, la DC archiviò definitivamente la linea della terza fase col XIV congresso del febbraio 1980, quando prevarrà con il 57,7% l'alleanza tra dorotei, fanfaniani, Proposta e Forze nuove che approvò il cosiddetto «preambolo» al documento finale che escludeva alleanze con il PCI. L'opposizione, composta dall'area Zaccagnini e dagli andreottiani, ottenne il 42,3%. Berlinguer e il PCI tenteranno ancora di riproporre il compromesso storico alla nuova DC di Flaminio Piccoli, ma vanamente. Del resto, la resistenza interna al partito Comunista sarebbe rimasta notevole. Con quella che Macaluso definisce la seconda svolta di Salerno, il 28 novembre 1980, Berlinguer annunciò dopo otto anni di voler abbandonare la linea del compromesso storico per abbracciare quella dell'«alternativa democratica». Ciò significa che l'obiettivo diventava quello di ricercare governi di solidarietà nazionale che escludessero la DC. Decisivo per il mutamento tattico fu il terremoto in Irpinia della sera del 23 novembre precedente e la conseguente denuncia del pessimo modo di operare dello Stato da parte del presidente della Repubblica Sandro Pertini in diretta tv il 26 novembre. Oltre al fatto storico, Moro era un teorico del valore del compromesso in politica, della ricerca dell'accordo e della mediazione. Il compromesso in politica non viene inteso come un atto moralmente negativo e riprovevole, al contrario è il compito principale di chi viene eletto. La politica non deve essere personalizzata, luogo di affermazione del singolo e del suo programma elettorale, sebbene questi abbia avuto la maggioranza delle preferenze alle elezioni. Se in democrazia la maggioranza vince, persegue un fine democratico il compromesso che mette d'accordo la maggior parte dei partiti e dei singoli rappresentanti eletti dal popolo, e ciò resta un dovere anche per chi beneficia di una vasta maggioranza elettorale e parlamentare, laddove l'accordo sia compatibile e non tradisca le attese e il programma dell'elettorato.

Anticlericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'anticlericalismo (nella sua accezione più comune) è una corrente di pensiero laicista, sviluppatasi soprattutto in riferimento alla Chiesa cattolica, che si oppone al clericalismo, ossia all'ingerenza degli ecclesiastici e della loro dottrina, nella vita e negli affari dello Stato e della politica in generale. In quanto "tendenza", non convogliata in un manifesto o in qualche movimento principale, l'anticlericalismo ha subito una serie di evoluzioni storiche e si è sviluppato in molteplici sfaccettature, tanto che è difficile darne una definizione condivisa. Per alcuni esso è l'opposizione allo sconfinamento del clero in qualsiasi ambito diverso dalla pura spiritualità (quindi economia, politica, interessi materiali). Questa forma di pensiero si colloca ideologicamente sia nell'ambito del liberalismo, sia delle sinistre radicali ma anche in alcuni partiti socialisti democratici, ed in Italia, storicamente, nei partiti che traggono origine dal pensiero mazziniano (in particolare, il Partito d'Azione ed il Partito Repubblicano Italiano), nel Partito Socialista Italiano e nel Partito Radicale. Dal punto di vista ideologico e filosofico, talvolta l'anticlericalismo si sviluppa parallelamente a quello della non credenza. L'anticlericalismo esplicito o velato da quella che Torquato Accetto chiamava la «dissimulazione onesta» è tanto più diffuso quanto più il clero, in particolare nei suoi vertici cardinalizi e vescovili, tende a sovrintendere alla vita e all'organizzazione politico-civile dello Stato. In Europa, l'anticlericalismo si è sviluppato lungo parte della storia cristiana ed ha avuto come precursori figure di cristiani come Erasmo da Rotterdam, Immanuel Kant, Paolo Sarpi, Gottfried Arnold e Thomas Woolston, che considerava quale vero unico autentico miracolo di Gesù la cacciata dei mercanti dal Tempio. L'anticlericalismo italiano (tra i primi esponenti sono oggi annoverati personaggi come Marsilio da Padova, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, il Platina e Giordano Bruno), giungerà ad avere i suoi primi "martiri" nella prima metà del settecento con Pietro Giannone, morto in carcere a Torino, e Alberto Radicati di Passerano, morto esule all'Aia. Vanno poi ricordati gli illuministi francesi - tra i quali Voltaire e Diderot - che si opposero a ogni forma di clericalismo. Elementi anticlericali, secondo alcuni, sono presenti nella prima fase della Riforma luterana che abolisce gli ordini regolari, non riconosce né il sacramento dell'ordine, né l'obbligo del celibato ecclesiastico, proclamando il sacerdozio universale di ogni cristiano che ha la sua guida nella sola Sacra Scrittura. In particolare, gli anabattisti riconoscevano Cristo come unico capo della Chiesa, e negavano il valore della gerarchia e del magistero, affidandosi all'insieme dei credenti e dalla loro quotidiana imitazione dell'esempio di Cristo. La Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento è stata anche una risposta a tali istanze antigerarchiche presenti, sia pure con grandi diversità e con differenti gradi di intensità, nel mondo protestante e, per Paesi come l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, la Baviera, la Polonia, la Croazia, l'America Latina un'istanza di rinnovata clericalizzazione non solo della vita religiosa, ma anche nella vita socio-politica, in particolare attraverso il controllo della formazione scolastica e del costume femminile. Nel Settecento si diffonde l'anticurialismo, una tendenza giuridica che si ergeva a difesa dello Stato assolutista contro i privilegi della Chiesa e particolarmente contro le prerogative del Tribunale dell'Inquisizione, che sottraeva allo Stato parte del suo ruolo nell'amministrazione della giustizia. L'origine dell'anticurialismo risale alla seconda metà del Cinquecento, quando a Napoli il viceré spagnolo Pedro Afán de Ribera, che pure represse duramente i valdesi in Calabria, si oppose alla pubblicazione dei decreti del Concilio di Trento e all'istituzione dell'Inquisizione spagnola nel Regno di Napoli. Nel Settecento l'anticurialismo assume l'aspetto di una corrente filosofica e giuridica con autori come il sacerdote salernitano Antonio Genovesi, il cavese Costantino Grimaldi, autore delle Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (Napoli, 1708) e delle Discussioni istoriche teologiche e filosofiche (Lucca, 1725) e il foggiano Pietro Giannone, che a Ginevra, patria del calvinismo, già inviso alla Chiesa per la sua opera storica, compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale, che sarà pubblicato postumo solo nel 1895. Nel 1730 Alberto Radicati di Passerano, esule a Londra, pubblicò un opuscolo anticlericale, sotto il titolo A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion, in cui rigetta il cattolicesimo e ne dipinge una mordace caricatura, sulla scorta degli autori illuministi francesi. Nel 1732 pubblicò la Dissertazione filosofica sulla morte, un'opera in cui rivendicava il diritto al suicidio e all'eutanasia. In tutto il secolo si rafforza anche l'antigesuitismo, un movimento di ostilità contro la Compagnia di Gesù, un istituto religioso simbolo della fedeltà al papa, che si riteneva protagonista di ingerenze clericali in politica e nella scienza. Mentre l'aspirazione illuministica alla libertà diveniva il marchio del secolo, la presenza dei gesuiti si faceva via via inaccettabile, tanto che furono espulsi da tutti gli Stati cattolici, a cominciare dal Portogallo (1750). Il primo Stato italiano ad espellere i Gesuiti fu il regno di Napoli (1767), seguito dal ducato di Parma e Piacenza. Nel 1773 papa Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor decise la definitiva soppressione della Compagnia di Gesù. Nella seconda metà del XVIII secolo l'infante Filippo I di Parma e il suo ministro Guillaume du Tillot adottarono nel ducato di Parma e Piacenza una politica anticlericale, che poneva pesanti limitazioni nella capacità della Chiesa di acquisire e possedere beni immobili e di ereditare. Addirittura gli ecclesiastici furono esclusi della successione ereditaria delle loro famiglie. Ai vescovi furono proibiti impiegati che non fossero laici e fu loro sottratta la giurisdizione sugli ospedali e sulle opere pie. Con Ferdinando di Borbone non cessarono le vessazioni del clero e papa Clemente XIII fece affiggere un breve di protesta (Monitorium), che suscitò tali reazioni che in breve tempo quasi tutti gli Stati d'Europa presero posizione contro il Papa. A Napoli la tendenza anticuriale è rappresentata in politica dal primo ministro Bernardo Tanucci. Con il concordato del 1741, la Santa Sede aveva concesso larghi privilegi ai monarchi napoletani che erano sempre stati vicini al papato, non prima di lunghe trattative condotte dall'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, che agiva come ministro plenipotenziario del Regno di Napoli ed era egli stesso un uomo di cultura, fiancheggiatore delle tendenze anticuriali. Il Tanucci volle applicare il Concordato in una chiave di imposizione di una politica ecclesiastica statale (regalismo), che andava a infrangere la tradizionale armonia tra il potere civile e quello religioso. Sulla scorta delle rivendicazioni gallicane già applicate in Francia, le entrate di episcopati e abbazie vacanti affluirono alla corona, conventi e monasteri superflui vennero soppressi, le decime abolite e nuove acquisizioni di proprietà da parte delle istituzioni ecclesiastiche tramite la manomorta vietate. La pubblicazione delle bolle papali necessitava della previa autorizzazione reale (il cosiddetto exequatur). Anche le nomine vescovili nel Regno caddero, seppure non direttamente ma solo tramite raccomandazioni, grazie anche all'abilità politica del Tanucci, nelle mani del sovrano. Il Re era soggetto soltanto a Dio, gli appelli a Roma erano proibiti a meno che non vi fosse stato l'assenso del re, il matrimonio venne dichiarato un contratto civile. Papa Clemente XIII reagì con la scomunica, al che Tanucci rispose occupando le enclave pontificie nel territorio napoletano di Benevento e Pontecorvo, che saranno restituite alla Santa Sede solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù. Le proteste dei vescovi contro i nuovi insegnamenti nelle scuole a seguito dell'espulsione dei Gesuiti vennero liquidate come non valide. Uno degli ultimi atti di Tanucci fu l'abolizione della chinea (1776), il tributo annuale che i re di Napoli versavano al papa come segno del loro vassallaggio sin dal tempo di Carlo I d'Angiò. Tuttavia, le proteste popolari costrinsero a ritirare il provvedimento di Tanucci e la chinea fu regolarmente corrisposta fino al 1787. Durante il periodo napoleonico, molti dei regni italiani furono trasformati in stati satelliti della Francia e i loro sovrani vennero deposti; lo stesso papa Pio VII fu deportato in Francia. Proclamando a gran voce i principî della Rivoluzione francese, si abolirono i privilegi tanto del clero che della nobiltà. In realtà la rivoluzione fu, a livello locale, spesso condotta da ecclesiastici e nobili subalterni, che talora colsero l'occasione di tentare in tal modo di ottenere una promozione sociale loro preclusa secondo il precedente ordine tradizionale socio-politico. Le autorità napoleoniche appoggiarono all'interno della Chiesa cattolica le posizioni dei gallicani e dei giansenisti contro quelle degli ultramontani. Furono aboliti ed espropriati gli ordini contemplativi, mentre i beni della Chiesa furono a vario titolo espropriati per finanziare lo Stato. Per la prima volta si mise in discussione l'egemonia sociale del clero a favore delle autorità civili. L'anticlericalismo italiano ebbe notevole sviluppo nella lotta al potere temporale del papa, che costituiva oggettivo impedimento all'unificazione sotto la monarchia sabauda ed alla modernizzazione del Paese. Papa Pio VII, rientrato in Italia, tornò a segregare gli ebrei nel ghetto di Roma, dove resteranno fino alla liberazione nel 1870. Papa Gregorio XVI (1831-1846) bollava il treno come "opera di Satana", mentre il suo segretario di Stato, il cardinal Luigi Lambruschini (1776-1854), osteggiava l'illuminazione a gas e instaurava nello Stato pontificio un regime di arbitrio poliziesco, censura e inquisizione. In questo clima, anche tra gli stessi cattolici liberali italiani presero corpo posizioni di stampo anticlericale; ad esempio, una violenta polemica oppose il padre del cattolicesimo liberale italiano, Vincenzo Gioberti (1801-1852), ai gesuiti e ai cattolici reazionari. Giuseppe Garibaldi, l'eroe nazionale italiano, fu il più celebre degli anticlericali del Risorgimento e definì la Chiesa cattolica una «setta contagiosa e perversa», mentre rivolse a papa Pio IX l'epiteto di "metro cubo di letame". La formazione dello Stato nazionale del 1861 fu preceduta e accompagnata dal tentativo di una riforma religiosa di ispirazione cristiana protestante, sul modello della Chiesa nazionale d'Inghilterra, appoggiata dalle chiese valdesi, memori delle persecuzioni, che, nei propositi di alcuni esponenti delle classi dirigenti piemontesi, si proponeva l'ambizioso obiettivo di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica: la cosiddetta Chiesa Libera Evangelica Italiana. San Leonardo Murialdo scrisse: «Gesù Cristo è bandito dalle leggi, dai monumenti, dalle case, dalle scuole, dalle officine; perseguitato nei discorsi, nei libri, nei giornali, nel papa, nei suoi sacerdoti». Alla Camera, il deputato Filippo Abignente si augurava «che la religione cattolica sia distrutta d'un colpo». Un altro deputato, Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista e patriota durante le insurrezioni del 1848 nel Regno delle Due Sicilie si riprometteva di eliminare con il potere temporale anche il potere spirituale della Chiesa. Il 20 luglio 1862, espresse senza giri di parole la sua avversione contro il Cattolicesimo: «Noi dobbiamo combattere la preponderanza cattolica nel mondo, comunque, con tutti i modi. Noi vediamo, che questo Cattolicismo è uno strumento di dissidio, di sventura, e dobbiamo distruggerlo.... La base granitica della fortuna politica d'Italia deve essere la guerra contro il Cattolicismo su tutta la superficie del mondo». Dopo la presa di Roma, Petruccelli della Gattina promosse l'abolizione della Legge delle Guarentigie e, durante una seduta alla Camera, gridò: «Il principio generale della rivoluzione Italiana è stato l'abolizione del Papato!». Egli voleva fare del sacerdote «un uomo e un cittadino», dargli «la libertà individuale nei limiti dello Stato» e il «diritto d'invocare la protezione della legge comune», il che significava l'abolizione del foro ecclesiastico. Il giornalista fu anche autore di una controversa opera, Memorie di Giuda, in cui l'apostolo viene raffigurato come un rivoluzionario che combatte l'oppressione romana. Il romanzo suscitò un enorme scandalo e trovò problemi di distribuzione, e La Civiltà Cattolica, il maggiore organo di stampa pontificio, lo etichettò «libraccio infame» e l'autore «sporco romanziere». Secondo il laico Giovanni Spadolini, Cavour volle «fissare e delimitare le competenze specifiche della Chiesa nel suo magistero ecclesiastico, escludendola dalla società civile, dal mondo della politica, dall'istruzione, dalla scienza, dove il dominio incondizionato sarebbe stato quello dello Stato e dello Stato soltanto». Tale tentativo prese avvio nel Regno di Sardegna, con la legge del 25 agosto 1848 n. 777 che espelleva tutti i gesuiti stranieri, ne sopprimeva l'ordine e ne incamerava tutti i collegi, convertendoli ad uso militare. Negli anni seguenti i gesuiti furono nell'occhio del ciclone in tutta Italia e dopo il 1848 (durante il quale alcune residenze gesuite furono assaltate da folle inferocite), saranno soppressi in tutti gli Stati italiani (escluso lo Stato pontificio). La legge del 1848 e le analoghe successive saranno caratterizzate da ostilità verso la Chiesa cattolica che, nella visione dei politici di ispirazione liberale (sovente aderenti alla Massoneria), costituiva un freno al progresso civile, ritenendo che la religione non fosse altro che superstizione, mentre la verità andava ricercata avvalendosi del metodo scientifico. Si trattava di un aperto contrasto con la realtà italiana - e soprattutto piemontese - del primo Ottocento, in cui per assenza d'intervento dello Stato era la Chiesa ad organizzare e finanziare scuole, istituzioni sociali e ospedali. Non di rado docenti e scienziati erano essi stessi ecclesiastici. Secondo la studiosa cattolica Angela Pellicciari «la nuova identità che i grandi del mondo progettano per la nazione culla dell'universalismo romano e poi cristiano è anticattolica, mentre la storia, la cultura e la popolazione sono tutte cattoliche.» A partire dal 1850, furono promulgate le leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850, n. 1037 del 5 giugno 1850, e n. 878 del 29 maggio 1855), che abolirono tre grandi privilegi di stampo feudale di cui il clero godeva nel Regno di Sardegna: il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa oltre che per le cause civili anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue), il diritto di asilo, ovvero l'impunità giuridica di chi si fosse macchiato di qualsiasi delitto e fosse poi andato a chiedere rifugio nelle chiese, nei conventi e nei monasteri, e la manomorta, ovvero la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici (stante la loro inalienabilità, e quindi l'esenzione da qualsiasi imposta sui trasferimenti di proprietà). Inoltre, tali provvedimenti normativi disposero il divieto per gli enti morali (e quindi anche per la Chiesa e gli enti ecclesiastici) di acquisire la proprietà di beni immobili senza l'autorizzazione governativa. L'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni venne processato e condannato ad un mese di carcere dopo aver invitato il clero a disobbedire a tali provvedimenti. Fu del 29 maggio 1855 la legge che abolì tutti gli ordini religiosi (tra i quali agostiniani, carmelitani, certosini, cistercensi, cappuccini, domenicani, benedettini) privi di utilità sociale, ovvero che «non attendessero alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi», e ne espropriò tutti i conventi (334 case), sfrattando 3733 uomini e 1756 donne. I beni di questi ordini soppressi furono conferiti alla Cassa ecclesiastica, una persona giuridica distinta ed autonoma dallo Stato. L'iter di approvazione della legge, proposta dal primo ministro Cavour, fu contrastato da re Vittorio Emanuele II e da un'opposizione parlamentare agitata dal senatore Luigi Nazari di Calabiana, vescovo di Casale Monferrato, che determinarono le temporanee dimissioni dello stesso Cavour. Con l'avvento del Regno d'Italia avvenuto nel 1861, il Governo adottò nei confronti della Chiesa (che contrastava l'affermarsi di "compiti di benessere" dello Stato a favore dei cittadini) una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive:

La Legge n. 3036 del 7 luglio 1866 con cui fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.

La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese. Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati. Nel tentativo di colmare i gravi disavanzi causati dalla terza guerra d'indipendenza, nel 1866 il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici a tutto il territorio nazionale e, con la legge del 19 giugno 1873 anche a Roma, la nuova capitale. Negli anni Settanta del XIX secolo il ministro dell'istruzione Cesare Correnti abolì le facoltà teologiche, sottrasse gli educandati femminili siciliani al controllo dei vescovi e infine tentò la soppressione dei direttori spirituali nei ginnasi, ma in seguito alle proteste della Destra dovette rassegnare le dimissioni il 17 maggio 1872. Il tentativo mazziniano di instaurare la Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) fu accompagnato da assassinii di sacerdoti, saccheggi di chiese e requisizioni forzose. Nei pochi mesi di vita della Repubblica, Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova delle nuove idee liberali che allora si diffondevano nel continente, fondando la sua vita politica e civile su principi - quali, in primis, il suffragio universale maschile, la libertà di culto e l'abolizione della pena di morte (facendo seguito, in questo caso, all'esempio del Granducato di Toscana che aveva definitivamente abolito la pena capitale nel 1786) e - che sarebbero diventate realtà in Europa solo circa un secolo dopo. Nella difesa di Roma dall'esercito francese, che accorse a sostenere lo Stato pontificio insieme alle armate austriache, borboniche e spagnole, persero la vita numerosi padri della patria tra cui Goffredo Mameli. Tra i politici di maggior spicco in questa fase storica emerge la figura di Camillo Benso Conte di Cavour, che nel 1861, poco dopo la proclamazione dell'Unita d'Italia, formulò, inascoltato, il principio della «Libera Chiesa in libero Stato», tentando con questa principio di regolare la convivenza tra Chiesa e Stato. Nel 1869 quando venne convocato il Concilio Vaticano I, a Napoli si riunì un anticoncilio di liberi pensatori, soprattutto massoni, organizzato dal deputato Giuseppe Ricciardi. Il Concilio Vaticano I fu poi interrotto dalla presa di Roma e non più convocato. Negli anni seguenti Roma divenne teatro di numerosi episodi di anticlericalismo, soprattutto in occasione di manifestazioni pubbliche: «fra il 1870 e il 1881 si possono contare oltre trenta casi gravi di intolleranza, di provocazione, talora scontri fisici». Per lungo tempo il Papa, rifugiatosi in Vaticano, impose ai cattolici di non partecipare alla vita pubblica del Regno d'Italia con un pronunciamento conosciuto come non expedit. Nel 1850 dopo l'approvazione delle leggi Siccardi nel Regno di Sardegna l'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni fu arrestato per un mese e poi mandato, nelle stesso anno, in esilio a Lione per la sua ferma opposizione alle leggi anticlericali. Dopo l'Unità, circa la metà delle diocesi italiane resterà vacante, per il rifiuto del Governo di concedere il necessario 'placet' o 'exequatur' ai vescovi. Nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere, 16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. A metà degli anni sessanta di 227 sedi vescovili, 108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, fu arrestato il 13 maggio 1860 per non aver voluto cantare il "Te Deum" per Vittorio Emanuele II. Nel luglio dello stesso anno il vescovo di Piacenza Antonio Ranza e dieci canonici furono condannati dal tribunale a quattordici mesi di reclusione per antipatriottismo. Si trattò di una condanna politica, perché il vescovo si era allontanato dalla città in occasione della visita del re e non aveva celebrato la festa dello Statuto. Nelle province meridionali, dopo la spedizione di Garibaldi con vari pretesti furono arrestati e processati 66 vescovi. Durante i quattro anni successivi subirono la stessa sorte anche nove cardinali. Il problema delle sedi vacanti si avviò verso la soluzione nell'ottobre del 1871, quando furono nominati 41 nuovi vescovi. Altri 61 saranno nominati negli anni successivi. Tuttavia, nel 1875 Minghetti annunciava ancora alla Camera che delle 94 domande di exequatur presentate per la nomina di nuovi vescovi, soltanto 28 erano state accettate dal Governo. Dopo l'Unità d'Italia si verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico di Bologna del 9 ottobre 1876 e i tumulti in occasione della traslazione della salma di Pio IX il 13 luglio 1881. Nel 1889, l'erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori avvenne in un contesto di violenta lotta politica in cui si confrontarono le posizioni più oltranziste delle fazioni anticlericali e clericali. L'opera fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari, che più tardi divenne gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Fra i promotori non mancarono toni di sfida al Pontefice, che minacciava di lasciare Roma per rifugiarsi in Austria, e il monumento divenne uno dei simboli dell'anticlericalismo. Francesco Crispi ottenne dal re Umberto I un decreto di destituzione nei confronti del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che aveva fatto una visita ufficiale al cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, portando un messaggio per papa Leone XIII. Nello stesso periodo a Roma la Massoneria metteva in scena sotto i Palazzi apostolici banchetti nei venerdì di Quaresima, per dileggiare il digiuno cristiano. Gli episodi di violenza continueranno anche nella prima parte del XX secolo: fra questi l'assalto alla processione del Corpus Domini a Fabriano, avvenuto il 21 giugno 1911, condotto da socialisti e anticlericali, terminò in un clamoroso processo. Il principale esponente dell'anticlericalismo in ambito accademico e culturale fu il poeta e poi docente di letteratura italiana Giosuè Carducci. Pubblicò nel 1860 nella raccolta Juvenilia la poesia Voce dei preti: «Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo, Quando vessil di servitù la Croce. E campion di tiranni apparve Cristo!» (Giosuè Carducci, Voce dei preti), e nel 1863 l'Inno a Satana, che poi ristamperà nel 1868 in occasione del Concilio Vaticano I. L'anticlericalismo accademico derivò in larga parte dall'adesione di molti docenti al positivismo e allo scientismo. All'università di Torino il positivismo fece la sua comparsa negli anni sessanta del XIX secolo presso la facoltà di medicina, dove insegnava l'olandese Jacob Moleschott. Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, Salvatore Cognetti de Martiis, professore di economia politica garibaldino, e Arturo Graf, docente di letteratura italiana, furono celebri esponenti di teorie anticlericali. Il darwinismo ebbe come centri di diffusione Torino, Pavia e Firenze. Anche l'associazionismo studentesco risentì della polemica anticlericale e costituì un anello di quella che poteva apparire una «koinè positivista e anticlericale largamente condivisa nel mondo accademico». Nel 1871 i professori dell'Università di Roma furono chiamati a pronunziare il giuramento di fedeltà al re e allo Statuto. I professori della facoltà di teologia furono esentati dal giuramento, ma in maggioranza si rifiutarono di riprendere l'insegnamento in un ambiente ora ostile. Papa Pio IX li ricevette in udienza dicendo loro: «L'Università, quale ora è divenuta, non è più degna delle vostre dottrine e di voi, e voi stessi vi contaminereste varcando quelle soglie, entro le quali si insegnano errori così perniciosi». Appelli analoghi furono rivolti agli studenti e fu dato vita ad un tentativo di un'università alternativa. Quando però il tentativo fallì, agli studenti fu concesso di frequentare le università statali, ammonendoli però ad evitare l'influsso dei cattivi maestri. All'Università di Catania fu professore di letteratura italiana Mario Rapisardi, spirito anticlericale e garibaldino, che considerava le religioni come intralcio al progresso scientifico e morale. Il ritiro dei docenti della facoltà di teologia diede occasione allo Stato di sopprimere le facoltà di teologia con la legge Scialoja-Correnti del 26 gennaio 1873, determinando la scomparsa degli studi ecclesiastici dalle università di Stato. Al di fuori dell'ambito strettamente accademico, ebbe straordinario successo la letteratura di Edmondo De Amicis, che proponeva con il libro Cuore un codice di morale laica e quella di poeti come Antonio Ghislanzoni, librettista di Giuseppe Verdi, Felice Cavallotti, che fu anche un celebre politico e deputato, e Olindo Guerrini, che nel 1899 fu condannato e poi assolto in appello per diffamazione del vescovo di Faenza. Cavalli di battaglia dell'anticlericalismo divennero in questo periodo una ricostruzione storica in stile illuminista, a volte arbitraria, del Medioevo (i secoli bui), la leggenda della Papessa Giovanna, la classificazione della storia delle Crociate come guerra di religione, e della lotta alle eresie in generale e dell'Inquisizione in particolare come fenomeni dell'intolleranza cristiana (vedi Leggenda nera dell'Inquisizione). L'anticlericalismo non restò confinato alle classi dirigenti, ma trovò eco anche nelle società operaie e di mutuo soccorso di fine ottocento, prevalentemente di ispirazione socialista. Secondo questa ideologia, Gesù Cristo era stato il "primo socialista", ma il suo insegnamento era stato corrotto dalla Chiesa ("dai preti") per tornaconto. Un esempio emblematico di questa ideologia fu La predica di Natale del 24 dicembre 1897 di Camillo Prampolini. Diffuse erano anche le rappresentazioni teatrali di spettacoli anticlericali: ad esempio nel 1851 a Vercelli erano in scena due commedie, intitolate "Gli orrori dell'Inquisizione" e "Il diavolo e i Gesuiti". A Roma il primo carnevale dopo Porta Pia fu organizzato dall'associazione anticlericale "Il Pasquino", che propose numerose parodie. Un enorme dito di cartapesta fu fatto sfilare per le vie di Roma: era il "dito di Dio", una formula tipica con cui la stampa cattolica commentava sventure e disgrazie. L'anticlericalismo trovò eco anche in polemiche giornalistiche, che spesso vedevano confrontarsi giornali di tendenze opposte. A Torino la Gazzetta del Popolo diretta dall'anticlericale Felice Govean, che fu anche gran maestro del Grande Oriente d'Italia, battagliava contro l'Armonia cattolica, diretta da Giacomo Margotti. Le vendite vedevano primeggiare il foglio anticlericale, che distribuiva 10 000 copie contro le 2 000 del concorrente. Il Partito Nazionale Fascista, guidato da Benito Mussolini, fortemente anticlericale e ateo in gioventù, presentava inizialmente, influenzato anche dal futurismo, un programma di "svaticanizzazione" dell'Italia, con progetti di sequestri di beni ed abolizione di privilegi. Ma Mussolini, dopo essere diventato duce dell'Italia fascista, resosi conto del gran peso sociale e culturale che la Chiesa cattolica rivestiva nel Paese, cambiò i suoi propositi iniziali e volle concordare un'intesa con la Chiesa al fine di consolidare e accrescere il proprio potere, ancora instabile, ed ottenere un più ampio consenso di popolo. Tuttavia il capo del fascismo intimamente rimaneva un ateo anticlericale, come testimoniano la sua nota avversione a farsi fotografare accanto a religiosi e la conseguente censura di tutti i ritratti in cui era presente qualche prelato o simile e la confidenza che Dino Grandi fece a Indro Montanelli nella quale raccontava come Mussolini, appena uscito dal palazzo Laterano in cui l'11 febbraio 1929 aveva appena firmato il concordato, bestemmiò pesantemente per sottolineare la sua personale avversione alla Chiesa cattolica e ai preti. L'accordo con la Segreteria di Stato vaticana per la stipula dei Patti Lateranensi, formalmente siglati nel1929 avvenne grazie ad un atteggiamento, nonostante le differenti visuali, diplomaticamente dialogante tra le parti. In cambio il dittatore impose una compressione dello spazio di intervento dell'Azione Cattolica, unica organizzazione giovanile non fascista che sopravvisse durante il regime. Con quest'accordo ci furono alcuni membri del clero, a vari livelli, che diedero la loro adesione, come cittadini italiani, al fascismo. Nello stesso Partito Popolare Italiano, una parte dei membri aderì al governo fascista ante-dittatura, contro il parere di don Luigi Sturzo. Il partito subì una forte crisi che fu determinante per l'ascesa del PNF. Ci furono così aspetti, come nel regime franchista spagnolo, di cosiddetto clericofascismo. Alla caduta del fascismo, mentre i gerarchi e i rappresentanti della monarchia fuggivano, le autorità ecclesiastiche rimasero al loro posto, svolgendo, a volte in collaborazione con il CLN, opere caritatevoli e assistenziali a vantaggio della popolazione, esercitando nel contempo un ruolo civile e sociale. Questo interesse degli ecclesiastici per le questioni politiche ed economiche si scontrava sia con la cultura liberale, che riduceva il problema religioso alla sfera individuale, sia con la cultura marxista, che annoverava le religioni fra le forze reazionarie. Se la Chiesa pretendeva di offrire alla società i valori fondamentali su cui costruire la democrazia, marxisti e liberali consideravano un'indebita ingerenza ogni intervento della Chiesa nell'ambito sociale e politico. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'anticlericalismo ebbe le sue espressioni, seppur in forma minoritaria ed incostante, nel Partito Comunista Italiano, nel Partito Repubblicano Italiano e nel Partito Socialista per divenire centrale nell'attività del Partito Radicale a partire dagli anni settanta, in contrapposizione alla Democrazia Cristiana e all'influenza vaticana nella politica italiana. Uno dei punti principali di contrasto fu la scure censoria che si abbatté sulle migliori opere cinematografiche italiane del dopoguerra, accusati di offesa alla morale o vilipendio della religione cattolica, partendo da La dolce vita di Federico Fellini, a La ricotta di Pier Paolo Pasolini, fino a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Gli anticlericali sostennero che questi furono solo alcuni esempi tra i tanti di come la morale cattolica influenzasse ed imponesse il proprio punto di vista anche in materia di arte e spettacolo. Si impegnò in una lunga filmografia anticlericale il regista Luigi Magni, che diresse Nell'anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990), una trilogia ambientata nella Roma papalina del Risorgimento. Il fronte laico riuscì ad ottenere l'istituzione del divorzio (1970, confermato dopo il referendum abrogativo del 1974) e la legalizzazione dell'aborto (1978). Nel 1984 il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi attuò una revisione dei Patti Lateranensi, rimuovendo la prerogativa di «Religione di Stato» in precedenza accordata alla Chiesa cattolica. Venne mantenuto, seppur rendendolo facoltativo, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, affidato a insegnanti pagati dallo Stato ma nominati dalla Curia, e l'esenzione dal pagamento delle imposte sugli immobili di proprietà della Chiesa cattolica in cui vengono svolte attività "che non abbiano natura esclusivamente commerciale". Contestualmente venne introdotta la destinazione dell'otto per mille del gettito IRPEF dei contribuenti a 7 confessioni religiose, tra cui la Chiesa cattolica. L'otto per mille viene destinato alle varie confessioni in proporzione delle scelte espresse dai soli contribuenti che forniscono un'indicazione al riguardo. La quota del reddito dei contribuenti che non ha espresso alcuna scelta viene, in altre parole, ripartita tra le confessioni religiose che hanno siglato l'intesa con lo stato italiano in misura pari alla percentuale delle scelte espresse. Per esempio, nel 2000 il 35% degli italiani si espresse a favore della Chiesa cattolica, il 5% circa a favore dello Stato o di altre religioni, e il 60% non espresse alcuna scelta. Di conseguenza, l'87% del gettito è stato devoluto alla Conferenza Episcopale Italiana. Dal 1984 gli anticlericali italiani, inizialmente dell'area anarchica e libertaria, in seguito anche i socialisti, i radicali, i liberali e i comunisti si diedero appuntamento per discutere dei maggiori temi politici di confronto e scontro con il Vaticano, ai Meeting anticlericali di Fano presso i quali, nel 1986, venne fondata anche l'Associazione per lo Sbattezzo. Oggi è contestato, da taluni, in una società sempre più secolarizzata, l'intervento della Chiesa cattolica, mediante indicazioni di comportamento ai fedeli e indicazioni di voto ai parlamentari cattolici, sull'azione legislativa e regolamentare dello Stato. Si ricorda la presa di posizione del cardinale Camillo Ruini nel referendum sulla procreazione assistita del 2005, rivolte in particolare contro l'utilizzo delle cellule staminali embrionali, e quelle di vari esponenti e prelati cattolici contro le unioni civili, l'eutanasia e il testamento biologico, oltre che la controversia sull'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Dalla parte della Chiesa invece si rivendica un diritto alla parola e un dovere morale nella guida del cristiano su questioni etiche.

Anticlericalismo in Francia. «La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l'ultima pietra dell'ultima chiesa non sarà caduta sull'ultimo prete.» (Émile Zola). Voltaire, illuminista e anticlericale, autore del motto Écrasez l'Infâme ("schiacciate l'infame"), con cui incitò alla lotta contro la Chiesa e il fanatismo religioso. A partire dall'Illuminismo, si sviluppò in Francia una forte corrente anticlericale, che ebbe la sua piena espressione in alcune leggi varate durante la Rivoluzione Francese, come la costituzione civile del clero, l'obbligo di sposarsi o abbandonare i voti per i preti, la trasformazione delle chiese in templi della Ragione, il calendario rivoluzionario francese e il culto dell'Essere Supremo, l'introduzione del matrimonio civile e del divorzio. Anche Napoleone varò una politica di separazione tra Stato e Chiesa.

In un contesto politico anticlericale, il 7 dicembre 1830 i redattori de L'Avenir, giornale cattolico liberale, riassumono le loro rivendicazioni: chiedono libertà di coscienza, separazione tra Stato e Chiesa, libertà d'insegnamento, di stampa, d'associazione, decentramento amministrativo ed estensione del diritto elettorale. L'anticlericalismo è un tema di particolare rilevanza nel contesto storico della Terza Repubblica e nelle divergenze che ne derivarono con la Chiesa cattolica. Gli eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina(1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy, possono essere considerati come gli effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. Tuttavia, prima del 1905, la Chiesa godeva di un trattamento preferenziale da parte dello stato francese (insieme alle minoranze ebraiche, luterane e calviniste). Nel corso dell'Ottocento, sacerdoti insegnavano nelle scuole pubbliche tutte le materie, religione compresa. E inoltre la Chiesa fu implicata in attacchi antisemiti come nell'Affare Dreyfus. Di conseguenza molti appartenenti alla sinistra chiesero la separazione tra Chiesa e Stato e l'imposizione di una reale laicità. Si noti che la divisione tra "clericali" e "anticlericali" non aderisce esattamente alle categorie di "credenti" e "non credenti" poiché alcuni cattolici, come Victor Hugo, pensavano che la Chiesa non dovesse intervenire nella vita politica, mentre non credenti come Charles Maurras favorivano il potere temporale della Chiesa perché ritenevano fosse essenziale per la coesione del Paese e per i loro obiettivi politici (vedi anche reazionario). Dal punto di vista culturale non mancavano rappresentazioni anticlericali nei teatri, come la commedia Pourquoi elles vont à l'église di Nelly Roussel. In definitiva, la separazione del 1905 tra Stato e Chiesa innescò aspre polemiche e forti controversie, la maggioranza delle scuole cattoliche e delle fondazioni educative venne chiusa e molti ordini religiosi furono sciolti. Papa Pio X reagì con tre diverse encicliche di condanna: la Vehementer Nos dell'11 febbraio 1906, la Gravissimo Officii Munere del 10 agosto dello stesso anno e l'Une Fois Encore del 6 gennaio 1907.

Anticlericalismo in Messico. In seguito alla rivoluzione del 1860, il presidente Benito Juárez, appoggiato dal governo statunitense, varò un decreto per la nazionalizzazione delle proprietà ecclesiastiche, separando Chiesa e Stato e sopprimendo gli ordini religiosi. All'inizio degli anni dieci del XX secolo, i Costituzionalisti di Venustiano Carranza denunciarono l'ingerenza clericale nella politica messicana. Protestavano di non perseguitare il Cattolicesimo, ma di voler ridurre l'influenza politica della Chiesa. Tuttavia, la campagna dei Costituzionalisti non sfociò immediatamente in un nessun'azione formale. Il movimento dei Costituzionalisti rappresentava gli interessi degli Stati Uniti d'America e delle sue lobby massoniche. Successivamente Álvaro Obregón e i Costituzionalisti intrapresero delle misure volte a ridurre la profonda influenza politica della Chiesa cattolica. Il 19 maggio 1914, le forze di Obregón condannarono il vescovo Andrés Segura e altri uomini di Chiesa a 8 anni di carcere per la loro presunta partecipazione ad una ribellione. Durante il periodo in cui Obregón ebbe il controllo di Città del Messico (febbraio 1915), impose alla Chiesa il pagamento di 500.000 pesos per alleviare le sofferenze dei poveri. Venustiano Carranza assunse la presidenza il 1º maggio 1915. Carranza e i suoi seguaci ritenevano che il clero sobillasse il popolo contro di lui attraverso la propaganda. Divennero sempre più frequenti le violenze, tollerate dalle autorità, nei confronti dei cattolici: nel 1915 vennero assassinati ben 160 sacerdoti. Subito dopo che Carranza ebbe il totale controllo del Messico, emanò una nuova Costituzione con l'intento di ridurre il potere politico della Chiesa.

La Costituzione del 1917. Nella Costituzione Messicana furono introdotti articoli anticlericali:

L'articolo 3 rese obbligatoria l'istruzione laica nelle scuole messicane.

L'articolo 5 mise fuori legge i voti religiosi e gli ordini religiosi.

L'articolo 24 proibì il culto fuori dagli edifici ecclesiastici.

Con l'articolo 27 alle istituzioni religiose fu negato il diritto di acquisire, detenere o amministrare beni immobili e tutti i beni ecclesiastici, compresi quelli di scuole e ospedali, furono dichiarati proprietà nazionale.

Con l'articolo 130 il clero fu privato del diritto di voto e del diritto di commentare questioni politiche.

Il governo messicano fu estremamente pervicace nel suo intento di eliminare l'esistenza legale della Chiesa cattolica in Messico. La costituzione ebbe il risultato di acuire il conflitto fra Chiesa e Stato. Per otto anni questi provvedimenti non furono rigorosamente messi in atto dal governo messicano. Intanto le violenze continuavano. Nel 1921 un attentatore tentò di distruggere il più importante simbolo del cristianesimo messicano: il mantello con l'immagine della Madonna di Guadalupe, conservato nell'omonimo santuario. La bomba, nascosta in un mazzo di fiori deposto vicino all'altare, produsse gravi danni alla basilica. Questa politica ebbe termine nel giugno del 1926, quando il Presidente del Messico Plutarco Elías Calles (che affermava che "la Chiesa è la sola causa di tutte le sventure del Messico"), emanò un decreto noto come “Legge Calles”, con cui metteva in atto l'articolo 130 della Costituzione. La Chiesa era urtata dalla rapidità della decisione di Calles e in particolare dall'articolo 19, che prevedeva la registrazione obbligatoria del clero, perché permetteva al governo di immischiarsi negli affari religiosi. La Chiesa cattolica prese quindi posizione contro il governo. I cattolici messicani, di concerto con il Vaticano, risposero inizialmente con iniziative di protesta non violente, tra le quali il boicottaggio di tutti i prodotti di fabbricazione statale (ad esempio il consumo di tabacchi crollò del 74%) e la presentazione di una petizione che raccolse 2 milioni di firme (su 15 milioni di abitanti). Il governo non diede alcuna risposta e la Chiesa decise infine un estremo gesto simbolico: la sospensione totale del culto pubblico. A partire dal 1º agosto 1926, in tutto il Messico non si sarebbe più celebrata la Messa né i sacramenti, se non clandestinamente. Il 18 novembre papa Pio XI denunciò la persecuzione dei cattolici messicani con l'enciclica Iniquis Afflictisque. Lo scontento degenerò in aperte violenze quando oltre 5.000 Cristeros diedero inizio ad una ribellione armata. Il governo messicano e i cattolici ingaggiarono un sanguinoso conflitto che durerà per tre anni. Nel 1927 si formò un vero e proprio esercito ribelle, forte di ventimila uomini, che in seguito aumentarono fino a cinquantamila, al comando del generale Enrique Gorostieta Velarde. All'esercito si affiancavano le "brigate Santa Giovanna d'Arco", formazioni paramilitari femminili che giunsero a contare 25000 membri, tra cui anche giovani di soli 14 anni. Tra il 1927 e il 1929 tutti i tentativi di schiacciare la ribellione fallirono; gli insorti anzi presero il controllo di vaste zone nel sud del paese. La Chiesa messicana e il Vaticano, tuttavia, non diedero mai il loro aperto sostegno alla ribellione (il che non impedì al governo di giustiziare anche numerosi sacerdoti che non ne facevano parte), e agirono per giungere ad una soluzione pacifica. Il 21 giugno 1929 furono così firmati gli Arreglos ("accordi"), che prevedevano l'immediato cessate il fuoco e il disarmo degli insorti. I termini dell'accordo, mediati (o piuttosto imposti) dall'ambasciatore degli Stati Uniti, erano però estremamente sfavorevoli alla Chiesa: in pratica tutte le leggi anticattoliche rimanevano in vigore. Questo periodo di anticlericalismo messicano ha ispirato a Graham Greene la scrittura del romanzo Il potere e la gloria.

Anticlericalismo in Portogallo. Nel 1750 il Portogallo fu il primo paese ad espellere i gesuiti.

Una prima ondata di anticlericalismo si verificò nel 1834 sotto il regno di Pietro IV, quando il ministro Joaquim António de Aguiar decretò la soppressione degli ordini religiosi. Parallelamente, alcune delle più note scuole religiose del Portogallo furono obbligate a cessare l'attività. In questo periodo lo scrittore e politico Almeida Garrett pubblicò la commedia anticlericale A sobrinha do Marquês (1848). La caduta della monarchia a seguito della Rivoluzione repubblicana del 1910 causò un'ulteriore ondata di anticlericalismo. La rivoluzione colpì in primo luogo la Chiesa cattolica: vennero saccheggiate le chiese, vennero attaccati i conventi. Furono presi di mira anche i religiosi. Il nuovo governo inaugurò una politica anticlericale. Il 10 ottobre il nuovo governo repubblicano decretò che tutti i conventi, tutti i monasteri e tutte le istituzioni religiose fossero soppresse: tutti i religiosi venivano espulsi dalla repubblica e i loro beni confiscati. I gesuiti furono costretti a rinunciare alla cittadinanza portoghese. Seguirono, in rapida successione, una serie di leggi anticattoliche: il 3 novembre venne legalizzato il divorzio. In seguito passarono leggi che legittimavano i figli nati fuori dal matrimonio, che autorizzavano la cremazione, che secolarizzavano i cimiteri, che sopprimevano l'insegnamento religioso a scuola e che proibivano di indossare l'abito talare. Inoltre al suono delle campane e ai periodi di adorazione furono poste alcune restrizioni e la celebrazione delle feste popolari fu soppressa. Il governo interferì anche nei seminari, riservandosi il diritto di nominare i professori e determinare i programmi. Questa lunga serie di leggi culminò nella legge di separazione fra Chiesa e Stato che fu approvata il 20 aprile 1911. Il 24 maggio dello stesso anno papa Pio X deplorò la legge portoghese con l'enciclica Iamdudum.

Anticlericalismo in Spagna. Già tra il XV ed il XVI secolo si nota nella letteratura e nel teatro spagnolo la presenza di opere, o parti di esse, di contenuto anticlericale, spesso generate dall'ammirazione per Erasmo da Rotterdam. Si nota quindi Alfonso de Valdés, con la sua Discorso de Latancio y del Arcediano, dove si compiace di descrivere la corruzione della Roma papale punita con il sacco di Roma; a causa del controllo esercitato dal Sant'Uffizio, si trovano tracce di anticlericalismo celato, come nella commedia di Luis Belmonte Bermúdez, El diablo predicador, o negli aforismi perduti di Miguel Cejudo. In seguito alla prima guerra carlista del 1836, il nuovo regime chiuse i maggiori conventi e monasteri della Spagna. In questo contesto, il radicale Alejandro Lerrouxsi caratterizzava per un'oratoria violenta e incendiaria. Dal punto di vista economico la Chiesa cattolica in Spagna fu pesantemente colpita dalle leggi di esproprio e confisca dei beni ecclesiastici, che si susseguirono dal 1798 al 1924: il più famoso di questi provvedimenti è noto con il nome di Desamortización di Mendizábal del1835. Circa un secolo dopo, instaurata la Seconda repubblica e approvata la Costituzione del 1931, proseguì la legislazione anticlericale, inaugurata il 24 gennaio 1932con lo scioglimento in Spagna della Compagnia di Gesù e l'esilio della maggioranza dei gesuiti. Il 17 maggio 1933, il governo varò la controversa Legge sulle Confessioni e Congregazioni Religiose (Ley de Confesiones y Congregaciones Religiosas), approvata dal parlamento il 2 giugno 1933, e regolamentata mediante un decreto del 27 luglio[54]. La legge confermava la proibizione costituzionale dell'insegnamento per gli ordini religiosi, mentre si dichiararono di proprietà pubblica i monasteri e le chiese. La legge fu un duro colpo al sistema scolastico (le scuole gestite dagli ordini religiosi contavano 350.000 alunni) in un Paese dove il 40% della popolazione era analfabeta. Reagì contro la legge papa Pio XI, con l'enciclica Dilectissima Nobis del 3 giugno 1933. Durante la guerra civile spagnola del 1936, molti appartenenti all'armata Repubblicana erano volontari anarchici e comunisti fortemente anticlericali e provenienti da varie parti del mondo. Nel corso dei loro assalti, (in risposta all'atteggiamento del clero, che con toni da crociata si era schierato dalla parte dell'insurrezione antirepubblicana di Francisco Franco e che denunciava spesso gli anarchici alle autorità, condannandoli a morte certa) parecchi edifici di culto e monasteri vennero bruciati e saccheggiati. Al termine del conflitto, la stima delle vittime religiose ascende a più di 6.000 religiosi trucidati, tra cui 259 clarisse, 226 francescani, 155 agostiniani, 132 domenicani e 114 gesuiti. Gli episodi raccapriccianti non furono isolati: stupri di suore, fucilazioni rituali di statue di santi, preti cosparsi di benzina e arsi, taglio di orecchie e genitali "papisti" e persino corride con sacerdoti al posto di tori[55]. La stragrande maggioranza della Chiesa cattolica salutò la vittoria di Franco, militarmente sostenuto da Hitler e Mussolini, come un provvidenziale intervento divino nella storia di Spagna. Nonostante la guerra fosse stata per Hitler nient'altro che il banco di prova della tragedia che stava preparando per l'Europa, papa Pio XII nel suo radiomessaggio del 16 aprile 1939, Con immensa gioia, parlò di una vera e propria vittoria "contro i nemici di Gesù Cristo". La Chiesa cattolica, sotto il papato di Giovanni Paolo II, tra il 1987 ed il 2001 ha riconosciuto e canonizzato 471 martiri della guerra civile spagnola; altri 498 sono stati poi beatificati nel 2007 da Benedetto XVI. Recentemente, anche il premier Zapatero è stato avvicinato all'anticlericalismo per le sue politiche laiche.

Anticlericalismo negli Stati Uniti. L'anticlericalismo statunitense (o meglio l'anticattolicesimo) degli anni cinquanta del secolo XIX trovò espressione nel Know Nothing: un movimento xenofobo ("nativista"), che traeva forza dalle paure popolari che il paese potesse essere sopraffatto dall'immigrazione massiccia dei cattolici irlandesi, ritenuti ostili ai "valori americani" e controllati dal papa. Sebbene i cattolici asserissero di essere politicamente indipendenti dal clero, i protestanti accusavano papa Pio IX di aver posto fine alla Repubblica Romana e di essere un nemico della libertà, della democrazia e del protestantesimo. Questi rilievi fomentarono teorie di cospirazione che attribuivano a Pio IX il disegno di soggiogare gli Stati Uniti mediante un'immigrazione continua di cattolici controllati da vescovi irlandesi obbedienti e personalmente selezionati dal Pontefice. Un'eco di anticlericalismo è presente nelle elezioni presidenziali del 1928, in cui il Partito Democratico candidò il governatore dello stato di New York Al Smith, (il primo cattolico candidato alla presidenza da un grande partito), che fu attaccato come "papista". L'elettorato temeva che "se Al Smith fosse eletto presidente, gli Stati Uniti sarebbero governati dal Vaticano". L'anticlericalismo ha trovato anche esponenti laici, non legati al protestantesimo e all'opposizione agli immigrati, in epoca recente: ad esempio il giornalista anglo-americano Christopher Hitchens, accusato spesso di anticattolicesimo, ateo e antislamista; i laici americani riprendono le posizioni del presidente Thomas Jefferson che fu uno dei più forti sostenitori di uno stato non legato alla religione all'epoca della nascita degli Stati Uniti. Uno dei cavalli di battaglia più recenti degli anticlericali statunitensi è la lotta contro l'ingerenza evangelicista nella politica interna nonché la critica contro il clero cattolico per loscandalo pedofilia che ha coinvolto molte diocesi americane.

Anticlericalismo nella Germania nazista. La propaganda nazista ebbe tratti anticlericali. Ad esempio Himmler, capo supremo delle SS e della Gestapo, riprende alcuni motivi cari all'anticlericalismo: la depravazione e perversione del clero, la svalorizzazione della donna, la corruzione della grandezza di Roma: «Sono assolutamente convinto che tutto il clero e il cristianesimo cercano soltanto di stabilire un'associazione erotica maschile e a mantenere questo bolscevismo che esiste da duemila anni. Conosco molto bene la storia del cristianesimo a Roma, e ciò mi permette di giustificare la mia opinione. Sono convinto che gli imperatori romani, che hanno sterminato i primi cristiani, hanno agito esattamente come noi con i comunisti. A quell'epoca i cristiani erano la peggior feccia delle grandi città, i peggiori ebrei, i peggiori bolscevichi che vi possiate immaginare. Il bolscevismo di quell'epoca ha avuto il coraggio di crescere sul cadavere di Roma. Il clero di quella Chiesa cristiana che, più tardi, ha sottomesso la Chiesa ariana dopo lotte infinite, cerca, dal IV o V secolo, di ottenere il celibato dei preti. [...]dimostreremo che la Chiesa, sia a livello dei dirigenti che a quello dei preti, costituisce nella maggior parte un'associazione erotica di uomini che terrorizza l'umanità da 1.800 anni, che esige che questa umanità le fornisca una grandissima quantità di vittime e che, nel passato, si è dimostrata sadica e perversa. Posso soltanto citare i processi alle streghe e agli eretici.» (Testo del discorso segreto tenuto da Heinrich Himmler il 17-18 febbraio 1937 ai generali delle SS in relazione ai "pericoli razziali e biologici dell'omosessualità. Ciononostante, il Partito del Centro Cattolico di Germania, guidato da Franz von Papen, aveva appoggiato l'ascesa del nazismo in Germania e, nel gennaio 1933, la nomina di Hitler a Cancelliere, di cui von Papen divenne vice-Cancelliere. Nel marzo dello stesso anno, il partito di von Papen votò la concessione dei pieni poteri a Hitler in cambio di privilegi che sarebbero stati concessi alla Chiesa nel Concordato con la Germania nazista, che venne firmato nel 4 mesi più tardi dal cardinale Pacelli (futuro papa Pio XII). Hitler stesso aveva dichiarato più volte ai suoi collaboratori la sua ostilità verso la Chiesa: "Ho conquistato lo Stato a dispetto della maledizione gettata su di noi dalle due confessioni, quella cattolica e quella protestante. (13 dicembre 1941) I preti oggi ci insultano e ci combattono, si pensi per esempio alla collusione tra la Chiesa e gli assassini di Heydrich. Mi è facile immaginare come il vescovo von Galen sappia perfettamente che a guerra finita regolerò fino al centesimo i miei conti con lui... (4 luglio 1942) - I preti sono aborti in sottana, un brulichio di cimici nere, dei rettili: la Chiesa cattolica stessa non ha che un desiderio: la nostra rovina- La dottrina nazionalsocialista è integralmente antiebraica, cioè anticomunista ed anticristiana. (Notte tra il 29 e il 30 novembre 1944) - schiaccerò la chiesa come un rospo " e aveva mostrato con fatti concreti il suo anticlericalismo, violando continuamente il Reichskonkordat. Oltre a far togliere i crocefissi dalle aule scolastiche e pubbliche, nella sola Germania più di un terzo del clero secolare e un quinto circa del clero regolare, ossia più di 8000 sacerdoti furono sottoposti a misure coercitive (prigione, arresti illegali, campi rieducativi), 110 morirono nei campi di concentramento, 59 furono giustiziati, assassinati o perirono in seguito ai maltrattamenti ricevuti.

Anticlericalismo in Argentina. Durante il primo periodo peronista, ci furono alcuni atteggiamenti e leggi anticlericali. Inizialmente i rapporti tra il governo di Juan Domingo Perón e di sua moglie Evita e le gerarchie ecclesiastiche furono buoni, e il peronismo non era affatto antireligioso, ma si incrinarono quando Perón legalizzò l'aborto e facilitò il divorzio, introducendo leggi che ostacolavano l'istruzione religiosa. Il governo di Juan Domingo Perón in un primo momento fu legato alle Forze Armate, e l'esercito e la Chiesa erano all'epoca considerati il baluardo contro le ideologie socialiste e comuniste. La Chiesa, inoltre, sosteneva la dottrina politica della "giustizia sociale", e condivideva con il peronismo l'idea che fosse compito dello Stato mediare nei conflitti di classe e livellare le disuguaglianze sociali. Ci furono, tuttavia, settori della Chiesa cattolica, già reduce dai provvedimenti antiecclesiastici del Messico di Calles un ventennio prima, che accusavano il peronismo di statalismo per l'eccessiva interferenza del governo nazionale nella vita privata e in contesti che non gli competevano. Il motivo della critica era dovuto anche al fatto che spesso lo Stato invadeva le sfere tradizionalmente di competenza della Chiesa nel momento in cui si interessava, ad esempio, dei piani di assistenza e della pubblica educazione. Le alte gerarchie ecclesiali argentine erano rimaste alleate dell'oligarchia, nonostante la Costituzione del 1949 trattasse con moltissimo riguardo il cattolicesimo, facendone religione di Stato nell'articolo 2, e affermasse che il Presidente dovesse essere un cattolico. Nel 1946 il Senato approvò una legge che riaffermava e confermava tutti i decreti stabiliti dalla giunta militare del precedente governo dittatoriale. Tra questi decreti c'era anche la legge sull'istruzione religiosa obbligatoria varata nel 1943. Questa legge era stata duramente discussa alla Camera dei Deputati, ed era passata solo grazie al voto dei peronisti. Gli argomenti che apportarono a favore della legge furono nazionalistici ed antiliberali: si sottolineò il legame esistente tra l'identità della nazione e il profondo cattolicesimo della Spagna, e si enfatizzò il ruolo che la religione avrebbe avuto nella formazione delle coscienze e della società. Questa riaffermazione della legge sull'educazione religiosa, tuttavia, limitò i poteri della Chiesa dando ragione a coloro che all'interno della stessa Chiesa tacciavano il peronismo di statalismo: i programmi scolastici e i contenuti dei libri di testo erano responsabilità dello Stato, il quale avrebbe potuto consultare le autorità ecclesiastiche qualora ce ne fosse stato bisogno; le altre materie scolastiche continuarono ad essere insegnate secondo lo spirito della Legge 1420 del 1884, e quindi continuarono a seguire la tradizione laicista dello stile di formazione argentino; l'educazione scolastica divenne un mezzo di propaganda per il culto della personalità del Presidente e di sua moglie Eva; nel giugno 1950, infine, Perón nominò Armando Méndez San Martín, un massone anticattolico, Ministro della Pubblica Istruzione, cominciando a guardare la Chiesa con sospetto. Durante il suo secondo mandato Perón non condivise l'aspirazione della Chiesa di promuovere partiti politici cattolici. Infine, alcune leggi peroniste provocarono malumori tra i vescovi: nel 1954 il governo soppresse l'educazione religiosa nelle scuole, tentò di legalizzare la prostituzione, di far passare una legge sul divorzio, e di promuovere un emendamento costituzionale per separare completamente Stato e Chiesa. Perón, poi, accusò pubblicamente il clero di sabotaggio. Il 14 giugno1955, durante la festa del Corpus Domini, i vescovi Manuel Tato e Ramón Novoa fecero discorsi antigovernativi. Fu il punto di rottura: durante quella stessa notte gruppi di peronisti attaccarono e bruciarono alcune chiese di Buenos Aires. Perón divenne apertamente anticlericale e, due giorni dopo questi fatti, venne scomunicato da papa Pio XII. Perón venne deposto nel 1955, ma tornò al potere nel 1973. Alla sua morte (1974) il potere passò alla terza moglie Isabelita Perón, che venne deposta a sua volta da un golpe militare. La dittatura di Jorge Rafael Videla, sosteneva la religione come mezzo di controllo sociale, anche se vi furono molti preti e religiosi che finirono nel numero dei desaparecidos. Con il ritorno della democrazia, ci sono stati alcuni contrasti fra la Chiesa e il governo di Néstor e Cristina Fernández de Kirchner.

Campagna elettorale per la Costituzione dell'Ecuador. In occasione del referendum costituzionale del settembre 2008, la Chiesa cattolica ha preso posizione guidando il fronte del no e ha invitato gli elettori a votare contro la proposta dell'Assemblea costituente ecuadoriana perché, a giudizio dei vescovi, la nuova Costituzione non avrebbe tutelato il diritto alla vita del concepito, lasciando intravedere il diritto per le donne all'aborto. La nuova Costituzione ecuadoriana, all'articolo 66.3.a, tutela infatti l'integrità fisica, psichica, morale e sessuale di ogni persona, senza specificare, come avrebbe voluto la Chiesa, un primato del concepito sulla madre. L'articolo 66.9 garantisce il diritto di decidere sulla propria sessualità e orientamento sessuale. L'articolo 66.10 garantisce il diritto di decidere quanti figli generare e quando. Secondo i vescovi gli articoli sarebbero vaghi e generici e permetterebbero l'introduzione del diritto all'interruzione di gravidanza e del matrimonio omosessuale. Il governo di Rafael Correa ha reagito fermamente alle critiche avanzate dai vescovi cattolici, invitando gli elettori a non farsi catechizzare dai preti, accusati, senza mezzi termini, di mentire e di esercitare indebite ingerenze nella politica nazionale. Il presidente del Tribunale supremo elettorale, Jorge Acosta, ha invitato pubblicamente la Conferenza Episcopale Ecuadoriana a registrarsi come soggetto politico per continuare la sua «campagna di catechesi costituzionale», accusandola al contempo di non aver rispettato le norme giuridiche e di non aver nominato un tesoriere per il finanziamento della campagna stessa. L'episcopato cattolico ha invocato il diritto di esprimere la propria opinione richiamandosi alla Dichiarazione universale dei diritti umani e ha protestato per gli epiteti offensivi rivolti a vescovi e sacerdoti nella campagna del governo, costata milioni di dollari. Anche il Centro Latinoamericano dei Diritti Umani ha espresso la sua preoccupazione per gli attacchi verbali del presidente Correa contro la Conferenza Episcopale. Gli elettori ecuadoriani hanno poi, nel referendum, approvato la Costituzione con un'ampia maggioranza di circa il 64% contro circa il 29%. Durante la visita ad limina a papa Benedetto XVI nell'ottobre del 2008, i vescovi ecuadoriani hanno espresso disappunto per i rapporti con il governo ecuadoriano, giudicato anticlericale.

Anticlericalismo negli Stati comunisti. Molti governi comunisti, che praticavano l'ateismo di Stato, sono stati violentemente anticlericali, abolendo le festività religiose, imponendo il solo insegnamento dell'ateismo nelle scuole, chiudendo chiese, monasteri, scuole ed istituti religiosi. Il culto privato rimase ufficialmente consentito, tranne nell'Albania, che imponeva l'ateismo anche nella propria Costituzione. A Cuba le manifestazioni religiose pubbliche sono state rese legali solo nel 1993. In alcuni stati fortemente cattolici, come la Polonia, la Chiesa era tollerata fino a quando restava in ambito religioso e non interferiva o criticava il governo comunista. In Russia, poi Unione Sovietica, nel marzo del 1922 viene decisa la requisizione degli oggetti di culto preziosi appartenenti al clero, ufficialmente allo scopo di rimediare agli effetti della carestie che si erano accompagnate durante la guerra. Tuttavia, molti ritengono che tale provvedimento fosse in realtà finalizzato a provocare la reazione degli ecclesiastici (che consideravano i paramenti liturgici sacri), per poterli perseguitare "con ragione". Infatti si ebbero circa un migliaio di episodi di "resistenza", a seguito dei quali i Tribunali rivoluzionari comminarono la pena di morte a 28 vescovi e 1215 preti e la pena detentiva a circa 100 vescovi e diecimila preti. In tutto, durante tale "iniziativa", vennero uccisi circa ottomila membri del clero. In dicembre viene organizzata una campagna pubblica per irridere il Natale; simili manifestazioni si avranno l'anno seguente anche in occasione della Pasqua e della festa ebraica del Yom Kippur. Migliaia di monaci e sacerdoti sono stati condannati a morte o ai lavori forzati nei gulag durante il regime di Stalin. La separazione tra Stato e Chiesa venne decisa nel territorio dell'URSS il 23 gennaio 1918 dai soviet, poco dopo la fine della Rivoluzione russa. Lo Stato divenne laico e ufficiosamente ateo, sostenendo l'ateismo di Stato, anche se ciò non venne mai sancito esplicitamente nelle Costituzioni, che si limitavano a nominare la religione solo affermando la divisione netta tra Chiesa e Stato e la libertà di culto e coscienza; l'ateismo di stato venne attuato in forma di politica governativa anticlericale e antireligiosa, dal punto di vista pratico e culturale, tramite leggi ordinarie e propaganda. La religiosità venne ridotta a semplice scelta privata, secondo l'ideologia di Lenin e del marxismo, da considerare lecita ma da scoraggiare, al di fuori della sfera personale. La chiesa ortodossa russa fu costretta a rinunciare a tutti i privilegi, come l'esenzione dalle tasse e dal servizio militare per i sacerdoti e i monaci, e per un certo periodo perseguitata. Con la Costituzione sovietica del 1918, emanata per la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poi estesa alle altre repubbliche federate, venne permesso di svolgere formalmente "propaganda religiosa e non-religiosa", anche se svolgere attiva propaganda di religione o di idee ritenute "superstizioni" in luogo o edificio pubblico (come la propaganda religiosa nelle scuole, l'esposizione di immagini religiose nei luoghi di lavoro, le processioni, ecc.) poteva essere sanzionato con multe o lavori forzati fino a 6 mesi. Coloro i quali non svolgevano lavori socialmente utili (non solo ecclesiastici, ma anche ex agenti zaristi, privati, ad eccezione di artigiani e contadini dei colchoz, ecc.) venivano esclusi dal voto e non pagati, restrizione poi eliminata nel 1936. Quindi questi ultimi, una volta esaurite le risorse di cui erano dotati, dovettero svolgere un altro lavoro per sostentarsi, secondo il principio "chi non lavora non mangia". Venne introdotto il matrimonio civile e negata validità legale a quello religioso, vennero distrutte alcune chiese che occupavano suolo pubblico, altre vennero convertite in uffici e musei pubblici e vennero inoltre abolite tutte le feste religiose come ad esempio il Natale o lo Yom Kippur ebraico. Con Stalin il processo antireligioso dello Stato fu completato. La costituzione sovietica del 1924 non conteneva esplicitamente norme sulla religione, in quanto era stata votata come integrazione per sancire la nascita dell'unione federale delle repubbliche come Unione sovietica, mentre per quanto riguarda i diritti e doveri dei cittadini, restò in vigore la relativa parte della costituzione del 1918. Infine, solo in alcune località remote venne concesso di svolgere cerimonie religiose. Secondo fonti ortodosse, nel 1917 erano attive circa 80.000 chiese, mentre è stato calcolato che erano circa 20.000 nel 1954 e 10.000 nel 1965. La Costituzione sovietica del 1936 sancì la libertà di culto privato, e autorizzò solo la propaganda antireligiosa, ribadendo nuovamente la netta divisione tra Chiesa e Stato. Restarono valide le normative penali del 1922 contro le "superstizioni religiose" diffuse in pubblico. Nel 1927 venne approvato l'articolo del codice penale che sanciva, tra l'altro, che svolgere propaganda religiosa in tempo di guerra o crisi, se considerato fatto con lo scopo preciso di abbattere il regime comunista o danneggiare direttamente o indirettamente lo Stato, poteva essere punito anche con la pena di morte. Durante la seconda guerra mondiale, nel1943, Stalin diede una tregua alla campagna antireligiosa e chiese al patriarca Sergio I di Mosca (in seguito a un incontro avvenuto tra i due) di supportare moralmente i soldati al fronte contro i nazisti. Nello stesso periodo Sergio I rientrò a Mosca e morì nel 1944. Stalin concederà poi alla Chiesa ortodossa la possibilità di celebrare funzioni religiose, ma solo all'interno delle chiese autorizzate e nel privato. Con Nikita Khruščёv riprendono le misure più restrittive verso la Chiesa, e si riprende la propaganda attiva dell'ateismo di Stato dopo la tregua iniziata nel 1943 e durata sino al 1954. Soltanto negli anni ottanta, dopo la continuazione della politica antireligiosa dei governi Breznev, Andropov e Cernenko, vi fu una nuova tregua nella lotta attiva contro la religione, a partire dall'ascesa al potere diMichail Gorbačëv. La situazione di tolleranza pratica perdurò fino al 1990, quando Gorbačëv permise la libera propaganda religiosa e instaurò la libertà di culto in via ufficiale, al posto dell'ateismo di stato. Istituì inoltre l'Istituto per l'ateismo scientifico di Leningrado, che durò fino allo scioglimento dell'URSS, nel 1991. Nell'Unione Sovietica vennero introdotti il divorzio (1º dicembre 1917) e l'aborto nel 1920 (reso molto più difficile da Stalin nel 1935, poi reintrodotto nel 1955) e negata la validità del matrimonio religioso (dicembre 1917). Anche in Cina l'anticlericalismo ha comportato la soppressione (spesso anche fisica) del clero di varie religioni, compreso anche il monachesimo buddista del Tibet. La libertà religiosa ufficialmente è assicurata, anche se in realtà alcuni movimenti sono perseguitati e la stessa Chiesa cattolica e la nomina dei suoi vescovi sono subordinate all'avallo del Partito Comunista Cinese.

Anticlericalismo negli stati islamici. Influenzati dall'occidente anche alcuni Paesi islamici, principalmente la Turchia negli anni venti e l'Iran negli anni sessanta, vararono provvedimenti anticlericali contro il clero musulmano. «Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa ha imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno stato moderno e progressista. La rivelazione di Dio! Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.» Mustafa Kemal Atatürk, militare e politico membro del movimento dei Giovani Turchi e della Massoneria, prese il potere nel 1923. Egli era anticlericale e in favore di un forte nazionalismo, il suo modello di riferimento trovava radici nell'Illuminismo. Aveva l'ambizione di creare una moderna forma di civiltà turca. Durante tutto il periodo e anche oltre, l'esercito rimase il pilastro della nazione e la scuola fu riformata in modo da essere laica, gratuita e obbligatoria. La nuova capitale fu posta ad Ankara, scelta a scapito di Istanbul (due volte capitale imperiale: Impero Romano d'Oriente ed Impero Ottomano). La lingua fu riformata nello stile e nell'alfabeto: l'alfabeto ottomano di origine araba venne sostituito dall'alfabeto latino nel 1928. Nello stesso periodo la storia venne riscritta per dare radici alla nazione, e legarla all'occidente. Kemal, la cui ideologia è detta kemalismo, introdusse il cognome al posto del patronimico arabo: a lui il parlamento assegnò il cognome Atatürk, cioè "padre dei turchi". Usanze islamiche, come portare la barba, i baffi alla turca o i copricapi arabi come il fez furono scoraggiate o vietate (ai militari fu proibito di portare i baffi e tuttora devono essere sbarbati). Dalla rivoluzione del 1908, i diritti delle donne uscirono rinforzati. Nel 1919, sotto l'influsso dei militari, furono adottate misure per cambiare lo status delle donne: la parità con gli uomini fu riconosciuta nel codice civile, il matrimonio civile reso obbligatorio per chi volesse sposarsi, fu introdotto il divieto di poligamia, vietati il ripudio (divorzio unilaterale maschile) e l'uso del velo islamico nei luoghi pubblici (possibilità resa nuovamente lecita solo nel 2011), legalizzata la produzione e la vendita delle bevande alcoliche, resa obbligatoria l'iscrizione a scuola per le bambine, incentivata l'assunzione di donne in vari posti di lavoro e così dicendo. Nel 1934 fu riconosciuto alle donne il diritto di votare e nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco. La Turchia kemalista era risolutamente laica. Il califfato fu abolito il 3 marzo 1924. Questo gesto fu considerato come un sacrilegio da parte del mondo arabo-musulmano. Nel 1928, primo paese del mondo musulmano, l'Islam non era più la religione di Stato e, nel 1937, il secolarismo venne sancito nella Costituzione. Fu adottato il calendario gregoriano, e la domenica divenne il giorno settimanale di riposo. Proseguendo la secolarizzazione delle leggi cominciata nel 1839 dalleTanzimat (riforme) dell'Impero Ottomano, il regime kemalista adottò nel 1926, un codice civile sulla base del codice svizzero, un codice penale sulla base del codice italiano e un codice commerciale basato sul Codice tedesco. Furono abolite le pene corporali previste dalla legge islamica, i reati di apostasia e adulterio. L'anticlericalismo del regime era pronunciato, ma lo spiritualismo musulmano non fu mai completamente abbandonato. L'Islam e le altre religioni, compreso il cristianesimo, erano inoltre controllate attraverso l'Organo per la Direzione degli Affari Religiosi, creato nel 1924. Sotto l'influsso del kemalismo anche dopo la morte del leader continuarono le riforme: fu depenalizzata l'omosessualità, anche se i gay turchi vengono tuttora discriminati, non potendo, ad esempio, far parte dell'esercito. In tempi recenti l'avvento al potere di un partito islamico moderato, anche se non ha abolito lo Stato laico, ha incrementato tuttavia la rinascita di movimenti e sentimenti "islamisti". Nel 2008 i militari, guardiani del secolarismo secondo la visione di Atatürk hanno tentato un colpo di Stato, fallito, in difesa della laicità e contro il governo eletto di Recep Tayyip Erdoğan. Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, varò la cosiddetta rivoluzione bianca, che modernizzò il Paese in senso occidentale; benché egli, a differenza di Atatürk, fosse un fervente praticante musulmano (nonché formalmente capo supremo dell'Islam sciita duodecimano), era fortemente e violentemente avverso al clero e all'influenza dei mullah. Reza proibì, ad esempio, l'uso del velo in luoghi pubblici e perseguitò il clero che si opponeva alle riforme occidentalizzanti, uccidendo, imprigionando o esiliando i mullah e gli imam, compreso l'Ayatollah Khomeini inviato in esilio nel 1964. Lo scià modernizzò il paese con la forza, ma vietò ogni tipo di opposizione alla sua monarchia. Furono resi legali il gioco d'azzardo, la prostituzione, le bevande alcoliche, istituito il suffragio femminile e il matrimonio civile. Tra il fronte di rivolta alle riforme pahlavidi, soprattutto per la loro impronta giurisdizionalista, si schierò soprattutto il clero sciita perché veniva privato dei benefici assolutisti, nonché gruppi religiosi che si erano opposti alla sua riforma agraria e sociale, che venivano espropriati di molti beni di manomorta, controllati dalle gerarchie religiose. Tuttavia, la sua posizione ambivalente nei confronti della religiosità iraniana, della quale era virtualmente anche il capo (incarnando un modello cesaropapistico), lo poneva in difficoltà impedendogli di prendere provvedimenti drastici onde evitare lo scontento aperto e manifesto delle masse popolari. Alla rivoluzione iraniana, nel 1979, Khomeini prese il potere e lo scià dovette fuggire. I religiosi instaurarono un regime clericale ed islamista, la repubblica islamica, che cancellò le riforme del periodo Pahlavi e perseguitò anche la sinistra che aveva contribuito a combattere l'autocrazia dello scià.

Anticlericalismo oggi in Italia. Il potere temporale dei papi ha cessato di esistere, ad esclusione ovviamente del diritto a legiferare e governare nei limiti territoriali della Città del Vaticano, ma rimangono tuttora fortemente contestati, da parte di alcuni ambienti laici, la ripetuta attività di pressione, diretta e indiretta, esercitata dalla Chiesa, in nome dei propri valori e delle proprie finalità, nella società e nella politica, anche attraverso la ramificata presenza delle sue organizzazioni all'interno di partiti, associazioni, enti pubblici e privati. L'anticlericalismo rimane presente in varie forme in alcuni giornali satirici come il settimanale parigino Le Canard enchaîné, e nel dibattito politico e culturale di vari stati, come reazione all'influsso esercitato dalla chiesa sui partiti politici che dichiarano di richiamarsi ai valori cristiani e sui governi degli stati a maggioranza cattolica. Oggi l'anticlericalismo in Italia si esplica nelle tensioni della attualità politica; l'etica e la morale sono ancora terreno vivo e fertile dello scontro tra parti, tra Stato e Chiesa, tra comunità scientifiche. Tra le questioni dibattute sono sicuramente al vertice la libertà di ricerca scientifica, in particolare sulle cellule staminali embrionali, la procreazione medicalmente assistita sia eterologa che omologa, l'eutanasia e la terapia del dolore, le unioni civili, la legalizzazione dell'aborto, la contraccezione e la pillola RU486. L'anticlericalismo contemporaneo spesso focalizza l'attenzione sugli aspetti più arretrati che ritiene presenti, sia pure con diversi livelli di gravità, in diverse religioni, come l'Islam quali, ad esempio, la condizione di subalternità della donna. In questo senso, si potrebbe ritenere come anticlericale la recente legge varata in Francia che vieta l'uso del velo e dei simboli religiosi all'interno delle aule scolastiche. La possibilità che, su invito del rettore, papa Benedetto XVI potesse inaugurare l'anno accademico all'università la Sapienza di Roma, il 17 gennaio 2008, è stata contestata fortemente da alcuni gruppi studenteschi e da 67 professori, in particolare di materie scientifiche. Richiamandosi ad una lettera aperta di Marcello Cini al rettore apparsa su il manifesto, i contestatori ritenevano inopportuna la visita del papa sulla base di una citazione del Pontefice, risalente ad un suo discorso del1990 tenuto a Parma. L'allora cardinale Ratzinger aveva citato il filosofo Feyerabend: «La Chiesa dell'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». Questa citazione costituiva, secondo i 67 professori (tra cui il presidente del CNR), una minaccia alla laicità della scienza. La contestazione portò all'annullamento della visita del Papa, che preferì declinare l'invito del rettore, in quanto non era condiviso da tutta l'università.

Alla testa dei cattocomunisti ci stanno i comunisti, con i cattolici che fanno da prestanome, pronti ad essere sfrattati quando necessario, scrive Diego Gabutti il 28 ottobre 2015 su “Italia Oggi”. Vittima prima del libro Cuore e della retorica risorgimentale, poi del fascismo, quindi del clericalismo e del comunismo, infine del giustizialismo e del berlusconismo, mai che sull'Italia brilli una buona stella, come sa bene Massimo Teodori. Radicale storico, uno dei rari intellettuali laici e liberali in un paese di bacchettoni, devoti soltanto a ubbìe ideologiche e a idee fisse religiose, Teodori continua la sua esplorazione dell'Italia sotto sortilegio illiberale (e luogo di catastrofi culturali) con il suo ultimo libro, Il vizietto cattocomunista (Marsilio 2015, pp. 176, 14,00 euro, ebook 9,99 euro). È la storia lunga settant'anni «del connubio tra eredi del Pci e della sinistra democristiana» che ha per capolinea il partito democratico di Matteo Renzi. Teodori ripercorre nel suo libro tutta la vicenda: la guerra di Togliatti contro Benedetto Croce e gli altri nemici del Concordato con la Chiesa, il congresso della gioventù comunista in cui un Enrico Berlinguer poco più che ventenne invitava le giovani militanti a prendere esempio (in fatto di morale sessuale) da Santa Maria Goretti, gl'innumerevoli tentativi d'arruffianarsi la sinistra cattolica, le titubanze in tema d'aborto e di divorzio, l'epoca in cui Berlinguer (sempre lui) predicava il compromesso storico tra comunisti e democristiani contro le derive (non sembra vero, visto il pulpito) clericali e autoritarie, l'odio per il laicismo craxiano, la guerra contro il consumismo e l'elogio dell'austerità, l'invenzione della «questione morale», poi la crisi del comunismo internazionale e la caduta dell'Urss. Arrivano i giorni di Tangentopoli, Craxi se ne va in esilio come Trotzky, i laici si raccolgono intorno al nascente partito di plastica, sparisce la Dc, il Pci cambia nome. In questa generale rovina una sola forza ideologicamente e politicamente attiva porta a casa la pelle: il cattocomunismo, con i suoi ingombri religiosi e i suoi pregiudizi ideologici. Alla testa dei cattocomunisti ci sono i comunisti e i cattolici (tra cui lo stesso Romano Prodi) fanno più che altro da prestanome (come gli «utili idioti» d'un tempo, che potevano essere sfrattati senza preavviso da ogni incarico). Poi Matteo Renzi chiede banco, come a baccarat. Sono i cattolici, non appena il suo astro comincia a salire, a distribuire le carte: la sinistra mesozoica e stalinista, nata con Togliatti nel 1944, viene rottamata di prepotenza. Finiscono tra i rottami anche i cattolici di sinistra troppo compromessi con la Ditta post comunista. Che la storia dei cattocomunisti prosegua oltre, è naturalmente possibile, specie in un paese sventurato come il nostro, che per i mostri della ragion politica ha sempre avuto un debole. Ma il partito renziano, dopo tanti esperimenti falliti, sembra un esperimento finalmente riuscito, diversamente dall'alleanza più o meno organica «tra forze popolari e cattoliche» vagheggiata da Palmiro Togliatti nei primi giorni della repubblica, o dal «compromesso storico» berlingueriano, dalla «solidarietà nazionale» e dall'Ulivo prodiano. Duri tanto o poco, sempre più «catto» e sempre meno «comunista», il partito democratico a guida renziana ha messo definitivamente in crisi la ragion sociale del cattocomunismo. È probabile che già al prossimo passaggio elettorale resti soltanto l'ala cattolica e che i comunisti lascino la scena una volta per tutte. Può darsi, come si diceva, che la storia finisca qui, col trionfo dei cattolici dossettiani d'antan, non si sa se più populisti o più clericali, di cui Renzi è insieme l'erede e la caricatura. E già questo sarebbe un pessimo finale di partita. Ma c'è il rischio che, finita questa storia, ne cominci un'altra, più minacciosa ancora. Se ne intravedono i primi segni nel gesto da Papa Re col quale Francesco I prima ha congedato il sindaco Marino dal Campidoglio e poi ha chiesto scusa ai romani per la sua sindacatura. Stanno tornando i clericali, e i loro «utili idioti» sono i talk show sempre più devoti e i comici televisivi che abbracciano la teologia della liberazione.

Il libro di Massimo Teodori: "Il vizietto cattocomunista. La vera anomalia italiana". Si svelano qui le ambiguità di settant’anni di egemonie cattoliche e comuniste che - combinate nel «vizietto cattocomunista» - hanno reso l’Italia una democrazia anomala. Nei grandi Paesi europei l’alternarsi al potere di conservatori e riformatori ha prodotto l’espansione del benessere e delle libertà. In Italia, invece, la sinistra comunista e postcomunista, confluita con i democristiani nel Partito democratico, è rimasta estranea al riformismo socialista di stampo europeo e ha guardato con ostilità alla laicità dello Stato, con effetti negativi sui diritti civili e la giustizia sociale. L’anomalia cattocomunista italiana è destinata a continuare all’infinito? Con il rigore dello storico e lo spirito critico del laico, Massimo Teodori mette in luce l’intreccio perverso tra il conservatorismo burocratico comunista e il rapace «attaccamento alla roba» dei clericali: dalla versione di Palmiro Togliatti, che votando il Concordato pensava di giocare il Vaticano e ne fu giocato, al fatale moralismo di Enrico Berlinguer, attratto dal mondo cattolico, fi no ai postdemocristiani d’oggi, Matteo Renzi e Sergio Mattarella, assurti al massimo potere con il benestare dei postcomunisti. «Se è vero che Renzi ha rimosso le scorie veterocomuniste - scrive Teodori - è altrettanto incontestabile che non ha tagliato i ponti con il cattocomunismo, la vera palla al piede del riformismo italiano insediato al centro del Partito democratico».

Ora ci impongono lo Stato (diet)etico. "Repubblica" rilancia l'appello "liberal" a mangiare vegano, per essere coerenti coi principi di giustizia anche verso gli animali. Un animalismo caricaturale che cela un'ideologia anti-umanista e totalitaria. Il prossimo passo sarà la dieta di Stato? Scrive Corrado Ocone su “L’Intraprendente" del 27 gennaio 2016. Un virus si aggira per il mondo culturale americano. È contagioso e pericoloso perché causa seri danni all’organismo vitale. Dai sintomi che lo accompagnano potremmo definirlo come la “chiusura della mente occidentale”. Ed è pericoloso perché si annida nel settore dominante delle accademie, del giornalismo, dell’editoria e di certo mondo giornalistico: il pensiero liberal. L’ultima manifestazione è davvero stupefacente: ce ne ha dato notizia, con un certo compiacimento, l’antropologo Marino Niola sulle pagine di Repubblica. Essa si è appalesata sulla rivista onlinecultural-chic “Salon” sotto forma di un appello lanciato agli intellettuali dal medico e psichiatria Steve Stankevicius. In esso, gli sciagurati, che sicuramente come la monaca di Monza risponderanno, sono chiamati a dare finalmente coerenza al loro pensiero a farsi tutti vegani in nome dei “diritti degli animali”. Siete per i diritti di tutti, indifferentemente e a prescindere da quello che essi sono e fanno, fossero pure dei delinquenti? Volete eliminare la sofferenza dal mondo e farci vivere in un eden ovattato di sicura e rassicurante felicità, casomai sotto il manto protettivo di uno Stato e di un welfare che ci accompagni “dalla culla alla bara” in nome di astratti “principi di giustizia”? Bene, dice Stankevicius, non potete non estendere anche agli animali questa etica utilitaristica e, in quanto tale, direi, profondamente immorale. In questo modo di ragionare, che aveva avuto come capostipite qualche decennio fa un sopravvalutato filosofo di Princeton, Peter Singer, vediamo all’opera, quasi in modo paradigmatico, tutte le contraddizioni e tutti i vizi del pensiero liberal. Le contraddizioni, sol che si pensi che quasi sempre coloro che vorrebbero equiparare le bestie agli uomini, in nome dell’astrattissimo concetto di “vita organica” o “sensibile”, sono gli stessi che negano all’embrionela vita in nome del diritto della donna ad abortire (e poi perché fermarsi al mondo vegetale: non sono anche le verdure, seppur a uno stadio minimo, forme di vita?). Ma anche i vizi del pensiero liberal, sia teorici che pratici. I primi sono riconducibili a quello che già Hegel chiamava “intelletto astratto”, incapace di vedere il senso ultimo delle cose del mondo, che è storico e umano. I secondi riconducibili invece all’intolleranza di chi non si limita a fare una personale e legittima scelta dietetica ma, ammantandola di valori etici, vuole imporla agli altri apostrofando come immorale qualsiasi altro regime alimentare. Statene certi: il passo successivo sarà l’imposizione per legge della “dieta giusta”, la “dieta di Stato” (secondo i dettami socialisti dello Stato etico rimodellato come Stato dietetico). Ancora più preoccupante è poi il fatto che al fondo di questo acritico animalismo ci sia un’ideologia ecologista e quindi antiumanista che, sconfessando il valore ultimo della nostra civiltà cristiano-liberale, cioè appunto l’uomo nella sua singolarità e libertà, vuole mettere in discussione lo stesso sistema di sviluppo e civiltà che chiamiamo Occidente. Una civiltà, quella occidentale, che è umanistica perché profondamente cristiana, checché ne possa dire un Papa tendenzialmente succube dei tempicome il Francesco che, ad esempio, fa proiettare bestie di ogni tipo sul cupolone. E che è altresì umanistica perché profondamente liberale, cioè ponente l’individuo al centro di ogni etica e ontologia. Il buon Niola, cercando un supporto alla tesi animalistica, non si accorge di citare per lo più eresie cristiane fondate sul pericoloso concetto di “purificazione” (in uno spettro che va dalla gnosi ai catari) o pensatori profondamente illiberali come Rousseau. D’altronde, e non sembri una esagerazione dirlo qui perché ha una sua logica e coerenza, sembra che anche Hitler amasse gli animali e fosse rigorosamente vegetariano. Tutto si tiene e tutto coopera affinché noi si gridi forte, prima di tutto ai cosiddetti “intellettuali”, di lasciarci vivere e mangiare come meglio ci aggrada. La scelta vegana? No, grazie.

SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.

La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.  

Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e  fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure  degli eccidi  di  Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia  inclusi i 600,000 Vandeani,  uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà  e della superiorità anticlericale  ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori  in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora   bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica

Streghe e Inquisizione: la verità storica oltre i luoghi comuni, di Bartolo Salone. Quando si parla di caccia alle streghe, nell’immaginario collettivo è immediato l’accostamento all’Inquisizione cattolica. Centinaia di migliaia, anzi milioni di donne sarebbero state sterminate per colpa di quell’esecrabile Istituzione, che certa storiografia liberal ci ha abituati a vedere come un covo di fanatici e integralisti religiosi assetati di sangue. Ma sono andate veramente così le cose? La ricerca storica, di recente, ha ribaltato questa prospettiva, dimostrando la falsità di una delle più diffuse “leggende nere” anticattoliche. Possiamo definire la stregoneria come quell’insieme di pratiche che una persona, in particolare relazione col Maligno, possa esercitare per nuocere ai suoi simili (secondo la credenza popolare). Benché si parli sovente di streghe e di caccia alle stesse, in realtà – come risulta dai documenti storici – la persecuzione riguardò, seppur in misura più ridotta, anche gli uomini e, in qualche raro caso, perfino i bambini. Contro un diffuso luogo comune di stampo femminista, va dunque rilevato come la “caccia” non era rivolta al sesso femminile in quanto tale, nascendo invece da una più generale ossessione per il diabolico. Ossessione – e qui va sfatato un altro luogo comune – sorta non nella Cristianità medievale, bensì nell’Europa moderna, proprio in quella osannata Europa della Riforma e del Rinascimento. Se nel Medioevo la credenza nella stregoneria non attecchì presso il popolo si deve proprio alla Chiesa cattolica, la quale, in numerosi Concili dal VI al XIII secolo (si pensi al Concilio di Praga del 563 o di Lione dell’840, fino ad arrivare ai Concili di Rouen e di Parigi, rispettivamente celebrati nel 1189 e nel 1212), condannò come superstiziosa idolatria la credenza che esistessero persone capaci di esercitare la magia nera in forza dei loro rapporti con il diavolo. A partire dalla fine del XIII secolo, le credenze stregonesche, per ragioni storiche che in questa sede non è possibile riepilogare, si fanno sempre più diffuse sia presso il popolo che presso alcuni ecclesiastici ed uomini di cultura. Sul piano dogmatico la posizione ufficiale della Chiesa sulla stregoneria (formulata nei predetti Concili) non muta, tuttavia muta la risposta al fenomeno: streghe e stregoni, proprio perché contravvengono agli insegnamenti della Chiesa e al divieto di esercitare le arti magiche, vengono considerati alla stregua degli eretici, e pertanto la competenza giurisdizionale, nei Paesi cattolici, viene sottratta ai tribunali civili e assegnata ai tribunali inquisitoriali. Secondo una certa vulgata (sostenuta con forza da intellettuali “liberal” e da romanzieri asciutti di storia alla Dan Brown) questo avrebbe segnato l’inizio di una vera e propria mattanza, che nell’arco di tre secoli avrebbe portato al rogo non migliaia, ma addirittura milioni di donne (tutte ascrivibili, manco a dirlo, al fanatismo e alla misoginia propri del mondo cattolico). Fin qui la “leggenda”. La verità è però ben diversa e per rendercene conto basterà riferirsi ad alcuni dati tratti dall’opera più completa ed aggiornata di cui ad oggi si dispone in tema di stregoneria e di caccia alle streghe: si tratta della “Enciclopedia della stregoneria, la Tradizione occidentale” edita nel 2007 dalla Abc-Clio e curata dallo storico anglosassone Richard Golden, per un totale di ben 752 voci, compilate da 172 studiosi di 28 diverse nazionalità. Innanzitutto, facciamo attenzione alla periodizzazione e alla “geografia” del fenomeno: la cosiddetta “caccia alle streghe” (ma, come visto, non mancarono anche roghi di stregoni) va dal 1450 al 1750 (siamo dunque in piena età moderna, non nel “buio” Medioevo) e interessò un po’ tutti i Paesi europei, sia cattolici che protestanti. Quante le persone giustiziate per stregoneria? Centinaia di migliaia o milioni, come ci ripetono alcuni? Ebbene, la cifra “vera” si aggira tra le 30.000 e le 50.000 unità, da “spalmare” nel corso di tre secoli: una cifra considerevole, ma comunque irrisoria se paragonata ai milioni di morti delle grandi rivoluzioni e guerre dell’800 e delle stragi del ‘900, e in ogni caso non tale da giustificare la definizione di “genocidio” né tantomeno di “olocausto”. Un fenomeno prevalentemente cattolico, dovuto alla furia dei tribunali inquisitoriali? Anche questa è una falsità bell’e buona. Infatti nei Paesi che avevano l’Inquisizione, le “streghe” giustiziate furono soltanto 310 (precisamente, 300 in Italia e Spagna e soltanto 10 in Portogallo), a cui si aggiungono (per rimanere in ambito cattolico) i 600 casi della Francia e i 4 dell’Irlanda. La grande massa (tra le 15.000 e le 25.000 vittime) è concentrata in Germania, mentre la piccola Svizzera contribuì al massacro con 3.000, la Scandinavia con 2.000 e la Scozia con 1.000. Si ha quindi conferma che la mattanza fu concentrata soprattutto nei Paesi luterani, calvinisti, anglicani o in quei piccoli Stati tedeschi che non avevano l’Inquisizione cattolica. Dunque, l’Inquisizione costituì non un incentivo (come a lungo ci è stato fatto credere), bensì un freno (e molto efficace) contro la persecuzione delle “streghe”. Le ragioni ci sono spiegate dallo storico Richard Golden in questo modo: “Nelle terre dove regnava la legge dell’Inquisizione cattolica vi furono meno vittime rispetto ad altre regioni d’Europa. Questo si deve al fatto che le tre Inquisizioni applicavano regole omogenee ovunque, avevano propri tribunali composti da giudici con nozioni basilari di diritto e applicavano la legge seguendo canoni universali, rispondendo a un unico potere. In Germania, invece, dove si ebbe il numero più alto di streghe uccise, la realtà era opposta: ognuno degli oltre trecento principati e staterelli aveva un sovrano con un suo tribunale che applicava la legge a piacimento e di conseguenza i pericoli per le presunte streghe aumentavano. I tribunali laici del nord e del centro dell’Europa condannarono a morte molte più streghe di quanto fecero quelli dell’Inquisizione cattolica romana, che facevano maggiore attenzione al rispetto di garanzie legali e di conseguenza limitavano il ricorso alla tortura”. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che da cattolici realmente maturi e amanti della verità dovremmo imparare ad andare oltre certi luoghi comuni e a guardare con più serenità ed obiettività al nostro passato. E non solo per un dovere di carità verso quanti ci hanno preceduto nella fede, ma anche per saper rispondere a ragion veduta a quanti vorrebbero farci vergognare della nostra fede presentandoci una visione parziale e in molti casi deformata della storia della Chiesa. Introduzione Floriana Castro testo seguente tratto da appuntiitaliani.com

L’eresia, la propaganda e la leggenda della chiesa assassina. La Santa Inquisizione, scrive il 29 agosto 2015 antimassoneria. Sicuramente alcuni lettori al semplice suono della parola “medioevo” avranno già davanti scenari cupi e tenebrosi di cumuli di cadaveri ammassati sui carri nel periodo della peste bubbonica o i roghi della chiesa assassina! Quando parliamo di Inquisizione è proprio il caso di dire: basta la parola. Basta pronunciare il termine Inquisizione ed ecco che noi cattolici restiamo senza parole, ammutoliti. Beh, la chiesa non è più come quella di una volta, oggi i papi non fanno altro che inchinarsi e chiedere perdono davanti a chi ha perseguitato impenitentemente la Chiesa di Cristo. Oggi i papi prendono le distanze dalla tenacia con la quale i loro predecessori hanno difeso l’etica cristiana. Suppliche di perdono che tra l’altro non vengono nemmeno accettate -come nel caso dei valdesi-, che si scissero dalla Chiesa rifiutando la sottomissione alle autorità episcopali ed in seguito combatterono ferocemente la Chiesa Cattolica, anche con la violenza: Essi si diedero alla rapina, al saccheggio, alle stragi di cattolici, a violenze gratuite di ogni genere nel corso dei secoli. Fino a poco più di cent’anni fa misero a punto vari attentati con lo scopo di assassinare San Giovanni Bosco. Invano il vescovo Bellesmaius li richiamò all’ordine. Il papa Lucio III finì per condannarli, nel concilio di Verona e nella Bolla Ad abolendam, del 4 novembre 1184. In seguito i valdesi si organizzarono come setta separata dalla Chiesa. Dallo scisma passarono presto all’eresia. Molto più tardi, verso il 1533, adottarono le principali dottrine della Riforma protestante: Fu questo ad attirare su di essi le repressioni legali sotto Francesco I. Essi furono allora, per ordine del Parlamento di Aix-en-Provence, le vittime di una tremenda spedizione punitiva, durante la quale vi furono migliaia di morti (le cifre variano fra 800 e 4.000 per 22 villaggi distrutti). Oggi i Valdesi si dichiarano ecumenici e desiderosi di collaborare nella Chiesa targata “Vaticano II” dopo aver chiarito alcuni punti teologici con Bergoglio, ricordiamo i punti teologici sulla quale si basano i valdesi: matrimoni gay, sostegno a movimenti LGBT, contraccezione, aborto, eutanasia, testamento biologico (i cui registri, in diverse città, sono gestiti proprio dai valdesi). Chiudiamo la parentesi dei valdesi; andiamo al cuore del problema: cosa ha fatto la chiesa per difendere la sua dottrina nel passato? Davvero gli scenari erano quelli descritti nel libro “Il nome della rosa” di Umberto Eco? E’ vero che tante povere donne innocenti venivano date al rogo solo per tenere un gatto nero in casa? “Come è possibile che la Chiesa cattolica sia stata capace di istituire i tribunali dell’Inquisizione?” domandano e ci ricordano i laicisti e gli avversari della Chiesa. E noi, spesso, non sappiamo che cosa rispondere. Anzi, molti cattolici spesso per ignoranza accusano i cristiani del passato, chiedendo scusa alle presunte vittime. Scusa? Ma conoscete la Santa Inquisizione?

COSA FU L’INQUISIZIONE? L’inquisizione è l’argomento privilegiato dai signori della sovversione per denigrare la storia della Chiesa e con questo pretesto anche la fede cattolica. La Santa Inquisizione fu istituita da Papa Gregorio IX nel 1232, per reprimere eresie, sacrilegi, stregonerie e gravi delitti. Quando ci si trovava davanti a delitti gravi e gli accusati non si pentivano, erano consegnati all’autorità civile, che li castigava secondo la legge. Ovviamente bisogna giudicare le cose secondo la mentalità dell’epoca. In Europa erano tutti obbligati a seguire la religione del re, secondo il principio “CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO” (di chi è la regione, dello stesso è la religione) per cui un delitto nel campo religioso (eresia) era considerato come attentato contro lo Stato, che interveniva con tutto il peso della legge. Ad accendere i roghi furono prima la gente comune e poi le autorità, tanto che la Chiesa dovette intervenire per avocare a sé il problema. Cioè: in tema di religione solo la Chiesa ha la competenza necessaria nonché la misericordia occorrente affinché sul rogo non ci finisca qualche sprovveduto. Perciò creò l’Inquisizione, un tribunale di esperti teologi con tanto di garanzie che accertava che l'“eretico” fosse veramente tale e non un poveraccio tratto all’eresia da ignoranza. Se l’imputato persisteva nelle sue “idee”, la Chiesa non poteva fare più nulla per lui e passava la mano all’autorità civile. Pertanto, servirsi di questo fatto per attaccare il cattolicesimo e la sua dottrina è storicamente scorretto. Ricordate quanti cristiani furono dati in pasto ai leoni? quanti cristiani furono decapitati ai tempi della Roma pagana? Come mai nessuno ricorda le vittime cristiane sacrificate in nome della “libertà, uguaglianza e fraternità”? E le vittime cristiane durante gli anni 30 in Spagna? e le vittime causate dal Comunismo in Russia e in tutti i paesi comunisti? E i cattolici martirizzati ai tempi dell’istituzione dell’Anglicanesimo in Inghilterra, come si può dimenticare ciò?  Anche perchè stiamo parlando di ben 70.000 martiri uccisi per impiccagione e squartamento che avveniva prima della morte per soffocamento,- Beh, a me non sembra corretto non ricordare mai nemmeno le vittime causate dall’inquisizione protestante, numero assai superiore di quella Spagnola.  Non c’è obiettività…mi sembra ovvio che il bersaglio da colpire è sempre la chiesa cattolica e la sua dottrina. E' abitudine citare il processo e l’atto di abiura di Galileo Galilei, sospettato di eresia.  Il conflitto che egli stava affrontando contro una parte della Chiesa riguardava l’interpretazione di Galileo verso alcuni passi biblici che sostengono l’immobilità della terra e del movimento del sole distorti a favore dell’eliocentrismo. Consideriamo che la Chiesa prima delle prese di posizioni di Galileo era stata favorevole all’ “ipotesi copernicana”. Si evita di chiarire che dopo il processo Galileo non finì sul rogo, ma fu trasferito presso l’arcivescovo di Siena, dopo pochi mesi gli fu concesso di trasferirsi presso la sua abitazione. Pochi conoscono il “segreto” del processo alla quale fu sottoposto Galileo. Proprio di questo “caso” parla il libro “Lezioni da Galileo” recentemente pubblicato da APRA in italiano, scritto dal celebre storico della scienza Stanley Jaki (scomparso nel 2009). Jaki ha smontato diverse leggende, chiarendo che la Chiesa non era affatto interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé e che non lo temeva affatto. Anche perché, come abbiamo scritto, già quattro secoli prima di lui san Tommaso d’Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Inoltre, diversi pontefici, come Leone X e Clemente VII, si mostrarono aperti alle tesi del sacerdote cattolico Copernico (nessun “caso Copernico”, infatti), tanto che nell’Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana (e lo stesso Galilei ne era consapevole). Nel 1533 papa Clemente VII, affascinato dall’eliocentrismo, chiese, ad esempio, a Johann Widmanstadt di tenergli una lezione privata sulle teorie di Copernico nei Giardini Vaticani. L’opposizione all’eliocentrismo venne invece in modo compatto dal mondo protestante, tanto che Lutero scrisse di Copernico: «Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica». Ancora oggi i protestanti hanno grossi problemi con il mondo scientifico (creazionismo Vs evoluzione) a causa della mancanza di interpretazione della Bibbia. La critica a Galileo da parte della Chiesa fu basata invece dalla mancanza di prove sufficienti a favore dell’eliocentrismo e dunque sulla sua inopportuna presentazione come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. Galilei, inoltre, utilizzò come unica prova l’argomento dell’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare (e avevano ragione loro, non certo lo scienziato pisano). Tuttavia molti ecclesiastici erano d’accordo con Galilei, come ha perfettamente spiegato lo storico ateo Tim O’Neill, «tutta la vicenda non era basata su “scienza vs religione”, come recita la favola della fantasia popolare.

QUANTE VITTIME FECE L’INQUISIZIONE? Nell’immaginario popolare si pensa che i tribunali dell’Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell’inquisitore finivano al rogo. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica. Innanzitutto, ricordiamo che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo. Fu l’imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l’impero – e lui era la massima autorità dell’impero e poteva farlo, allora, – l’eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. Dunque, è vero che quando il tribunale dell’Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, nè era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza. Detto questo, entriamo un po’ nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L’esame dei dati ci indica che i tribunali dell’Inquisizione furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l’esempio di Bernardo Gui, che ha esercitato con una certa severità l’ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l’elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci – 9 pellegrinaggi – 143 servizi in Terra Santa – 307 imprigionamenti – 17 imprigionamenti platonici contro defunti – 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti – 69 esumazioni – 40 sentenze in contumacia – 2 esposizioni alla berlina – 2 riduzioni allo stato laicale – 1 esilio – 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato – 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati. Soltanto l’ 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell’Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: “La valutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari”. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’ inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell’immaginario popolare. Nei documenti inquisitoriali, abbiamo incontrato condanne alla prigione “perpetua e irremissibile”. Ma attenti a non farsi ingannare da certi modi di esprimersi del tempo. Abbiamo condanne al “carcere perpetuo per anni uno”. Solitamente “perpetuo” vuoi dire 5 anni, “irremissibile” vuoi dire 8 anni. La pena dell’ergastolo non era prevista.

CHI ERANO QUESTI CITTADINI CHE L’IMMAGINARIO VUOLE ESSERE STATI PERSEGUITATI PER LE LORO IDEE RAZIONALI? QUALI ERANO QUESTE IDEE? Ora, diciamo subito una cosa molto scomoda e fuori moda: non si deve pensare come è abbastanza diffuso nell’immaginario popolare che i condannati fossero pacifici cittadini adibiti a pratiche religiose del tutto innocue e le donne delle pie sante devote accusate ingiustamente senza alcuna prova, non e’ affatto la verità! essi erano in realtà colpevoli di praticare stregoneria e omicidi rituali, basti pensare a quante donne improvvisate ”ostetriche” compivano aborti fino alle ultime settimane di gravidanza per poi sacrificare i resti delle povere creaturine in rituali satanici. Gli eretici spesso costituivano un autentico pericolo per la pace sociale. Pensiamo ai Catari. Condannavano il matrimonio, la famiglia e la procreazione. Per i Catari non bisognava comunicare la vita, ma distruggere la famiglia, in poche parole: distruggere l’intera società medievale, lottavano anche con violenza contro la Chiesa. Negavano il valore del corpo, che consideravano prigione dell’anima. Questa soffre e si può liberare solo sopprimendo il corpo. Talvolta praticavano il suicidio e istigavano a compierlo, causavano rivolte e caos. I catari erano potenti e privi di scrupoli. L’autorità civile non intendeva permettere che, a furia di vietare la procreazione, l’umanità si estinguesse (tra l’altro, i catari proibivano il giuramento, che era la base della società feudale). Ben pochi sanno tutto questo. I settari sorvegliano attentamente e si affrettano ad intervenire perciò onde soffocare ogni timido accenno (non oseremmo mai parlare di restaurazione cattolica dopo il Vaticano II) di rievocazione della grandezza dell’Europa medioevale: la Leggenda Nera dei secoli caliginosi e bui deve essere mantenuta e un torrente di anatemi è scagliato ogniqualvolta si cerchi di metterla in discussione. Eloquente in proposito un articolo comparso nel maggio 1990 sul New York Times – testata giornalistica di proprietà della ricchissima famiglia ebraica dei Sulzberger – a firma di Dominique Moisi, vicedirettore dell’IFRI, l’Istituto per gli Affari Internazionali francese, intitolato: “Uno spettro ossessiona l’Europa: il suo passato”. Vi si dice: “Disgraziatamente (ora che l’Est si è liberato), nell’ombra esiste un’altra Europa, dominata da uno spirito di ritorno alle sue cattive inclinazioni di un tempo, nei richiami alle nere tentazioni della xenofobia, del razzismo e dello sciovinismo”. “[…] Noi non dovremmo sognare di ricostruire un’Europa cristiana sulle ceneri del mondo comunista o nei limiti di un certo capitalismo. L’Europa che Giovanni Paolo II desidera è quella nella quale la maggioranza degli Europei non si troverà molto a suo agio. La Chiesa – che storicamente è responsabile dell’antisemitismo – non saprà offrire soluzioni a una nuova Europa; soltanto i valori umanisti e le istituzioni democratiche sapranno farlo. O altrimenti il muro di Berlino sarà caduto invano”. Non esiste, né può esistere, una società che non si basi su un corpus strutturato di idee (chiamateli, se volete, valori, princìpi, religione civile) e che non lo difenda se vuole continuare a sussistere, ieri come oggi (basti pensare alle leggi sull’omofobia). (Il corriere della sera equipara l’ISIS ai roghi dell’Inquisizione). Eh si, che fortuna che abbiamo, i tempi sono cambiati, adesso non siamo più nel medioevo. Oggi paghiamo il 50 per cento dei nostri introiti ai prestatori di capitale, mentre nel medioevo il cittadino doveva solo la decima alla Chiesa o al feudatario. Oggi si può liberamente bestemmiare senza vergogna, si può ostentare con orgoglio il peccato, e si possono esigere diritti per i suoi perpetratori; si possono aprire pagine blasfeme su Facebook (in linea con i termini della community) create appositamente affinchè ognuno scriva la propria bestemmia sulla pagina; si possono tranquillamente ammazzare i propri figli nel ventre materno con la benedizione delle istituzioni e i soldi dei contribuenti; si può tranquillamente essere iniziati al satanismo comodamente da casa; ci si può arruolare tra i miliziani dell’ Isis con dei semplici click davanti ad un computer… Un uomo senza radici, infatti, privo di riferimenti, senza terra, senza uno scopo di vita diverso dal piacere e dall’accumulo di beni materiali fine a se stesso, è esattamente il prototipo ricercato dai mondialisti, docile burattino massificato, le cui pretese non travalicano il benessere biologico e la cui visione del mondo – solo a prima vista ampia, essendo egli una specie di apolide senza tradizioni. Che fortuna che abbiamo noi ad essere nati in una società così moderna ecumenica e progressista! 

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO: SIAMO SCHIAVI DAL 1302 D. C. LO SAPEVATE?

Il quaderno di Giorgio da Batiorco su Veja del 5 aprile 2013…Vivi libero…e fai le domande che non hanno risposta. Il Sistema delle Bolle Papali costituisce storicamente il fondamento giuridico della nostra attuale schiavitù finanziaria. Perché ha senso parlarne espressamente in questo momento, in cui un papa ha appena annunciato le proprie dimissioni? Perché il precedente storico dell’evento attuale, rappresentato di Celestino V, Papa che fu costretto a dimettersi nel 1294, rappresenta l’inizio della storia che ci ha condotto fino alla critica situazione che stiamo vivendo oggi. Facciamo un passo indietro e vediamo come. Celestino V, che le note della ormai notoriamente “addomesticatissima” Wikipedia ci fanno passare per uno sprovveduto ignorante, era invece un papa che intendeva rivoluzionare la Chiesa basandola nuovamente su un cristianesimo profondo. Per passare da un cristianesimo corrotto e di potere – la “ecclesia carnalis” – ad un cristianesimo aperto, pieno di veri valori spirituali sul modello del Cristo: l’ “ecclesia spiritualis”. Tuttavia la chiesa di potere operò su più livelli per difendersi e bloccare l’opera di Celestino Quinto. E il manovratore cardinal Caetani (stranamente via Caetani è la via in cui fu trovato il corpo esanime di Aldo Moro, statista italiano che aveva osato uscire dalle righe del controllo finanziario internazionale n.d.r.) lo indusse alle dimissioni nel dicembre del 1296. Caetani poi, diventato Papa con il nome di Bonifacio VIII, lo fece imprigionare ed infine uccidere con un chiodo piantato nel cranio. La fine di Celestino Quinto e la conseguente fine dei Templari qualche anno dopo, mutarono profondamente la chiesa, facendola diventare solamente chiesa di potere e cancellando la gran parte delle correnti autenticamente spirituali. A Bonifacio VIII, uno dei papi più oscuri e controversi della storia, che Dante nell’inferno pone nella bolgia dei Simoniaci, ossia i corrotti che fanno commercio di cose spirituali, si deve la redazione della famosa bolla “Unam Sanctam Ecclesiam” che istituì il primo fondamento giuridico dell’infame sistema che ora ci ha ridotto nella schiavitù finanziaria di cui ognuno di noi, ogni santo giorno della nostra vita, si trova a patire le vessazioni. Le tre Bolle e l’istituzione dei Trust. Le informazioni che di qui in poi leggerete sono particolarmente dense e, dato che hanno il potere di trasformare letteralmente la visione della realtà che viviamo, è bene affrontarne la lettura con calma ed attenzione. Noi siamo qui essenzialmente in veste di compilatori, altri prima di noi hanno fatto un egregio lavoro di ricerca, sintesi e divulgazione. Il nostro compito nel momento attuale, è quello di distribuire questi materiali in modo che quante più persone possibile abbiano l’opportunità di comprendere che sotto l’apparenza più o meno rassicurante della realtà che conosciamo c’è qualcosa di diverso, che difficilmente potremmo immaginare.

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO. La lettura di questo articolo è impegnativa ma ha un’importanza vitale nella comprensione del mondo occidentale moderno e dei fatti storici che lo hanno portato allo status quo. Parla di come la legge universale del Libero Arbitrio nel corso della storia sia stata sfruttata e distorta dalla forze del Male per imprigionare ed asservire gli esseri umani. Se oggi le cose non vanno come vorremmo, è perchè noi abbiamo dato il nostro consenso affinchè accadessero, anche se non ne siamo consapevoli perchè questo ci è stato estorto in malafede con l’inganno. Tutto ha avuto inizio il 18 novembre del 1302, la data della pubblicazione della Bolla Papale di Papa Bonifacio VIII intitolata “Unam Sanctam Ecclesiam” le cui ripercussioni storiche fanno ancora oggi in modo che noi alla nascita diamo il nostro consenso per essere di fatto sfruttati come schiavi per tutta la vita. Armatevi di pazienza e scoprirete come…Perché stiamo diventando sempre più poveri? Perché siamo governati da un individuo non eletto o nominato da altri (non eletti di nuovo), per tassarci e versare il nostro denaro o valore equivalente direttamente nelle casse dei banchieri internazionali privati? Perché anche l’Italia ha ceduto ogni sovranità nazionale ad un gruppo di potere europeo privato? Perché questa bancarotta di tutte le economie occidentali pianificata a tavolino dai primissimi anni ’30, viene fatta col nostro consenso, di cui apparentemente non sappiamo nulla? La prima cosa da fare è capire come ottengono o come hanno ottenuto il nostro consenso e perciò, una volta compreso, saremo in grado di attuare una strategia per ritirarlo e per spezzare definitivamente questo gioco al massacro. Cos’è questo consenso? Se non partiamo da qui, prima di parlare di recupero della sovranità monetaria, di elezioni democratiche e di riforme, siamo disarmati e non ne usciremo mai. Qualsiasi cosa vorremmo o potremmo fare sarà inutile, inefficace, avremo già perso in partenza. Perciò la seconda cosa su cui ragionare è: perché per il potere mondiale chiamato anche Cabala nera è fondamentale il nostro consenso? Perché costoro sanno benissimo che esiste una legge universale, una legge suprema, che regola e domina tutto l’Universo, che va al di sopra di tutte le possibili leggi umane, che è la legge del Libero Arbitrio.

LA STORIA DEL CONSENSO E LA LEGGE UNIVERSALE DEL LIBERO ARBITRIO. Prima di parlare della storia dell’applicazione della legge del Libero Arbitrio, facciamo qualche esempio di applicazione di questa legge Universale, partendo da casi semplici, per arrivare a quelli che riguardano più da vicino ognuno di noi quotidianamente. Se tu hai firmato un contratto di mutuo con la banca, che poi ti porta via la casa in caso d’insolvenza, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quel contratto. Nessuno ti ha mai costretto. Se poi ti rechi in tribunale per la causa di pignoramento e riconosci quegli organi legislativi e quindi quei tribunali e così facendo li legittimi, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quelle legittimazioni.  Quindi, in parole povere, siamo noi a rinnovare il contratto con questo “sistema” ogni giorno, utilizzando quei mezzi “impropri e fraudolenti” che loro ci hanno fatto credere, con un ingegnoso mezzo-inganno, indispensabili. La prima reazione spontanea a queste affermazioni è la seguente: tutta la nostra società funziona così e nessuno di noi per vivere, lavorare, comprarsi la casa, la macchina, andare in vacanza, sposarsi, fare dei figli, educarli e farli studiare potrebbe fare altrimenti. Ma dunque è giusto, immediatamente dopo, chiedersi: “Perché funziona così?” (Domanda che ci facciamo troppo poco, quando invece è la DOMANDA fondamentale da farsi, ma siamo programmati per benino proprio per non farcela mai). Per rispondere torniamo indietro di parecchi anni, secoli, millenni…Vi esorto a leggere i libri e a guardare i video di Mauro Biglino, che ha tradotto letteralmente dall’ebraico antico, con tanto di testo originale a fronte, tutto l’Antico Testamento della Bibbia. Le sue traduzioni sono convalidate dagli anziani delle comunità ebraiche e sono divenute incontrovertibili, perché letterali e non interpretate.  Con rivelazioni davvero, davvero, davvero, davvero per menti… “aperte”.  Nel nostro caso lo studio di ciò che viene rivelato nella vera Bibbia, ci serve per capire l’importanza del “libero arbitro” nei giochi di potere e del legame indissolubile che esiste tra diritto, denaro, RELIGIONE E POLITICA. Questa incredibile scoperta, con la traduzione letterale del testi, rivela la vera natura della Bibbia, che in realtà è un Codice di Diritto Mercantile Marittimo, VALIDO, APPLICATO ANCORA OGGI, pressoché inoppugnabile in qualsiasi tribunale del mondo. Si racconta, nelle “cronache” dell’Antico testamento che il “dio” Jahvè (che si trova riportato in altri testi come Jahwe, Yahweh, Yahveh… poi vedremo chi sia questo “dio” perché non lo è affatto, ma nella traduzione “manipolata” diffusa dalla Chiesa è stato tradotto come Dio) non può obbligare Mosè a seguirlo nel cammino per la Terra Promessa (una conquista quindi, con la necessità di un piccolo esercito?). Jahvé infatti non è “Dio”, ma è precisamente descritto come un ALTO E POTENTE “Eloah” (da cui poi deriva il termine Allah).  È quindi UNO DEI TANTI Elohìm (plurale di Eloah), la stirpe che governava quei territori, forse discendente da un altro pianeta (molto probabile, da verificare, ma non è essenziale per noi adesso…). Una civiltà rappresentata da una gerarchia di individui di cui la Bibbia ci dà conto quando distingue Elohìm, Malachìm, Nefilìm, Anakìm, Refaìm, Emìm, Zamzummìm… Individui che si sono divisi il controllo del pianeta, come ci narrano il Libro della Genesi ed il Deuteronomio, combattendo tra di loro per affermare ed incrementare il loro potere utilizzando i popoli sottomessi. Sta di fatto che di questi Elohìm ce n’erano tantissimi, appunto, sparpagliati sulla Terra e organizzati in accampamenti (formati da due settori in genere, uno per l’autorità, l’Eloah, e l’altro per le “truppe”…angeli fiammeggianti e dotati di spada?). N.d.r – Conferma esatta di queste cronache si trovano anche nei testi sumerici antecedenti alla Bibbia stessa. Questo Jahvè, anche se dotato di un arma potentissima, che dalla dettagliatissima descrizione biblica sembrerebbe un’arma al plasma (Arca dell’Alleanza?), capace d’incenerire ogni cosa, non poteva comunque obbligare Mosè a seguirlo. Fu costretto perciò a stipulare “un’alleanza” con il popolo ebraico, con delle regole e delle clausole precise reciproche (io ti dò tanto, tu mi ridai tanto), tra le quali il sacrificio del primogenito di ogni coppia ecc… di cui ormai sappiamo bene la “versione” che è arrivata fino ai nostri giorni. Sempre nella Bibbia si racconta che quando decisero quindi di seguire Jahvè e furono condotti alle porte della Terra Promessa, si riunirono in assemblea per decidere se continuare a seguirlo o meno, o se ritornare sotto i vecchi Elohìm, o se affidarsi ai nuovi Elohìm che comandavano in questa nuova terra in cui erano arrivati. Questo era l’o.d.g dell’assemblea. Così, ancora una volta col loro libero arbitrio decidono di seguire Jahvè, che con la sua potentissima arma scatena la carneficina e distrugge tutte le città che incontrano nel loro cammino, uccidendo uomini, donne, vecchi e bambini (tra le quali Sodoma e Gomorra… e ci sono aneddoti significativi sulla “scelta dei giusti” da salvare dalla distruzione da parte di Jahvè e l’origine della circoncisione, oltre al mito negativo della sodomizzazione praticata in quelle regioni). Tutta questa lunga premessa, apparentemente divagatoria, oltre a segnalare una lettura diversa della Bibbia e quindi delle nostre origini e della storia dell’Umanità, serve per definire meglio la necessità del Potere di avere il consenso, perché possa perdurare e agire. Ma serve soprattutto per porre le basi del primo legame indissolubile, come dicevo, tra la legge del Libero Arbitrio, la religione, la politica, il Codice di Diritto Mercantile Marittimo, il denaro e quel che viviamo oggi. Ovviamente, come ogni regola e legge ha le proprie eccezioni, che in questo caso sono i massimi livelli di “disonore” che l’umanità ha raggiunto nel disattendere la legge del Libero Arbitrio:

– la riduzione in schiavitù degli africani, in secoli abbastanza recenti, perché non hanno ricevuto il beneficio di essere avvisati e quindi di scegliere che reazione avere (che è alla base di questa legge, come abbiamo detto);

– senza andare troppo lontano, la strategia della tensione, qui in Italia, negli anni di piombo, perché le stragi sono state fatte in modo totalmente disonorevole.

Ma questo è il comportamento più autodistruttivo e meno sostenibile che il potere possa compiere e l’élite lo sa benissimo. Perché perfino il peggiore dei satanisti massoni, che si appresta ad effettuare un sacrificio umano – la cosa più aberrante a cui noi umani comuni possiamo pensare – è obbligato a seguire queste regole e quindi a scegliere la prima vittima che si offre volontariamente, spinta da un’inspiegabile attrazione. Oppure, un esercito che sta per invadere una nazione straniera è obbligato a dare un avvertimento allo Stato che sta per mettere a ferro e fuoco, spiegando tutte le proprie richieste. Il governo dello Stato assediato ha il libero arbitrio di rispondere sì o no. Orribile o meno, c’è stato comunque un preavviso, quindi l’onore è stato mantenuto. Abbiate pazienza, non stiamo divagando, tutto serve per arrivare al punto focale, perché comprendere l’universalità della legge del consenso, è alla base di ciò che viviamo oggi, e andando avanti sarà dimostrato che l’élite mondiale dominante sta seguendo questa legge fin dall’inizio e la mette in pratica in ogni momento e in ogni aspetto della nostra vita. Se non la conoscessero così dettagliatamente e se non la seguissero così scrupolosamente, il loro potere non sarebbe durato fino ad oggi. Ecco perché Jahvè aveva bisogno del consenso per agire, ecco perché, i governanti oggi, ci fanno votare. Poiché hanno quindi bisogno assoluto del nostro consenso, come fanno ad aggirare il sistema (rendendolo però meno chiaro e decifrabile possibile) e a preservarlo nei secoli? Hanno ideato un sistema perfetto che funziona secondo i principi descritti precedentemente: “avvertimento” e “silenzio assenso”; se non mi rispondi vuol dire che sei d’accordo e quindi peggio per te. Facciamo un esempio banale che capita a tutti noi: quando la banca cambia le condizioni e lo fa spessissimo, è obbligata a mandarti un documento di trasparenza bancaria – avvertimento – che credo pochissimi di noi leggano (purtroppo!). Se tu non rispondi è silenzio assenso. Tutta la storia del nostro mondo da millenni funziona secondo questo principio.

LE LEGGI CANONICHE E LE BOLLE PAPALI. Per capire come funziona questo principio, che regola la nostra intera vita abbiamo bisogno di fare ulteriori premesse. Cosa sono le leggi? Tutte le leggi derivano da Canoni, ovvero dal Diritto Canonico, perché tutte le leggi, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con la Legge Divina ed Ecclesiastica. Ma i Canoni in particolare sono norme o principi che traggono valore dal fatto di non essere mai stati contestati (tacito assenso). Ecco alcuni canoni, norme o principi, universalmente riconosciuti, perché nessuno ha mai detto che non lo debbano essere (molti sono per altro condivisibili perché sono alla base della civile convivenza).

1) tutti debiti devono essere pagati;

2) tutti i contratti devono essere onorati;

3) tutte le controversie portate di fronte alla legge, devono essere risolte di fronte alla legge (ovvero, se tu ricevi un’accusa, per quanto infondata, per quanto ingiusta, per quanto immorale, per quanto illegale non puoi ignorarla. E tuo l’onere di dimostrare l’infondatezza di quella accusa davanti alla legge di fronte alla quale è stata portata);

4) qualsiasi affermazione, se non viene contestata diventa valida. (Importantissimo punto! Ricevi una multa, una sanzione ingiusta, viene fissata un’udienza e tu non ti presenti, cavoli tuoi, sarà chi di dovere a decidere per te e senza di te).

• Nota al punto 4): il 99% delle procedure giudiziarie si basa sulla presupposizione di qualcosa, ma il 99% degli esseri umani non si preoccupa di comprendere quali siano queste presupposizioni, o non si preoccupa di rifiutarle. In altre parole il Sistema è ancora adesso basato sul sacramento della confessione, proprio come ai tempi dell’Inquisizione, cioè è indispensabile che tu accusi te stesso. In mancanza di questo atto di auto accusa non si può procedere. Il Diritto è gerarchico, discende sempre e comunque dal Diritto Divino: sopra a tutto c’è il Diritto Divino che, come tale, discende dal Divino Creatore, poi c’è il Diritto Naturale e poi il Diritto Positivo (leggi nazionali, internazionali, amministrative, private ecc…), il Diritto Positivo appartiene al gradino più basso nella scala gerarchica.

• Nota al punto 5): ogni proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, cioè ad un sistema fiduciario. I potenti, l’élite mondiale, sanno da sempre che la proprietà è un concetto fittizio. Infatti come puoi possedere un pezzo di terra?

La terra, i fiumi, i laghi, i mari appartengono al Pianeta. Ma anche una casa; come puoi fisicamente possedere una casa o un’automobile? Sono tutte cose per cui esistono “titoli di proprietà” e sono titoli fittizi, costituiscono cioè diritto d’uso della casa, dell’automobile e della terra finché sei vivo. Quando sarai morto, cosa succederà a quella casa, a quell’automobile o a quel pezzo di terra, se non esistono disposizioni testamentarie, non dipende più da te. Così la casa, intesa come muri, mattoni e intonaco e la casa intesa come titolo e cioè come trust, o come sistema fiduciario, sono quindi DUE COSE BEN DIVERSE. Il sistema fiduciario, il titolo, prevede tre parti in gioco: un esecutore, un amministratore e un beneficiario. L’esecutore è sempre quello che “concede il titolo” e in questo caso è sempre lo Stato, l’amministratore è quello che amministra il titolo (catasto o Comune), il beneficiario, in questo caso sei tu, cioè il cosiddetto “proprietario” di quel bene. Fin qui tutto più o meno normale, è tutto chiaro e non c’è nulla di strano; rimane da capire se e come, questo sistema, venga usato contro di noi. Facciamo un enorme passo indietro nel tempo. L’attuale sistema, che è basato sul concetto di proprietà, è stato creato dagli antichi romani, i quali hanno disseminato il loro “diritto” in giro per il mondo e sappiamo come (è un karma pesantissimo che noi “italici” dobbiamo espiare nei confronti di tutto il mondo). Ogni terra conquistata e distrutta veniva iscritta in un “registro” conservato a Roma e ogni nuova terra dell’Impero poteva essere di proprietà solo di un cittadino romano.  Ancora oggi quindi noi viviamo in un sistema che si tramanda dall’esistenza dell’Impero Romano che di fatto, non è mai finito.  Con le invasioni longobarde, Papa Leone III, incorona Pipino il Breve come Re dei Franchi e poi Carlo Magno come Imperatore del Sacro Romano Impero. Quindi il sistema che abbiamo oggi nell’organizzazione della proprietà e del diritto e quindi del denaro e quindi della politica, nasce nel 1302 (il 18 novembre), che è la data della pubblicazione della Bolla Papale scritta da Papa Bonifacio VIII, che aveva come titolo “UNAM SANCTAM ECCLESIAM”. Bonifacio VIII è considerato uno degli uomini più corrotti, malvagi e potenti della storia della Chiesa e del mondo, tanto che lo stesso Dante lo mette nei gironi più bassi dell’Inferno. Questa Bolla Papale determina il primo sistema fiduciario ancora valido oggi. Bonifacio VIII, in questa Bolla, afferma che Dio aveva affidato tutti i titoli e le proprietà della Terra al Vaticano. Questa affermazione non venne mai contestata e quindi, in base al punto 4) del Canone di Diritto (vedi sopra) divenne valida. Il Vaticano perciò, nomina l’esecutore, l’amministratore e il beneficiario di questo sistema fiduciario. L’Esecutore è l’Ordine Minore dei Francescani unito con L’Ordine dei Gesuiti (braccio armato?) ed è ben visibile nello stemma sulla pubblicazione dell’enciclica. L’amministratore è il Papa e i beneficiari di questo trust sono tutti gli uomini del mondo. In pratica e tradotto in altri termini, la Bolla Papale del 1302 usa la metafora del Diritto Marittimo e dell’Ammiragliato (Bibbia) affermando che l’Unam Sanctam Ecclesiam e quindi la Prima e Unica Santa Chiesa è l’Arca di Noè, perché mentre tutto il mondo era sommerso dalle acque, l’unica cosa che si elevava al di sopra era l’Arca. Quindi tutti gli esseri umani, a partire da quel giorno, certificato dalla Bibbia come Codice di Diritto Nautico, sono dispersi in mare. E il Papa dunque reclama tutta l’autorità, tutta la proprietà, sia spirituale che temporale, fino a quando i “dispersi” torneranno a reclamare i loro diritti. Cosa che finora, dal 1302, non è mai avvenuta, perché tutte le Nazioni si basano su quel sistema giuridico. Questo Diritto proclamato da Papa Bonifacio VIII si basa per Diritto Divino, ecco perché non possiamo parlare di politica senza parlare di religione o di economia e finanza senza parlare di religione. Il secondo trust, creato sempre in Vaticano, risale al 1455, cioè circa 150 dopo la Bolla di Bonifacio VIII (quindi ancora mai contestata dopo 150 anni). Questa seconda Bolla è di natura testamentaria, cioè il Papa dispone, al momento della sua morte e della morte dei futuri Papi, come deve funzionare il diritto d’uso di tutti i privilegi e di tutte le proprietà derivanti dalla Bolla precedente di Bonifacio VIII. Testamento di cui l’esecutore è la Curia Romana, l’amministratore è il Collegio dei Cardinali e il Beneficiario, questa volta è il Re, sulla terra di proprietà del Papa. Quindi in due parole Dio ha dato tutto il mondo al Papa e il Papa concede pezzi di questo mondo ai Re. Per cui da quel momento i Re del mondo hanno un mandato divino. Questa enciclica del 1455 (l’8 gennaio) si chiama “ROMANUS PONTIFEX” e fu emanata da Papa Niccolò V. Cito un breve estratto significativo: “Poiché abbiamo concesso precedentemente, con altre lettere nostre, fra le altre cose, piena e completa facoltà al Re Alfonso V di invadere, ricercare, catturare, conquistare, soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo, ovunque essi vivano, insieme ai loro regni e ducati, principati, signorie, possedimenti e qualsiasi bene, mobile e immobile, che sia di loro proprietà e di gettarli in schiavitù perpetua e di occupare, appropriarsi e volgere ad uso e profitto proprio, signorie, possedimenti e beni, in conseguenza della garanzia data dalla suddetta concessione, il Re Alfonso V (di Portogallo n.d.r), o il detto infante a suo nome, hanno legittimamente e legalmente occupato isole, terre, porti , acque e le hanno possedute e le posseggono e ad essi appartengono e sono di proprietà “de jure” del medesimo Re Alfonso V e dei suoi successori, possono compiere e compiano questa pia e bellissima opera, degna di essere ricordata in ogni tempo, che noi essendo da essa favoriti per la salvezza delle anime e il diffondersi della fede e la sconfitta dei suoi nemici, consideriamo un compito che concerne Dio stesso, la sua fede, la Chiesa Universale, con tanta maggiore perfezione, in quanto rimosso ogni ostacolo, diverranno consapevoli di essere fortificati dai più grandi favori e privilegi concessi da noi e dalla Sede Apostolica.” Appena 30 anni dopo circa, nel 1481 (il 21 giugno), viene emanata la terza Bolla, il terzo trust, o diritto fiduciario da Papa Sisto IV, chiamata “AETERNIS REGIS CLEMENTIA”, che si diversifica dalla Bolla precedente di poco, in quanto il “bene” concesso ai Re non è più la terra, ma sono gli esseri umani che abitano quella terra, che da quel momento vengono considerati incompetenti, incapaci e dunque soggetti ad amministrazione coatta. In realtà questa Bolla di Sisto IV realizza la visione illuminata di Bonifacio VIII per cui gli esseri umani sono dispersi in mare e quindi nulla ci appartiene, siamo in bancarotta, perché non siamo mai tornati a reclamare i nostri averi e diritti e quindi è lo Stato che si deve prendere cura di noi per il nostro bene. Questo è il sistema in vigore ancora oggi. [piccola postilla: gli originali delle Bolle del 1302, del 1455 e del 1481, non sono visibili, questo perché fino al XVIII secolo, il Vaticano scriveva le proprie Bolle non su carta, considerata un mezzo privo di vita e quindi privo di valore: a quei tempi (solo due secoli fa!) un documento per essere valido doveva essere scritto su un materiale vivente. Era perciò firmato con il sangue ed era scritto su una pergamena di pelle umana. Parentesi nella parentesi: la recentissima firma della Regina Elisabetta del – criminale! – trattato di Lisbona, è stata fatto su una pergamena di capretto, poiché la Regina, come beneficiaria di un diritto divino, non può firmare un documento “morto”. Non è tutto, la storia notifica, che le Bolle Papali erano scritte su pergamene di pelle di bambini, questo spiegherebbe perché sarebbe imbarazzante per il Vaticano mostrare gli originali.] Approfitto di questa piccola interruzione del racconto per sottolineare che non c’è nessun riferimento negativo a tutte le persone di Buon Cuore (con la B e C maiuscole!) che seguono e vivono secondo l’etica giusta e generosa della Chiesa Cattolica. Il riferimento semmai è solo rivolto a quella “setta” che gestisce il mondo all’interno della Città del Vaticano. E sarebbe importante invitare i Veri Cristiani che si riconoscono in un Dio giusto e misericordioso, a pretendere, indagare e far luce su quello che avviene all’interno di quelle mura. Altrimenti, davvero, non ne usciremo mai!

COSA SIAMO NOI E COSA È LA REPUBBLICA ITALIANA. Nel  1933 c’è stata la peggiore bancarotta concordata, ormai famigerata: furono azzerati i debiti e fu anche proibito il possesso dell’oro da parte dei privati (vi ricordate “l’oro alla patria”?) e gli Stati hanno conferito tutto il proprio oro, insieme a quello confiscato e raccolto, in un unico fondo globale, per custodire il quale è stata fondata la BIS, Bank for International Settlements (Banca per le Transazioni Internazionali) — che darà il via ad un’altra sconcertante storia, come il Sukarno Trust e le denunce attualissime tuttora in corso alla Federal Reserve, (ma ora non è il caso di parlarne, altrimenti rischiamo di mettere troppa carne al fuoco) — che ha sede a Basilea, in Svizzera e fu fondata e controllata dai Gesuiti e dai Cavalieri di Malta. Come per tutto il resto, è facilmente verificabile e certificato, sempre per la legge del Libero Arbitrio. Vi esorto a fare tutte le verifiche possibili e se vi va anche a fare ricerche su quel che sta succedendo con il fondo di oro globale e le richieste di risarcimento alla Federal Reserve. Ma, sempre nel 1933 (udite, udite!) le Nazioni diventano Società di Diritto Privato, registrate presso la SEC (Security Exchange Commission) con sede a Washington D.C., che è l’equivalente della nostra CONSOB (organismo che controlla la Borsa). Queste Società di Diritto Privato chiamate Nazioni, apparentemente pubbliche e repubbliche, ma in realtà privatissime, in base alle tre Bolle Papali, possiedono oggi il DIRITTO DI PROPRIETÁ sulle persone nate in quello stato. La prima istintiva reazione è: non l’Italia! Che è una Repubblica fondata sul lavoro e che ha la sua meravigliosa Costituzione! Purtroppo invece è vero. Andate a controllare voi stessi (cliccate qui → www.sec.gov): c’è la registrazione e il numero di registrazione di “ITALY REPUBLIC OF” – Company Registration Number 0000052782, con tanto di documenti di quotazioni di borsa, cessioni di quote ecc…Il “Business Address è: “Ministero dell’Economia e delle Finanze – Via XX Settembre, 97 – Roma” e il mailing Address è: “C/O Studio Legale Bisconti, Via A. Salandra, 18 – Roma”. Quindi l’Italia NON è una Repubblica libera e pubblica, ma una Private Company e lo Stato possiede il diritto di proprietà delle persone (noi tutti) nate sul suo territorio. Ma abbiamo detto che la proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, un atto fiduciario. Perché i potenti sanno che la proprietà è un concetto fittizio e quindi anche le persone puoi possederle solo con un titolo di proprietà che conferisca il diritto d’uso. Al momento della tua nascita, senza avvisarti, è stato creato un trust, cioè un sistema fiduciario, che ha per oggetto la tua esistenza in vita. E i tuoi genitori hanno avvallato e firmato questo trust (io ho tre figli e mi sento morire per averlo fatto tre volte!) senza essere stati avvisati. Infatti è proprio negli anni ’30 che diventa obbligatorio, guarda caso, registrare le nascite, appropriandosi così del consenso, anche se in questo caso senza essere stati doverosamente “avvisati”. Ecco perché questo sistema è, in parte, fraudolento. In realtà il Certificato di Nascita è un avvertimento, perché è la costituzione di una personalità fittizia, che non appartiene a te, ma a loro. Infatti se erroneamente si potesse pensare che il Certificato di Nascita appartenga a noi, basterebbe provare ad andare in una qualsiasi anagrafe di competenza a chiederne l’originale: possiamo averne una copia, un estratto, ma MAI l’originale. Come a dire che dal momento della creazione del Certificato di Nascita esistono due entità (ricordate la casa di mattoni e il titolo di proprietà su quella casa che ha bisogno di un esecutore, di un amministratore e di un beneficiario?), che sono l’essere umano in carne ed ossa e la persona, cioè un intermediario fittizio o una finzione giuridica, quindi un trust. Questo trust è creato secondo le Leggi Marittime e dell’Ammiragliato (Bibbia) che trascendono sempre le leggi delle varie nazioni e che è la giurisprudenza segreta dei potenti e dell’élite. Di questo trust che viene creato al momento della nascita, sulla tua esistenza in vita, l’esecutore è sempre un organo dello Stato, ma chi è il beneficiario di questo certificato di nascita?  È la Società di Diritto Privato chiamata Repubblica Italiana (un’azienda quindi). Ma beneficiario di cosa? È beneficiario di un bond, di un titolo di possesso, o di una quota societaria che attualmente viene stimato approssimativamente intorno ai 2 milioni di dollari. In pratica lo Stato Italiano crea alla tua nascita due milioni di dollari a mezzo di un bond o titolo e il collaterale di questo bond è la tua esistenza in vita, che significa: produttività, forza lavoro (sempre meno pagata e tutelata così ci guadagnano di più), valore reale! L’equivalenza perversa è: nascita = creazione di un bond e di denaro fittizio = collaterale la tua esistenza in vita e quindi il tuo futuro lavoro (pagato pochissimo se possibile e come stanno evidentemente facendo) = schiavitù! Il “tuo bond” è depositato alla S.E.C, come security, o titolo fiduciario ed entra a far parte del patrimonio di quella Private Company registrata in modo ingannevole come Repubblica Italiana. Per favore verificate tutto ciò che vi è stato detto, bastano pochi secondi su Google. Ma manca ancora la terza parte per dar vita a questa finzione giuridica: l’amministratore, quello che per contratto (trust o certificato di nascita in questo caso) si accolla l’obbligo di prendersi cura del “bene”. Chi è che ha questo ruolo? Ogni qual volta, qualsiasi autorità (dal vigile urbano, al giudice della Corte Costituzionale) ti domanda “è lei Pinco Pallino?” e tu rispondi “sì”, in quel preciso momento ti sei autonominato amministratore di quel trust.  Sei quindi caduto nel tranello in cui ti hanno messo fin dalla nascita, perché nella finzione hanno bisogno che tu ti creda l’amministratore di quella “esistenza in vita”, nella realtà invece, tu e quel trust che porta il tuo nome siete due entità completamente distinte e separate.  L’essere umano in carne ed ossa si scrive con le iniziali maiuscole e le altre lettere minuscole (come ci hanno sempre insegnato anche a scuola), la persona giuridica invece, fittizia, si scrive con tutte le LETTERE MAIUSCOLE. Controllate tutti i vostri documenti d’identità, le comunicazioni bancarie, le notifiche erariali, il tesserino sanitario ecc…Se provaste ad andare per esempio in banca e chiedeste all’impiegato di scrivere il vostro nome con le iniziali maiuscole e il resto minuscolo, se è un ignorantone ci proverà, ma sarà costretto a rispondervi che è impossibile perché il “sistema” non lo permette.  Quindi, ricapitolando: se il 99% del diritto è basato sulla presupposizione, si presuppone che qualcosa sia vero e nessuno mette in discussione quella presupposizione perché il sistema è ancora basato sul meccanismo della “confessione”, esattamente come ai tempi dell’Inquisizione; per funzionare il sistema ha bisogno che tu accusi te stesso e quindi tutto è basato sul tuo consenso, sul tuo libero arbitrio! È necessario infatti che tu accusi te stesso, ma di cosa? Del “peccato originale”. E che cos’è? La frode! L’utilizzo del nome che non ti appartiene, quel nome che da quando sei nato è stato scritto a lettere maiuscole e che è una proprietà intellettuale dello Stato, che ti ha messo in condizioni di usare fraudolentemente. Nel momento in cui lo usi dichiari: che sei nato privo di diritti, che sei in bancarotta, perché la tua vita, il tuo nome e la tua esistenza sono gestiti da altri che non sei tu; sei, perciò, da quando sei nato, in un regime di amministrazione controllata, dove il tuo nome non appartiene a te ma ad altri. Ma è ancora peggio di così! Secondo il Codice dell’Ammiragliato, o Codice Marittimo (Bibbia), sei nato disperso in mare, perché questo dicono le Bolle Papali, sulle quali si basa tutto il sistema; tu, al momento della nascita e attraverso il canale uterino, sei caduto in acqua e sei disperso in mare e non sei mai riuscito a raggiungere la terra ferma, in modo da poterti alzare in piedi e affermare “io sono un essere umano libero davanti a Dio”. Poiché le Bolle Papali si giustificano secondo mandato divino. Perché sono loro che usano la parola Dio, sono loro che hanno chiamato in causa Dio, sono loro che hanno tradotto la Bibbia con il termine Dio, che originariamente non viene mai citato (a proposito la Bibbia diventa Codice di Diritto Nautico sostituendo la parola “peccato” con “debito” n.d.r).  Il diritto quindi è sempre di provenienza divina, noi siamo perciò creature “divine” (vedi. vera traduzione della Bibbia) e loro lo sanno benissimo; non possono quindi creare un diritto fittizio, hanno assoluto bisogno di far discendere il loro diritto da Dio. Quindi loro usano questo Dio (diritto) e se tu usi il loro stesso Dio, ti sei autodefinito incapace, disperso, senza diritti. Pensate la perversione, se tu utilizzi quello che loro ti hanno detto, imposto di utilizzare, dichiari e confermi di essere incapace di prenderti cura di te stesso. Quindi, ricapitoliamo: usano una Società di Diritto Privato, quotata, fingono che sia uno Stato, un ente pubblico, in realtà è privatissimo, e lo usano per fare business (quattrini, denaro, profitto! E ci chiedono anche di pagare le tasse per mantenere una Società di Diritto Privato che non è nostra!) attraverso la tua esistenza, oggetto di quell’entità fittizia scritta tutta a lettere maiuscole, quotata alla S.E.C. di Washington D.C. Il concetto è, quindi, che se tu accetti questo presupposto, ti autodefinisci incapace, bisognoso di essere amministrato in modo coatto, perché oltre ad essere disperso in mare, quindi senza diritti e in bancarotta (non hai mai reclamato ciò che è tuo), non sai neanche chi sei! Per assurdo, ogni autorità, infatti, deve chiederti chi sei, altrimenti non ti può toccare nemmeno con un dito. Non avrebbe la giurisdizione per farlo (si parla di diritto amministrativo, tributario, civile ecc… se uccidi qualcuno, quindi codice penale, è un po’ diverso, ma non troppo…). I nostri tribunali infatti sono tribunali di diritto privato, quindi tribunali aziendali! Stessa cosa vale per il denaro, le banconote “euro”: siamo stati avvertiti, sopra c’è scritto “proprietà della Banca Centrale Europea”, non è nostro è della BCE, ma se noi accettiamo di usarlo, come per il nome fittizio, ci autoproclamiamo incapaci e incompetenti ai loro occhi (disperso in mare, ecc…). Hanno creato quindi un sistema di governo chiamato Cosa Pubblica, che invece è privatissima, che include partiti, Parlamento, Governo, elezioni e se tu accetti di partecipare a questo gioco ti autodefinisci di nuovo incapace e incompetente (disperso in mare, ecc…), bisognoso di amministrazione coatta.  A fronte di questo lungo e, immagino sconvolgente racconto per molti di voi, la prima riflessione è: Come facciamo a cambiare in meglio una cosa che non ci appartiene affatto? Ma del resto il nostro inconscio ce lo dice, nelle ultime amministrative ha votato il 50% degli aventi diritto; una persona su due considera offensivo per la propria intelligenza andare a votare. Quindi a questo punto, se è tutto chiaro, gli interrogativi sono solo due:

1. Cosa possiamo fare per sottrarre il nostro consenso a questa frode che ci vede protagonisti “involontari” fin da quando siamo nati? “Cosa possiamo fare” comprende il salvare il salvabile, dai pignoramenti per esempio, da Equitalia, perché non siamo noi, persona fisica in carne ed ossa a dover pagare le tasse, ma è l’entità fittizia che noi legittimiamo nel momento che la usiamo fraudolentemente (lettere maiuscole). Quindi, in modo individuale possiamo utilizzare noi le loro stesse leggi, Codice Nautico e dell’Ammiragliato (Bibbia) in maniera tale che siano loro a cadere in disonore? Conoscendo la legge possiamo fare qualcosa?

2. Cosa possiamo fare invece collettivamente per creare un’alternativa a questo sistema marcio, fraudolento che è stato creato a loro favore a nostro totale sfavore? Come possiamo modificarlo se non ci appartiene? Intanto, mentre ci pensiamo, possiamo soltanto smettere di partecipare. Concludendo, i nodi cruciali sono due: il denaro e come si prendono le decisioni, che è sinonimo di politica. Ma c’è un punto in più che è diventato chiarissimo: non si possono trattare separatamente denaro (economia, finanza, crisi ecc…), la politica, cioè il modo in cui si prendono le decisioni, la religione e il diritto, perché per i potenti, l’élite, sono la stessa identica cosa.

INDIANI D’AMERICA: “NOI NON DERIVIAMO DALLE SCIMMIE, MA DALLE PLEIADI…” Articolo di Bisonte Che Corre (Enzo Braschi) su “Il Mondo alla rovescia” del 31 maggio, 2016. Gli Indiani e la Conoscenza perduta sulle origini dell’uomo a causa dei colonizzatori criminali europei. I Cherokee (Ani Yonwiyah) ovvero “Il popolo capo” è antico come le pietre. “Ne ho conosciuti alcuni – biondi e con gli occhi azzurri – durante la "Danza del Sole" del 1998, nella Riserva dei Lakota Sicangu di Rosebud, in Sud Dakota. Erano un padre e due figli”. “Sembrate inglesi, scozzesi, non so… ” dissi, “ma non Cherokee”. I tre risero: “Veniamo da Atlantide, e prima ancora dalle Pleiadi.” “Raccontami” dissi. Il ragazzo spiegò: “La nostra lingua, la sua radice originaria, oggi parlata da un’esigua minoranza di ultra ottantenni, si chiama Elati. Io non la so parlare, qualcuno ancora la ricorda, ma contiamo quel qualcuno sulla punta delle dita. Si tratta di suoni crescenti e decrescenti che vengono pronunciati senza quasi muovere la bocca. Ciò che ne scaturisce possiede una bellezza e una musicalità del tutto particolari, considerato che si tratta di una lingua gutturale”. “Più che di parole si deve parlare di suoni di potere che racchiudono una forte energia spirituale. Per i Cherokee parlare significa infatti essere più che comunicare. Questa lingua, Elati, è detto "il linguaggio degli Antenati" o "il linguaggio delle Stelle", un modo di esprimersi che i vecchi uomini sacri della nostra gente consideravano provenire da lassù, dall’alto. La tradizione orale della tribù puntualizza infatti che i Cherokee arrivarono sulla Terra 250.000 anni fa dalle Pleiadi, che nella nostra antica lingua vuole dire per l’appunto Antenati.” “A tal proposito vorrei precisare che l’uomo non discende affatto dalla scimmia ma dal Popolo delle Stelle. Nella cosmologia cherokee, la Terra è detta il Pianeta dei Bambini, ovvero il Pianeta dei Figli delle Stelle.” “Il sapere della nostra antica Società dei Capelli Intrecciati ha inizio al tempo in cui esistevano dodici pianeti abitati da esseri umani, i cui progenitori si riunivano su un pianeta chiamato Osiriaconwiya, vale a dire il quarto pianeta della costellazione del Cane Maggiore, cioè Sirio. Su quel pianeta grandi sapienti si trovarono un giorno a discutere delle sorti dell’Ava Terra, la nostra terra, detta in lingua cherokee Eheytoma, il pianeta dei figli, ovvero il tredicesimo pianeta”. “Poiché il nostro mondo era il meno evoluto rispetto agli altri, quei dotti stabilirono di trasferire tutta la loro conoscenza all’interno di dodici teschi di cristallo, che chiamarono Arca di Osiriaconwiya, che portarono sulla nostra Terra, affinché un giorno potessimo consultarli e sapere tutto delle nostre vere origini”. “I nostri avi fecero di più: aiutarono infatti i loro figli a fondare quattro civiltà: Lemuria, Mu, Mieyhun e Atlantide, servendosi della conoscenza dei teschi, per dare avvio alle grandi scuole del mistero, veri centri di sapienza arcana, e alle segrete società di medicina.” “Queste informazioni giunsero circa 750.000 anni fa e cominciarono a diffondersi sul nostro pianeta tra i 250 e i 300.000 anni fa. I dodici teschi corrispondenti ai dodici pianeti, venivano sistemati in cerchio attorno a un tredicesimo teschio di ametista di dimensioni più grandi, che raccoglieva la consapevolezza collettiva di tutti quei mondi”. Ma poi…arrivarono Cortès e i suoi assassini (i nostri antenati europei) che interruppero lo sviluppo della conoscenza. “Coloro che furono incaricati di compiere il viaggio sulla Terra per farci dono dei teschi di cristallo furono detti Olmechi. Questi passarono quella conoscenza ai Maya, quindi agli Aztechi e infine ai Cheorkee e a tutti gli altri indiani del Nord America. Pare che l’Arca si trovasse ancora a Teotihuacan, allorché arrivarono Cortès e i suoi assassini che interruppero lo sviluppo della conoscenza” concluse il Cherokee. La cosa non sembra essere priva di fondamento: risulta infatti che Cortès venne a conoscenza di qualcosa di potentemente misterioso e che arrivò quasi a impossessarsi dell’Arca, grazie all’aiuto di un traditore; ma i sacerdoti giaguaro e i guerrieri aquila riuscirono a trarla in salvo. Alcuni teschi di cristallo vennero nascosti in America Meridionale, altri andarono dispersi nel mondo. La Terra attenderebbe che la conoscenza sia finalmente svelata al genere umano attraverso la riunione dei tredici teschi di cristallo. Secondo i Lakota Sioux, la Prima Sacra Pipa fu portata loro in tempo remoto da Ptesan Win, “Donna Bisonte Bianco”, una donna proveniente dal cielo, probabilmente dalle Pleaidi. Tayamni è il nome che i Lakota danno a una costellazione che equivale a un bisonte bianco nel cielo. Tayamni è infatti formato dalle Pleiadi come testa, le tre stelle della cintura di Orione come spina dorsale, le stelle Betelgeuse e Rigel come costole, e Sirio come coda. Unendo tutti questi punti, in cielo si forma l’immagine di un bianco bisonte…Miti, favole. Miti e favole come sempre, vero? Ma certo. A proposito di “fantascienza”… perché non vi riguardate l’ultimo film di Indiana Jones relativo ai tredici teschi di cristallo? Fantasia, miti e favole come sempre. Ma la NASA e il potere occulto amano la fantascienza, vi pare?

Un Mondo Impossibile ..."“Contra factum non valet argumentum”. Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. In questo blog si vuole commentare ed analizzare l'attualità e la storia ma sopratutto scoprire ed evidenziare le ipocrisie, le falsità ed i soprusi di questo mondo appunto ormai impossibile da vivere, scrive martedì 19 gennaio 2016 Arturo Navone su  “Un Mondo Impossibile”. “La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi”. Honorè de Balzac. Propaganda, Stereotipi e Lavaggio del Cervello, l'Allontanamento dalla Soluzione e come Ritrovarla. Carl Gustav Jung e gli Indiani d'america ... Il delirante percorso della civiltà occidentale e dell'uomo bianco come è noto ha causato danni incalcolabili, dove sempre per interessi reconditi ma sempre più chiari ci viene raccontato che siamo vicini al punto di non ritorno che nulla si può fare. E' un chiaro esempio di propaganda e lavaggio del cervello, che ho già evidenziato in altri articoli, studiato a tavolino che aggiunto a degli stereotipi fa il gioco di chi ora lasciamo comandare. Un esempio ne sono proprio i pellerossa che ci han voluto far credere essere dei demoni quando invece lo eravamo noi, è il nostro mondo, quello che è nero lo dipingono per bianco e viceversa, con l'uso poi dei vari sistemi ormai fin troppo conosciuti, cinema, televisione, media, opinionisti, influencer, pubblicità e messaggi subliminali ti incatenano la menzogna alla coscienza, ne viene poi difficile venirne fuori, ci sono degli esempi incredibili, filmati dove le vittime sono poi finite ad essere i carnefici, le montagne di morti non hanno la targa di circolazione, poi l'ha detto "la televisione", le immagini dei cadaveri del popolo X uccisi da Y li han rappresentati come morti di Z et voilà X erano i criminali e Y e Z santi e martiri, poi un X si vede in un documentario rieducativo in un posto che nemmeno sapeva esistesse perchè in effetti così come era stato rappresentato non esisteva, non stò nemmeno a dire i protagonisti è fin troppo evidente per chi ha occhi, orecchie e soprattutto cervello .... pochi ma così è la vita. Questo scritto era iniziato con un altro intento poi cammin facendo si è evoluto, andremo a vedere come quelli che crediamo "barbari" non lo siano affatto e che la soluzione l'hanno sempre culturalmente avuta, abbiamo cercato di distruggerli ma ora gioco forza cerchiamo di recuperare ciò che è l'unica salvezza ...Il noto psicologo Carl Gustav Jung, nel suo scritto Ricordi, sogni, riflessioni racconta di un suo incontro con un capo pellerossa Taos Pueblos mentre era alla ricerca della propria ombra. La conversazione che ne seguì è significativa per comprendere i nostri condizionamenti culturali. «Vedi - diceva il capo indiano - i bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti, irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non riusciamo a capirli. Pensiamo che sono pazzi». Jung chiese a questo capo perché mai pensasse che l’uomo bianco fosse pazzo. E l’indiano gli rispose, mostrando tutta la sua meraviglia: «Dicono di pensare con la testa!». «Ma certamente pensano con la testa! – disse Jung - E tu, con cosa pensi?». E lui: «Noi pensiamo qui!», disse, indicando con la mano il cuore. E Jung conclude: «Mi immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se, fino a quel momento, non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento. Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole. Aveva svelato una verità, alla quale siamo ciechi»."il mondo dell'Uomo bianco è Koyaanisqatsi, un Mondo Disarmonico, privo di equilibrio, un Mondo malato al quale la saggezza degli Indiani d'America può arrecare giovamento, affinchè l'Uomo Bianco possa vivere le stagioni.....nel cuore della vita...in armonia con sè stesso e la Natura!!!!!" Nella cultura indiana il percorso di risanamento dell’anima ha delle tappe ben precise che devono essere rispettate: innanzitutto le quattro direzioni dei punti cardinali e, poi, il rapporto con la terra come madre dell’universo e con il cielo come dimora degli spiriti. Il processo si completa nel cerchio sacro, una forma che diventa il simbolo dell’armonia tra gli uomini e ciò che li circonda. Questo viaggio senza fine, perché il miglioramento fisico, emotivo, mentale e spirituale non può mai essere completato, è lo scopo dell’esistenza di ogni Indiano, qualunque sia il gruppo tribale d’appartenenza. Le quattrocento nazioni originarie del continente nordamericano erano caratterizzate da differenze marcatissime a livello geografico, sociale, linguistico e culturale. I Lakota-Sioux si muovevano liberamente nel grande oceano d’erba, le praterie e pianure sconfinate che si estendevano dalla Valle del Mississippi alle Montagne Rocciose. Erano nomadi che, spostando le proprie tende (tepee), seguivano le migrazioni del bisonte in cerca di nuovi pascoli. Gli Zuni e gli Hopi, stanziati nell’arida terra del sud-ovest americano, ricavarono le loro case dal deserto. I Cherokee praticavano l’agricoltura. Avevano un sistema sociale preciso basato su principi democratici e si organizzarono in insediamenti piuttosto ampi. Gli Tsimshian vivevano sulle coste nordoccidentali del Canada. I Chippewa e i Wintu appartenevano al gruppo degli Indiani dei boschi. Ma un filo comune emerge dalle loro parole, dal ricchissimo patrimonio orale di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane: la consapevolezza che la Terra è madre e deve essere rispettata. La meta di questa avventura spirituale è la comprensione che l’uomo è parte integrante di un cerchio che comprende le piante, gli animali, i minerali, la Terra, il Cielo, l’acqua, le stelle, la notte e il giorno, la Luna e il Sole. Il corpo umano è tutt’uno con la terra che lo nutre e lo sostiene: «Noi siamo la terra. Noi le apparteniamo. Noi siamo una parte della terra e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli. Le coste rocciose, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia». Non c’è separazione tra mondo naturale e mondo umano. L’uomo non è il Signore del Creato e il mondo non è a suo beneficio. Ogni creatura ha un eguale diritto all’esistenza e merita rispetto semplicemente perché è viva. Il ritmo della natura porta la salute, l’equilibrio, l’armonia la bellezza. Il ciclo annuale delle stagioni è garanzia di ordine e di benessere: il tepore primaverile verrà sempre a riscattare il gelo invernale. Non bisogna spezzare il fluire del cielo naturale, altrimenti ne deriveranno malattia, paura, incubi e insicurezza. La natura batte il tempo, il suo orologio regola la vita del pianeta e dell’uomo. L’uomo non stabilisce quindi solamente un rapporto equilibrato con la natura ma arriva a conoscere se stesso grazie a questa armonia. Joseph Bruhac ci racconta una storia che riassume questo viaggio interiore: «Dopo che Wakan Tanka, il Grande Spirito, ebbe messo in ordine le altre sei direzioni, l’est, il sud, l’ovest, il nord, il cielo e la terra, restava sempre una direzione senza destinazione. Ma poiché la settima direzione era la più potente di tutte, in quanto racchiudeva la saggezza e la forza più grandi, Wakan Tanka, il Grande Spirito, desiderò metterla in un luogo dove non sarebbe stato facile trovarla. Ecco perché la nascose nell’ultimo posto dove gli uomini generalmente pensano di guardare: nel loro cuore». Nonostante siano stati privati della propria terra, della propria cultura e della propria identità, gli Indiani d’America sono riusciti a trasmettere la loro fede in questo modo di vivere. Hanno parlato con il cuore, di padre in figlio, per indicare il sentiero che porta alla rigenerazione e la loro voce è rimasta. Anche con queste parole: Accanto alla montagna, spianato dai nostri passi, il terreno del campo risuona. Ti dice: la terra è un tamburo, pensaci. Noi, per seguirne il ritmo, dobbiamo fare attenzione ai nostri passi.

I DIECI COMANDAMENTI INDIANI:

La Terra è la nostra Madre, abbi cura di Lei.

Onora (rispetta) tutti i tuoi parenti.

Apri il tuo cuore ed il tuo Spirito al Grande Spirito.

Tutta la vita è sacra, tratta tutti gli esseri con rispetto.

Prendi dalla Terra solo ciò che è necessario e niente di più.

Fai ciò che bisogna fare per il bene di tutti.

Ringrazia costantemente il Grande Spirito per ogni giorno nuovo.

Devi dire sempre la verità, ma soltanto per il bene degli altri.

Segui i ritmi della natura, alzati e ritirati con il sole.

Gioisci nel viaggio della vita senza lasciare orme.

Trovo delle straordinarie similitudini con la fisica quantistica e le filosofie orientali, se una cosa la trovi in più culture e studi è inequivocabilmente segno che è la strada giusta, personalmente credo che la grandezza di Jung sia anche provata dalla capacità di aprirsi allo studio delle altre culture, prova ne è che la coscienza collettiva, la sincronicità quindi, è trattata anche nella Bhagavad gītā, testo millenario, sacro indù. L’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito.

Incontro Occidente-Oriente di Mario Thanavaro. Tratto da “Spiritualità Olistica” (Venexia Editore). “E’ giunto il momento in cui dobbiamo lasciar cadere questa divisione tra esterno e interno, tra ciò che è inferiore e ciò che è superiore, tra la mano destra e la mano sinistra. Dobbiamo lasciar perdere questa divisione fra l’uomo e la donna, fra l’Oriente e l’Occidente. Dobbiamo creare un essere umano integro, abile in entrambe le dimensioni”. Osho Rajneesh. Il principio dei vasi comunicanti afferma che quando in un’area si crea il vuoto e in un’altra c’è il pieno, il travaso dal pieno verso il vuoto si produce inevitabilmente. Viviamo oggi in un’epoca straordinaria, il grande progresso tecnologico ci ha dato i mezzi e gli strumenti per spostarci da una parte all’altra del pianeta, permettendoci di entrare in contatto con altre etnie, tradizioni e culture. Tutto il mondo ci entra in casa via satellite grazie al piccolo e al grande schermo e questo ci consente di analizzare la grande diversità tra le varie culture, la diversità della loro organizzazione socio-politica ed economica. Con la scienza e la tecnologia abbiamo assistito al prevalere della secolarizzazione e del modernismo sulle antiche istituzioni religiose, ma lo sviluppo tecnologico ha preso la direzione di uno sconsiderato utilitarismo senza riguardo ai valori e ai diritti umani, accentuando la disparità tra nazioni, popoli e culture. Per quanto la tecnologia ci dia l’impressione di essere vicini l’uno, le leggi di mercato ci impongono il Super Dollaro come sola unità di misura valida nel quantificare il valore di un individuo o di un popolo. La grande famiglia umana è stata inesorabilmente divisa in ricchi e poveri, e i grandi flussi migratori, oggi come in passato, sono la risposta spontanea della natura che tende al riequilibrio. Il problema demografico ed economico spinge i Paesi più poveri verso l’Occidente, il quale, da sempre in contatto con altre civiltà, prima con i grandi viaggi e scoperte poi con il colonialismo, ha fatto delle fortune degli altri Paesi la sua fonte di ricchezza. Il primo contatto con l’Oriente risale al principio dell’800 e avviene sul piano ideologico dell’intellettualismo filosofico e religioso. A quel periodo risalgono le prime traduzioni degli antichi testi sacri dell’India, i Veda, le Upanishad e il canone buddhista. Già da quei primi approcci risultò evidente la grandezza del messaggio spirituale dell’Oriente, per molti versi incomprensibile agli occidentali, tanto che gli Inglesi, dopo un secolo di dominazione coloniale, dovettero ammettere di non aver capito il modo di pensare degli indiani. L’Inghilterra spinse le sue colonizzazioni fino in Cina, in Birmania e nel lontano Tibet. Il Museo Britannico di Londra conserva molti dei tesori letterari e artistici presi durante quella dominazione. Gli studiosi autentici di quei cimeli ci hanno insegnato a guardare all’Oriente con rispetto e forse in modo un po’ onirico. Il fascino che ancora oggi l’Oriente esercita sulla mente degli occidentali risponde forse a un’esigenza di libertà, sempre più difficile da esperire per l’uomo del XXI secolo, chiuso in una società tecno-virtuale, afflitto da un senso di solitudine e alienazione senza pari. L’avvicinamento delle varie culture presenta degli aspetti molto positivi, ci può indirizzare verso un’apertura di mente e cuore, un dialogo e una comunicazione veramente nuovi se vissuti come scelta consapevole, fino a un cambiamento radicale delle secolari impalcature e strutture concettuali, fino allo movimento di pensieri coscienti e non coscienti secondo il principio dei vasi comunicanti. Tutti possono beneficiare dell’apporto di altre culture e tradizioni. Ci può arricchire in tutti i sensi e contribuire al risveglio di una Nuova Civiltà. Il messaggio dei saggi del Medio ed Estremo Oriente così pure delle antichissime tradizioni sciamaniche (le origini dello sciamanesimo si possono far risalire a circa 30.000 anni fa) può offrire una nuova visione, permettendo di riprendere contatto con le radici spirituali e finalmente uscire dal vicolo cieco. Il riemergere oggi della cultura e filosofia degli indiani d’America sotto la spinta dell’Occidente è indicativo dell’estremo tentativo da parte dell’uomo bianco di ritrovare un collegamento diretto con la Natura. È proprio a causa della separazione dell’uomo bianco dal principio del rispetto della Terra e di ogni essere vivente che ci troviamo di fronte a problemi ecologici enormi, effetto del suo agire sconsiderato. Secondo diversi ricercatori e scienziati, a causa della pressione ambientale, nel 2050 le condizioni di vita sul pianeta saranno pessime. È per questo motivo che in diverse culture spirituali è stata profetizzata una grande Purificazione Planetaria. In un antico testo del buddhismo tibetano, le preghiere rivolte a una divinità protettrice sono precedute dal seguente testo: «In quest’epoca degenerata la contraddizione tra le intenzioni e gli atti degli esseri e le perturbazioni degli elementi esterni e interni provocano epidemie e malattie finora sconosciute che colpiscono uomini e animali, sofferenze causate da pianeti, naga (una categoria di esseri intelligenti con volto umano e lunga coda di serpente, n.d.t.),demoni ed esseri elementari cattivi. I raccolti sono colpiti da malattie, gelo e grandine, sono annate dure nelle quali scoppiano dispute, lotte e guerre. Le piogge sono irregolari, la neve cade troppo abbondante e appaiono calamità causate dai roditori. Vi sono terremoti, incendi e disastri dovuti ai quattro elementi». Oggi come in passato la confusione e la sofferenza che proviamo è imputabile prima di tutto a una situazione di disequilibrio. Mentre la saggezza millenaria dell’Oriente ci insegna a guardare dentro per le risposte ai problemi dell’uomo, l’Occidente guarda fuori. In cerca di soluzioni e risposte, l’uomo moderno occidentale ha cercato la verità assoluta nella razionalità. È convinto di garantirsi una vita comoda, sul piano sociale e politico semplicemente rafforzando l’economia e, sicuro del suo modello di sviluppo, lo ha promosso e molto spesso imposto in tutti i Paesi del mondo. Dominato dal delirio della scienza, pensa di occultare ancora per molto la sua paura della morte affidando le sue speranze di immortalità all’ingegneria genetica. Il suo agire imprudente sull’ambiente non lo ha messo al riparo dagli elementi, anzi ha accentuato la precarietà della sua esistenza, esponendolo a disastri naturali di ogni tipo che lo colgono fragile e psicologicamente impreparato ad affrontare il dolore della tragedia. Nel campo religioso, la ferrea convinzione di essere il detentore dell’unica verità assoluta, ha accentuato la sua distanza dal prossimo e da Dio al quale si affida in modo fideistico per allontanarsene ogni qualvolta non trova risposta ai suoi mille ‘perché’. Il suo smarrimento è grande e ha bisogno dell’aiuto dell’intuito della antica saggezza dell’Oriente per tornare alla riflessione, alla meditazione, alla contemplazione della bellezza del creato, per ritrovare pace e armonia con se stesso, i suoi simili, la terra e il cosmo. Ho scritto questo articolo per evidenziare come con dei mezzi banali, se vogliamo, si può far credere tutto ed il contrario di tutto e che la soluzione ai "nostri problemi" non sia poi chissà cosa, è semplicemente dentro di noi, quello è il difficile, è ovviamente più facile dare la colpa ad altri e far finta di nulla. Parecchi anni fa, tanti, dopo la lettura di quanto segue avevo intuito che quella era la soluzione ed ora me la ritrovo confermata anche da Jung tra gli altri, chiaramente c'era arrivato prima ma non ne ero a conoscenza ... "Non vi potrà mai essere una rivoluzione socio-politica, finché non avrà luogo una rivoluzione individuale, perché la rivoluzione deve nascere dall’interno di ciascun singolo essere umano perché poi può diventare collettiva, del resto, si può privare l’essere umano della libertà politica, senza fargli alcun male, ma se lo si priva della sua libertà di essere o sentire, lo si distrugge. La nostra cultura occidentale disprezza le culture primitive ma quei popoli vivono in armonia con la terra, le foreste e gli animali. Occorre una rivoluzione interiore radicale, occorre varcare le proprie porte interiori, per poter essere davvero liberi, liberi di essere e sentire, occorre spazzare via dal proprio intimo tutta l’immondizia che ci è stata inserita dentro nel corso degli anni, fin dal momento in cui siamo nati. Ma la stragrande maggioranza della gente, questo non lo vuole fare, non è disposta a cambiare nulla". !!!!!!!!!! Jim Morrison.

La Storia Segreta Dell’Unione Europea: Il Piano Kalergi, scrive “No Censura” il 7 novembre 2013. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Esistono due storie che raccontano la nascita dell’Unione Europea. Una ufficiale, di facciata, sponsorizzata dall’intero apparato accademico che narra di un gruppo eterogeneo di persone, i cosiddetti padri fondatori della “nuova Europa”, il quale successivamente al conflitto mondiale iniziò a progettare la pace, l’unità e la prosperità nel Vecchio continente per poi dare vita ad una comunità di Stati in cooperazione tra di loro. E poi c’è una storia reale ma oscurata, che rivela il progetto di un uomo, l’aristocratico Richard Koudenove-Kalergi (giapponese di madre e austriaco di padre), il quale non fu mai protagonista degli eventi ma che fu, nel retroscena, artefice allo steso modo dei vari De Gasperi, Shuman, Monnet e Adenauer, probabilmente ancor più influente poiché a differenza di questi ultimi, aveva una visione planetaria e non europea. Nel 1922, Koudenove-Kalergi fonda la Paneuropa (o Unione Paneuropea) con lo scopo apparente di impedire un nuovo conflitto continentale, tuttavia nel 1925 in una relazione presentata alla Società delle Nazioni i fini dell’austro-giapponese si manifestano chiaramente. Il suo obiettivo primario era quello di unificare l’Europa, al fine di integrarla all’interno di un’organizzazione mondiale politicamente unificata, in poche parole un governo mondiale, che a sua volta federasse nuove federazione continentali (“continenti politici”, proprio come la “Paneuropa”). Inoltre nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, Kalergi espone una visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una sorta di subumanità resa bestiale dalla mescolanza razziale”, e affermando senza mezzi termini che “è necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’elite al potere. L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità”. Nel 1926 Koudenove-Kalergi organizzò la prima conferenza paneuropea di Vienna, sotto gli auspici del suo presidente onorario, il presidente Aristide Briand (1862-1932) e fu proprio in questo convegno che si decise di scegliere l’inno europeo, l’Inno alla gioia di Beethoven, che in seguito diventerà l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Ma è durante questo primo congresso che sono esposti in modo chiaro, lucido, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine di questo contenitore di idee: “l’Unione Pan-europea ribadisce il suo impegno al patriottismo europeo, a coronamento dell’identità nazionale di tutti gli europei. Nel momento dell’interdipendenza e delle sfide globali, solo una forte Europa unita politicamente è in grado di garantire il futuro dei suoi popoli ed entità etniche. L’Unione Paneuropea riconosce il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici allo sviluppo (…) culturale, economico e politico”. Negli anni Trenta, Koudenove-Kalergi condanna fermamente il modello nazional-socialista di Adolph Hitler e quello sovietico di Stalin, tanto che l’industria tedesca revoca definitivamente i finanziamenti all’Unione paneuropea, mentre gli intellettuali filo-sovietici lasciano l’associazione. Durante la Seconda Guerra Mondiale il fondatore della Paneuropa si rifugia negli Stati Uniti, nei quali insegnò in un seminario presso la New York University – “La ricerca per una federazione europea del dopoguerra” – a favore del federalismo europeo. Nel 1946, Koudenove-Kalergi torna in Europa e la sua personalità gioca un ruolo di estrema rilevanza. La Paneuropa riprende le forze e si creano in tutti Paesi europei delle delegazioni (Paneurope France, Paneuropa Italia, ecc.) che in pochi mesi diffusero gli ideali paneuropeisti a quelli che poi furono considerati i “padri fondatori della nuova Europa”. Queste delegazioni contribuirono alla realizzazione dell’Unione parlamentare europea, che successivamente consentì la creazione nel 1949, del Consiglio d’Europa. Il suo “impegno” intellettuale e politico gli permisero di aggiudicarsi nel 1950 il prestigioso premio prettamente continentale “Carlo Magno” e, persino in suo onore fu stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo “ideale” confederativo e mondialista. Tra questi troviamo nomi come Angela Merkel e Herman Van Rompuy. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Da qui vediamo lo stretto legame tra Wall Street, quindi gli Stati Uniti d’America e la volontà già negli Venti di federare l’Europa sotto una sola guida politica, probabilmente per dominarla meglio. Richard Coudenhove-Kalergi non fu un visionario del suo tempo proprio perché egli fu un manovratore della partita. Non a caso l’Europa sognata dall’aristocratico austro-giapponese è la stessa di oggi, quella del terzo millennio.

Ecco la condanna a morte che ci attende. Pubblicato il testo del TPP. Pubblicato il 6 novembre 2015 da Claudio Messora su “Byo Blu”. “Peggiore di qualunque cosa avessimo mai immaginato”. “Un atto di guerra al clima”. “Un omaggio all’agricoltura intensiva”. “Una condanna a morte per la libertà della rete”. “Il peggior incubo”. “Un disastro”. Questo è il tenore dei commenti di chi ha letto e studiato il testo del TPP, il fratello gemello del TTIP, l’accordo di libero scambio commerciale tra Usa e Ue, negoziato in segreto, di cui vi ho parlato mercoledì sera a La Gabbia. Il TTIP fa parte di una gigantesca strategia globale degli Usa, le cosiddette “Tre T”, che comprendono anche il TTP e il TISA. Il TTIP è l’accordo di liberalizzazione commerciale che stanno negoziando (in segreto) Usa e UE. Il Tisa (Trade in Services Agreement) è l’accordo, anche peggiore, sulla liberalizzazione dei servizi e il TPP (Trans Pacific Partnership), è l’omologo del TTIP sul fronte pacifico, che includerà 12 paesi, tra cui Singapore, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti, l’Australia, il Messico, il Giappone e il Canada. Caso vuole che in nessuno dei tre accordi siano presenti i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Caso vuole? No, in effetti non è un caso, ma esattamente lo scopo per cui le Tre T sono state create: aggirare il peso che i paesi emergenti hanno assunto nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), isolare la Cina (con la strategia militare e commerciale definita “Pivot to Asia”) e assicurare il dominio delle grandi corporation USA nell’economia mondiale. Questi trattati sono negoziati in segreto (perché se no non glieli lasceremmo fare): per la UE ci pensa quella simpaticona indefessa adoratrice dei più stringenti principi democratici che si chiama Cecilia Malmström (la signora io-non-rispondo-ai-cittadini). Solo le lobby hanno libero accesso al testo del negoziato. Se gli europarlamentari vogliono visionarlo, devono chiamare l’ambasciata americana, farsi dare un appuntamento che è disponibile solo due volte a settimana, in una fascia oraria di sole due ore, solo due alla volta, all’ingresso devono consegnare ogni dispositivo elettronico, firmare un impegno di riservatezza e finalmente possono avere davanti agli occhi intere sezioni di codici e codicilli legali, per due ore, senza poter prendere appunti e guardati a vista da due guardie americane. Se questo lo chiamate democrazia, fatevi visitare da uno bravo! Lato Usa invece usano la Fast Track Negotiating Authority for Trade Agreement, che è uno strumento che consente al Presidente degli Stati Uniti d’America di negoziare trattati commerciali per i fatti suoi, e poi presentare un pacchetto fatto e finito al Congresso, che può solo approvarlo o respingerlo in toto, a maggioranza semplice, (un po’ come la nostra fiducia): i deputati USA non possono in alcun modo proporre emendamenti o fare ostruzionismo. E’ nato per consentire l’approvazione di trattati commerciali che altrimenti non avrebbero mai visto la luce, e per consentire ai deputati di votare a favore senza perdere la poltrona (negli Usa c’è il recall), dato che chi li ha eletti ne sarebbe probabilmente scontento. Figuratevi quanta democrazia ci sia anche da quelle parti: hanno creato uno strumento per fare in modo di poter votare quello che democraticamente non potrebbero! Chapeau! (E questa è la più grande democrazia del pianeta, figuriamoci le altre!). Dunque cosa succede? Succede che il testo del TPP finalmente è stato rilasciato, dopo essere stato finalizzato dalle ultime negoziazioni di Atlanta, in Georgia. La pubblicazione dei contenuti del trattato ha così avviato il periodo di tre mesi che precede il suo atterraggio al Congresso, chiamato ad approvarlo. Ecco il testo ufficiale: TPP FINAL TABLE OF CONTENTS. La reazione di chi ha avuto lo stomaco di leggerselo è stata questa: “Dai leaks, avevamo saputo qualcosa sull’accordo, ma capitolo dopo capitolo la lettura del testo finale è peggiore di quello che ci aspettavamo: le richieste di 500 lobbisti che rappresentano gli interessi delle corporation sono state soddisfatte a svantaggio dell’interesse pubblico. Questo accade quando le lobby possono negoziare in privato, nell’oscurità, e i cittadini vengono tagliati fuori”. “Il TTP è un disastro per il lavoro, per l’ambiente e per la democrazia. E’ l’ultimo passo verso la resa della nostra società alle corporation. L’enorme accordo tra 12 nazioni sulle coste del Pacifico ha meno a che fare con la vendita delle merci di quanto, piuttosto, abbia a che fare con la riscrittura delle regole dell’economia globale in favore del grande business. Esattamente come il North American Free Trade Agreement (il NAFTA), 20 anni fa, sarà una cosa ottima per i più ricchi e un disastro per chiunque altro. Il NAFTA ha radicato le disuguaglianze e causato la perdita di un milione di posti di lavoro negli USA. E il TPP non è altro che una versione del NAFTA iperpotenziata”. “Ora che abbiamo visto il testo definitivo, viene fuori che il TTP, vero e proprio assassino dell’occupazione, è peggiore di qualunque altra cosa che sia mai stata immaginata. Questo accordo abbatterà i salari, inonderà il nostro Paese di alimenti importati e non sicuri, innalzerà i prezzi delle medicine salva-vita, e tutto questo mentre si faranno affari con paesi dove gli omosessuali e le mamme single possono essere lapidate”. “Il testo è pieno di sussidi per le società che fanno affari sui combustibili fossili e di incredibili possibilità per queste compagnie di fare causa ai singoli governi che cercano di diminuire l’uso dei combustibili fossili. Se una provincia mette una moratoria sul fracking, le corporation possono perseguirla legalmente; se una comunità cerca di fermare una miniera di carbone, le corporation possono prevalere in punta di diritto. In breve, queste leggi minano la capacità dei singoli stati di attuare quello che gli scienziati dicono che sia la sola cosa più importante da fare per combattere la crisi climatica: abbattere i consumi di carburanti fossili”. “E’ un accordo disegnato per proteggere il commercio libero di prodotti energeticamente sporchi come i depositi non convenzionali di catrame e bitume, depositi di carbone e gas naturale liquefatto spedito dai porti della costa occidentale. Il risultato sarà un’accelerazione dei cambiamenti climatici derivante delle emissioni di CO2 in tutto il Pacifico. Il presidente Obama ha venduto agli americani false promesse: il TTP tradisce la promessa di Obama di fare dell’accordo un trattato amico dell’ambiente”. “Il capitolo ambientale conferma molti dei peggiori incubi dei gruppi ambientalisti e degli attivisti contro il cambiamento climatico”. “Con le sue disposizioni che tagliano le mani agli ispettori alimentari sulle frontiere e danno più potere alle compagnie che operano nella biotecnologia, il TPP è un regalo alle grandi multinazionali del settore dell’agricoltura intensiva e del cibo biotech. Questo genere di società useranno gli accordi come il TPP per attaccare le misure di sicurezza sugli alimenti sensibili, per indebolire le possibilità di ispezionare il cibo importato e per bloccare ogni sforzo di rafforzare gli standard di sicurezza alimentare degli Stati Uniti. Innanzitutto quelli per etichettare correttamente gli alimenti OGM. Inoltre, qualunque criterio di sicurezza alimentare sull’etichettatura dei pesticidi o degli additivi che sia più elevato rispetto agli standard internazionali, potrà essere additato come una barriera commerciale illegittima. Sotto al regime del TTP, il business dell’agricoltura intensiva e le multinazionali biotech delle sementi hanno adesso un modo più semplice per sfidare a quei paesi che vietano l’importazione di alimenti geneticamente modificati, che controllano la contaminazione OGM, che non approvano prontamente nuovi prodotti OGM o anche solo richiedono un’etichettatura adeguata”. “Se il Congresso degli Stati Uniti firmerà questo accordo malgrado la sua sfacciata pericolosità, firmerà la condanna a morte per la rete internet aperta e metterà il futuro della libertà di opinione a repentaglio. Tra le molte sezioni del documento che destano gravi preoccupazioni, ci sono quelli relative ai marchi commerciali, ai brevetti delle case farmaceutiche, alla protezione del copyright e ai segreti commerciali. La sezione J, che riguarda gli internet service providers, è una delle sezioni peggiori che impatta sulla libertà della rete. Richiede ai fornitori di servizi internet di comportarsi come poliziotti della rete e collaborare con le richieste di oscuramento, ma non obbliga i paesi a dotarsi di un sistema di contestazione. Così, una società potrebbe ordinare a un sito web di essere oscurato in un altro paese e non ci sarebbe nessuno strumento per il proprietario del sito di confutare la legittimità della richiesta nel caso, per esempio, dei blog di critica politica che usano materiale protetto da copyright sotto il regime del fair use. La sezione J è scritta in maniera tale che gli internet service provider non saranno perseguibili per nessuno degli errori che dovessero commettere sull’oscuramento dei contenuti, incentivandoli così a “sbagliare” a favore dei detentori di copyright invece che a favore di chi esercita la libertà di opinione”. “Anche una parte dell’opinione pubblica canadese è molto preoccupata sulle conseguenze dell’accordo commerciale sui diritti umani, sulla salute, sull’occupazione e sulla democrazia. Il Consiglio dei canadesi, un’organizzazione alla testa di un largo network impegnata nella difesa dell’equità sociale, ha chiesto formalmente al nuovo primo ministro Trudeau di organizzare una consultazione pubblica che includa un ampia analisi indipendente del testo, dal punto di vista dei diritti umani, delle conseguenze economiche e di quelle ambientali, prima di procedere oltre nella ratifica. Trudeau è sottoposto a enormi pressioni per adottare l’accordo il più presto possibile, con numerose insistenti telefonate da Barack Obama e dal presidente giapponese Shinto Abe, ma una approfondita revisione pubblica dell’accordo è necessaria prima di poter stabilire se il TPP è nell’interesse del Canada”.

State molto attenti, perché quello che c’è nel TPP è con grandissima probabilità quello che troveremo nel TTIP, quando la nostra Malmströmavrà finito di farsi i cazzi suoi in privato con le lobby e deciderà finalmente di pubblicare un testo che poi il Parlamento Europeo sarà chiamato ad approvare. Per quella data, dobbiamo essere pronti a fargli un culo così.

Ecco perché hanno ammazzato Gheddafi. Le email Usa che non vi dicono, scrive Claudio Messora il 9 gennaio 2016 su "Byo Blu". Il 31 dicembre scorso, su ordine di un tribunale, sono state pubblicate 3000 email tratte dalla corrispondenza personale di Hillary Clinton, transitate sui suoi server di posta privati anziché quelli istituzionali, mentre era Segretario di Stato. Un problema che rischia di minare seriamente la sua corsa alla Casa Bianca. I giornali parlano di questo caso in maniera generale, senza entrare nel dettaglio, ma alcune di queste email delineano con chiarezza il quadro geopolitico ed economico che portò la Francia e il Regno Unito alla decisione di rovesciare un regime stabile e tutto sommato amico dell’Italia, come la Libia di Gheddafi. Ovviamente non saranno i media mainstream generalisti a raccontarvelo, né quelli italiani né quelli di questa Europa che in quanto a propaganda non è seconda a nessuno, tantomeno a quel Putin spesso preso a modello negativo. A raccontarvelo non poteva essere che un blog, questa volta Scenari Economici di Antonio Rinaldi e del suo team, a cui vanno i complimenti. “Due terzi delle concessioni petrolifere nel 2011 erano dell’ENI, che aveva investito somme considerevoli in infrastrutture e impianti di estrazione, trattamento e stoccaggio. Ricordiamo che la Libia è il maggior paese produttore africano, e che l’Italia era la principale destinazione del gas e del petrolio libici. La email UNCLASSIFIED U.S. Department of State Case No. F-2014-20439 Doc No. C05779612 Date: 12/31/2015 inviata il 2 aprile 2011 dal funzionario Sidney Blumenthal (stretto collaboratore prima di Bill Clinton e poi di Hillary) a Hillary Clinton, dall’eloquente titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, racconta i retroscena dell’intervento franco-inglese. Li sintetizziamo qui. La Francia ha chiari interessi economici in gioco nell’attacco alla Libia. Il governo francese ha organizzato le fazioni anti-Gheddafi alimentando inizialmente i capi golpisti con armi, denaro, addestratori delle milizie (anche sospettate di legami con Al-Qaeda), intelligence e forze speciali al suolo. Le motivazioni dell’azione di Sarkozy sono soprattutto economiche e geopolitiche, che il funzionario USA  riassume in 5 punti: Il desiderio di Sarkozy di ottenere una quota maggiore della produzione di petrolio della Libia (a danno dell’Italia, NdR); Aumentare l’influenza della Francia in Nord Africa; Migliorare la posizione politica interna di Sarkozy; Dare ai militari francesi un’opportunità per riasserire la sua posizione di potenza mondiale; Rispondere alla preoccupazione dei suoi consiglieri circa i piani di Gheddafi per soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa Francofona. Ma la stessa mail illustra un altro pezzo dello scenario dietro all’attacco franco-inglese, se possibile ancora più stupefacente, anche se alcune notizie in merito circolarono già all’epoca. La motivazione principale dell’attacco militare francese fu il progetto di Gheddafi di soppiantare il Franco francese africano (CFA) con una nuova valuta pan africana. In sintesi Blumenthal dice: Le grosse riserve d’oro e argento di Gheddafi, stimate in 143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento, pongono una seria minaccia al Franco francese CFA, la principale valuta africana. L’oro accumulato dalla Libia doveva essere usato per stabilire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano doveva dare ai paesi dell’Africa Francofona un’alternativa al franco francese CFA. La preoccupazione principale da parte francese è che la Libia porti il Nord Africa all’indipendenza economica con la nuova valuta pan-africana. L’intelligence francese scoprì un piano libico per competere col franco CFA subito dopo l’inizio della ribellione, spingendo Sarkozy a entrare in guerra direttamente e bloccare Gheddafi con l’azione militare.

Libia, le carte di Hillary Clinton: "La Francia distrusse l'Italia". La guerra che portò il caos in Libia venne scatenata dai francesi con l'avallo degli americani. L'obiettivo era uno solo: affermare la potenza transalpina ed eliminare ogni influenza italiana nel Maghreb, scrive Ivan Francese, Mercoledì 03/08/2016, su "Il Giornale". La guerra di Libia - un'altra - cent'anni dopo. Correva l'anno 2011, i dodici mesi che cambiarono il mondo ma soprattutto la storia d'Italia. Eravamo ormai abituati a ricordarlo come l'anno della caduta del governo Berlusconi IV e dell'arrivo dell'ultra-europeista Mario Monti a Palazzo Chigi dopo mesi di attacchi politici e finanziari (non senza speculazioni assai poco trasparenti). Tutti ricordiamo gli insopportabili risolini di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy al Consiglio Europeo del 23 ottobre 2011. Ebbene, ora su quei giorni cruciali potremmo apprendere qualcos'altro. Se possibile, qualcosa di ancora più inquietante. Come ha rilevato Scenarieconomici, spulciando fra le mail dell'allora Segretario di Stato UsaHillary Clinton si scopre che l'attacco internazionale che portò alla caduta del regime di Muhammar Gheddafi e all'uccisione del Colonnello venne lanciato solo ed esclusivamente per rispondere a precisi interessi geostrategici francesi, con l'avallo statunitense. A tutto detrimento degli interessi italiani. Certo, sapevamo già che la guerra voluta da Sarkozy era un mezzo per estromettere il nostro Paese dal controllo del petrolio libico, ma vederlo scritto nero su bianco resta comunque impressionante. E allora vediamo cosa contengono, quelle mail famigerate. Il 2 aprile del 2011 l'attuale candidata democratica alla Casa Bianca riceveva un messaggio dal suo consigliere per il Medio Oriente Sidney Bluementhal dai toni assai espliciti. Da quelle righe emerge infatti che il presidente francese dell'epoca, Sarkozy, ha finanziato e aiutato in ogni modo le fazioni anti gheddafiane con denaro, armi e addestratori, allo scopo di strappare più quote di produzione del petrolio in Libia e rafforzare la propria posizione tanto sul fronte politico esterno quanto su quello geostrategico globale. Di più. A motivare definitivamente la decisione dell'Eliseo di entrare nel conflitto sarebbe stato il progetto del raìs di soppiantare il franco francese africano con una nuova divisa pan-africana, nell'ottica di un'ascesa della Libia come potenza regionale in grado di raccogliere intorno a sè un'alleanza regionale di Stati. Sostituendo così proprio la Francia, a suon di oro e di argento (Gheddafi ne avrebbe conservate poco meno di trecento tonnellate). Le conseguenze dell'intervento sono storia nota, con la Libia precipitata in un'atroce guerra civile, l'Isis che spadroneggia sulle coste meridionali del Mediterraneo e un'ondata di migranti senza precedenti che si riversa sulle nostre coste. All'epoca l'Italia, all'oscuro di tutto, prese addirittura parte alla guerra contro Gheddafi, sia pure a malincuore. Ora però è chiaro che quella manovra, insieme all'attacco speculativo portatoci dalla Germania, aveva un solo obiettivo: l'Italia. Che ancora oggi ne sconta le terribili conseguenze.

Le mail segrete di Hillary smascherano Sarkò: da Gheddafi per un furto all'Italia, scrive Marco Gorra su "Libero Quotidiano” il 18 Gennaio 2016. Il sospetto che la storia della Francia che muove guerra a Gheddafi perché unicamente interessata ad «assumere il proprio ruolo di fronte alla storia» ed a «difendere i libici che vogliono liberarsi dalla schiavitù» (parola dell'allora presidente Nicolas Sarkozy) fosse una solenne presa in giro era venuto.  Adesso arrivano le conferme. E viene fuori che no, dietro la decisione di Parigi di rovesciare con le cattive il Colonnello di idealismo ce n' era ben poco. In compenso, c' erano altre considerazioni di carattere assai più venale: petrolio e quattrini. Due fondamentali interessi francesi in nome dei quali ci si è armati e si è partiti. E non solo chi, come i transalpini, aveva da guadagnarci. Ma anche chi, come l'Italia, dell'operazione ostile ordita a Parigi era la prima vittima designata.  A fare luce su quegli eventi del 2011 soccorrono oggi le famose mail di Hillary Clinton, recentemente desecretate in seguito alle polemiche divampate intorno ai famigerati server privati dell'ex Segretario di Stato. Nella mole di documenti declassificati, spiccano i messaggi inviati alla Clinton da Sidney Blumenthal, consigliere privato della signora e suo principale esperto sul campo di questioni libiche. Dal carteggio emergono le reali preoccupazioni dei francesi in ordine alla crisi libica. La prima è quella relativa al petrolio, business faraonico da cui le aziende transalpine erano tagliate fuori ad opera - anche - di quelle italiane (prima dell'inizio della guerra due terzi della concessioni erano dell'Eni). Tramite il riconoscimento preventivo del Cnt e la di esso successiva installazione al potere, Parigi contava di riequilibrare la situazione a proprio vantaggio: l'accordo coi ribelli era di trasferire in mano ai francesi, a titolo di ringraziamento per il supporto fornito, il 35% del crude oil del Paese. A questo scopo, elementi dell'intelligence francese avevano iniziato fin dalla primavera del 2011 a fornire supporto di ogni tipo agli anti-Gheddafi. La seconda preoccupazione dei francesi era di ordine monetario. Si trattava di impedire che il Colonnello desse seguito al proprio vecchio pallino di creare una valuta panafricana. All' uopo, Gheddafi era pronto ad impiegare le proprie riserve (143 tonnellate d' oro e quasi altrettante d' argento, per un valore complessivo di circa sette miliardi di dollari). Scenario da incubo per la Francia, dacché la nuova moneta avrebbe pensionato il franco Cfa, valuta creata nel '45 ed utilizzata da 14 ex colonie con svariati e benefici ricaschi per il Tesoro francese.  A completare il quadro dei veri motivi dietro all' attacco, secondo il carteggio, ci sono poi due grandi classici di queste situazioni: i sondaggi, con l'esigenza per Sarkozy di riguadagnare popolarità in vista delle incombenti elezioni presidenziali, e i militari, cui premeva avere un'occasione per riaffermare la propria posizione di potenza di livello mondiale. Come è andata a finire è cosa nota: l'azzardo di francesi e britannici funziona, Casa Bianca e Palazzo di Vetro danno l'ok e la guerra a Gheddafi si fa. Guerra in cui, pur avendo intuito che non sarebbe stato esattamente un affarone, partecipa anche l'Italia. Questione di qualche mese e il gioco è fatto: Gheddafi è rovesciato e al suo posto ci sono gli ormai ex ribelli del Cnt. I risultati non tardano ad arrivare: la moneta panafricana finisce in archivio prima ancora di essere nata e si procede alla grande redistribuzione del petrolio (in cui, ironia della sorte, i francesi porteranno a casa meno di quanto sperato a vantaggio di russi e cinesi). Soprattutto, l'influenza italiana nell' area si riduce drasticamente. Proprio come auspicato dall' inquilino dell'Eliseo. Marco Gorra 

I megaprogetti nei Balcani spianano la via alla Grande Eurasia. Hillary Clinton e l'orientamento del potere: è lei la vera candidata guerrafondaia alla Casa Bianca, scrive Andrea Spinelli Barrile su “ibtimes” l'1.03.2016 . Hillary Rodham Clinton è il candidato democratico che in questo momento sembra avere più chance non solo per la vittoria del Super Tuesday e delle primarie dell'asinello a stelle e strisce ma soprattutto per tornare ad essere inquilina alla Casa Bianca, dove ha già trascorso 8 anni come first lady. La candidata democratica, non è un mistero, piace ai colletti bianchi di Wall Street, piace ai neoconservatori - un editoriale di Robert Kagan sul Washington Post del 25 febbraio è qualcosa di più di un endorsement – e alla medio-alta borghesia americana, mentre meno gradita sembra essere sia alla base del partito democratico che ai “poorly educated” (questi ultimi vanno pazzi per Donald Trump). Questo fa di Hillary Clinton una sorta di Matteo Renzi, con qualche anno e diversi chilometri in più sul curriculum, dell'era post-ideologica americana? Non esattamente. In realtà la signora Clinton è quanto di più vicino ci sia all'establishment americano e alle lobby, almeno tra i vari candidati alla Casa Bianca. Compreso Donald Trump. Un interessante profilo della signora Clinton lo ha pubblicato l'Huffington Post americano. Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute presso la Columbia University, descrive così il background della candidata democratica: “Gli stretti rapporti di Hillary e Bill Clinton con Wall Street contribuirono ad alimentare due bolle finanziarie (1999-2000 e 2005-2008) e la Grande Recessione che seguì il tracollo di Lehman. […] Anche i legami di Hillary con il complesso militare-industriale sono inquietanti”. Nel nostro immaginario i democratici sono quelli che cercano di fare da contrappeso alla sete guerrafondaia repubblicana nel Congresso ma anche in questo Hillary si dimostra essere una democratica piuttosto atipica. È stato evidente nel dibattito televisivo di sabato sera tra i candidati dem: la Clinton ha sempre difeso la scelta della missione NATO in Libia nel 2011, che ha eliminato Gheddafi e fatto sprofondare il Paese nordafricano nel caos assoluto, ma nell'ultimo dibattito è andata leggermente oltre. Alla domanda su quali fossero le responsabilità dell'allora Segretario di Stato Hillary Clinton sulla realtà libica di oggi ha risposto così: “Non mi arrendo sulla Libia, penso che nessuno debba farlo. […] C'è sempre una retrospettiva, uno spazio per dire 'quali errori sono stati fatti' ma io so che abbiamo offerto molto aiuto e so che è stato difficile per i libici accettarlo”. In quella frase c'è tutta l'esperienza in politica estera della signora Clinton: da first lady, da senatrice e da Segretario di Stato Hillary Clinton ha appoggiato sempre e incondizionatamente qualsiasi guerra gli Stati Uniti abbiano intrapreso da quando lei è sulla scena politica. Secondo Sachs tutto ebbe inizio il 31 ottobre 1998: l'allora Presidente Bill Clinton firmava il Decreto per la Liberazione dell'Iraq rendendo ufficiale la strategia atta al “cambiamento di regime” nel paese mediorientale, la base legislativa sulla quale è stato costruito l'intervento armato dal suo successore George W. Bush. Nel 2003, quando il Congresso fu chiamato a decidere se bombardare o meno l'Iraq sulla base delle prove - risultate fasulle - fornite dalla CIA Hillary Clinton, allora senatrice, non esitò a sostenere quell'intervento armato, costato uno sproposito in termini economici per gli USA e geopolitici per la stabilità del Medio Oriente. L'anno successivo al decreto sull'Iraq ci fu la guerra in Kosovo. Il 24 marzo 1999 la signora Clinton si trovava in viaggio in Africa quando telefonò al marito: “Lo esortai a bombardare” disse alla giornalista Lucinda Franks qualche anno dopo. Quel frangente e la schiena dritta tenuta durante lo scandalo sexgate alla fine del secondo mandato del marito connotano il carattere di Hillary Clinton, determinato e power-oriented: la ragion di Stato (o di famiglia) su tutto. Dopo 8 anni di Bush jr un Premio Nobel per la Pace, il democratico Barack Obama, diventò il primo presidente nero degli Stati Uniti. E con lui Hillary Clinton divenne la prima ex-first lady a diventare Segretario di Stato, che in America è il vero numero due del Presidente: nel periodo in cui la signora Clinton è stata Segretario di Stato gli Stati Uniti hanno inanellato una serie di insuccessi e di scelte militariste sbagliate che non hanno precedenti nella storia moderna americana. Il 21 aprile 2009 Hillary Clinton riceveva alla Segreteria di Stato Mutassim Gheddafi, figlio del Colonnello, all'epoca a capo della sicurezza nazionale libica: “Sono onorata di dare il benvenuto al ministro Gheddafi […] apprezziamo il valore profondo delle nostre relazioni e avremo molte occasioni di approfondire e ampliare la nostra collaborazione”. Mutassim, tra i figli di Gheddafi quello più simile al padre, sfoggiò un sorriso magnetico mentre stringeva la mano alla Clinton. Il 20 ottobre 2011 la stessa Hillary Clinton, preparandosi a un'intervista con la CBS, riceveva durante un fuori onda – ripreso ugualmente dall'operatore - l'inattesa notizia della cattura di Gheddafi sul BlackBerry di una sua collaboratrice: “Wow” esclamò con l'aria sinceramente sorpresa “ci sono notizie non confermate sulla cattura di Gheddafi”. Pochi minuti dopo, prima di cominciare a girare, sistemandosi la giacca e con un sorriso estatico sul volto, rivolgendosi alla giornalista, la signora Clinton declinò addirittura Giulio Cesare: “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto!”. Era il periodo nel quale gli Stati Uniti, e la signora Clinton, si esprimevano con dichiarazioni infuocate anche verso il Presidente siriano Bashar al-Assad: nel mese di agosto la Clinton suggeriva ad Assad di “togliersi di torno”, sposando in toto la teoria della CIA e dell'Arabia Saudita che la rimozione del dittatore siriano sarebbe stata rapida, priva di costi e sicuramente un successo. Il risultato di quelle scelte lo osserviamo oggi, ma ci serve un mappamondo per guardarlo tutto: la crisi è diffusa in un'area che va dal Mali fino all'Afghanistan – e si allarga verso est – e nel cuore di questo grande spazio ci sono due scenari apocalittici: Libia e Siria. Durante il periodo da Segretario di Stato Hillary Clinton ha avuto un'influenza enorme sul Presidente Barack Obama, determinante per alcune scelte determinanti in politica estera, e spesso è stato proprio il parere della signora Clinton a far prendere a Obama una decisione piuttosto che un'altra. Nella vita reale, le scelte dell'amministrazione americana durante il periodo di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato possono essere rappresentate tramite un numero: 10 milioni di profughi siriani, che quando non muoiono sotto le bombe, di fame durante il viaggio, di malattie nei campi profughi o annegati nel Mediterraneo, si ritrovano in Europa alimentando una crisi politica senza precedenti, indebolendo paesi già in difficoltà come Grecia e Italia e creando una realtà che sta minando alla base i valori fondanti della stessa Unione Europea. Ma l'operato della signora Clinton non riguarda soltanto il Medio Oriente e il nord Africa: da senatrice Hillary ha approvato, votandola, la Risoluzione 439 del Senato che permise l'inclusione di Ucraina e Georgia nella NATO, un atto che fu l'embrione di quella che oggi la Russia definisce “nuova Guerra Fredda”. Gli americani negano, ma le operazioni di rafforzamento dei contingenti americani in Europa sono un dato di fatto che racconta una storia diversa da quella ufficiale. Il suo successore come Segretario di Stato John Kerry è ancora al lavoro per riparare i buchi immensi provocati dalla sete di bombe della signora Clinton: lo scenario libico, raccontato in questo articolo di grande giornalismo del New York Times, è oggi la conseguenza di numerose scelte scellerate fatte da Hillary Clinton ed oggi un Paese con una popolazione inferiore a quella dello stato del Tennessee preoccupa due colossi mondiali come gli Stati Uniti e l'Unione Europea: “Abbiamo avuto un'occasione d'oro per ridare vita a questo paese. Purtroppo quel sogno si è infranto” ha detto Mahmoud Jibril, che fu primo ministro ad interim del governo provvisorio nato durante la rivoluzione libica. Era stato il principale interlocutore di Hillary Clinton prima che morisse Gheddafi. 

Email di Hillary, dinari d’oro e Primavera araba, scrive F. William Engdahl, New Eastern Outlook il 17 marzo 2016. Sepolto tra decine di migliaia di pagine e-mail segrete dell’ex-segretaria di Stato Hillary Clinton, ora rese pubbliche dal governo degli Stati Uniti, c’è un devastante scambio di e-mail tra Clinton e il suo confidente Sid Blumenthal su Gheddafi e l’intervento degli Stati Uniti coordinato nel 2011 per rovesciare il governante libico. Si tratta dell’oro quale futura minaccia esistenziale al dollaro come valuta di riserva mondiale. Si trattava dei piani di Gheddafi per il dinaro-oro per l’Africa e il mondo arabo. Due paragrafi in una e-mail di recente declassificate dal server privato illegalmente utilizzato dall’allora segretaria di Stato Hillary Clinton durante la guerra orchestrata dagli Stati Uniti per distruggere la Libia di Gheddafi nel 2011, rivelano l’ordine del giorno strettamente segreto della guerra di Obama contro Gheddafi, cinicamente chiamata “Responsabilità di proteggere”. Barack Obama, presidente indeciso e debole, delegò tutte le responsabilità presidenziali della guerra in Libia alla segretaria di Stato Hillary Clinton, prima sostenitrice del “cambio di regime” arabo utilizzando in segreto i Fratelli musulmani ed invocando il nuovo bizzarro principio della “responsabilità di proteggere” (R2P) per giustificare la guerra libica, divenuta rapidamente una guerra della NATO. Con l’R2P, concetto sciocco promosso dalle reti dell’Open Society Foundations di George Soros, Clinton affermava, senza alcuna prova, che Gheddafi bombardasse i civili libici a Bengasi. Secondo il New York Times, citando fonti di alto livello dell’amministrazione Obama, fu Hillary Clinton, sostenuta da Samantha Power, collaboratrice di primo piano al Consiglio di Sicurezza Nazionale e oggi ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e Susan Rice, allora ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e ora consigliere per la Sicurezza Nazionale, che spinse Obama all’azione militare contro la Libia di Gheddafi. Clinton, affiancata da Powers e Rice, era così potente che riuscì a prevalere sul segretario alla Difesa Robert Gates, Tom Donilon, il consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, e John Brennan, capo antiterrorismo di Obama ed oggi capo della CIA. La segretaria di Stato Clinton guidò la cospirazione per scatenare ciò che venne soprannominata “primavera araba”, l’ondata di cambi di regime finanziati dagli USA nel Medio Oriente arabo, nell’ambito del progetto del Grande Medio Oriente presentato nel 2003 dall’amministrazione Bush dopo l’occupazione dell’Iraq. I primi tre Paesi colpiti dalla “primavera araba” degli USA nel 2011, in cui Washington usò le sue ONG per i “diritti umani” come Freedom House e National Endowment for Democracy, in combutta come al solito con le Open Society Foundations dello speculatore miliardario George Soros, insieme al dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ad agenti della CIA, furono la Tunisia di Ben Ali, l’Egitto di Mubaraq e la Libia di Gheddafi. Ora tempi e obiettivi di Washington della destabilizzazione via “primavera araba” del 2011 di certi Stati in Medio Oriente assumono nuova luce in relazione alle email declassificate sulla Libia di Clinton con il suo “consulente” e amico Sid Blumenthal. Blumenthal è l’untuoso avvocato che difese l’allora presidente Bill Clinton nello scandalo sessuale di Monika Lewinsky quando era Presidente e affrontava l’impeachment. Per molti rimane un mistero perché Washington abbia deciso che Gheddafi dovesse essere ucciso, e non solo esiliato come Mubaraq. Clinton, quando fu informata del brutale assassinio di Gheddafi da parte dei terroristi di al-Qaida dell' “opposizione democratica” finanziata dagli USA, pronunciò alla CBS News una perversa parafrasi di Giulio Cesare, “Siamo venuti, l’abbiamo visto, è morto” con una fragorosa risata macabra. Poco si sa in occidente di ciò che Muammar Gheddafi fece in Libia o anche in Africa e nel mondo arabo. Ora, la divulgazione di altre e-mail di Hillary Clinton da segretaria di Stato, al momento della guerra di Obama a Gheddafi, getta nuova drammatica luce. Non fu una decisione personale di Hillary Clinton eliminare Gheddafi e distruggerne lo Stato. La decisione, è ormai chiaro, proveniva da ambienti molto potenti dell’oligarchia monetaria degli Stati Uniti. Era un altro strumento a Washington del mandato politico di tali oligarchi. L’intervento era distruggere i piani ben definiti di Gheddafi per creare una moneta africana e araba basata sull’oro per sostituire il dollaro nei traffici di petrolio. Da quando il dollaro USA ha abbandonato il cambio in oro nel 1971, il dollaro rispetto all’oro ha perso drammaticamente valore. Gli Stati petroliferi dell’OPEC hanno a lungo contestato il potere d’acquisto evanescente delle loro vendite di petrolio, che dal 1970 Washington impone esclusivamente in dollari, mentre l’inflazione del dollaro arrivava ad oltre il 2000% nel 2001. In una recentemente declassificata email di Sid Blumenthal alla segretaria di Stato Hillary Clinton, del 2 aprile 2011, Blumenthal rivela la ragione per cui Gheddafi andava eliminato. Utilizzando il pretesto citato da una non identificata “alta fonte”, Blumenthal scrive a Clinton, “Secondo le informazioni sensibili disponibili a questa fonte, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento… l’oro fu accumulato prima della ribellione ed era destinato a creare una valuta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano era volto a fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA)“. Tale aspetto francese era solo la punta dell’iceberg del dinaro d’oro di Gheddafi. Nel primo decennio di questo secolo, i Paesi OPEC del Golfo persico, tra cui Arabia Saudita, Qatar e altri, iniziarono seriamente a deviare una parte significativa dei ricavi delle vendite di petrolio e gas sui fondi sovrani, basandosi sul successo dei fondi petroliferi norvegesi. Il crescente malcontento verso la guerra al terrorismo degli Stati Uniti, con le guerre in Iraq e Afghanistan e la loro politica in Medio Oriente dal settembre 2001, portò la maggior parte degli Stati arabi dell’OPEC a deviare una quota crescente delle entrate petrolifere su fondi controllati dallo Stato, piuttosto che fidarsi delle dita appiccicose dei banchieri di New York e Londra, come era solito dagli anni ’70, quando i prezzi del petrolio schizzarono alle stelle creando ciò che Henry Kissinger affettuosamente chiamò “petrodollaro” per sostituire il dollaro-oro che Washington mollò il 15 agosto 1971. L’attuale guerra tra sunniti e sciiti o lo scontro di civiltà sono infatti il risultato delle manipolazioni degli Stati Uniti nella regione dal 2003, il “divide et impera”. Nel 2008 la prospettiva del controllo sovrano in un numero crescente di Stati petroliferi africani ed arabi dei loro proventi su petrolio e gas causava gravi preoccupazioni a Wall Street e alla City di Londra. Un’enorme liquidità, migliaia di miliardi, che potenzialmente non potevano più controllare. La primavera araba, in retrospettiva, appare sempre più sembra legata agli sforzi di Washington e Wall Street per controllare non solo gli enormi flussi di petrolio dal Medio Oriente arabo, ma ugualmente lo scopo era controllarne il denaro, migliaia di miliardi di dollari che si accumulavano nei nuovi fondi sovrani. Tuttavia, come confermato dall’ultimo scambio di email Clinton-Blumenthal del 2 aprile 2011, dal mondo petrolifero africano e arabo emergeva una nuova minaccia per gli “dei del denaro” di Wall Street e City di Londra. La Libia di Gheddafi, la Tunisia di Ben Ali e l’Egitto di Mubaraq stavano per lanciare la moneta islamica indipendente dal dollaro USA e basata sull’oro. Mi fu detto di questo piano nei primi mesi del 2012, in una conferenza finanziaria e geopolitica svizzera, da un algerino che sapeva del progetto. La documentazione era scarsa al momento e la storia mi passò di mente. Ora un quadro molto più interessante emerge indicando la ferocia della primavera araba di Washington e l’urgenza del caso della Libia. Nel 2009 Gheddafi, allora Presidente dell’Unione africana, propose che il continente economicamente depresso adottasse il “dinaro d’oro”. Nei mesi precedenti la decisione degli Stati Uniti, col sostegno inglese e francese, di aver una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per aver la foglia di fico del diritto alla NATO di distruggere il regime di Gheddafi, Muammar Gheddafi organizzò la creazione del dinaro-oro che sarebbe stato utilizzato dagli Stati africani petroliferi e dai Paesi arabi dell’OPEC per vendere petrolio sul mercato mondiale. Al momento Wall Street e City di Londra erano sprofondati nella crisi finanziaria del 2007-2008, e la sfida al dollaro quale valuta di riserva l’avrebbe aggravata. Sarebbe stata la campana a morto per l’egemonia finanziaria statunitense e il sistema del dollaro. L’Africa è uno dei continenti più ricchi del mondo, con vaste inesplorate ricchezze in minerali ed oro, volutamente mantenuto per secoli sottosviluppato o preda di guerre per impedirne lo sviluppo. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale negli ultimi decenni furono gli strumenti di Washington per sopprimere un vero sviluppo africano. Gheddafi invitò i Paesi produttori di petrolio africani dell’Unione africana e musulmani ad entrare nell’alleanza che avrebbe fatto del dinaro d’oro la loro valuta. Avrebbero venduto petrolio e altre risorse a Stati Uniti e resto del mondo solo in dinari d’oro. In qualità di Presidente dell’Unione africana, nel 2009 Gheddafi presentò all’Unione Africana la proposta di usare il dinaro libico e il dirham d’argento come unico denaro con cui il resto del mondo poteva comprare il petrolio africano. Insieme ai fondi sovrani arabi dell’OPEC, le altre nazioni petrolifere africane, in particolare Angola e Nigeria, creavano i propri fondi nazionali petroliferi quando nel 2011 la NATO bombardava la Libia. Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbe realizzato il vecchio dell’Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, franco francese, euro o dollaro statunitense. Gheddafi attuava, come capo dell’Unione africana, al momento dell’assassinio, il piano per unificare gli Stati sovrani dell’Africa con una moneta d’oro negli Stati Uniti d’Africa. Nel 2004, il Parlamento panafricano di 53 nazioni aveva piani per la Comunità economica africana, con una moneta d’oro unica entro il 2023. Le nazioni africane produttrici di petrolio progettavano l’abbandono del petrodollaro e di chiedere pagamenti in oro per petrolio e gas; erano Egitto, Sudan, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Congo, Repubblica democratica del Congo, Tunisia, Gabon, Sud Africa, Uganda, Ciad, Suriname, Camerun, Mauritania, Marocco, Zambia, Somalia, Ghana, Etiopia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Costa d’Avorio, oltre allo Yemen che aveva appena scoperto nuovi significativi giacimenti di petrolio. I quattro Stati africani nell’OPEC, Algeria, Angola, Nigeria, gigantesco produttore di petrolio e primo produttore di gas naturale in Africa dagli enormi giacimenti di gas, e la Libia dalle maggiori riserve, avrebbero aderito al nuovo sistema del dinaro d’oro. Non c’è da stupirsi che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Washington ricevette il proscenio della guerra contro Gheddafi, arrivò a definire la Libia una “minaccia” alla sicurezza finanziaria del mondo. Una delle caratteristiche più bizzarre della guerra di Hillary Clinton per distruggere Gheddafi fu che i “ribelli” filo-USA di Bengasi, nella parte petrolifera della Libia, nel pieno della guerra, ben prima che fosse del tutto chiaro che avrebbero rovesciato il regime di Gheddafi, dichiararono di aver creato una banca centrale di tipo occidentale “in esilio”. Nelle prime settimane della ribellione, i capi dichiararono di aver creato una banca centrale per sostituire l’autorità monetaria dello Stato di Gheddafi. Il consiglio dei ribelli, oltre a creare la propria compagnia petrolifera per vendere il petrolio rubato, annunciò: “la nomina della Banca Centrale di Bengasi come autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia, e la nomina del governatore della Banca centrale della Libia, con sede provvisoria a Bengasi”. Commentando la strana decisione, prima che l’esito della battaglia fosse anche deciso, di creare una banca centrale per sostituire la banca nazionale sovrana di Gheddafi che emetteva dinari d’oro, Robert Wenzel del Economic Policy Journal, osservò, “non ho mai sentito parlare di una banca centrale creata poche settimane dopo una rivolta popolare. Ciò suggerisce che c’è qualcos’altro che non una banda di straccioni ribelli e che ci sono certe piuttosto sofisticate influenze”. È chiaro ora, alla luce dei messaggi di posta elettronica Clinton-Blumenthal, che tali “influenze abbastanza sofisticate” erano legate a Wall Street e City di Londra. La persona inviata da Washington a guidare i ribelli nel marzo 2011, Qalifa Haftar, aveva trascorso i precedenti venti anni in Virginia, non lontano dal quartier generale della CIA, dopo aver lasciato la Libia quando era uno dei principali comandante militari di Gheddafi. Il rischio per il futuro del dollaro come valuta di riserva mondiale, se Gheddafi avesse potuto procedere insieme a Egitto, Tunisia e altri Stati arabi di OPEC e Unione Africana, introducendo le vendite di petrolio in oro e non dollari, sarebbe stato chiaramente l’equivalente finanziario di uno tsunami. Il sogno di Gheddafi di un sistema basato sull’oro arabo e africano indipendente dal dollaro, purtroppo è morto con lui. La Libia, dopo la cinica “responsabilità di proteggere” di Hillary Clinton che ha distrutto il Paese, oggi è lacerata da guerre tribali, caos economico, terroristi di al-Qaida e SIIL. La sovranità monetaria detenuta dal 100% dalle agenzie monetarie nazionali statali di Gheddafi e la loro emissione di dinari d’oro, è finita sostituita da una banca centrale “indipendente” legata al dollaro. Nonostante ciò, va notato che ora un nuovo gruppo di nazioni si unisce per costruire un sistema monetario basato sull’oro. Questo è il gruppo guidato da Russia e Cina, terzo e primo Paesi produttori di oro nel mondo. Questo gruppo è legato alla costruzione del grande progetto infrastrutturale eurasiatico della Nuova Via della Seta della Cina, comprendente 16 miliardi di fondi in oro per lo sviluppo della Cina, decisa a sostituire City di Londra e New York come centri del commercio mondiale dell’oro. L’emergente sistema d’oro eurasiatico pone ora una serie completamente nuova di sfide all’egemonia finanziaria statunitense. Questa sfida eurasiatica, riuscendo o fallendo, deciderà se la nostra civiltà potrà sopravvivere e prosperare in condizioni completamente diverse, o affondare con il fallimentare sistema del dollaro. F. William Engdahl è consulente di rischio strategico e docente, laureato in politica alla Princeton University, è autore di best-seller su petrolio e geopolitica, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook”. Traduzione del 12 luglio 2016 di Alessandro Lattanzio – SitoAurora.

Modesto contributo alla chiacchiera su guerra di religione. In forma di catechismo, scrive Maurizio Blondet il 29 luglio 2016. Un caro lettore, travolto come tutti dallo stato d’animo collettivo indotto, mi ha scritto: “Stamani tutti i media riportano queste parole di Bergoglio che quella in essere non è una guerra di religione. Ovviamente il senso della gente comune sa che questa è una menzogna. Non riesco a capire la logica di questo messaggio subito ripreso, ad esempio, dal presidente della repubblica. Spero possa accennare una risposta in un suo prossimo articolo. La ringrazio. Prego per Lei e la sua famiglia.” Mi sono quindi risolto a riportare qualche argomento di cui il nostro amico - e chiunque vorrà interloquire nella chiacchiera frenetica sulla guerra di religione in corso -  potrà fare riferimento.   Sul terrorismo islamico, riporto fatti incontrovertibili. Sotto forma di catechismo, così spero sia più semplice. Il terrorismo islamico non esisteva “prima”. Esisteva il terrorismo islamico, “prima”? Ossia quando l’Afghanistan era sotto un governo comunista, l’Irak sotto Saddam Hussein, l’Egitto governato da Mubarak, la Siria dalla famiglia Assad e la Libia da Gheddafi? No. Quelli erano regimi laici, modernizzanti, nazionalisti –   ossia promotori attivi dell’unità nazionale, al disopra delle plurime entità etniche e religiose che governavano. Per questo erano ostili ad ogni islamismo settario.  Lo tenevano a freno, se si manifestava nel loro stati.   In Irak e in Siria, le minoranze cristiane erano rispettate e spesso, anzi, erano la spina dorsale di quei regimi. Chi ha fatto cadere quei regimi con forze militari imponenti, destabilizzandone i paesi, gettandoli nel caos e nella guerra intestina? Gli Stati Uniti: alla testa di coalizioni occidentali, a cui hanno partecipato Gran Bretagna, Francia, stati membri della NATO oppure no, come Australia o Polonia (nella prima guerra del Golfo); la NATO ha preso il controllo dell’Afghanistan (missione ISAF). Per quale motivo l’Occidente a guida americana ha messo a ferro e fuoco quei paesi, massacrato i loro governanti anti-islamisti, e li ha gettati nel caos in mano a forze settarie? In esecuzione del piano israeliano (detto Piano Kivunim) che dal 1982 propugnava   la spaccatura di questi Stati “secondo le loro linee di   frattura etniche e religiose”. Nella rivista ebraica Kivunim, si leggeva al proposito: “l’Iraq, ricco di petrolio e lacerato internamente, è sicuramente un candidato degli obiettivi d’Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. … Ogni confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada all’obiettivo più importante, spezzare l’Iraq in domini come Siria e Libano. In Iraq, la divisione in province lungo linee etno-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano, è possibile. Così esisteranno almeno tre Stati attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul, e le aree sciite del sud si separeranno dal nord sunnita e curdo. … L’intera penisola arabica è un candidato naturale della dissoluzione su pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile soprattutto per l’Arabia Saudita”.   Israele non poteva sentirsi sicura senza creare il caos attorno a sé. Ma perché il governo Usa avrebbe aderito a questo piano? Perché vi conversero gli interessi petroliferi (esemplificati da Dick Cheney, presidente della Halliburton) e il sistema militare-industriale.    Si aggiunga il regno dei Saud, che vide il proprio interesse in questo progetto per ragioni settarie: portatore della versione più reetriva del Sunnismo (il wahabismo) voleva distruggere gli Sciit, e segnatamente l’Iran.  Quando Bush figlio prese la presidenza, attorno a lui tutto era pronto per questo progetto. Quando si è sentito parlare per la prima volta di “terrorismo islamico”? L’11 Settembre 2001, quando gli Stati Uniti sono stati proditoriamente aggrediti da un gruppo di terroristi islamici che hanno dirottato dei Boeing e li hanno lanciati contro le Twin Tower e il Pentagono, facendo oltre 3 mila morti.  I terroristi erano guidati da Osama Bin Laden. Chi era Osama Bin Laden? Era un   miliardario saudita la cui famiglia è amica, e socia in affari, della famiglia Bush. Aiutò gli americani a rovesciare il regime comunista in Afghanistan negli anni ’80; per loro arruolò migliaia di combattenti in tutto il Medio Oriente per mandarli a debellare i sovietici: con armamenti americani, e instaurare un regime religioso’, composto dai Talebani (studenti islamici preparati in Pakistan).  Questa organizzazione agli ordini americani si chiamava Al Qaeda (database – l’elenco degli arruolati). Quando Bin Laden è diventato nemico degli Usa? Improvvisamente. Ancora il 9 settembre 2001, due sue uomini (fingendosi giornalisti) uccisero il generale Massoud, il Leone del Panshir, inviso agli americani perché sarebbe stato in grado – come eroe nazionale – di unificare e stabilizzare l’Afghanistan.   L’intelligence francese sostenne che il capostazione della Cia andò a far visita a Bin Laden all’ospedale americano di Dubai a luglio, dove era ricoverato per dialisi. Lo scrisse il Figaro, senza essere smentito.  Dunque il 9 settembre era ancora amico, e il 21 era divenuto nemico degli Usa. Ma queste   sono ipotesi complottiste, che non si possono dimostrare! Lo disse il generale Wesley Clark, che era stato capo della NATO durante l’intervento in Kossovo: il giorno dopo l’11 Settembre, andò al Pentagono e un ufficiale suo amico, che aveva appena parlato col ministro (Donald Rumsfeld), lo chiamò nell’ufficio, chiuse la porta e gli sussurrò, incredulo: “Andiamo ad attaccare 7 paesi in 5 anni.  Adesso cominciamo con l’Irak, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, e per finire, Iran”.  D’accordo, però nella religione islamica è insita la violenza, il jihad, la conversione forzata. Sì, certo.  Però era un aspetto dormiente, e tenuto a freno dai governi laici di Irak, Siria, Libia.  Quell’aspetto atroce dell’Islam fu risvegliato e istigato volontariamente. Gruppi fanatici furono armati ed addestrati apposta. Anche questa è una teoria complottista senza alcuna prova! Sempre il generale Wesley Clark – ricordo, l’ex comandante supremo NATO in Europa – disse alla CNN kil 21 febbraio 2015: “Abbiamo reclutato Zeloti e estremisti takfiri”, creato “un Frankenstein”; in quell’intervista spiegò anche: “L’ISIS è stato creato dai nostri alleati per battere fino alla morte Hezbollah”. Intendeva: creato dalla monarchia Saudita per debellare la componente sciita che vive in Libano, Hezbollah. Dunque gli Usa avrebbero creato, o lasciato creare, i movimenti   terroristico-jihadisti, per poi combatterli? Ma è assurdo! A che scopo? Secondo Samuel Huntington, che è il principale scienziato politico americano, la cosa è utile al potere americano. Egli scrisse nel 1996 un saggio, “Scontro di Civiltà e Nuovo Ordine Mondiale”, in cui profetizzò che “la principale fonte di conflitti nel mondo post-Guerra fredda diverranno le identità culturali e religiose”; non ci saranno più guerre fra Stati fra “civiltà”.  Di fatto, ragionava Huntington, dopo la caduta dell’Urss dove trovare un nemico comune che tenga unito l’Occidente sotto la guida americana? Lo scontro di civiltà era la risposta; e la lotta all’Islam, una   popolosa cultura “aliena” e poco solubile nel nuovo ordine mondiale, era la soluzione. Che piaceva anche a Israele e alla lobby giudaica a Washington. E questa strategia ha avuto successo? Sì, il piano Kivunim ha avuto successo. Tutti i paesi islamici circostanti Israele, e quasi tutti quelli più lontani, sono sconvolti da lotte intestine etnico-religiose: sciiti contro sunniti, curdi contro turchi, cirenaici contro tripolitani, alawiti contro sunniti….   Nessuno di questo tornerà più ad essere uno Stato ordinato, quindi che possa rappresentare un pericolo politico o militare per Israele.   Il progetto però è incompiuto in due casi: l’Iran non è stato ancora destabilizzato (troppo grosso e lontano), e i tentativi di Israele di indurre Washington a bombardarne le centrali nucleari è andato finora a vuoto; e la Siria. Qui la caduta del regime laico di Assad è stata sventata dalla Russia, che l’aiuta militarmente; ed anche dal fatto che le minoranze siriane non si battono contro il regime in numero sufficiente, né aderiscono al jihadismo di ISI e Al Qaeda, preferendo di fuggire come profughi. Al punto che oggi a combattere in Siria contro Assad non sono le opposizioni siriane, ma jihadisti ceceni, azeri, europei reclutati in Francia, Belgio Gran Bretagna, e spesso   attratti dalle paghe: reclutati come mercenari coi soldi Sauditi e l’addestramento della Cia. Però adesso l’ISIS manda i suoi terroristi in Europa. L’ISIS? Abbiamo visto che si tratta di una creazione americano-saudita. Gli israeliani li sostengono nella lotta in Siria, silenziosamente, curano i feriti del Califfato nei loro ospedali (esiste ampia documentazione). Gli americani stanno ostacolando le azioni militari russe; hanno intimato a Putin di non colpire Al Nusra (nome nuovo di Al Qaeda) perché quelli sono “l’opposizione democratica” che intendono mettere al potere in Siria, dopo detronizzato Assad.   Comunque l’ISIS ha il suo daffare a difendersi, altro che spedire jihadisti in Europa. Però rivendica tutti gli attentati islamici che avvengono sempre più spesso in Europa. Le rivendicazioni sono opportuniste. E   lei è proprio sicuro che sia l’ISIS a farle? Dopotutto, le rivendicazioni dell’ISI vengono diffuse dal SITE, un’azienda della israeliano-americana Rita Katz. Sono tutte probabilmente false, create dalla propaganda israeliana. Ma   i jihadisti ammazzano davvero! A Nizza, a Rouen hanno ammazzato il prete! Non è questa guerra di religione? E’ scontro di civiltà come voleva Huntington.  È strategia della tensione: qualcuno vuole tenere gli europei nella paura. Diversi esponenti israeliani   hanno detto: “è bene che gli europei provino quello che proviamo noi, che quando andiamo al ristorante non siamo sicuri di tornare a casa”, perché un palestinese può accoltellarli.  Anche certi governi europei possono trovare conveniente tenere i loro cittadini nella tensione e nella paura, nel clima della lotta perpetua al Nemico Islamico, che è fra noi e colpisce quando vuole. Il Piano Kivunim, tradotto in inglese dall’ebraico dal compianto amico Israel Shahak. Come scrisse Orwell nel suo “1984”, dove immagina uno stato totalitario futuro: “C’erano   attentati continui e ingiustificati. Fatti a caso.  Servivano allo Stato per limitare le libertà dei cittadini.   Ad ogni attentato, si facevano leggi restrittive della libertà!” Ma qui siamo in democrazia! Sì, certo. Hollande però ha approfittato degli attentati per prolungare lo stato di emergenza, ossia leggi restrittive della libertà dei cittadini. Ma non dirà che   sono gli stessi governi a indurre due diciannovenni islamici a sgozzare il povero prete a Rouen. Quelli hanno agito spontaneamente, a nome dell’ISIS. Certamente. E’ un meccanismo che noi italiani conosciamo bene. Negli anni di piombo, di strategia della tensione, le Brigate Rosse commettevano omicidi; ebbene, più ne commettevano, più trovavano favore nelle fabbriche e nelle scuole, fra frange notevoli di studenti e di operai “di sinistra”. E anche molti intellettuali simpatizzavano: “Né con lo stato né con le BR”, scrissero in molti. I più giovani e suggestionabili, sognavano di arruolarsi nelle Brigate Rosse, cercavano contatti, volevano andare in clandestinità – era uno stato d’animo collettivo, ed era anche una moda travolgente.  Oggi sappiamo che strategia della tensione e BR erano “gestite” da servizi esteri e da Gladio, organizzazione clandestina della NATO. Ma i giovani di allora erano sedotti da quello stato d’animo, sparavano “spontaneamente”. Come i marginali di oggi in Europa, col nome e cognome islamico, sono sedotti da un ISIS – che è una creazione americana. Non mi ha convinto…Lo so. So che lei è sotto influsso psico-emotivo dello stato d’animo collettivo che ci vuole spaventati: l’Islam ci attacca! E’ una guerra di religione! Sì, è una guerra di religione. Indotta, però, da centrali che hanno fatto di tutto per provocarla.  Le centrali di cui sopra vogliono che la civiltà europea venga devastata – come hanno voluto la devastazione di Palmyra in Siria – e scompaia. Ma perché? Perché la cultura e civiltà europea, greco-romana e cristiana, formava uomini liberi, e il potere globale non vuole liberi, ma consumatori. Perché odiano Cristo e la sua civiltà.  Perché quelle centrali – diciamo, gli usurai (per usare un termine poundiano) mai hanno avuto la capacità di edificare un Partenone, un Pantheon; mai hanno prodotto nulla che ricordi anche lontanamente Fidia o Caravaggio, né tra di loro è mai nato un Dostojewski, o uno Shakespeare o un Dante. I loro scrittori sono dei pornografi.  La loro “arte” è quella del MOMA di New York, una bruttezza che si vendono e comprano tra loro a prezzi stratosferici; bruttezza che si accompagna necessariamente alla menzogna e all’odio per il Vero: Vero e Bello sono la stessa cosa, diceva Tommaso d’Aquino. Vogliono renderci come loro. Spaventati e pieni d’odio e d’invidia per il genere umano.

Perché DAESH vuole Killary presidente. Proprio come tutti i Katz, scrive Maurizio Blondet il 2 agosto 2016. Come si diceva, Daesh minaccia Putin il giorno dopo che Hillary ha accusato Putin, coi suoi hackers, di aver diffuso le mail più discutibili su di lei e il suo partito democratico.  “Daesh per Hillary!”, era il nostro titolo.  Meno paradossale di quel che sembra: per forza Daesh aiuta la Clinton   a   entrare nella Casa Bianca – dopo tutto quello che lei ha fatto per lui. La cosa è saltata fuori, ma subito sepolta, dopo l’11 settembre 2012, il giorno in cui l’ambasciatore americano Chris Stevens fu trucidato a Bengasi insieme ai Marines che gli facevano da guardie del corpo, in un oscuro combattimento.  Reso più oscuro dal fatto che i commandos pronti a partire da Sigonella per soccorrere l’ambasciatore – sarebbero arrivati in meno di mezz’ora – ricevettero da Obama l’ordine di stand-down, ossia di non muoversi: dal che si sospetta che Stevens sia stato deliberatamente sacrificato, per seppellire con lui una storia sporca   i cui liquami   sarebbero schizzati fino alla Clinton. Hillary, Panetta a desta e Dempsey mentono durante l’audizione al senato nel 2013. Questa vicenda sporca consisteva nel fatto che Stevens era stato mandato a Bengazi per comprare armamenti dai ribelli islamisti che avevano svuotato gli arsenali di Gheddafi, onde inviarli ai jihadisti che combattevano contro il regime di Assad: lo   Stato Islamico, guarda caso, che per i media nasce proprio nel 2012, distaccandosi da Al Qaeda con tanto di comunicato ufficiale. In una udienza al Senato del maggio 2012, Hillary Clinton – affiancata da Leon Panetta allora segretario alla Difesa, e all’ammiraglio Dempsey (capo degli stati maggiori) – negarono l’esistenza del piano per armare occultamente i terroristi in Siria. O meglio: raccontarono che sì, avevano avuto l’idea, ne parlarono ad Obama, ma lui la bocciò – sicché non se ne fece nulla.   Lo stesso Bill Clinton ha raccontato in un’intervista alla CNN che il piano esisteva e che lui l’aveva raccomandato, ma niente. Menzogne su menzogne. Come ha dimostrato una approfondita ed esplosiva inchiesta condotta da Aaron Klein.  Il quale non è solo ebreo, ma è anche un noto columnist del New York Times, ed oggi è capo della redazione di Gerusalemme per il Breitbart News Network.   E il suo libro-accusa, “The REAL Benghazi story: what the White House and Hillary don’t want you to know” è stato un best seller nel 2014, quando è uscito. Che cosa ha scoperto Klein? Che contrariamente alla versione ufficiale, Obama aveva autorizzato l’operazione segreta (e illegale) di acquistare dai tagliagole libici le armi per mandarle ai tagliagole siriani. Come l’ha scoperto?   Nel modo più facile: un lancio della Reuters che ai primi del 2012 rendeva noto quanto segue: il presidente Obama ha firmato un ordine esecutivo “che permette alla Cia ed altre agenzie di fornire sostegno ai ribelli per cacciare Assad”: mandato “broadly”, ossia ampio e generico. Da attuarsi, aggiungeva l’agenzia, attraverso un “centro di comando segreto operato dalla Turchia e i suoi alleati” (sic).  Sempre la Reuters, citando una “fonte Usa”, avvertiva però che la Casa Bianca non aveva autorizzato l’invio di armi letali, “anche se certi alleati Usa lo fanno” (sic). Che Chris Stevens fu mandato in Libia senza lo status di ambasciatore, “a bordo di un cargo battente bandiera greca che portava forniture e automezzi”, già durante la rivoluzione che eliminò Gheddafi. Il suo compito?  Diventare “il primo interlocutore fra l’amministrazione Obama e i ribelli basati a Bengasi” – e fare il mercante d’armi.   Era affiancato in questo compito da un professionista: come rivelò lo steso New York Times nel dicembre 2012, da un tale Marc Turi, definito dallo stesso medium mainstream “un mercante d’armi americano che voleva fornire armamenti in Libia”, e per il quale Stevens chiese al Dipartimento di Stato una autorizzazione – che è agli atti.  Anche dopo essere stato nominato ambasciatore, Stevens continuò – dice Klein – a trattare armi coi tagliagole. Che membri armati della “Brigata Martiri 17 Febbraio” (tagliagole libici collegati alla Ansar al Sharia, definita organizzazione terroristica dagli Usa) furono assunti dal Dipartimento di Stato – ossia da Hillary – per fornire la “security interna a una missione speciale” –   ossia par di capire a far da guardie del corpo a Stevens, visto che non essendo ancora ambasciatore non gli si potevano assegnare del Marines. Secondo Klein, i capi della Brigata Martiri 17 Febbraio furono anche usati   come agevolatori, diciamo, della compravendita ai arsenali da mandare ai tagliagole siriani. Nell’autorizzazione concessa ufficialmente dal Dipartimento di Stato a Marc Turi, e risalente al maggio 2011, si legge che il Turi aveva “il progetto di spedire armamenti del valore di 200 milioni di dollari al Katar” – uno dei massimi nemici di Assad. Facile capire   in che mani sarebbero finite quelle armi. Una “grossa spedizione di armi da Bengasi ai ribelli siriani partì nell’agosto 2012 (poche settimane prima la tragica fine di Stevens, 11 settembre) su una nave, e arrivò al porto turco di Iskenderum, a 35 chilometri dalla frontiera con la Siria.  Ufficialmente, portava aiuti umanitari.  Altri trasporti avvennero per via aerea in quel periodo. Il New York Times stesso raccontò in uno dei suoi articoli che “da uffici in località segrete”, membri dell’intelligence Usa “aiutavano i governi arabi a comprare armi – e “hanno selezionato accuratamente (sic) i   comandanti e i gruppi ribelli per determinare chi di loro avrebbe ricevuto le armi all’arrivo”. La Reuters ha intervistato il 18 giungo 2013 Abdul Basit Haroun, un ex capo della Brigata Martiri 17 Febbraio, che ammise di essere il facilitatore di uno dei più grossi invii di materiale bellico da Bengazi ai ribelli siriani; precisando che le armi erano spedite in Turchia, da cui venivano contrabbandate ai terroristi siriani. Secondo la testimonianza di un altro capo della Brigata, Ismail Salabi, questo Haroun s’era messo in proprio costituendo una sua milizia, poco dopo.   Aveva i mezzi, visti i milioni di dollari che entrarono nell’affare, per mezzo di Marc Turi. Naturalmente, quando poi Stevens fu attaccato e morì, si raccontò che era a Bengasi per recuperare i MANPaD (missili anti-aerei a spalla) che si sapeva erano negli arsenali saccheggiati da Gheddafi, e che i ribelli non volevano dare. Un’operazione. Ma se era meritoria, perché Chris Stevens fu lasciato trucidare e non salvato dalle Forze Speciali, che ascoltarono in diretta le disperate richieste di aiuto che gli rivolgevano, mentre sparavano assediati nella “casa sicura della Cia”, i Marines a Bengasi, quell’11 settembre 2012? Perché ricevettero l’ordine di stand down? Se non per coprire il porcilaio condotto dagli americani e dai loro terroristi preferiti? Probabilmente Stevens fu ucciso, diciamo, nel corso di un litigio per soldi fra i “ribelli” e l’americano; forse persino da elementi della Brigata che lo “proteggeva”. Si doveva proteggere Hillary. La candidata che l’intero Establishment ha scelto, e che sta cercando di imporre con tutti i mezzi contro il candidato Trump, l’inaffidabile, o l’oggetto degli odii più frenetici, “il complice di Putin” (come ha detto Leon Panetta alla convention democratica), la cui moglie “ha posato nuda”, quello che sputa sui soldati medaglie d’oro solo perché islamici.  Ho paura che le elezioni saranno truccate, ha detto Trump. E perché tutto questo? Perché, ha detto la stessa Hillary in una mail spifferata da Wikileaks, “il modo migliore di aiutare Israele contro l’Iran e la sua crescente capacità nucleare è aiutare il popolo di Siria a rovesciare il regime di Bashar Assad”. Obama non ha mai ricevuto il capo della DIA. Eppure ci sono notizie succose. Il generale Michael Flynn, già capo della DIA, ha fatto   una rivelazione più significativa delle nudità dell’ex modella moglie di Trump. Ha raccontato che Obama, pur avendo nominato lui – generale Flynn –   due volte come responsabile dell’intelligence militare, non l’ha mai voluto incontrare di persona. Mai l’ha convocato, in quattro anni.  Come ha avuto modo di spiegare   in un’altra esplosiva intervista a Seymour Hersh, Flynn avrebbe messo in guardia dalle losche operazioni che il Dipartimento di Stato, con la Cia, stava conducendo per armare i tagliagole dell’IS.  I quella stessa intervista, Flynn ha raccontato come e qualmente lui, e l’ammiraglio Dempsey allora capo degli SM Riuniti, mandarono a monte spedizioni di armi della Cia, collaborando con Putin e con Assad. Roba da corte marziale.   Se, s’intende, Obama avesse mai convocato Flynn e chiesto spiegazioni. Non l’ha mai fatto.  Non voleva sapere cosa facevano le erinni del Dipartimento di Stato, armando e finanziando i terroristi islamici che fingeva di combattere? O lo sapeva fin troppo bene? In ogni caso, giriamo la notizia alla valorosa corrispondente RAI da New York, che per 200 mila euro annui – da noi contribuenti pagati – copre quella sede prestigiosa e adora Obama, e ovviamente sostiene la Clinton contro Trump. Magari un servizietto sul generale Flynn e su come mai Obama non l’abbia mai voluto ascoltare né abbia mai letto un suo rapporto in quattro anni?  Gli diamo anche la fonte, pubblica. E gli diamo lo scoop gratis, non deve spendere nessuno dei 200 mila euro annui che riceve da noi. (Una lettura che farebbe bene anche ai giornalisti, commentatori, cattoliconi che strillano sugli “islamisti che ci sgozzano in chiesa”. Sì, quegli islamisti sono una creatura   di queste operazioni sopra descritte.   Perché non lo dite mai?). Mentre finisco di scrivere, i giornali e tg italiani sono tutti eccitati perché Obama “ha dato direttamente ordine” di bombardare “i terroristi islamici dell’IS in Libia”. Certo, bisogna ripulire i segni, gli indizi e i testimoni scomodi   di quel che fece Hillary coi ribelli, oggi IS, prima Al Qaeda, sempre un asset americano.

Ed altra condanna a morte ci attende. 

Mario Giordano su Libero Quotidiano del 1 agosto 2016 vs islamici: "Andate pure a messa, ma la verità su Maometto è questa qua" (devastante). Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla della differenza tra Gesù e Maometto.

Caro Giordano, nella sua “posta prioritaria” lei, oltre ad apprezzare giustamente quanto scritto dalla lettrice Marina Pacini, le risponde evidenziando due differenze fondamentali tra cristianesimo e islam: il cristianesimo ha avuto un Nuovo Testamento che ha superato il Vecchio Testamento e ha un Papa che ne dà l’interpretazione valida per tutti i cristiani. È quello che tutte le persone colte sostengono ma, a parer mio, sono due cose ineludibili per i teologi ma superflue per i fedeli. Il Cristianesimo è nato quando Cristo è sceso in terra e ha detto «Ama il prossimo tuo come te stesso» e «Non fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te»: con queste semplici ed inequivocabili parole ha cancellato, emarginato tutta la violenza contenuta nei precedenti testi sacri indicando, da quel momento in poi, la strada per separare il bene dal male. Tutto il resto è teologia, importantissima, ma teologia: quello che conta è Cristo con la sua parola che non può essere fraintesa. Confrontare cristianesimo e islam sulla base di disquisizioni interpretative è deviante e può divenire, grazie alla cultura dei “contendenti”, tanto cavilloso da perdere di vista la realtà: Cristo ha predicato la pace, Maometto no. Punto. Nessuno può uccidere in nome di Cristo (anche se è stato fatto, bestemmiando le sue parole), chiunque può uccidere in nome di Maometto citando le sue parole. Punto. Roberto Bellia, Vermezzo.

Grazie Roberto per la sua precisazione. È davvero chiara, molto più chiara di come sono stato io in quelle poche righe che mi erano rimaste alla fine dell'elenco delle sure improntate alla violenza del Corano. Lei ha ragione da vendere, in effetti: è vero che in passato sono stati commessi crimini orrendi in nome del cristianesimo, ma il cristianesimo è e resta una religione di pace, così come è una religione di pace il buddismo. Ci potrà pur essere qualche svitato nel mondo che uccide proclamandosi buddista, ma la religione buddista resta in ogni modo una religione di pace. Allo stesso modo ci sono stati troppi cristiani che hanno ucciso in nome di Cristo, ma il messaggio di Cristo è «Ama il prossimo tuo come te stesso». Quello di Maometto no. Quello di Maometto è un messaggio di violenza e di morte. E non rendersene conto, o illudersi soltanto perché un gruppetto di musulmani fa finta di andare a messa alla domenica, non è soltanto molto sbagliato. È soprattutto, come ripetiamo da tempo, temo inutilmente, molto pericoloso...Mario Giordano.

"Corano, leggetevi questa roba...": Mario Giordano il 30 luglio 2016, furia contro il libro sacro. Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla di islam e delle più agghiaccianti sure del Corano, dove si predica morte e conquista.

Caro Giordano, il Papa dicendo che le vere religioni sono di pace, ha dimostrato di non conoscere il Corano e neppure il Vecchio Testamento che è pieno di violenza. O forse lo sa ma continua a tenerci calmi come quelli che suonavano sul Titanic. Continuiamo dunque a inneggiare i nostri valori, che sono quelli che ci fanno accogliere amorosamente questi invasati. Le mando qualche sura del Corano...Marina Pacini, Lucca.

La ringrazio, cara Marina, e riporto una parte del suo agghiacciante elenco.

* Circa gli infedeli (coloro che non si sottomettono all'Islam), costoro sono «gli inveterati nemici» dei musulmani [Sura 4:101]. I musulmani devono «arrestarli, assediarli e preparare imboscate in ogni dove» [Sura 9:95]. I musulmani devono anche «circondarli e metterli a morte ovunque li troviate, uccideteli ogni dove li troviate, cercate i nemici dell'Islam senza sosta» [Sura 4:90]. «Combatteteli finché l'Islam non regni sovrano» [Sura 2:193].

«Tagliate loro le mani e la punta delle loro dita» [Sura 8:12]

* Se un musulmano non si unisce alla guerra, Allah lo ucciderà [Sura 9:93]. 

* I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro [Sura 9:123]

* I musulmani devono essere «brutali con gli infedeli» [Sura 48:29]

* Un musulmano può uccidere ogni persona che desidera se è per «giusta causa» [Sura 6:152]

* Allah ama coloro che «combattono per la Sua causa» [Sura 6:13]. Chiunque combatta contro Allah o rinunci all'Islam per abbracciare un'altra religione deve essere «messo a morte o crocifisso o mani e piedi siano amputati da parti opposte» [Sura 5:34]

* «Chiunque abiuri la sua religione islamica, uccidetelo». [Sahih Al-Bukhari 9:57]

* «Assassinate gli idolatri ogni dove li troviate, prendeteli prigionieri e assediateli e attendeteli in ogni imboscata» [Sura 9:5]

* «Prendetelo (l'infedele n.d.t.) ed incatenatelo ed esponetelo al fuoco dell'inferno» [Sura 69:30]

* «Instillerò il terrore nel cuore dei non credenti, colpite sopra il loro collo e tagliate loro la punta di tutte le dita» [Sura 8:12]

* «Essi (gli infedeli ndr) devono essere uccisi o crocefissi e le loro mani ed i loro piedi tagliati dalla parte opposta» [Sura 5:33]

(Qualcuno osa ancora dire che l’Islam è una religione di pace? Aggiungo solo un dettaglio non irrilevante: anche nell’Antico Testamento ci sono frasi ispirate alla violenza. Ma poi c’è il Nuovo Testamento che lo reinterpreta e la Chiesa cattolica che ne dà la lettura ufficiale, valida per ogni cristiano. Nell’Islam, come è noto, invece…)

"...allora creperemo tutti". Islam, c'è solo una possibilità: la cupa profezia di Mario Giordano su “Libero Quotidiano del 28 luglio 2016. Un altro mattacchione? Un altro pazzo isolato? Un altro depresso? E adesso come reagirà l'Europa di fronte a un prete sgozzato in chiesa, mentre dice messa, da due islamici che gridavano Allah Akbar? Organizzerà un convegno di psichiatri? Si affiderà agli antidepressivi? Più Prozac per tutti? Continueranno a raccontarci la favoletta dei malati di mente che in quest' estate 2016, anziché mettersi in testa il cappello di Napoleone, vanno in giro a massacrare cristiani? Insisteranno con le bugie, le minimizzazioni, «per favore», «non generalizziamo», «i profughi non c' entrano nulla», «l'Islam? Figuriamoci», «la nostra risposta sono le porte aperte» e già che ci siamo «inauguriamo una mezza dozzina di moschee»? Davvero faranno così? Ce lo dicano, perché nel caso prepariamo il collo: se non ci difenderemo, infatti, finiremo presto tutti sgozzati. Proprio come quell' anziano sacerdote sull' altare di Saint-Etienne-du-Rouveray. Il tempo è scaduto, ne abbiamo perso fin troppo in chiacchiere e dibattiti da salotto. Adesso siamo arrivati all'ora della scelta: o si combatte o si muore. O si capisce che c' è una guerra di religione in corso o siamo già stati sconfitti. L'abbiamo già scritto tante volte, ma adesso il nemico ha alzato il tiro: l'attacco a una chiesa, durante una messa, con i fedeli e le suore prese in ostaggio, il prete scuoiato come un agnello sacrificale sotto il crocifisso, nel pieno dell'Europa cristiana, ebbene: un atto del genere dovrebbe aprire gli occhi anche ai più ottusi. Che aspettiamo ancora? Che ci vengano a sgozzare nel Duomo di Milano? Nella basilica di Assisi? O magari sotto il Cupolone di San Pietro? Il messaggio è già chiaro. Vi ricordate la bandiera nera che sventolava sul Vaticano? Vi ricordate i cristiani copti uccisi sul bagnasciuga della Libia per insanguinare il nostro mare? Vi ricordare le minacce del Califfo, che ripeteva «arriveremo a Roma per uccidere tutti gli infedeli»? Sembravano esagerazioni, paradossi, boutade. Invece l'attacco è in corso. Houellebecq ha sbagliato tutto: la sottomissione non avverrà in maniera pacifica, ma con le armi in pugno, non ci conquisteranno con democratiche elezioni ma con il coltello per le decapitazioni. Di che cosa abbiamo ancora bisogno per convincercene? Finora, fateci caso, hanno mantenuto tutte le promesse. Anche nelle ultime settimane. Avevano annunciato attacchi in Francia, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in Germania, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in riva al mare, e c' è stata la strage sulla passeggiata di Nizza. Avevano annunciato che sarebbe stata un'estate di sangue, e così purtroppo è. Sono assassini, questi islamici, ma non cialtroni. A modo loro, sono persone di parola: dicono che vogliono tagliare le teste, e zac, lo fanno. Dicono che vogliono distruggere i cristiani, e zac, rispettano l'impegno. Non mancano mai l'appuntamento con la morte, che per loro, per altro, significa vergini in fiore e fiumi di latte. A noi lo sgozzamento, a loro il paradiso. E di fronte a questo attacco frontale, davanti a questa offensiva violenta e spregiudicata, l'Europa dei tremebondi che fa? L' avete sentita in questi giorni: discute di pazzia, follia, gesti isolati, minimizza, specifica, precisa, si perde nei distinguo, organizza sessioni plenarie sulle teorie dei discendenti di Freud, si autoflagella, si colpevolizza, esulta se trova che un assassino (iraniano) ha in casa una foto di Breivik («lo vedete: i cattivi siamo noi»), erige processi sulla diffusione delle armi, come se le armi sparassero da sole, «ah signora mia non sa com' è facile procurarsi una pistola» (in effetti, in Europa non tanto: ma per un coltello basta entrare in cucina), si comporta come se la colpa delle sparatorie fosse delle fabbriche di pistole e la colpa degli sgozzamenti delle coltellerie. Alcuni giornali hanno persino messo sotto processo i videogiochi (lo giuro: i videogiochi). Tutto pur di non dire la piatta e brutale verità: il Corano ordina, i musulmani sgozzano. È la guerra santa dell'Islam. Questa verità sta lì da tempo, sotto i nostri occhi, oggi è rossa come il sangue di quel sacerdote. Ma noi non vogliamo ammetterla. Preferiamo raccontarci balle, nascondere la verità, come hanno fatto ripetutamente in questi giorni il governo francese, e forse anche quello tedesco. Preferiamo non dire quello che sappiamo, e cioè che è in atto un attacco coordinato e organizzato contro di noi. Preferiamo chiudere gli occhi, liberare dalle carceri soggetti pericolosi, come uno di due assalitori della Normandia, come i terroristi appena usciti a Bari, come tanti altri, preferiamo esporci al rischio della morte piuttosto che al rischio della verità. È pazzesco: sembra quasi che la civiltà occidentale, oggi, scelga di farsi ammazzare piuttosto che ammettere di dover fare i conti con la religione islamica. Sceglie di soccombere piuttosto che ammettere che i sacri principi della tolleranza e del dialogo non possono funzionare sempre, perché se qualcuno ti vuole uccidere non basta sventolargli in faccia la bandiera della pace. È così duro prenderne atto che andiamo diritti verso la macellazione avvolti dal nostro morbido involucro di bugie. Anche ieri, le prime dichiarazioni dopo lo sgozzamento del prete, sono andate in questa direzione. Il premier francese ha parlato di «barbaro attacco», il Papa ha «condannato l'odio». Come vedete, manca una parola, sempre la stessa. Non sono stati i marziani ad attaccare ma gli islamici, l'odio non nasce sotto il cavolo ma dentro le moschee. Noi continuiamo a tacerlo. E perciò finiremo tutti come padre Jacques, 58 anni di sacerdozio, lacerati con una lama al collo, mentre celebrava la messa del mattino nella sua chiesa in Normandia. Se il Papa avesse le palle, lo dovrebbe proclamare santo subito. San Jacques Martire, ucciso per difendere la nostra fede dall' aggressione dei seguaci di Allah. Suona anche bene. Suona ormai un po' inutile, però. Mario Giordano 

L'altro volto della storia: l'attacco della massoneria alla civiltà cristiana, scrive Francesco Pio Meola. La nota di Giorgio Vitali. "L'articolo qui sotto, pur provenendo da ambienti del conservatorismo cattolico, è esemplare e assolutamente degno di essere preso in considerazione per le sue implicazioni storiche e politiche. In effetti, per chi vuole fare politica, queste conoscenze sono essenziali, nella misura in cui si riesce con facilità ad individuare le linee di condotta che motivano certi personaggi della politica e quanto di una qualsiasi iniziativa in campo politico nazionale o comunitario la componente "ideologica" primaria sia quella maggiormente determinante nei confronti di una quasi sempre poco probabile, necessità "contingente". Che a motivare i singoli "uomini politici" ad iniziative di grande respiro pubblico siano l'appartenenza a gruppi iniziatici con le loro credenze e le loro pratiche, è ampiamente dimostrato l'appartenenza di questi "politici" a particolari organizzazioni più o meno occulte. Ma il fatto che queste associazioni siano "occulte" non significa nulla, perchè anche gli Organismi, specie quelli internazionali e/o comunitari sono composti da individui selezionati sulla base dell'appartenenza a queste organizzazioni. Non solo, in un libro che consiglio vivamente, ("L'altra Europa", di Giorgio Galli e Paolo Rumor, ed. Hobby & Work, 2010, euro 16,50) si dimostra con documenti attendibili l'appartenenza a gruppi esoterici di varia natura dei cosiddetti "creatori dell'UE". In particolare il "cattolico" Maurice Schumann. Un altro particolare importante è costituito da Giorgio Galli, famoso politologo, anzi il primo vero politologo italiano, che per decenni ha fatto della politologia un elemento di analisi della realtà nazionale e geopolitica. Questo illustre professore universitario, già di area socialcomunista, giunto alla fine della carriera, ha maturato l'esigenza di approfondire gli aspetti "esoterici" dei rapporti politici sia nazionali che comunitari o internazionali. Ciò significa che, partendo con intelligenza dall'analisi di superficie degli avvenimenti, alla fine ha dovuto confrontarsi con una realtà ben più profonda di quanto la sua cultura d'impostazione materialiste e razionalista gli permettesse di "vedere". Nel suo intervento pubblicato nel libro sopra citato, trovandosi a trattare della "Storia", che è una componente essenziale della base culturale su cui si costruisce il comportamento delle èlites, egli scrive: «... La storia, come teoria del comportamento umano, comprende non solo la "decostruzione", ma anche la "costruzione" del mito». In altre parole, è la storia che costruisce il mito, perchè gli storici sono persone per lo più motivate dalla necessità di diffondere specifici "miti", come possiamo ben vedere in questi decenni post- secondo conflitto mondiale, caratterizzati dalla costruzione di miti dal nulla documentale. Infine è necessario ricordare che in un'opera recente, dedicata al movimento teosofico d'inizio novecento, scritta da Marco Pasi dell'Università di Amsterdam, ("Teosofia ed Antroposofia nell'Italia del primo novecento", in Annale 25 della Storia d'ItaliaEinaudi, dedicata all'Esoterismo) si dimostra quanto un movimento come quello citato, poco conosciuto e valutato fino ad oggi, ad esclusione dei seguaci dell'Antroposofia, che aumentano sempre a livello mondiale a fronte delle constatate conferme scientifiche e tecniche legate a quell'impostazione culturale, o dei lettori di "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo " di J. Evola (prima ed. Bocca, 1931), abbia invece permeato tutti gli aspetti della cultura italiana, dal Futurismo al Fiumanesimo, fino all'elaborazione della pedagogia montessoriana ed all'istituzione del corso universitario di Storia delle Religioni e dello Studio comparato di Storia delle Religioni voluto da Raffaele Pettazzoni che scrisse anche "Teosofia e Storia delle Religioni", per finire col noto Balbino Giuliano, ministro nel 1929, autore del famoso decreto sul "giuramento dei professori". Su questa capacità di una specifica cultura nell'influenzare il corso dei pensieri di una o più generazioni, creando anche èlites capaci di imporre la loro ideologia, sarà utile riprendere il dibattito." Giorgio Vitali.

La massoneria è una setta segreta le cui origini risalgono alle corporazioni medievali inglesi e tedesche dei liberi muratori (operativa). La Massoneria moderna (speculativa) s'ispira agli ideali razionalisti e illuministi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Fu fondata a Londra il 24 giugno 1717 dal rifugiato ugonotto Thèophile Desaguliers e dal pastore anglicano James Anderson, i quali riassunsero i suoi principi nelle cosiddette Costituzioni. Essa trae origine anche e soprattutto da un patrimonio di scienze occulte che vanno dalla magia egizia e rinascimentale all'ebraismo cabalistico-talmudico, dal platonismo al Manicheismo, dalla tradizione Rosa Croce al vecchio paganesimo naturalista, dall'astrologia alla teosofia, dall'alchimia ad altre fisime minori. Contiene elementi delle vecchie eresie cristiane e si basa sulla fisica newtoniana. E'chiaro come questo concentrato di dottrine esoteriche non poteva che provocare la scomunica della Chiesa, che l'ha condannata per quasi ben 580 volte, detenendo il primato assoluto. L'insieme di tutte queste tradizioni trova unità nella Gnosi. Essa è una speciale conoscenza religiosa dalla quale per rivelazione, indipendentemente dalla fede e dalle opere, deriva la salvezza, ossia da una sorta di "illuminazione", riservata solo a pochi iniziati. Si noti come questa idea sia radicalmente contraria alla fede cattolica, la quale invece proclama che la salvezza è accessibile a tutti. La Gnosi pretende di concepire il reale come qualcosa di totalmente negativo, per cui viene, di conseguenza, la necessità di aspirare a una sorta di palingenesi, di trasformazione totale, da cui potrà realizzarsi un mondo completamente nuovo, e in cui potrà vivere un uomo completamente nuovo, contrassegnato da una perfetta autosufficienza (C. Gnerre). Il fenomeno gnostico è come un fiume carsico, ritornando improvvisamente in auge nelle varie epoche storiche. Pensiamo alle vecchie eresie cristiane, a quella catara soprattutto, la più pericolosa, al modernismo e a tutte le religioni diverse dalla cattolica o ortodossa, Islam e Giudaismo compresi. Lo gnosticismo sostiene l'opposizione tra lo spirito (il bene) e la materia (il male). Gli gnostici sostengono che un Dio buono non può aver creato un mondo così malvagio, quindi la sua creazione è da disprezzare, mentre il principio del male, Satana, sarebbe il dio buono, il serpente che sedusse Eva e che indusse al peccato Adamo. Da qui la leggenda massonica di Adamo come "primo iniziato", e come lui sono considerati Gesù, S. Giovanni Battista (la Massoneria è nata il 24 giugno), Mosè, Maometto, Buddha, S. Francesco, Lutero, ecc . Per quanto riguarda Cristo e il Battista basta pensare alle folli elucubrazioni gnostiche del "Codice da Vinci" del seguace New Age Dan Brown, mentre S. Francesco oggi è considerato un profeta pacifista ed ecologista. Furono invece influenzati dalla gnosi Lutero, Buddha e Maometto. Mons. Leone Meurin, un sacerdote francese del XIX sec, per tutti questi motivi nella sua opera "La Frammassoneria sinagoga di Satana", considerava la Gnosi il culto di Lucifero, l'angelo decaduto portatore di luce, l'illuminato, il più grande iniziato. In molti testi esoterici Lucifero è accostato a Prometeo, la figura mitologica ribelle a Zeus che voleva donare il fuoco agli uomini, a Dioniso, dio dell'orgia e del divertimento sfrenato, al buddha, inteso come l'individuo iniziato ("buddha" significa appunto "l'illuminato"). I massoni usano chiamarsi tra loro "fratelli"; si distinguono in vari gradi, tra i quali gli apprendisti, i compagni, i maestri, i sublimi cavalieri eletti, i grandi maestri architetti, ecc. Si raccolgono in logge presiedute da un venerabile; più logge associate costituiscono una gran loggia, presieduta da un gran maestro, mentre nell'ambito di uno Stato tutte le logge dipendono da un grande oriente. La Massoneria venera un dio impersonale (il "Dio orologiaio" degli illuministi) chiamato Grande Architetto dell'Universo o Essere Supremo. Essa ha vari riti e obbedienze. Tra i riti più importanti ricordiamo quello scozzese, inglese, nazionale spagnolo, egizio (detto anche di Menfi e Misraim), simbolico italiano, swedemborghiano, noachita, ecc. Il più importante è quello scozzese, che si rifà all'esoterismo templare e ha 33°, tra cui i più alti sono quelli dal 18° in poi. Quando si parla di templarismo in massoneria in realtà viene ripresa una tradizione in parte errata, scorretta e diffamatoria. L'obbedienza più importante al mondo è quella che fa capo alla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, detta anche "Sancti Quatuor Coronati", che ha per gran maestro il duca di Kent (attualmente è il principe Edoardo Windsor). Per le sue posizioni deiste, non riconosce la maggiore obbedienza francese, il Grande Oriente di Francia, che è violentemente antireligiosa e ammette anche gli atei. Le massonerie scandinave hanno una particolarità: riconoscono come gran maestro il re dei loro rispettivi stati; ad esempio in Svezia è l'attuale re Carlo Gustavo XVI. Esistono anche massonerie esclusive come la Prince Hall negli USA che ammette solo personalità afroamericane, di cui ne fa parte il presidente americano Barack Obama, oppure la B'nai B'rith, riservata ai soli ebrei. Caratteristiche fondamentali delle logge sono la segretezza e l'esclusione delle donne, anche se ci sono obbedienze rigorosamente femminili o addirittura miste come la Gran Loggia d'Italia di piazza del Gesù. L'Inghilterra di inizio '700 era vista dalla nobiltà liberale europea un faro di civiltà, soprattutto per il suo ordinamento monarchico-costituzionale. Le caste aristocratiche illuminate anglofile erano ambiziose e gelose delle prerogative tradizionali dei re e volevano limitarle. Si studiavano i principi costituzionali britannici con l'ansia di esportare gli ideali illuministi. La nobiltà europea era affascinata dal costituzionalismo, dal deismo, dalla tolleranza religiosa e dal liberismo economico. Insieme a tutte queste suggestioni provenienti da oltre Manica, cominciò a diffondersi la massoneria, dapprima in Olanda, Francia, Germania (Hannover) e poi negli altri paesi europei, tra cui l'Italia; il primo libero muratore italiano fu il medico beneventano Antonio Cocchi, iniziato a Firenze nel 1732 alla loggia detta "degli Inglesi". In Francia uno degli esponenti dell'aristocrazia anglofila fu il barone Charles de Montesquieu, grande teorico del liberalismo e del costituzionalismo, uno dei padri riconosciuti dell'Illuminismo. La Massoneria francese cominciò quasi subito a rivendicare una certa autonomia, ispirandosi all'esoterismo templare e dandosi un'impostazione di tipo cavalleresca; raccoglieva gli esponenti nobili e alto-borghesi riformatori che si fecero portavoce di quel clima culturale che portò alla stagione dell'enciclopedismo illuminista che ha avuto per protagonisti Diderot, D'Alembert e Voltaire. La critica enciclopedista attaccava la società di Ancièn Règime, la Chiesa Cattolica, vista come fonte di oscurantismo, pregiudizi e superstizione, i privilegi nobiliari che causavano diseguaglianze, la storia passata, considerata inutile e piena di errori; esaltava invece il pensiero scientista, la libertà in tutte le sue forme, l'uguaglianza sociale, il progresso in tutti i campi, la fratellanza tra gli esseri umani e il potere illimitato della ragione, identificata come strumento infallibile di indagine della realtà. Lo spirito corrosivo dei liberi pensatori, impregnato di razionalismo e di scetticismo antireligioso, provocò nel 1738 la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di papa Benedetto XIV. In quegli anni la Massoneria prendeva sempre più, soprattutto in Francia, una piega politica radicale e antidispotica; in Inghilterra si tenne invece favorevole al mantenimento dell'ordine costituzionale, appoggiando il partito liberale whig. Intanto però le logge si diffusero anche nelle colonie americane. Nel 1751 fu pubblicato quel feroce manifesto anticristiano che fu l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, diretta emanazione delle logge che preparò una forte ostilità nei confronti della tradizione e del cattolicesimo. Un altro illuminista franco-svizzero, Rousseau, teorizzò la "democrazia totalitaria", ossia il rovesciamento violento dell'ordine costituito in favore di un governo popolare, in cui la moltitudine avrebbe delegato il potere a propri rappresentanti in grado di interpretare "la volontà generale", in pratica la prefigurazione del Terrore giacobino della Rivoluzione francese. Nel periodo pre-rivoluzionario furono pubblicati migliaia di libri, pamphlet, riviste, giornali, tutti tesi a screditare e a diffamare la Corona di Francia e la Chiesa cattolica. Il 1776 fu l'anno dell'indipendenza delle 13 colonie americane dalla madrepatria inglese; i capi del movimento anticoloniale da George Washington a Thomas Jefferson, da Benjamin Franklin a John Adams, erano tutti massoni. Il marchese francese di La Fayette, che era un "fratello" e aveva combattuto a loro fianco, sperava che un giorno anche in Francia si potesse lottare per gli ideali rivoluzionari. La Massoneria francese nel frattempo infiltrava suoi uomini nelle istituzioni ecclesiastiche e a corte: il banchiere ginevrino Jacques Necker, ministro delle finanze di Luigi XVI, il cugino del re, il duca Filippo d'Orléans, detto in seguito anche Philippe Egalitè, per il suo acceso fervore rivoluzionario, Jacques Roux , soprannominato il "curato rosso", e l'abate Sieyès. Obiettivo principale era disintegrare il sistema dal di dentro. L'anno stesso della Rivoluzione americana, il 1° maggio 1776 fu fondata a Ingolstadt, grazie all'appoggio finanziario dei banchieri Rothschild, la società segreta cospiratoria degli "Illuminati di Baviera". Il capo di questa potente e pericolosa organizzazione era un ex gesuita discendente da una ricca famiglia di ebrei convertiti, Adam Weisshaupt. Feroce anticattolico, era seguace dell'Illuminismo ateo e materialista ma allo stesso tempo coinvolto nell'occulto, in particolare della tradizione rosacrociana e templare. L'obiettivo della setta era distruggere le monarchie cattoliche o comunque cristiane e il papato, al fine di instaurare una "repubblica universale". Il disegno dei Rothschild era conquistare tutte le nazioni e assoggettarle al potere delle banche e della finanza, nonché stampare privatamente le monete nazionali (signoraggio). Il loro patrimonio era stimabile di gran lunga superiore alla ricchezza dello stesso re di Francia; erano la famiglia più potente dell'epoca. I congiurati di Weisshaupt entrarono nella massoneria ufficiale. Lo storico Alan Stang attesta che nel 1788 tutte le 266 logge del Grande Oriente di Francia erano sotto il controllo degli Illuminati; il gran maestro era diventato Filippo di Orleans. L'ossessione degli Illuminati era vendicare la condanna a morte dell'ultimo gran maestro templare Jacques De Molay (di cui si dicevano continuatori), fatto giustiziare da re Filippo IV il Bello di Francia il 13 ottobre 1314; il loro progetto era sterminare la "razza dei Capeti", i Capetingi. Prima e durante la Rivoluzione, i massoni si riunivano intorno alla tomba di De Molay per celebrare rituali esoterici e giuramenti di vendetta. Il boia che giustiziò materialmente il 21 gennaio 1793 Luigi XVI era un discendente dell'ultimo gran maestro dell'Ordine del Tempio. Con questo orrendo delitto i giacobini dell'Illuminato di Baviera Maximilien Robespierre scatenarono una feroce persecuzione contro i loro nemici, i controrivoluzionari, accanendosi in particolar modo proprio contro quel popolo di cui tanto si facevano paladini, che invece voleva rimanere fedele ai Borbone e alla Chiesa. La persecuzione antireligiosa era cominciata in maniera più blanda già dopo il 14 luglio 1789, ma con il Terrore giacobino raggiunse vette molto più alte. Beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè. Da non dimenticare l'orribile genocidio della Vandea (130.000 morti), che disgustò perfino Babeuf e Napoleone, ma di cui nessuno parla. Questa regione doveva diventare, nelle parole del generale giacobino Westerman, un "cimitero nazionale". Il furore spietato e distruttivo contro la Vandea si spiegava perché era la regione più religiosa e lealista della Francia. P. Augustine Barruel scrisse chiaramente in una sua opera che gli Illuminati avevano complottato contro il Trono e l'Altare. Erano membri della setta Robespierre, il duca di Orléans, Necker, La Fayette, Barnave, il duca di Rouchefoucault, Mirabeau, Fauchet, Clootz e Talleyrand, e appartenevano al Grande Oriente di Francia tutti i principali capi rivoluzionari: Sieyès, Saint-Just, Marat, Danton, Desmoulins, Hèbert (l'ideatore della "scristianizzazione") e Brissot. La scristianizzazione portata avanti da Hèbert, accanitamente antireligiosa, non trovò l'appoggio di Robespierre, che sostenne e impose il culto dell'Essere Supremo e della Dea Ragione. Il capo giacobino sperava in tal modo di rendere "popolari" i principi massonici. All'Ente Supremo, equivalente del Gadu, fu conferito come simbolo un grande e robusto albero, una quercia, che alla fine rappresenta la Natura; notiamo bene che questo simbolo pagano era lo stesso che campeggiava sullo stemma del Pds di Achille Occhetto, che nel 1991 aveva appena abbandonato il vecchio nome di Pci. Alla Dea Ragione fu data l'immagine di una donna con il petto scoperto dove spunta l'occhio onniveggente, altro simbolo cabalistico ed esoterico. Che la Rivoluzione francese fosse influenzata dalla massoneria è dimostrato da più parti: basta controllare il frontespizio dell'Enciclopedia e le fedeli riproduzioni della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, dove le allegorie massoniche sono evidentissime. La reazione del 9 Termidoro che portò alla ghigliottina Robespierre e i suoi seguaci il 27 luglio 1794, segnò l'ascesa al potere dei gruppi borghesi liberal-moderati. Intanto le frange più estremiste si organizzavano, e un triumvirato ultragiacobino composto da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Silvain Marèchal, tutti e tre massoni, diede vita alla Congiura degli Eguali del marzo-maggio 1797. La cospirazione fu soffocata nel sangue e Babeuf condannato a morte. Buonarroti e Marèchal continuarono nel segreto la loro attività rivoluzionaria, fornendo insieme a Jakob Kats, un patrimonio politico di rilevante importanza, perché questi gruppi proto comunistici furono gli antesignani diretti del socialismo marxista. L'ascesa di Napoleone Bonaparte segnò l'inizio della conquista massonica dell'Europa. L'esercito francese disseminava logge in tutti i territori occupati, Italia compresa. Il 20 giugno 1805 nacque a Milano il Grande Oriente d'Italia, la più grande obbedienza della penisola, però non riconosciuta dalla Loggia Madre di Londra. In quel periodo nacque anche la Carboneria, una metamorfosi rurale della Massoneria, che ebbe come gran protettore il cugino di Napoleone, Gioacchino Murat, "re" di Napoli e delle Due Sicilie. Scopo delle società segrete italiane era "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. Possiamo scorgere l'azione della Massoneria dietro tutte le rivoluzioni in Europa e in America del 1820-21, 1825, 1830-31 e del 1848. Il Risorgimento italiano, guidato dal massone Cavour e aiutato dai "fratelli" Mazzini, Garibaldi, Manin, D'Azeglio e tanti altri, portò alla "indipendenza" italiana nel 1861. Lo Stato Pontificio fu conquistato solo il 20 settembre 1870 con la breccia di Porta Pia per opera dei bersaglieri dell'esercito sabaudo, nonostante l'eroica resistenza di papa Pio IX, spesso ingiustamente accusato dalla storiografia progressista come un anti-italiano. Anzi, esisteva un progetto dello stesso pontefice volto ad unificare in maniera federativa gli Stati italiani, onde evitare il pericolo di una rivoluzione laicista e anticlericale. Fatto sta che dal 1870 al 1929 il papa è stato prigioniero in Vaticano e che dal 1861 al 1922 il Regno d'Italia è stato governato da un regime oligarchico e liberal-massonico, nonostante il patto Gentiloni-Giolitti del 1913. Dalle società segrete socialiste francesi che avevano dato vita alla congiura di Babeuf emigrate in Germania, nacque nel 1834 la Lega dei Proscritti. Questi gruppi cospiratori discendevano in linea diretta dagli Illuminati di Weisshaupt. Nel 1836 ci fu una scissione all'interno dei Proscritti; nasceva così la Lega degli Uomini Giusti. Nel 1840 circa, entrarono a far parte di questo gruppo Kiessel Mordechai Levi, alias Karl Marx e Friederich Engels, i padri del comunismo. Marx, secondo la notizia riportata sulla rivista massonica italiana "Hiram" il 1° maggio 1990, fu iniziato alla loggia "Apollo" di Colonia. Nel 1847 gli Illuminati inglesi affidarono ai due filosofi il compito di rielaborare i principi di Weisshaupt e Babeuf in forma nuova e scientifica, mentre i fondi necessari per la pubblicazione del "Manifesto Comunista" del 1848 provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely (avo di Hjalmar Schact, ministro dell'economia del Terzo Reich), entrambi membri della loggia "Columbia", fondata a New York dagli Illuminati bavaresi. Le agitazioni rivoluzionarie fomentate da comunisti, socialisti, anarchici e radical-democratici sfociarono nella Comune di Parigi del 1871, un violento rivolgimento politico indirizzato contro il governo del conservatore Adolphe Thiers. La rivolta fu domata in poche settimane. A cavallo tra l' '800 e il '900 i principali governi europei e americani erano anticlericali, soprattutto la Francia e l'Italia, egemonizzati da partiti liberal-moderati, progressisti e radical-socialisti. Durante la cosiddetta "belle èpoque" (1900-1914) le logge studiavano come disfarsi dei governi autocratici che ancora resistevano dopo le ondate rivoluzionarie ottocentesche; gli obiettivi da abbattere erano l'Impero Austro-Ungarico, la Germania del Kaiser, la Russia zarista (sconvolta da attentati e moti fino a prima del 1914), ma anche la Turchia Ottomana. L'odio di grembiulini e rivoluzionari era concentrato soprattutto contro gli Asburgo d'Austria, visti come eredi dei Carolingi e del Sacro Romano Impero Germanico, fondatore dell'Europa cristiana. L'Impero asburgico era multietnico e si volevano strumentalizzare le rivendicazioni per l'indipendenza di alcune nazionalità: i serbi ortodossi alleati della Russia, i cechi, gli slovacchi, ma anche l'élite ebraica che mal sopportava essere governata da una dinastia cattolica. Gli ebrei sostenevano il Partito Socialdemocratico, guidato dal loro correligionario Viktor Adler, il cui figlio Friederich uccise il primo ministro Stürgkh. La Massoneria internazionale voleva un grande scontro sul continente che avrebbe dovuto portare alla federazione repubblicana degli Stati europei. Il 28 giugno 1914 il terrorista ebreo serbo Gavrilo Princip appartenente alla società segreta della "Mano Nera" e alla setta democratica "Giovane Serbia", uccise l'erede al trono d'Austria il granduca Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, provocando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Gli schieramenti erano questi: da una parte gli Imperi centrali, Austria - Ungheria, Germania e Turchia Ottomana, dall'altra la Triplice Intesa che comprendeva Inghilterra, Francia, Russia (poi costretta ad abbandonare per lo scoppio della Rivoluzione bolscevica) e più tardi Italia e Stati Uniti. La Grande Guerra si concluse con la vittoria delle potenze massoniche e la distruzione dei vecchi imperi europei. L'Austria – Ungheria fu smembrata e la Germania umiliata. Ottennero l'indipendenza la Cecoslovacchia, guidata dai "fratelli" Beneš e Masaryk, la Polonia, l'Ungheria e il Regno di Jugoslavia. L'Impero Ottomano fu lentamente logorato all'interno con la presa del potere dei "Giovani Turchi" nel 1908, una setta democratica modernizzante i cui membri risultavano affiliati alla loggia "Macedonia Resurrecta" di Salonicco. Il governo massonico turco pianificò il genocidio armeno nel 1915; furono trucidati 1.500.000 di armeni. Con la fine del conflitto l'Impero si sfaldò. Nel 1923 il generale massone Kemal Atatürk abolì definitivamente il sultanato; nasceva così la Repubblica di Turchia, profondamente occidentalizzata e proiettata verso l'Europa. La Russia fu sconvolta dalla Rivoluzione di febbraio che spodestò lo zar Nicola II, guidata dai massoni L'vov e Kerenskij, affiliati alla Gran Loggia di Russia. La rivolta di febbraio ebbe un carattere liberale e socialdemocratico. Ma il 25 ottobre successivo il potere fu preso dai comunisti bolscevichi, capitanati dagli altrettanti "fratelli" Lenin, Trotzkij, Zinov'ev, Parvus, Litvinov, Bucharin, Sverdlov, Lunačarskij, Radek, Rakowskij, Krasin, tutti iniziati al Grande Oriente di Francia; è forse da escludere l'appartenenza di Stalin, il quale non risulta affiliato. Lenin fu iniziato a Parigi nel 1908 alla loggia "Union de Bellevillle" e ottenne il 31° grado. Il governo sovietico del 1920 era molto particolare: su 21 Commissari del Popolo 17 erano di origine ebraica; su 545 funzionari di Stato, 447 erano ebrei. In effetti la comunità israelitica vedeva di buon occhio la Rivoluzione nel paese degli zar. Non è un mistero che essa fu finanziata da ambienti ebraici anglosassoni nordamericani ed europei contigui alla B'nai B'rith tramite Parvus (Rockefeller, Morgan, Kuhn & Loeb, Rothschild, Schiff, Warburg). Molti correligionari però, appartenenti alla piccola borghesia, furono ferocemente perseguitati e spogliati dei beni perché conservatori e fedeli al vecchio regime. La "Civiltà Cattolica", autorevole rivista dei gesuiti, parlò di un complotto giudaico-massonico-bolscevico. Il governo comunista di Russia è stato il primo a legalizzare la pratica genocida dell'aborto, voluto dal Commissario del Popolo agli Affari Familiari Goichberg su pressione di Lenin, ispirato a sua volta dal "miliardario rosso" americano Armand Hammer, uomo dei Rockefeller (i più grandi pianificatori del controllo delle nascite a livello globale), maestro dell'ecologista radicale Al Gore. Un grande storico magiaro-francese, François Fejtö, ha ammesso nella sua opera più conosciuta "Requiem per un Impero defunto", il ruolo determinante delle società segrete nello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli stessi capi politici delle potenze vincitrici, il democratico Wilson (USA), il liberale Lloyd George (Gb), il radical-socialista Clemenceau (Fra) e il liberaldemocratico Orlando (Ita) erano tutti massoni. Woodrow Wilson fu l'ideatore della Società delle Nazioni, un organismo sovranazionale, antenato dell'ONU, che avrebbe dovuto portare secondo lui alla pace universale e ad un unico governo mondiale; essa avrebbe dovuto riuscire dove il Cristianesimo aveva fallito. Clemenceau era un anticlericale incallito; apparteneva ad una loggia i cui membri si facevano tumulare da morti ritti in piedi, in segno di odio e di sfida contro Dio. Nel '900 particolarmente travagliata è stata la storia del Messico. Scosso da rivoluzioni e da vari rivolgimenti politici (1910-1914), la lotta anticristiana fu molto virulenta. Presidenti massoni come Madero, Carranza, Obregòn, Cardenas e soprattutto Calles furono i protagonisti in negativo di un'epoca. Quest'ultimo scatenò una ferocissima persecuzione, che provocò come reazione la guerra cristera del 1927-1929. Il regime era controllato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ideologicamente professava un socialismo di tipo ottocentesco con venature democratico-giacobine; per essere più pratici lo si potrebbe paragonare al Psoe di Zapatero. È unanimemente riconosciuto che la Massoneria messicana, secondo anche la testimonianza di P. Carlos Blanco, è la più anticlericale che esiste. Manovrata dagli USA o da ambienti sinarchici europei vicini alla Spagna e alla Francia, si sforza di dare al Messico un'identità laica e protestante in grado di cancellare le radici cattoliche del paese, viste come il maggiore ostacolo alla fusione di tutte le nazioni americane. Il rapporto tra la Libera Muratoria e i grandi nazionalismi europei è stato piuttosto complesso. In Italia Benito Mussolini nel 1922 mise fine a 61 anni di regime oligarchico - liberale, ma inizialmente già dal 1919, il fascismo godette del sostegno della Massoneria italiana, poiché lo credeva un movimento socialista e nazional-giacobino. Il massone anticlericale Arturo Reghini fu, insieme all'esoterista Julius Evola, il principale assertore del "fascismo pagano". Personalmente il Duce detestava i poteri occulti, e nel 1925 li mise fuori legge, suscitando le ire di Antonio Gramsci. Nonostante ciò, molti gerarchi fascisti erano "fratelli" come Grandi, Balbo, Badoglio, Bottai, Costanzo Ciano, Farinacci, Starace, Sante Ceccherini, Acerbo, ma anche due tecnici del governo come Giuseppe Volpi di Misurata e Alberto Beneduce. La cosa a quanto pare fu sottovalutata da Mussolini che se ne rese conto troppo tardi quando il 25 luglio 1943 fu sfiduciato dal Gran Consiglio da un gruppo di fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi. Quest'ultimo ha scritto nelle sue memorie che voleva far pagare al Duce e al regime le scelte fatte dal 1936 in poi, anno dell'inizio della guerra civile di Spagna, che vide l'Italia fiancheggiare senza riserve i nazionalisti di Franco, impegnati in una dura lotta al bolscevismo e alla massoneria internazionale. Lo stesso Badoglio si oppose all'entrata in guerra dell'Italia. La massoneria negli anni '30 accentuò la propaganda antifascista, e in molte carte segrete, oggi recuperate, si esprimeva la necessità di abbattere il Duce con una grande alleanza internazionale, che si concretizzò con la Seconda guerra mondiale. In realtà la Massoneria non perdonava al regime anche la stipula dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, che mettevano fine al decennale contenzioso tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Il nazismo di Hitler era profondamente avverso alla massoneria, perché la considerava una pedina degli ebrei. Nonostante ciò, ministro dell'Economia del Reich e presidente della Deutsche Bank era il protestante frammassone Hjalmar Schact, "miracolosamente" sfuggito al processo di Norimberga, evidentemente salvato dai "fratelli" americani, inglesi, francesi e sovietici. Bisogna dire che il nazionalsocialismo fu in parte emanazione di circoli iniziatici pangermanisti e neopagani facenti capo alla loggia "Thule". Molti esponenti nazisti facevano parte di questo gruppo esoterico: Adolf Hitler, Alfred Rosenberg, Otto Rahn, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; quest'ultimo apparteneva anche all'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società d'ispirazione rosacrociana. Secondo alcuni storici, si recò in Inghilterra nel 1941 per negoziare una pace separata con gli inglesi proprio a causa della sua affiliazione a questa setta segreta la cui sede e i cui vertici risiedevano in Gran Bretagna. Il Falangismo spagnolo di Francisco Franco fu autenticamente cattolico e rigorosamente antimassonico. La Repubblica, egemonizzata dalle sinistre anticlericali (socialisti, repubblicani, comunisti), e sostenuta dall'esterno dagli anarchici e all'estero dal Messico di Cardenas, dalla Francia del Fronte Popolare del marxista Lèon Blum e in maniera più decisa e diretta dall'URSS di Stalin, cominciò ad innescare un clima di odio e di violenza tale che soprattutto dal 1936 al 1939 raggiunse l'apice massimo. A proposito del dittatore georgiano, urge una precisazione: la volta scorsa ho scritto che non risulta affiliato; ebbene, un massone mi ha riferito invece che Stalin era "fratello". La Massoneria lo ha screditato dopo la morte a causa delle molte epurazioni da lui effettuate all'interno del Pcus. Il presidente repubblicano Manuel Azaña, un massone fanatico, era deciso a portare la Spagna sotto l'orbita sovietica, provocando e alimentando la violenza inaudita dei rivoluzionari contro la Chiesa e tutti coloro che non si piegavano al terrore rosso. Le persecuzioni furono terribili; gli orrori dei comunisti spagnoli superavano in molti casi quelli dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Con la risoluta reazione dei nazionalisti di Franco, aiutati in maniera decisiva dalla Germania ma soprattutto dall'Italia, la Repubblica filosovietica fu abbattuta. Franco giunto al potere emanò il 1° marzo 1940 la legge per la repressione della massoneria e del comunismo. Va aggiunto che molti massoni di tutte le tendenze politiche antifasciste si arruolarono nelle Brigate Internazionali, per andare in soccorso dei "fratelli" in pericolo. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale e la sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, implicò la divisione del mondo in due blocchi, voluto a Yalta nel 1945 dai "fratelli" Roosevelt, Churchill e Stalin: a occidente il predominio americano e a oriente quello sovietico. I due mondialismi materialisti si spartivano il pianeta: da una parte il capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante, dall'altro il comunismo ateo e totalitario. Il nazionalismo doveva essere distrutto per far posto al mondialismo, che avrebbe dovuto portare al compimento della Grande Opera, al sogno della massoneria: la Repubblica Universale. I popoli dovevano scegliere. L'Italia decideva il suo destino il 18 aprile 1948: dopo l'unità durante la Resistenza, una parte della Massoneria sostenne i partiti laici minori, il PDA, il PRI e il PLI, apertamente filoamericani, mentre l'altra il Fronte Popolare, costituito da PCI e PSI, che invece erano filosovietici. Simbolo del FP era un'immagine di Garibaldi. La grande vittoria della DC confermò l'Italia nel campo americano, insieme agli altri paesi occidentali. In tutta l'Europa orientale, la Massoneria spianò la strada ai socialcomunisti. La studiosa Angela Pellicciari, tra le migliori esperte di storia del Risorgimento italiano, ha giustamente notato che sull'emblema della DDR (la Germania Orientale comunista) figurava un compasso; ricordiamo che il compasso, con la stella a 5 punte e la squadra sono i principali simboli della massoneria. Un caso oscuro ed emblematico di come i "fratelli" si vogliano bene tra loro riguarda la Cecoslovacchia. Con il colpo di Stato del 1948, il radicale Jan Masaryk, già Gran Maestro della Massoneria ceca al pari di suo padre Tomas e di Edvard Beneš, persecutori e carnefici degli slovacchi cattolici, fu "suicidato" dagli stessi "fratelli" comunisti che lui aveva favorito come alleati al governo (era l'unico non marxista). La famiglia Masaryk fu protagonista di un vero e proprio dramma: Tomas fece di tutto per "liberare" la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, mentre suo figlio Jan aveva consegnato il suo paese (rimettendoci la vita!) negli artigli del bolscevismo internazionale. Lo stesso anno, il 14 maggio 1948 Ben Gurion fondava lo Stato d'Israele, dando vita al "Risorgimento ebraico" che ha per base ideologica il Sionismo di Teodoro Herzl. Il sionismo predica il ritorno in patria del popolo d'Israele, in base ad un messianismo laico e terreno. Con l'arrivo dei coloni ebrei è iniziato un capitolo triste per la sorte del popolo arabo-palestinese. Nel 1945 a S. Francisco era nata l'ONU, per iniziativa delle potenze vincitrici, al posto della screditata Società delle Nazioni. La sua sede è a New York, edificata in uno spazio donato dai Rockefeller. Le stanze dell'ONU sono piene di simbologie massoniche. Le Nazioni Unite sono una prefigurazione del futuro governo mondiale, controllate da burocrati mediocri ma potenti, influenzati da un tipo di socialismo fabiano e tecnocratico. Esse hanno silenziosamente e subdolamente incoraggiato la decolonizzazione negli anni '40, '50 e '60 delle dipendenze oltre continente di Inghilterra, Francia, Belgio, Portogallo e Olanda. Rozzi e violenti capipopolo di sinistra come Sukarno in Indonesia, Lumumba nel Congo belga, Ho Chi Minh in Vietnam, solo per fare qualche nome, ottennero l'indipendenza delle loro nazioni per poi fare lucrosi affari sottobanco con i grandi capitalisti occidentali, loro che avevano predicato la guerra rivoluzionaria ai bianchi "schiavisti" e "sfruttatori". Lo stesso può dirsi per le rivoluzioni marxiste nei Paesi poveri, la Cina di Mao (istigata dall'agente sovietico del Comintern, il rivoluzionario massone Michail Borodin, detto Gurov) e la Cambogia dei khmer rossi, dove il macellaio comunista Pol Pot ha eliminato 1 milione di persone nel giro di una settimana, ma soprattutto nell'America Latina , guidate dai "fratelli" Castro e Che Guevara a Cuba (entrambi 33° grado del Rsaa della Gran Loggia Cubana), Romulo Betancourt in Venezuela, Jacobo Arbenz Guzmàn in Guatemala e Salvador Allende in Cile (Venerabile della Loggia "Hiram n° 66 di Santiago). Una breve digressione merita il "mitico 68". Esso fu preparato mediante un'efficace suggestione culturale dalla Scuola di Francoforte, un gruppo di filosofi marxisti "eretici", tra cui Theodor Adorno, Herbert Marcuse e Max Horkehimer. Fondata dalla Fabian Society, la società semi-segreta inglese nata nel 1904, fautrice dell'espansione del socialismo nel mondo, da cui sono usciti molti politici laburisti come i premier Tony Blair e Gordon Brown, essa aveva lo scopo di inquinare i costumi dell'Occidente con la mentalità libertaria e nichilista, al fine di facilitare l'avvento della socialdemocrazia universale. Un altro organismo mondialista che ci riguarda molto da vicino è l'Unione Europea (ex Ceca-Euratom, Cee). Nonostante sia stata voluta anche da 3 cattolici ferventi come De Gasperi, Schuman e Adenauer, l'Ue ha preso una piega sempre più tecnocratica, centralista, socialista e laicista. Padri "spirituali" di questa Europa debole e corrotta sono i massoni Blum, Spaak, Monnet, Spinelli, Brandt, Giscard d'Estaing, Felipe Gonzalez, Cohn Bendhit, Mitterrand (che in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese ha riempito Parigi di simboli esoterici) e Delors. Qualcuno non contento, vuole perfino far entrare la Turchia, vista come l'ariete che potrà finalmente distruggere la nostra Civiltà. Del resto è sotto gli occhi di tutti la politica anticristiana praticata dalle istituzioni comunitarie. L'azione della massoneria in Italia nel dopoguerra si è concentrata soprattutto sulla corruzione dei costumi e della famiglia. Forze politiche anticlericali come il Pri, il Psi, il Pci, il Psdi, il Pli, guidate dal Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, riuscirono a far introdurre il divorzio nel 1970 e l'aborto nel 1978. Esso era stato legalizzato prima nell'URSS e poi nel restante campo comunista, poi diveniva legge negli USA il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema, controllata dai Rockefeller, si pronunciò a favore di tale provvedimento. Che l'applicazione dell'aborto su scala mondiale sia frutto di una pianificazione a tavolino dei poteri massonici, non c'è dubbio; diceva la femminista francese Edwige Prud'homme, Gran Maestra della Loggia femminile di Francia, intervistata da Le Monde il 26 aprile 1975: «È nelle nostre logge che furono prese, 15 anni fa le prime iniziative che condussero alla legislazione sulla contraccezione, il familial planning e l'aborto». Lo storico François Fejtö su "il Giornale" del 14 dicembre 1982: «Sotto Giscard, il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Pierre Simon, svolse un ruolo preponderante nella preparazione delle leggi sulla contraccezione e l'aborto». Perfino Giovanni Paolo II diceva che «sono grandi e potenti le forze che oggi, apertamente od occultamente, dispiegano nel mondo la cultura della morte». Molte agenzie dell'ONU e dell'Ue promuovono l'aborto su scala planetaria, soprattutto nel Terzo mondo. L'aborto per i massoni, ha un significato esoterico profondo: è il sacrificio cruento di sangue innocente offerto al Principe di questo mondo, Satana, il vero dio della Massoneria, qualificato come Gadu o Ente Supremo, per nascondere ai profani le vere finalità della setta, come ebbe a sottolineare il grande giurista cattolico e controrivoluzionario francese vissuto tra il '700 e l'800, il conte di Anthenaire, e come confermano molti documenti riservati agli alti gradi, tra cui quelli di Albert Pike, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rssa della Giurisdizione del Sud degli Stati Uniti d'America, vissuto nell'800. Gli anni '80 furono l'inizio del collasso sovietico: l'elezione al vertice del PCUS dello pseudo innovatore Michail Gorbačev, tanto acclamato in Occidente, portò alla fine del comunismo nell'Europa orientale nel 1989 e alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. La sua politica riformatrice e allo stesso tempo fallimentare, era dettata dai poteri forti mondialisti, decisi a far crollare il socialismo di Stato per proiettare l'economia russa verso il mercato globale; gli stessi gruppi di potere che furono i burattinai dell'ottobre 1917, i Rockefeller in testa. Non stupirà sapere che Gorbačev è massone e membro del Lucis Trust, un club fondato dalla teosofa ed esoterista Alice Bailey, che si batte per l'unificazione delle religioni; la congrega usa riunirsi spesso nella cappella newyorkese presbiteriana di S.Giovanni il Divino. Esso è inoltre uno degli sponsor più attivi per i meeting sul dialogo interreligioso promossi dall'ONU. Prima del novembre 1989, Gorbačev tenne un incontro molto riservato a Mosca con il Gran Maestro della Massoneria romena, Marcel Shapira, il quale gli confidò con mesi d'anticipo che i capi comunisti di allora, i vari Ceausescu, Husak, Honecker, ecc, sarebbero stati presto sostituiti con altri leaders. Ciò la dice lunga sui profondi legami tra apparato comunista e massoneria internazionale mondialista. Oggi l'ex dittatore sovietico è a capo della Green Cross International, una grande associazione ecologista, ed è tra i firmatari della Carta della Terra, che a suo avviso dovrebbe sostituire i 10 Comandamenti, nonché sostenitore delle bizzarre previsioni sul clima di Al Gore. Nell' '89 il comunismo, la peggiore forma di sfruttamento e di oppressione della storia, crollava con un terrificante bilancio incalcolabile di morti e di danni materiali e spirituali, con il solo risultato di aver devastato i popoli e di aver paradossalmente lasciato al loro posto tutti grossi gruppi del grande capitale internazionale. La fine del sistema comunista in Europa ha portato al superamento dei blocchi e all'indiscussa supremazia USA. L'11 settembre 1991 il presidente americano George Bush (33° grado Rsaa) annunciò dal suo studio ovale di Washington che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale". Cosa intendeva? Quella che oggi è sotto gli occhi di tutti: la società multietnica e multiculturale, che ci porterà alla Repubblica Universale massonica, che annullerà tutte le culture e le fedi. Proprio a partire da quegli anni, l'Europa, culla di Civiltà, è stata interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia. La maggior parte di questi nuovi arrivati è di fede musulmana. La religione di Maometto è incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali, crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma ai progressisti, custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione, la cosa sembra non importare, anzi auspicano uno "scontro creativo" tra civiltà, per cui nascerà un nuovo ordine dal caos, come disse Edgar Morin, sociologo di sinistra ed ex consigliere di Mitterrand. L'obiettivo dei grembiulini è devastare la radice e il tessuto culturale e sociale con l'ausilio della religione islamica, che è in grande espansione, contro un'Europa disarmata e in crisi d'identità. Ma la globalizzazione era già stata preparata nei piani alti delle logge massoniche. In piena Seconda guerra mondiale, John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller, così vedeva la "pace universale", sul "Times" del 16 marzo 1942: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». Oggi si parla tanto di pace, quanto è abusato questo termine! La "pax mondana" è cosa ben diversa da quella "christiana", lo dice perfino Gesù nel Vangelo, checché ne dica qualche parroco o vescovo progressista. Tutti noi ricordiamo quando durante la guerra in Iraq, molti italiani esposero la bandiera arcobaleno; ebbene quel vessillo è simbolo della Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York da Anne Beasant, Helena Petrovna Blavatsky , Alice Bailey e altri famosi occultisti, che indica la pace come sforzo umano e non come dono di Dio. L'arcobaleno così inteso era presente già nella simbologia delle logge massoniche del'700, figura sulla bandiera del Nicaragua (tuttora patria e rifugio di comunisti, massoni, rivoluzionari, guerriglieri, narcotrafficanti e terroristi di tutto il mondo) e nello stemma dell'Antico Rito Noachita. Inutile dire quanto sia usato durante le manifestazioni omosessuali. Quindi l'arcobaleno è il simbolo principale della Nuova Era dell'Acquario, che sarà pacifista, multietnica, multiculturale, multisessuale, sincretista e politicamente corretta. La moderna secolarizzazione ha colpito duramente anche la Chiesa. Una crisi che è stata preparata da tempo dalle logge massoniche. Documenti riservati dell'Alta massoneria risalenti a fine '800 – inizio '900 dichiaravano che occorreva distruggere la Chiesa cattolica dal di dentro, puntando sulla corruzione morale dei sacerdoti e dei credenti, al fine di screditarla. Il periodico francese "Vers Demain" pubblicò un estratto del piano studiato dal massone spretato Paul Roca: «Soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire». Da qui l'irrompere dell'eresia modernista, duramente condannata da S. Pio X con il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi del 1907. Ovunque la Massoneria è giunta al potere, ha sempre provveduto ad infiltrare agenti e a sottomettere la Chiesa allo Stato, come è avvenuto in Francia durante la Rivoluzione con la Costituzione Civile del Clero, così come in Messico, in Russia, ecc, e come voleva fare in Italia contro papa Pio IX, che non voleva «diventare il cappellano di Casa Savoia». Un grande santo come Padre Pio da Pietrelcina definiva la massoneria «l'infame setta». Non esagerava, aveva perfettamente ragione. Francesco Pio Meola

La massoneria cattiva che minaccia il mondo, scrive Claudio Messora il 9 dicembre 2015. Gioele Magaldi vi racconta i disegni della massoneria neo-aristrocratica e la battaglia in corso con quella progressista per il dominio sul mondo (la prima) e per il ripristino delle libertà fondamentali dell’uomo (la seconda), mostrando le connessioni con gli ultimi avvenimenti del contesto geopolitico.

Ho letto alcune tue interviste, in cui analizzi i fatti di Parigi, e li leghi all’intreccio massonico. Confermi?

Fatti come quelli del 7 gennaio e del 13 novembre sono già adombrati nel libro, specialmente nell’ultimo capitolo di “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere. L’ISIS è una creatura non “occidentale”, così come spesso si dice in una banalizzazione delle dinamiche del potere: è semmai una creazione sovranazionale, apolide. Ci sono forze sovranazionali che operano. E lo fanno con uno spirito cosmopolita. C’era per esempio, nell’Ottocento, una internazionale massonica progressista che andava a fare le rivoluzioni ovunque vi fosse una tirannide. La patria era ogni luogo ove si trattasse di aiutare delle persone ad auto-determinarsi, a darsi Costituzioni, liberali e democratiche. Garibaldi è uno che ha combattuto ovunque, insieme ai patrioti ungheresi, statunitensi, francesi. Sono venuti a fare il Risorgimento in Italia e sono andati a farlo in Ungheria, e sono andati in Francia, sono andati negli Stati Uniti. Ecco, invece oggi, da settant’anni a questa parte, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, per la prima volta nella storia nell’ambito della Massoneria sono arrivati all’egemonia dei gruppi massonici, non più progressisti, ma io li definisco neo-aristocratici e reazionari, con un’idea non più cosmopolita del loro potere e delle loro battaglie, ma apolide, cioè indifferente, cinicamente indifferente al benessere dei singoli popoli, e anche sopraelevati rispetto a qualunque controllo di tipo territoriale, con la capacità di incidere, quindi, globali. Ecco! Nell’ambito di questi circuiti c’è una super-loggia, la Hathor Pentalpha, che è a monte anche degli eventi tragici dell’11 settembre. A un certo punto prorompe in un ambito di altre super-logge neo-aristocratiche e, quasi come una super-loggia eretica in negativo, immagina un mondo dove anche il terrorismo, su scala globale, abbia un ruolo politico importante.

Un ruolo destabilizzatore?

Sì. Noi abbiamo già questa esperienza, per averla vissuta in Italia ma anche in singole altre nazioni. L’esperienza di un terrorismo degli anni Settanta e Ottanta che, molto spesso, è stato ambiguo ed opaco, nel senso che è un terrorismo dove ci sono state infiltrazioni di manine varie, cioè non c’era soltanto l’istanza, come dire, spontanea, autonoma e autentica ancorché terribile, di gruppi coerenti con quell’aberrante idea di trasformazione della società in modo violento, armato. No! C’era chi ha accompagnato, infiltrato, eterodiretto. Immaginiamo allora che a un certo punto qualcuno decide, in un mondo più globalizzato rispetto agli anni Settanta e Ottanta (ricordiamoci che la globalizzazione in senso stretto arriva dopo l’unificazione europea, la caduta del muro di Berlino e la caduta dell’Unione Sovietica), in un nuovo contesto che è quello che si va a configurare all’inizio del XXI° Secolo, che il terrorismo globale possa avere un ruolo importante per ridefinire i rapporti sociali e politici. Non ci scordiamo che, dopo il 2001, negli Stati Uniti e quindi nella prima democrazia al mondo, tutte le norme legislative del Papework Act sono all’insegna di una violazione patente di quei principi di democrazia e libertà su cui gli Stati Uniti e tutte le democrazie moderne sono stati edificati. E oggi, in Italia, in Francia, in Europa, dopo gli eventi francesi si inizia a pensare a misure legislative illiberali come il Papework Actamericano.

Quando tu dici che c’è una super-loggia che avrebbe interesse ad immaginare un ruolo politico per il terrorismo”, nella sostanza, a chi ti riferisci?

La caratteristica delle super-logge massoniche è quella di inglobare personaggi che provengono dall’establishment politico, finanziario, militare, diplomatico, dall’intelligence… Cioè: la trasversalità delle presenze è funzionale, perché c’è bisogno di una copertura mediatica. C’è bisogno di omissioni mediatiche. C’è bisogno di connivenza industriale, connivenza militare, connivenza politica.  I personaggi sono i protagonisti negativi dei primi anni duemila. Anche lì, attenzione! Certamente c’è dentro il clan Bush, ma il clan Bush è soltanto la punta di un iceberg. Il Governo degli Stati Uniti, gestito malamente nei due mandati di George W. Bush, in realtà è stato uno strumento. Quando alimentiamo polemiche antiamericane, non ci rendiamo conto che non esiste l’America in quanto tale. Gli Stati Uniti, come ogni grande paese, sono attraversati da gruppi di potere che spesso sono in feroce lotta tra di loro. Questi poteri apolidi di cui parlavo prima si servono anche del governo degli Stati Uniti, quando possono, perché è un governo importante, che muove risorse militari ed economiche importanti. Ma si tratta di un utilizzo fatto dall’esterno, attraverso persone che, contingentemente, occupano dei posti. Mi chiedono se no ho paura di morire. Intanto ci tengo a precisare che non sto “sputtanando” la Massoneria: io sono un massone fiero di essere tale, e lo rivendico con orgoglio. L’opinione pubblica italiana è paurosamente ignorante su questo tema, a partire dai libri di scuola dove l’argomento massoneria viene omesso. Nessuno ne parla, né nel bene né nel male. La massoneria è stata centrale, a partire dal settecento e fino agli anni sessanta con la New Frontiers, che è stata l’ultima istanza veramente progressista del novecento. Kennedy non era massone, ma il suo ideologo di riferimento, Artur Meier Schelesinger, era massone ed era anche Maestro Venerabile di una loggia progressista molto importante: la Thomas Paine, alla quale ho avuto il privilegio di essere iniziato. E poi va ricordato l’evento epocale che ha mandato, per la prima volta, il primo Presidente cattolico alla guida degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, e il primo Papa massone al Soglio Pontificio, che fece il Concilio Vaticano II° e riconciliò la Chiesa con la modernità. Una sorta di connubio, quindi, grazie a un’operazione voluta da alcune logge di ambiente cattolicheggiante e non. Da questo partì anche, grazie ad una serie di reti massoniche, la risoluzione della crisi missilistica di Cuba. C’è questo tentativo che vedrà poi degli epigoni anche in una serie di persone che verranno uccise, da Robert Kennedy a Martin Luther King. Robert Kennedy stava per essere iniziato: non fece a tempo. Martin Luther King invece era massone. E c’è un laboratorio, in quel momento, che tenta di proporre un ampliamento dei diritti sociali ed economici: era la New Frontiers kennedyana, che venne bloccato attraverso degli omicidi. Questi omicidi segnano anche l’arrivo di una nuova egemonia, non più della massoneria progressista, che appunto io rivendico con orgoglio e che dal settecento in avanti ha trasformato il mondo portando la sovranità del popolo, la democrazia, la libertà, lo stato di diritto, i diritti inalienabili degli uomini e dei cittadini – e questa cosa avrebbe potuto proseguire, e forse oggi ci troveremmo in un mondo diversamente globalizzato -, ma di una massoneria neo-aristocratica, che immagina un’involuzione oligarchica e tecnocratica nella governance mondiale.

E ci riesce, fino ad adesso!

E ci riesce fino ad adesso! Naturalmente con delle accelerazioni pericolose da apprendisti stregoni, che offrono il fianco ad una reazione. Io, insieme ad altre persone in Italia e nel mondo, stiamo cercando di “riavviare”, la forza comunque silente, intatta, dei circuiti massonici progressisti che hanno sonnecchiato.

Per tornare alla domanda precedente, come influiscono queste super logge nei fatti, nei flussi degli avvenimenti terroristici?

Facciamo un esempio: il famoso Califfo al-Baghdadi. Siamo al limite del paradosso: coloro che lo detengono come pericoloso terrorista si vedono recapitare un ordine di scarceramento! Questo signore è stato iniziato massone, è un uomo del tutto integrato nel sistema di vita occidentale il quale, insieme agli altri suoi compari, da mesi fa una sceneggiata hollywoodiana, perché tutte le decapitazioni in mondovisione, tutto il sistema comunicativo dell’ISIS, è un sistema ben studiato.

Compresa Rita Katz che è l’unica…

Tutto quanto è ben studiato. Ci sono alcuni che sono iniziati a queste logge “controiniziatiche”, che io definirei una “massoneria maligna“, una pianta maligna che è fiorita dentro un corpo non solo sano, ma benemerito. E poi ci sono naturalmente gli ignari. L’ISIS fa un salto di qualità. Prima avevamo il terrorismo di al-Qaeda che era un terrorismo a macchia di leopardo: non c’era uno Stato: c’era una base in Afganistan. Qui invece c’è un catalizzatore potente anche ideologico, cioè l’ISIS, che è un punto di richiamo per cellule sparse ovunque, ma ha che ha anche una sua forza finanziaria, una capacità di espansione e di attrazione, antitetica anche alla modernità. Diciamo la verità: sono state introdotte leggi liberticide con il Patriot Actnegli Stati Uniti e anche altrove in Occidente, ma poi si era spenta l’emergenza al terrorismo, perché era un’emergenza fasulla, farlocca, così come è farlocco il pericolo dell’ISIS. Proseguendo nella direzione che stiamo prendendo, ad un certo momento ci sarà un intervento militare del solito tipo, cioè di tipo distruttivo. Ci andranno di mezzo popolazioni inermi, civili, senza nessuna costruzione di infrastrutture materiali e immateriali della democrazia e della libertà. A questo si arriverà titillando la paura, l’orrore. Invece, diciamoci la verità, quello che bisognerebbe fare oggi è sì raderli al suolo (io sono per l’intervento di terra, di aria, di tutto), ma la potenza delle democrazie è talmente spropositata che, se volessero intervenire, in poco tempo l’ISIS verrebbe raso al suolo. Ma poi occorrerebbe fare una cosa che non è stata fatta in tutti questi decenni: cioè invece di proporre forme diverse e sempre uguali di neocolonialismo, di sfruttamento del caos altrui per i propri interessi, si tratterebbe di costruire, in quei Paesi, infrastrutture materiali e immateriali di democrazia. Questo è lo spirito della Dichiarazione Universali dei Diritti Umani che noi abbiamo approvato all’ONU, ma che è lettera morta! Cioè pensare che fatte salve le specificità culturali, però ci voglia il rispetto delle donne, il rispetto dei diversi, il rispetto dei dissenzienti, il rispetto del fatto che gli esseri umani sono cittadini e non sudditi. Tutte cose che io rivendico come portate dalla massoneria, la massoneria ha inventato il concetto di esseri umani latori pro quota di sovranità e non sudditi. Guardate che la consuetudine dei millenni di storia umana è quella di avere avuto oligarchie, aristocrazie religiose o profane a governare su masse di straccioni tenuti nell’ignoranza e nell’abbrutimento. La massoneria, gli avanguardisti massoni, dal settecento in avanti hanno cambiato questo stato di cose. Adesso, degli avanguardisti in negativo stanno cercando di introdurre un governo mondiale di aristocratici dello spirito, sedicenti “illuminati”. Illuminati è un aggettivo, non un sostantivo come alimenta un certo fiume carsico complottista. Non esiste nessuna continuità storica tra illuminati di Baviera e presunti illuminati che governerebbero il mondo, cosa che non significa nulla. ‘Illuminati’ è un aggettivo che può attribuirsi ad alcuni massoni aristocratici. Ecco, costoro immaginano un mondo neo-feudale, (ndr: cfr. “Diego Fusaro: il medioevo era meglio”) dove la democrazia – attenzione! -, non è affrontata in termini perentori, come invce accadde in certi esperimenti liberticidi e tirannici negli anni settanta. Cioè non si la si sostituisce con un regime tirannico, in occidente. Pensiamo a quello che accadde in Grecia, con la dittatura dei Colonnelli, a quello che accadde in Portogallo, a quello che accadde in America Latina con l’operazione Condor, al Cile, all’Argentina, a quello chesi tentò di fare in Italia con la P2 che doveva essere la base per gestire in modo autoritario, stile Argentina, un paese nel cuore dell’occidente. Oggi non si pensa più a questo perché il cittadino ormai è abituato ai riti della democrazia, alla retorica della democrazia. Oggi piuttosto si pensa di svuotarla di sostanza. Si abitua il cittadino a non eleggere più il Senato o le province (ad esempio, per parlare dell’Italia). In Europa ci si è abituati a una costruzione economicistica e tecnocratica: il Parlamento Europeo non è il luogo della sovranità del popolo: non ha il potere di sfiduciare un esecutivo europeo. Non abbiamo un dipartimento economico, quindi un primato della politica, sovra-ordinato alla Banca Centrale. Il più grosso potere è un potere non elettivo, tecnocratico. La Banca Centrale? Sì, c’è un diritto pubblico che la regola, ma la proprietà e l’indirizzo sono di natura privatistica. Ecco: questa Europa è figlia delle idee del comitato disposto da Coudenhove-Kalergi e Jean Monnet, ex massone progressista (ndr: cfr. “Il piano Kalergi” e “La verità su Kalergi e il suo piano”), passato poi ai circuiti neo-aristocratici. Sento spesso dire: “Bisogna tornare allo spirito del discorso di Schuman dei padri fondatori”, ma proprio quello spirito ha costruito questa Europa! Il discorso di Robert Schuman del 1950 fu scritto da Jean Monnet!

La UE è una creatura massonica?

È una creatura massonica! io ne parlo nel secondo capitolo nel libro “Massoni”. Io davvero rinvio il tuo pubblico alla lettura di quel libro, perché gli ultimi settant’anni di storia vengono passati ai raggi-x con nomi, cognomi e circostanze in termini estremamente minuziosi.

Cosa vuole dire UR-lodges?

La massoneria storicamente si articola in Grandi Orienti o Gran Logge, cioè federazioni di logge su base nazionale, con una certa difformità di rituali. La massoneria è un network internazionale, tanto che c’è perfino unpassaporto massonico che consente di avere – diciamo – rapporti diplomatici. Tuttavia, questa articolazione viene superata, nella seconda metà dell’ottocento, dalla costruzione di super-logge sovra-nazionali, che bypassano gli insediamenti nazionali e quindi la sovranità territoriale di una giunta, di un Grande Oriente o di una Gran Loggia e si pongono in termini globalizzanti. Spesso cooptano tra le proprie file sia profani, cioè persone mai passate per iniziazione massonica ma eccellenti in vari ambiti, sia eminenze della massoneria tradizionale. Quindi può capitare che un personaggio importante, della United Lodges of England o della Gran loggia dello stato di New York o del grande Oriente di Francia o del Grande Oriente d’Italia, poi stia con un piede lì e un piede in una super-loggia, beneficiando di una maggiore capacità di movimento. Le UR-Lodegesdanno anche vita a quei soggetti che spesso sono immaginati illusoriamente come i protagonisti di certi eventi contemporanei. Parlo del Bildelberg Group, della Trilateral Commission, del Council on Foreign Relation, del Royal Institute of International Affairs, del Bohemian Club. Tutta questa pletora di entità, che non hanno alcuna vera soggettività importante o capacità di incidere, sono associazioni paramassoniche, dove si incontrano massoni e non massoni ma dove di solito sono in pochi quelli appartenenti alle UR-Lodges, le super logge che le hanno generate, ad avere il controllo. Per esempio Enrico Letta, che pure ha fatto e fa parte di varie entità paramassoniche, non è mai stato iniziato in una qualche UR-Lodges.

Mario Monti sì, però?

Mario Monti sì! E io ne ho parlato: sono stato forse il primo a spiegare qual era il background di Mario Monti.

Monti, Napolitano, Draghi… non c’è bisogno che te lo chieda. Ma la domanda era questa: le UR-Lodges hanno questo obiettivo di neo-feudalizzare la società globale. Ma se è vero che ogni cosa che si fa deve avere un obiettivo, un tornaconto, un interesse, qual è lo scopo finale? Forse pensano che il mondo sarebbe meglio organizzato in un altro modo, oppure hanno interessi economico-finanziari da difendere, o magari pensano di poter amministrare meglio la loro attività. Cosa vorrebbero?

“I veri mandanti dell’Isis e la Superloggia massonica Hathor-Pentalpha”, scrive Carlo Tarallo il 20 novembre 2015 su “Italia Ora”. Intervista esclusiva a Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com) e Presidente del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), autore del best-seller “MASSONI. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges” (Chiarelettere, Milano 2014) primo volume di una trilogia, che sta anche per essere pubblicato in lingua spagnola, francese e inglese.

D. Magaldi, lei afferma nel suo libro “Massoni” che il nome “Isis” ha un significato legato a una superloggia massonica…

R. Come ho spiegato nel primo volume della serie di Massoni. Società a responsabilità, Chiarelettere Editore, l’Isis e il progetto politico-terroristico connesso sono una precisa e meditata creazione ad opera della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, una superloggia sovranazionale malignamente “eretica ed estremista” nei suoi fini e nei suoi mezzi, persino rispetto agli ordinari circuiti massonici neoaristocratici e reazionari. Del resto, Isis o Iside è la stessa divinità egizia che, in determinati contesti mitologico-rituali, assume il nome di “Hathor… Tutto questo, comunque, viene spiegato minuziosamente nel libro Massoni, cosi come vi vengono profetizzati- con mesi e mesi di anticipo (il libro è uscito nel novembre 2014) - eventi quali i tremendi attentati terroristici di Parigi del 7 gennaio (episodio di “Charlie Hebdo”) e del 13 novembre 2015.  Le superlogge “Hathor-Pentalpha”, “Amun”, “Geburah”, “Der Ring” (alla guida di altre, loro satelliti) lucrarono enormi profitti geopolitici ed economici dalle guerre “preventive” al terrorismo dei primi anni ‘2000. Guerre che avrebbero avuto un senso solo se davvero fossero state volte ad “esportare” democrazia, libertà, laicità, diritti universali e infrastrutture materiali e immateriali in grado di garantire in Medio Oriente e altrove non solo istituzioni fondate sulla sovranità popolare e il pluralismo liberale, ma anche giustizia sociale e prosperità per tutti e per ciascuno. Cosi non fu. Quelle guerre, scatenate con il pretesto di abbattere “regimi canaglia” fiancheggiatori del terrorismo islamico, in realtà sono servite a scopi di ampliamento del potere e della ricchezza di un ristretto numero di gruppi massonici reazionari e neoaristocratici.

Cosa sono le superlogge massoniche?

Anzitutto occorre rammentare che il termine tecnico per denominarle è “Ur-Lodges”. Si tratta di logge molto potenti e speciali, di respiro e composizione sovranazionale, che cooptano tra i propri membri eminenti personaggi (sia uomini che donne) appartenenti alle Comunioni massoniche tradizionali (Gran Logge e Grandi Orienti) e anche profani e profane di particolare spessore e prestigio politico-sociale, economico-finanziario, mediatico, militare e culturale. E si tratta di contesti dove non ci si occupa soltanto di gestire il potere ai suoi massimi livelli globali, ma anche di cenacoli dove teorie e pratiche rituali ed esoteriche vengono coltivate con grande assiduità e scrupolosità. In effetti, a partire da fine Ottocento (momento di nascita delle prime, tra queste superlogge) e poi soprattutto nel corso del Novecento e nel primo quarto del XXI secolo, l’egemonia massonica e l’egemonia tout-court a livello planetario passa dalle tradizionali comunità massoniche organizzate su base nazionale a queste superlogge sovranazionali.

Perché una superloggia dovrebbe scatenare il terrore in Europa?

Da mesi, con la sceneggiata hollywoodiana sull’Isis e i suoi tagliatori di teste trasmessa worldwide, si è dapprima preparato il terreno. Poi è giunto il primo assaggio cruento nel cuore del Vecchio continente (vedi attentato alla sede della rivista “Charlie Hebdo”), quindi c’è stata una ulteriore escalation con l’episodio di venerdì 13 novembre 2015 e la strage di Parigi. Pur dissentendo da qualsivoglia paranoia complottista sulle numerologie di certi eventi, occorre rammentare che da quando, il venerdì 13 ottobre del 1307, il re di Francia Filippo il Bello diede l’ordine di arresto dei Cavalieri Templari, “venerdì 13” è divenuto un significante importante e famigerato negli ambienti esoterici e massonici e poi anche nell’immaginario collettivo “profano”, tanto da dar vita, in tempi recenti, ad alcune serie filmografiche sul tema. E’ in corso una lotta fratricida tra ambienti massonici neoaristocratici, egemoni da mezzo secolo, e la ripresa di attività dei circuiti latomistici progressisti, decisi ora ad invertire il corso antidemocratico e tecnocratico tanto della globalizzazione che della governance europea. Colpendo in un giorno molto preciso e particolare, le manovalanze terroristiche eterodirette dagli ambienti della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, intendevano conseguire due precisi obiettivi. 

Uno: dare un segnale infra-massonico ai circuiti liberomuratori progressisti e in particolare a una superloggia precisa, legata alla tradizione dei Templari e operante con particolare attenzione in Francia, in questi mesi… Dirò poi di che Ur-Lodge si tratti e che cosa stia cercando di fare sul territorio francese. 

Due: grazie allo shock provocato e allo spauracchio della presunta impossibilità di garantire la sicurezza senza misure emergenziali, determinare sia in Francia che altrove un maggiore controllo politico, sociale e mediatico “autoritario”, mediante l’introduzione di eventuali modifiche costituzionali (vedi gli annunci di Hollande in tal senso) e di una sorta di “Patriot Act” europeo. In sostanza, dopo aver determinato una cinesizzazione del popolo europeo sul piano dei rapporti sociali ed economici (smantellamento del welfare, disoccupazione galoppante, crollo della domanda aggregata e dei consumi e conseguente aumento di manodopera a buon prezzo e con bassi salari) e dopo aver costruito una UE matrigna e antidemocratica (il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza della sovranità del Popolo europeo non ha il potere di fiduciare e sfiduciare un esecutivo politico continentale che sia sovraordinato alle strutture burocratiche comunitarie, invece di essere, come effettivamente è, subordinato alla dittatura tecnocratica della Bce, vero “dominus” non elettivo dell’attuale Europa), adesso si cerca di mortificare ulteriormente la vita democratica del Vecchio continente, introducendo, per mezzo della paura del terrorismo, leggi liberticide e autoritarie.

Il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha detto che “forse dobbiamo essere pronti a rinunciare ad alcune delle nostre libertà personali, in particolare dal punto di vista della comunicazione” a causa della necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Cosa ne pensa?

Proprio il 14 novembre, sul sito ufficiale del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), poi rilanciato anche sul sito di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), è apparso un importante intervento intitolato “Strage a Parigi del 13 novembre 2015: il tragico avverarsi delle profezie di MASSONI e di Gioele Magaldi (risalenti al 2014) e un necessario impegno di tutti e di ciascuno per difendere democrazia e libertà, contro qualsivoglia deriva autoritaria e illiberale in stile Patriot Act sul suolo europeo e contro altre conseguenze strumentali e scellerate auspicate dai mandanti degli attentati di ieri (13 novembre) e del 7 gennaio 2015 in Francia”, articolo pubblicato il 14 novembre 2015 sul sito MR, di cui consiglio un’attenta lettura. Dopo qualche polemica iniziale, “a caldo”, rispetto a quanto da lui affermato, ho avuto modo di informarmi meglio sulla figura di Franco Roberti, procuratore antimafia e antiterrorismo, e in molti me ne hanno parlato come di persona seria, competente e amante della libertà e della democrazia. Credo, quindi, che quelle parole (anch’ esse dette “a caldo”, sull’onda dei fatti terribili che ci hanno tutti indignato e scosso) sul fatto di rinunciare alla libertà, specie di comunicazione, in favore della sicurezza, siano state pronunciate in un momento di comprensibile e preponderante preoccupazione di assicurare al popolo italiano il massimo di tutela da minacce terroristiche.  Ma sono altrettanto convinto che Franco Roberti e i suoi collaboratori saranno in grado di lavorare alacremente sul lato della prevenzione e del controllo sapiente del territorio e dei luoghi più esposti a rischio, senza minimamente attentare alle libertà fondamentali dei cittadini. Del resto, il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al Mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”.  A proposito dei fatti di Parigi di venerdì scorso, vorrei aggiungere quello che mi hanno suggerito diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia, e in particolare a Parigi. E sa cosa mi hanno detto? Che senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere. 

Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il Presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza?

Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile. Ecco, dunque ci si prodighi per evitare, in Italia, le falle clamorose e inescusabili relative alla prevenzione degli attentati e al presidio capillare dei luoghi più esposti a rischi. E da questo punto di vista, in molti che lo conoscono bene, mi assicurano che Franco Roberti rappresenti una garanzia- per competenza, intelligenza e desiderio sincero di proteggere la popolazione esposta a minacce terroristiche- di prim’ordine.

Quando e come finirà, se finirà, questa tragedia? 

La tragedia non finirà da sola. La sua fine dipende insieme dalle iniziative dei massoni progressisti nel contrastare i progetti di involuzione neo-feudale su scala europea, occidentale e globale e dal risveglio dell’orgoglio di tutti i cittadini comuni, latori pro-quota di sovranità. In questa prospettiva è stato fondato il Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), per unire in una alleanza comune élites progressiste e popolo sovrano desideroso di difendere con le unghie e con i denti tre secoli di conquiste democratiche e liberali.

Le sue verità sono sconvolgenti, lei vende tantissimi libri e gira l’Italia a spiegarle a tutti. Ha mai avuto una querela?

Ho ricevuto querele (stralunate) per diffamazione, in relazione alle attività del sito ufficiale di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), Movimento massonico d’opinione di cui mi onoro di essere Gran Maestro. Ma non ho ricevuto alcuna querela per questioni attinenti alla pubblicazione del libro Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges.

Nella massoneria, adesso, pensa di avere più amici o più nemici?

Ho sicuramente sia molti amici che molti nemici, all’esterno del network specifico di GOD, parte del più ampio campo di azione della Libera Muratoria progressista, di cui sono parte integrante. Tuttavia, da qualche tempo a questa parte accadono cose un po’ strane… L’altro giorno, ad esempio, qualcuno mi ha iscritto ad un Gruppo “Massoneria” su facebook e poi, su quello stesso Gruppo, ieri, mercoledì 18 novembre, sono stato oggetto di minacce di esplicita violenza fisica e anche di morte, da alcuni massoni italiani, peraltro riconoscibili con nome e cognome. Sarà naturalmente mia cura, nelle prossime ore, allertare della cosa in modo adeguato sia le autorità giudiziarie competenti che l’opinione pubblica.

Bruxelles corrotta, Europa infetta. Tangenti. Sprechi. Inefficienza. Istituzioni al servizio di lobby potenti e occulte. Ecco tutti i pubblici vizi della capitale. Che affossano la fiducia nell’Unione. Bandiere davanti alla Commissione Europea a Bruxelles. È un tour tra gli edifici più importanti della città: dalla residenza reale al museo di belle arti, dagli uffici ministeriali alle carceri, dall’osservatorio astronomico al palazzo di giustizia. Sono maestosi, coperti di marmi e statue a testimoniare la solidità della virtù pubblica. Eppure per dieci anni a gestirli è stata una cricca: ogni appalto una mazzetta, altrimenti non si lavorava. Tutti sapevano, nessuno ha mai denunciato la rete criminale che ha trasformato il cuore del Paese in una vera Tangentopoli. Non stiamo parlando delle gang romana di Mafia Capitale, questa è Bruxelles: due volte capitale, del Belgio e dell’Europa. E due volte corrotta, nell’intreccio d’affari tra poteri locali e autorità continentali. Qui non si decide soltanto la vita di una nazione lacerata dalle tensioni tra valloni e fiamminghi, ma il destino di mezzo miliardo di persone, cittadini di un’Unione che mai come in questo momento si mostra debole e inconcludente. Dall’inizio del millennio la fiducia degli italiani, come evidenzia il sondaggio Demopolis, è crollata e solo uno su quattro crede ancora nell’Europa. Bruxelles però è anche il laboratorio in cui la corruzione si sta evolvendo. La mutazione genetica delle vecchie bustarelle in un virus capace di intaccare in profondità la reputazione delle istituzioni europee, diffuso silenziosamente da quei soggetti chiamati lobby. Realtà estranee alla tradizione democratica dei nostri Stati nazionali e molto diverse dai modelli statunitensi, perché qui non ci sono leggi che le regolino, né sanzioni che le spaventino: le lobby sono invisibili e allo stesso tempo appaiono onnipotenti. Il simbolo è Place Poelaert, la grande piazza panoramica affacciata sul centro storico di Bruxelles. Da un lato c’è il palazzo di giustizia, con la cupola dorata che svetta sull’intera città: una muraglia di impalcature lo imprigiona da cima a fondo, soffocando le colonne dietro un gigantesco castello di assi che marciscono tristemente. Il cantiere dei restauri è abbandonato da otto anni, da quando i titolari sono stati arrestati, assieme ad altri 33 tra imprenditori e funzionari accusati di avere depredato l’intero patrimonio immobiliare statale. Proprio di fronte al palazzo della giustizia impacchettato c’è uno splendido complesso rinascimentale, con un giardino impeccabile. È la sede del Cercle de Lorraine, “the business club”, come recita la targa: l’associazione che raccoglie gli industriali più prestigiosi del Paese, baroni e visconti da sempre padroni del vapore assieme ai manager rampanti della new economy. Lì, tra sale affrescate e camerieri in livrea, promuovono i loro interessi. Insomma, sono una lobby. Una delle oltre seimila che presidiano la capitale europea, con più di 15 mila dipendenti censiti mentre altrettanti si muovono nell’oscurità. A Bruxelles il colore degli affari rispecchia il cielo perennemente coperto: si va dal grigio al nero. Non a caso, la frase magica della cricca degli appalti era «bisogna che il sole splenda per tutti». Oggi la città è tutta un cantiere. Sono centinaia. Dall’aeroporto al quartiere generale della Nato, dalla periferia al centro storico si vedono ovunque gru e ruspe all’opera. Per non essere da meno, anche il Parlamento europeo vuole abbattere l’edificio dedicato a Paul-Henri Spaak, completato nel 1993 con un miliardo di spesa: il progetto prevede altri 750 uffici per i deputati del presente e del futuro, rappresentanti delle nazioni che aderiranno all’Unione negli anni a venire. Se però dal Palazzo di Giustizia si va verso il Parlamento percorrendo la chaussée d’Ixelles, la frenesia cementizia si mostra in una luce diversa. La lunga arteria è stata completamente rifatta nel 2013, solo che al momento dell’inaugurazione c’è stata una sorpresa: i marciapiedi erano troppo larghi e gli autobus finivano per incastrarsi l’un contro l’altro. Hanno ricominciato da capo, di corsa. Appena riaperta al traffico, però, la pavimentazione allargata non ha retto al peso dei pulmann e si è riempita di buche, manco fosse Roma. E giù con la terza ondata di lavori: ora la strada sembra una chilometrica sciarpa rattoppata. Ixelles è un comune autonomo, perché Bruxelles in realtà è un insieme di diciannove piccoli municipi indipendenti, ciascuno con il suo borgomastro. In questo periodo il meno sereno è il sindaco di Uccle, che per undici anni è stato pure presidente del Senato belga. Come avvocato ha difeso una masnada di magnati kazaki, ottenendone l’assoluzione. In cambio ha ricevuto 800 mila euro. «Compensi professionali», ha spiegato Armand De Decker. Il sospetto invece è che la scarcerazione degli oligarchi sia il tassello di un intrigo internazionale: una clausola del patto segreto tra il presidente kazako Nazarbayev e l’allora collega francese Sarkozy per la vendita di elicotteri, in cui era previsto anche «di fare pressione sul senato di Bruxelles». Un’accusa formulata dagli inquirenti parigini, perché le procure locali si guardano bene dall’indagare. Gli investigatori belgi non hanno fama di efficienza né di indipendenza. La storia recente del Paese è costellata di scandali che si perdono nel nulla, tra trame occulte e massoneria: i parallelismi con l’Italia sono forti e anche qui prospera una cultura del sospetto, che porta i cittadini a diffidare della giustizia. L’inchiesta sulla tangentopoli capitale è partita nel 2005, le sentenze di primo grado ci sono state solo quattro mesi fa. I dieci dirigenti della Régie des Batiments, che per un decennio hanno intascato almeno un milione e 700 mila euro, se la sono cavata con condanne irrisorie. «I fatti sono gravi, ma ormai antichi», ha riconosciuto la corte. Questa giustizia lenta e spesso inefficace è anche arbitro di parecchi dei misfatti che avvengono nei palazzi della Ue. Sono le magistrature nazionali a procedere penalmente contro i corrotti, perché le agenzie europee possono minacciare soltanto sanzioni amministrative: la punizione massima è il licenziamento, una rarità, mentre più frequenti sono le retrocessioni di grado e soprattuto le lettere di richiamo. Di certo, non un grande deterrente per rinsaldare la moralità dei commissari, dei 751 deputati e dei 43 mila funzionari che gestiscono ogni anno oltre 140 miliardi di euro e scrivono leggi vincolanti per 28 Paesi. Mentre anche dalla loro onestà dipende la credibilità di un organismo sempre meno rispettato. L’istituto statistico più autorevole, Eurobarometro, due anni fa ha lanciato l’allarme: il 70 per cento dei cittadini ritiene che la corruzione sia entrata nelle istituzioni europee. Lo credono 27.786 persone, selezionate scientificamente per rappresentare l’intera popolazione dell’Unione. È un dato choc. La Commissione ha reagito annunciato una crociata contro le tangenti in tutto il Continente. Ovunque, tranne che nei suoi uffici: nel 2014 il primo rapporto anti-corruzione nella storia della Ue ha sezionato i vizi di ogni Paese, senza però fare cenno ai peccati dentro casa: quella che la Corte dei Conti europea ha definito nero su bianco «un’infelice e inspiegabile omissione». D’altronde la presidenza di Jean-Claude Juncker è cominciata nel peggiore dei modi. Le rivelazioni di LuxLeaks - pubblicate in Italia da “l’Espresso” - hanno messo a nudo il suo ruolo nel trasformare il Lussemburgo nel Bengodi delle aziende in cerca di tasse irrisorie. Per riscattarsi, Juncker ha promesso una sterzata contro l’iniquità fiscale legalizzata. «Ma finora la Commissione è stata passiva su questa materia», sottolinea Eva Joly, per anni il giudice istruttore più famoso di Francia, che ha portato alla sbarra i crimini delle grandi aziende, ed ora è eurodeputato verde: «La follia è che abbiamo al vertice dell’Europa l’uomo che ha arricchito il Lussemburgo grazie alle tasse rubate agli altri, con guadagni che continuano a crescere. Nel Parlamento i verdi hanno imposto la creazione di un comitato speciale: il primo rapporto sarà pronto tra un mese e sarà molto duro. Anche i conservatori ora hanno capito e c’è la volontà di piegare i paradisi fiscali: sono convinta che il Lussemburgo dovrà adeguarsi o uscire dall’Unione». Quello che Juncker costruito in Lussemburgo, a Malta lo ha realizzato John Dalli, il ministro che ha fatto dell’isoletta una piazzaforte finanziaria, graditissima agli investitori italiani più spregiudicati e ai miliardi rapidi delle scommesse. Poi nel 2010 Dalli è entrato nel governo dell’Unione: come commissario per la salute ha avuto in mano dossier fondamentali, incluso il via libera alle coltivazioni ogm. Finché la sua carriera non si è trasformata in circo. Letteralmente. Il suo vecchio amico Silvio Zammit, pizzaiolo e impresario circense part-time, è andato in giro chiedendo soldi per conto del «boss». Ha prospettato a una holding svedese la possibilità di spalancare il mercato europeo a un prodotto che piace molto agli scandinavi: lo snus, il tabacco da masticare. Una passione da pirati e cowboy, finora proibita nel resto della Ue, con potenzialità miliardarie: rimpiazza le sigarette anche dove il fumo è vietato. In cambio Zammit ha chiesto una somma niente male: 60 milioni di euro, poco meno della storica tangentona Enimont. La questione è arrivata sul tavolo dei detective dell’Olaf, l’unità antifrode europea guidata dall’italiano Giovanni Kessler. Con investigatori provenienti dalla Guardia di Finanza, perquisendo di notte l’ufficio del commissario, sono stati trovati «indizi plurimi» del coinvolgimento personale di Dalli. Nell’ottobre 2012 l’allora presidente Barroso ha obbligato il maltese alle dimissioni, firmate molto controvoglia. Tant’è che quando, dopo la sostituzione del capo della polizia, l’indagine penale nell’isola è stata archiviata, Dalli ha cominciato a sparare denunce dichiarandosi vittima di un’ingiustizia. E il parlamento ha criticato l’azione dell’Olaf: «Dal rapporto dei supervisori emergono molti dubbi sui metodi del nostro istituto antifrode più importante, che nei resoconti manipola le statistiche per presentare risultati migliori del reale», sancisce l’eurodeputato verde Bart Staes, membro di spicco del comitato che vigila sul budget, altro caposaldo del sistema di controllo. L’Olaf si è trovata ai ferri corti pure con la Corte dei conti, a cui ha contestato appalti oscuri. Che a sua volta ha rimandato le accuse al mittente. Insomma, un tutti contro tutti, con esiti abbastanza deprimenti per l’affidabilità dei custodi di Bruxelles. Oggi l’Europa sembra avere tanti cani da guardia litigiosi. E tutti con la museruola: abbaiano, ma non mordono. Il loro compito infatti si limita a suggerire provvedimenti. Fuori dai palazzi della Commissione, non hanno poteri e devono invocare l’aiuto delle polizie nazionali. Che - tra interessi patronali e differenze normative - non sempre collaborano. I detective europei hanno bisogno di un’autorizzazione pure per ascoltare i testimoni. All’Olaf ogni indagine è affidata a una coppia di ispettori, senza assistenti: si fanno da soli pure le fotocopie e passano più tempo a difendersi da tiro incrociato delle altre autorità che non a investigare. Il feeling che si respira è negativo, come se la lotta alla corruzione interna non fosse una priorità, anzi. Eppure i campanelli d’allarme non mancano, anche in Parlamento. L’ultimo a essere condannato due mesi fa è stato un ex deputato inglese, Ashley Mote, che ha rubato 355 mila euro grazie a rimborsi gonfiati. È stato uno dei primi eletti del movimento anti-europeo inglese: nei comizi urlava contro il malaffare di Bruxelles, poi falsificava le note spese. Janice Atkinson, sempre dell’Ukip, a marzo si è fatta triplicare la ricevuta dopo il cocktail con la moglie del leader Nigel Farage - 4350 euro invece di 1350 - mentre la sua assistente si vantava: «È un modo di riportare a casa i nostri soldi». E quando nel 2011 un reporter del “Sunday Times” si è finto lobbista, offrendo denaro in cambio di emendamenti a sostegno della sua società, tre deputati hanno abboccato subito. Due - un austriaco e uno sloveno - si sono dimessi e sono stati condannati in patria. Il terzo, l’ex ministro degli Esteri romeno Severin, è ancora al suo posto mentre l’istruttoria a Bucarest langue. Distinguere tra lobbisti veri e falsi non è facile. A Bruxelles è stato istituito un registro per queste figure, senza vincoli né sanzioni: chi vuole si accredita. L’attivissima sezione europea di Transparency International un mese fa ha dimostrato che metà delle 7821 dichiarazioni ufficiali delle lobby erano «incomplete o addirittura insensate». E in tanti si sottraggono al censimento, a partire dagli studi legali: un’armata che esercita un’influenza nascosta. La soluzione? «Rendere obbligatoria l’iscrizione al registro», spiega Carl Dolan di Transparency. «E bisogna vietare ogni contatto con chi non è iscritto», aggiunge Staes: «Devo ammettere però che in Parlamento non esiste una maggioranza favorevole al registro obbligatorio. Noi verdi, come i 5stelle italiani e alcuni esponenti socialdemocratici, ci stiamo battendo, molti invece sono contrari». Tra i palazzi delle istituzioni e quelli dei potentati economici ci sono tante porte girevoli. Si passa dagli uffici della Commissione a quelli delle corporation e viceversa. Figure come Lord Jonathan Hill, con trascorsi in società di lobby della City, imposto dal governo Cameron al vertice della struttura Ue che si occupa di mercati finanziari. O il caso sensazionale di Michele Petite, il direttore europeo degli affari legali che si tramuta in consigliere della Philip Morris e poi rientra come presidente del comitato etico che dirime i conflitti d’interesse nella Ue. Ma queste sono le pedine sullo scacchiere di una partita più complessa. Le manovre dei lobbisti intrecciano network che possono seguire la geopolitica dei governi, dei partiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti, spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore. Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso. L’Ombudsman europeo, l’autorità etica più piccola e dinamica, apre un’istruttoria dietro l’altra. Senza spezzare la cortina di ferro che protegge gli intrallazzi. «Bisogna incrementare al massimo la trasparenza, deve esserci sempre una traccia scritta di chi interviene nelle discussioni interne», sintetizza Carl Dolan. I conflitti di interessi pullulano: nel 2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti europei con incarichi extra. Quelli sanzionati sono una ventina, quasi sempre con reprimende scritte o verbali. L’impunità è pressoché certa. Per anni il funzionario Karel Brus ha fatto sapere in anticipo agli emissari di due colossi dei cereali, l’olandese Glencore e la francese Univivo, i prezzi stabiliti dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie d’oro, che permettevano di investire a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che abbia incassato almeno 700 mila euro. Prima della condanna penale però sono passati dieci anni e il travet è sparito in Sudamerica. E per le due società c’è stata solo una multa: mezzo milione, un’inezie rispetto ai profitti. La Commissione ha in mano un’arma micidiale: può bandire le aziende corruttrici da tutti i contratti europei. Misura applicata solo due volte negli ultimi anni. Perché la volontà di fare pulizia sembra labile. Prendiamo il dieselgate di Volskwagen: gli uffici tecnici dell’Unione avevano segnalato i trucchi della casa tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia è rimasta lettera morta fino all’intervento delle autorità statunitensi. «Questa è la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo, in cui si agisce tramite logaritmi che falsificano i dati dei computer: la realtà si riduce a schermate digitali, mentre Volskwagen otteneva fondi per produrre auto ecologiche e contribuiva ad aumentare l’inquinamento che uccide migliaia di persone», tuona Eva Joly: «Ma la portata dello scandalo è ancora più grave, perché dimostra che il rispetto delle regole non è più un valore. La Germania, il Paese della legge e dell’ordine, ha ingannato tutti; la loro azienda simbolo ha mentito per anni. Le nazioni che hanno costruito questa Unione stanno perdendo credibilità e non capiscono quanto ciò peserà sul futuro delle nostre istituzioni». In quello shoccante 70 per cento di cittadini che percepisce un’Europa corrotta si proietta una sfiducia più vasta. «È un dato che nasce dallo sconcerto per la debolezza della reazione davanti ai problemi: la crisi economica, il tracollo greco e adesso l’esodo dei migranti», commenta Bart Staes: «La gente sente i racconti sulle pressioni delle lobby, si diffonde il sospetto che l’Unione serva più per tutelare gli interessi economici che i cittadini. C’è la necessità di riforme profonde, che non sono nell’agenda di Juncker. Ma soprattutto bisogna dare risposte concrete: fatti, non storytelling. Partiamo dalla Volskwagen: quasi tutti i produttori di auto sfruttano i buchi nella legislazione per alterare i test, noi verdi abbiamo proposto di cambiare le regole e punire chi mente. Se agisci e la gente vede che i guasti vengono risolti, allora avrà di nuovo fiducia». Un professore dal cognome altisonante, David Engels, in un saggio ha paragonato il declino dell’Unione al crollo della repubblica nella Roma antica. Oggi come allora, l’allargamento troppo rapido dei confini, il confronto con un’economia globalizzata, la crisi dei modelli religiosi - all’epoca i nuovi culti importati nell’Urbe, adesso l’Europa cristiana alle prese con l’Islam - e il contrasto tra i privilegi dei patrizi e l’impoverimento dei ceti popolari, logorano le istituzioni democratiche. Un’analisi che riecheggia le parole scritte da Altiero Spinelli nel 1941, in quel manifesto di Ventotene che ha partorito l’idea di Europa unita. «La formazione di giganteschi complessi industriali e bancari... che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo Stato stesso. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi». Era la situazione che ha fatto trionfare le dittature e spinto il continente nel baratro della guerra. L’Europa unita è nata da questa lezione, che ora sta dimenticando.

"Noi detective facciamo il massimo". Parla Giovanni Kessler, dal 2011 alla guida degli ispettori antifrode Ue dell'Olaf. Giovanni Kessler viene spesso indicato come l’italiano più potente negli uffici della Ue. In patria la sua carriera si è alternata tra magistratura e politica: pubblico ministero a Trento e Bolzano, con due anni da volontario a Caltanissetta per le indagini sulle stragi di mafia. Poi è stato eletto nel 2001 deputato, diventando poi uno dei costituenti del Pd e quindi presidente della provincia di Trento. Dall’inizio del 2011 è alla guida dell’Olaf, i detective antifrode dell’Ue, che vigilano sulla gestione dei fondi e sull’etica di tutta la vita comunitaria.

Kessler, il 70 per cento dei cittadini europei crede che la corruzione sia entrata nelle istituzioni Ue. Lei ritiene fondata questa percezione?

«Io credo che le istituzioni europee abbiano un sistema di controllo più avanzato che altrove e che funziona bene. Ci sono stati casi di frode e ce ne saranno altri che non conosciamo: non esistono organismi immuni dalla corruzione. Ma se ci fossero sacche profonde di malaffare lo sapremmo e non ci sono. Queste istituzioni sono sane e hanno qualcosa che non esiste in nessuno degli stati membri: l’Olaf, appunto. Siamo un servizio ispettivo indipendente: è questa la parola chiave, che lo rende diverso dalle altre strutture esistenti nel mondo».

Ma voi formalmente siete parte della Commissione, ossia del governo europeo.

«Noi amministrativamente facciamo parte della Commissione, io ho la qualifica di direttore generale, ma viene garantita l’indipendenza per tutto quello che riguarda la nostra attività di investigatori. Possiamo indagare su tutti gli organismi europei, incluso il parlamento. Non siamo generici ispettori: riceviamo notizie o agiamo autonomamente. Le istituzioni hanno l’obbligo di segnalarci sospetti di malversazione, ma anche i cittadini possono rivolgersi direttamente a noi, pure in forma anonima».

E avete poteri sufficienti?

«Il limite è che facciamo indagini amministrative, non abbiamo strumenti come l’accesso ai conti bancari per tracciare le transazioni sospette. Ma per quello che riguarda inchieste interne abbiamo poteri significativi. Ad esempio i commissari non hanno immunità nei nostri confronti: possiamo ottenere tutto quello che li riguarda, biglietti aerei, note spese, documenti. Possiamo persino entrare nei loro uffici, guardare nei cassetti e nei computer».

Le statistiche indicano che in questi anni la vostra produttività è aumentata considerevolmente.

«Nel 2012 abbiamo rivisto la nostra organizzazione. Oggi il numero di inchieste è raddoppiato mentre si sono ridotti i tempi medi. C’è stato un cambiamento di mentalità: cerchiamo di essere più orientati ai risultati, sempre nel rispetto delle procedure. Ossia alla conclusione dell’indagine, che porti all’archiviazione o a una incriminazione».

Si è parlato spesso di potenziare la vostra capacità operativa: un rapporto di Transparency international giudica insufficiente le vostre risorse.

«Un dirigente dirà sempre che vuole più risorse, infatti le ho chieste in tutte le sedi. Credo però che quella che abbiamo raggiunto in questi anni sia la nostra “velocità di crociera” e mi chiedo se può avere un senso aumentarla ancora. L’Olaf dispone di circa 300 persone per l’attività investigativa, se anche avessi il doppio del personale, sarebbe sempre una goccia rispetto alle dimensioni dell’Europa».

L’indagine sul commissario Dalli è stata la più importante. Però dopo questo successo siete stati voi a finire sotto accusa. Alcuni deputati hanno chiesto persino le sue dimissioni.

«Non mi aspettavo certo una simile reazione. Il dibattito si è spostato dalle aule del tribunale al parlamento, dove siamo stati contestati da alcuni settori. Immagino che possa avere contribuito il rendersi conto per la prima volta che l’Olaf è realmente un potere autonomo, che non si può imbavagliare in alcun modo e che può avere un ruolo determinante nella lotta alla corruzione. Ma in questa vicenda ho notato l’assenza di un’opinione pubblica europea che facesse sentire il suo peso. È stato accertato che Dalli ha avuto incontri nascosti con i rappresentati dei produttori di tabacco, vietati dai codici Ue».

Lobby e consulenze, il record europeo di Soru. I numeri dell'Integrity Watch di Transparency International fotografano lo stato del lobbismo in Europa. E nella lista nera finisce l'ex presidente della regione Sardegna, continua “L’Espresso”. E le aziende italiane come fanno lobby in Europa? L’unico modo per tentare una radiografia sono i dati sugli incontri condotti dai lobbisti con commissari e alti dirigenti della Ue, che vengono censiti dallo scorso dicembre. Il monitoraggio è possibile grazie al sito Integrity Watch di Transparency International. Che spiega come fino a luglio la più attiva sia stata Confindustria, con 14 meeting nel carniere e 12 rappresentanti autorizzati a entrare in Parlamento mentre i dipendenti schierati nella capitale sono solo 9. Più tesserini che persone? Forse i badge sono stati richiesti per i vertici italiani dell’associazione industriali o forse per consulenti tecnici. Nella hit parade troviamo società di energia, acciaio e banche assieme a Mediaset. Fiat Chrysler ha avuto solo due colloqui di alto livello europeo e schiera due addetti a Bruxelles. Una pattuglia ridotta. Ma la compagnia di Sergio Marchionne, che si presenta come registrata a Londra, ha un cuore che batte negli Usa, nonostante solo due anni fa abbia ottenuto sei milioni dalla Ue per un programma di ricerca. Tra gli europarlamentari, invece, lo stesso osservatorio punta un faro su Renato Soru, ex presidente sardo e fondatore di Tiscali, che è al quinto posto assoluto per mole di incarichi esterni. È stato incluso in una lista nera di nove deputati contestati per i rapporti economici con compagnie di pubbliche relazioni o associazioni industriali. Il polacco Michal Boni per esempio ha omesso di dichiarare le sue consulenze per il colosso della lobby dal nome evocativo di Lewiatan. Ma chi tace non corre rischi. L’ex ministra francese Rachida Dati viene attaccata per il silenzio sui nomi dei clienti che arricchiscono il suo studio legale mentre siede in Parlamento. E uno degli eletti in Belgio si è scordato di rendere nota la proprietà di stock option per cinque milioni di euro: un vero sbadato.

Così l'Italia regala i fondi europei ai big delle consulenze. Le multinazionali Ernst & Young e PricewaterhouseCoopers fanno il pieno di fondi strutturali. Con risultati spesso non all'altezza delle parcelle da record, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”.  L’Italia, si sa, non è brava a spendere i fondi strutturali europei. È però bravissima a utilizzarli per pagare consulenze, a volte con procedure che riducono al minimo la concorrenza e fanno felici quasi sempre le stesse aziende. Due, per la precisione: Ernst & Young e Pricewaterhouse Coopers.

I numeri aiutano a comprendere il fenomeno. Di tutti i fondi strutturali ricevuti dall’Unione europea per lo sviluppo del Mezzogiorno, ne abbiamo spesi più in consulenze che per settori cruciali come il turismo e la cultura. Il dato emerge dai documenti della Ragioneria dello Stato sui fondi europei assegnati a Roma dal 2007 al 2013, l’unico periodo su cui finora sono state pubblicate cifre definitive. Dei 31,4 miliardi da spendere in questi sette anni con l’obiettivo ufficiale di sviluppare il Sud, il 3,3 per cento è andato a quella che viene definita “assistenza tecnica”. Tradotto dal burocratese: la consulenza è costata un miliardo di euro. Spesa che, in teoria, un senso ce l’avrebbe. Per usare al meglio gli aiuti europei, regioni e ministeri si possono infatti affidare a società esterne che hanno competenza in materia. Nella pratica non funziona sempre così. Lo dicono i risultati ottenuti finora. E lo fanno capire ancora meglio due bandi di gara recenti. Uno, pubblicato a maggio dal ministero dell’Interno, cerca consulenti per migliorare il sistema di accoglimento dei richiedenti asilo. Vale 13,4 milioni di euro, quasi l’equivalente di quello che l’Unione europea spende in cinque mesi per l’operazione di pattugliamento del Mediterraneo chiamata Triton. L’altro bando per la consulenza, aperto a luglio dal ministero dell’Istruzione, promette 48 milioni di euro, che possono salire a 81,6 milioni senza ulteriore gara, per un progetto di innovazione scolastica. Di strano c’è che nessuna delle due offerte richiede esperienza specifica nella gestione del problema oggetto di gara. Entrambi i bandi impongono però come condizione necessaria un “fatturato specifico”. Cifre alte: nel primo caso dev’essere pari a quasi 10 milioni di euro, nel secondo addirittura a 24 milioni. L’anomalia sta proprio qui. Significa che può vincere la commessa solo chi ha già fatto soldi (e tanti) con la consulenza sui programmi finanziati dall’Ue, e poco importa se quella consulenza non aveva nulla a che fare con i migranti o la scuola. Una stranezza italiana, dimostra uno studio della Confindustria: il fatturato specifico è richiesto nel 90 per cento delle gare bandite da noi, mentre nel Vecchio Continente la media è del 18 per cento. Il risultato è che i possibili vincitori dei ricchi contratti appena offerti dai ministeri guidati da Angelino Alfano e Stefania Giannini sono, appunto, due: Ernst & Young e PricewaterhouseCoopers. Si tratta di colossi del settore, multinazionali con base a Londra e sedi in ogni angolo del globo. L’alta probabilità che siano loro a vincere dipende dai numeri. Solo queste due società possono infatti vantare fatturati specifici del genere. Perché sono loro ad aver fatto finora la parte del leone nella spartizione delle consulenze sui fondi europei destinati all’Italia. Lo dicono i dati pubblicati dal governo sul sito opencoesione.gov.it. Si legge che PricewaterhouseCoopers ha incassato dal 2007 al 2013 circa 42 milioni di euro, Ernst & Young è arrivata a fatturare più di 44 milioni. Cifre enormi, rispetto a quelle incamerate dai concorrenti (a cui non rimane che consorziarsi per cercare di raggiungere le soglie di fatturato richieste). E il merito non è solo dei concorsi tagliati su misura, a volte è anche dei continui rigonfiamenti dei costi. Come nel caso di una gara bandita nel 2009 dal ministero dell’Istruzione, il cui valore è passato in meno di tre anni da 26 a 47 milioni di euro. Praticamente raddoppiato grazie ai ritocchi decisi da alcuni dirigenti di Stato. Ad aggiudicarsi l’appalto, sul quale la Procura di Roma ha avviato un’indagine, è stato un consorzio di cui fa parte Ernst & Young. Sulla vicenda dovranno fare chiarezza i magistrati romani, ma di certo i dati dimostrano che in Italia vale una regola particolare: consulente che vince non si cambia. Un sistema che ostacola la concorrenza. E non aiuta a risparmiare fondi pubblici, né a usare bene i pochi soldi che otteniamo dall’Europa per la crescita del malandato Sud.

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

Comunismo e Nazi-Fascismo figli degeneri del Socialismo. Il comunismo, come ideologia, si prefigge l’estinzione delle classi con il supporto della massoneria; il Nazi-Fascismo si prefigge l’eliminazione delle razze con l’aiuto della massoneria.

La Mano Nascosta che ha Fatto Storia (Hidden Hand), scrive The Vigilant Citizen. Traduzione a cura di Anticorpi.info. I dipinti e le immagini dei grandi uomini del passato rivelano un elemento che li accomuna. Può essere solo un caso il fatto che molti di essi nascondessero una mano mentre posavano per i dipinti che li ritraevano? Improbabile. In questo post esamineremo l'origine massonica della "mano nascosta" (hidden hand) e i potenti personaggi che si fecero ritrarre nell'atto di compiere tale segno. Ricordo quando la mia docente di storia cercava di spiegarci come mai Napoleone fosse frequentemente raffigurato con una mano sotto la camicia. Le motivazioni ufficiali sono elencate nelle seguenti righe:

"Sono state avanzate numerose teorie per spiegare perché Napoleone sia stato tradizionalmente raffigurato con la mano nel panciotto. Ad esempio: un'ulcera allo stomaco, la carica dell'orologio, una malattia della pelle, il fatto che all'epoca fosse ritenuto scortese tenere le mani in tasca, un cancro al petto, una mano deforme, una bustina profumata nel panciotto, il fatto che i pittori non amino dipingere le mani." Tom Holmberg

A meno che tutti i personaggi citati in questo articolo avessero una ulcera gastrica o una mano deformata, al gesto di nascondere la mano si deve attribuire un significato specifico. Che in effetti c'è. La maggior parte delle persone che usano questo segno sono membri della massoneria. Considerando la grande importanza di tale gesto nei rituali massonici e che tutte le elite facessero parte della massoneria o comunque sapessero cosa fosse, è impossibile che la continua riproposizione di questo gesto sia semplicemente il risultato di una coincidenza. La mano nascosta è infatti un simbolo ricorrente nei rituali del grado massonico Royal Arch, ed i leader mondiali se ne servono per comunicare agli altri iniziati dell'ordine: "Questo è ciò a cui appartengo, ciò in cui credo e per il quale sto lavorando." Il grado Royal Arch (13° grado del Rito Scozzese o 7° del Rito di York) è noto anche come Mason of the Secret. Raggiunto questo grado, si dice che gli iniziati ricevano le grandi verità massoniche.

"Fino al Royal Arch gli iniziati sono familiarmente denominati confratelli, e mantenuti in uno stato di profonda ignoranza. Dal Royal Arch in poi i membri sono denominati compagni, e hanno diritto a una spiegazione esauriente sui misteri dell'ordine. Tale differenziazione concorda con la nota abitudine di Pitagora di rubricare i propri allievi praticamente alla stessa maniera. Dopo una sospensione condizionale di cinque anni, gli allievi erano ammessi alla presenza del precettore, il quale si rivolgeva a loro come "compagni" cui era consentito conversare con lui liberamente. Prima di tale termine il maestro impartiva i suoi insegnamenti da dietro uno schermo." John Fellows, Inchiesta su Origini, Storia e Tenore della Massoneria

"Accedendo al Royal Arch si apprendono meravigliose nozioni che non potrebbero essere eguagliate da qualsiasi istituzione umana." George Oliver, Lezioni sulla Massoneria

È a questo punto che l'iniziato impara il sacro nome di Dio.

"Un grado più augusto, sublime e importante di quelli che lo precedono, che è, infatti, il culmine e la perfezione dell'antica Massoneria. Esso lascia nella nostra mente la convinzione della esistenza di un Dio senza inizio e senza fine - la grande e incomprensibile Alfa e Omega - e ci ricorda la riverenza che dobbiamo al suo Santo nome." George Oliver, Monumenti Storici

Tale Santo nome è Jahbulon, combinazione di parole che significano "dio" in siriaco, caldeo ed egiziano.

"JEHOVAH. Tra le varie versioni di questo nome sacro in uso tra le diverse nazioni della terra, tre in particolare meritano l'attenzione dei massoni di grado Royal Arch:1. JAH, riscontrabile nel Salmo 68, v. 4.2. BAAL o BEL. Questa parola indica un signore, padrone o possessore, ed è stata applicata da molte nazioni d'oriente per indicare il Signore di tutte le cose, il Maestro del mondo.3. ON. Era il nome con cui JEHOVAH veniva venerato tra gli egiziani." Malcolm C. Duncan, Rituali Massonici

Il rito di iniziazione a tale grado rievoca il ritorno a Gerusalemme dei tre più eccellenti massoni, dopo la prigionia in Babilonia. Evitando di esaminare l'intera cerimonia e il relativo simbolismo, ad un certo punto del rito viene chiesto all'iniziato di imparare una parola segreta e un segno della mano che incarni il passaggio di un "velo." L'immagine sulla destra raffigura il segno che simboleggia il passaggio al Secondo Velo, come documentato nel libro Rituali Massonici di Duncan.

"Il Maestro del Secondo Velo: devi essere tre eccellenti maestri, poiché più in là non puoi arrivare senza la mia parola, segno, ed esortazione. Le mie parole sono Sem, Japhet, e Adoniram; il mio segno è questo: (portando la mano al petto), esso imita ciò che Dio diede a Mosè, quando Egli gli ordinò di spingere la mano in seno e poi, estraendola, la mano divenne bianca e lebbrosa come la neve. La mia parola di esortazione è la spiegazione di questo segno, e si trova negli scritti di Mosè, Quarto capitolo dell'Esodo: “E il Signore disse a Mosè: Poni ora la tua mano in grembo. E lui mise la mano in seno, e quando la tirò fuori, ecco che la sua mano era lebbrosa come la neve." Malcolm C. Duncan, Rituali Massonici

Come detto, il gesto della mano è ispirato dal verso 4:6 dell'Esodo. In questo passaggio biblico il cuore ("petto") rappresenta ciò che siamo in base alle nostre azioni. Si può pertanto interpretarlo come: sei ciò che fai. Il significato simbolico di questo gesto potrebbe spiegare il motivo per cui è così largamente utilizzato dai più celebri massoni. La mano nascosta consente agli altri iniziati di sapere che la persona raffigurata fa parte della fratellanza segreta, e che le sue azioni sono ispirate alla filosofia massonica. La mano che esegue le azioni è celata dietro il bavero, il che simbolicamente si riferisce alla natura occulta delle azioni massoniche. Ecco alcuni uomini celebri che utilizzarono il segno della mano nascosta.

NAPOLEONE BONAPARTE. Napoleone (1769-1821) fu un leader militare e politico francese, dalle cui azioni scaturì la politica europea nel XIX secolo. Iniziato presso la loggia dell'Army Philadelphe nel 1798. I suoi fratelli Giuseppe, Luciano, Luigi e Girolamo, erano tutti e quattro massoni. Cinque dei sei membri del Gran Consiglio dell'Impero erano massoni, come lo erano sei dei nove funzionari imperiali e 22 dei 30 Marescialli di Francia. Lo studioso di cultura massonica J.E.S. Tuckett affronta così la questione: "Strano che le prove riguardanti l'appartenenza di Napoleone alla fratellanza massonica non siano mai state esaminate in dettaglio, poiché la questione è di estremo interesse e - alla luce del ruolo notevole che questo straordinario uomo ebbe negli affari del continente europeo." Nel saggio su Napoleone e la Massoneria, Tuckett scrive: "Ci sono prove inconfutabili secondo le quali Napoleone conoscesse la natura, la finalità e la struttura della Massoneria; nozioni che approvava e praticava per promuovere i propri scopi." J.E.S. Tuckett, Napoleone e la Massoneria (fonte) Si dice anche che Napoleone facesse ricorso a poteri occulti. Quando nel 1813 fu sconfitto a Leipzip, un ufficiale prussiano scoprì una "stanza dei segreti" appartenente al condottiero corso, nella quale era custodito il libro del Destino e degli Oracoli. In principio questo libro fu scoperto in una delle tombe reali di Egitto nel corso di una spedizione militare francese del 1801. L'imperatore ne commissionò la traduzione ad uno studioso e antiquario tedesco. Da quel momento in poi, l'Oraculum diventò uno dei beni più preziosi di Napoleone. Lo consultava in molte occasioni e si dice che abbia "costituito uno stimolo per le sue imprese speculative di maggior successo."

KARL MARX. Karl Marx è noto per aver fondato il comunismo moderno. Benché alcuni massoni neghino questa possibilità,sembra che sia stato un massone di 32 grado della loggia del Grande Oriente. Marx si fece portavoce del movimento ateo e socialista d'Europa. Sosteneva il principio secondo cui la fase successiva alla sostituzione delle monarchie con le repubbliche socialiste sarebbe dovuta essere la conversione delle stesse in repubbliche comuniste.

GEORGE WASHINGTON. George Washington fu uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti, ed è considerato 'il più importante massone americano.' Charles Willson scovò questo dipinto di un Washington all'età di 52 anni. Notate la posizione dei piedi: essi formano una piazza oblunga. La posizione dei piedi è molto importante nel simbolismo massonico.

WOLFGANG AMADEUS MOZART. Mozart è uno dei più prolifici e influenti compositori di sempre. Fu massone, iniziato nella loggia austriaca Zur Zur Wohltätigkeit il 14 Dicembre 1784. Numerose sue opere contengono degli importanti elementi massonici. Prima tra tutte Il Flauto Magico, del tutto basata su principi massonici. Di seguito, alcune composizioni create da Mozart per le logge massoniche:

Lied (canzone) "Gesellenreise, da utilizzare durante l'assunzione di nuovi operai."

Cantata per tenore e coro maschile Die Maurerfreude ("The Mason's Joy").

La funerea musica massonica (Maurerische Trauermusik).

Due canzoni per celebrare l'apertura del "Zur Hoffnung Neugekrönten":

Cantata per tenore e pianoforte, Die ihr die Weltalls Schöpfer ehrt unermesslichen.

La piccola cantata massonica (Kleine Freimaurer-Kantate).

IL MARCHESE DE LAFAYETTE. De Lafayette fu massone di 33 grado. Secondo quanto sostenuto da Willam Denslow nell'opera 10.000 Massoni Famosi, Lafayette era un ufficiale francese, che partecipò come generale alle guerra di indipendenza americana e fu tra i leader della Guardia Nazionale francese durante la sanguinosa rivoluzione. Fu anche nominato Gran Commendatore onorario del Supremo Consiglio di New York. Più di 75 organismi massonici negli Stati Uniti portano il suo nome.

SALOMON ROTSCHILD. Salomon Rothschild è stato il fondatore del ramo viennese della famiglia di Mayer Amschel Rothschild. La famiglia più potente del mondo ha molto influenzato le politiche di Germania, Francia, Italia e Austria. I Rothschild sono tra i creatori del sionismo e dello Stato di Israele. Il loro potere si è propagato ben oltre i confini della loggia massonica. Si dice facciano parte delle 13 linee di sangue degli "Illuminati." Il recente edificio della Corte suprema di Israele - finanziato dai Rothschild - conferma il ricorso al simbolismo massonico da parte di tale famiglia.

SIMON BOLIVAR. Noto come El Libertador (il Liberatore), Simon Bolivar è considerato il George Washington del Sud America. E' entrato in massoneria presso Cadice, in Spagna, per poi essere iniziato al Rito Scozzese a Parigi ed essere nominato templare in Francia nel 1807. Bolivar ha fondato e servito come comandante la loggia Protectora de las Vertudes No.1 in Venezuela. Il paese della Bolivia porta il suo nome. Bolivar fu anche presidente della Colombia, del Perù e della Bolivia nel 1820. Apparteneva alla loggia Ordine e Libertà No. 2, in Perù. Notate nell'immagine la posizione dei suoi piedi e lo schema a scacchiera del pavimento, anch'esso massonico.

JOSEPH STALIN. Il regno del terrore di Stalin in Unione Sovietica provocò la morte di milioni di suoi connazionali. Spesso nelle foto si fece ritrarre facendo il gesto della mano nascosta. Non esistono documenti ufficiali che dimostrino la iniziazione di Stalin alla Massoneria. Naturalmente, i dittatori come Stalin riuscivano a controllare tutte le informazioni circa se stessi ed i loro affari, rendendo difficile provare alcunché in un senso o nell'altro. Il segnale della mano nascosta però fornisce un indizio della sua appartenenza ad una fratellanza occulta.

ALTRI PERSONAGGI: Mazzini, Cavour, Henry Varnum Poor (Standard & Poor's), Franklyn Pierce.

Come si è visto, i leader con la "mano nascosta" hanno avuto una grande influenza sulla storia del mondo ed è stato confermato che molti fossero massoni. Questo gesto è un dettaglio ancora largamente trascurato, che allude all'abbraccio della filosofia occulta da parte del leader. Una volta compreso questo fatto e riconosciuta l'immensa influenza che questi leader hanno avuto sul corso della storia, possiamo cominciare a comprendere la forza nascosta che attualmente guida l'attuale mondo internazionale. I membri di queste confraternite avranno anche mantenuto opinioni diverse e aderito a fazioni differenti (comunismo contro capitalismo), ma la filosofia di fondo, le convinzioni e gli scopi ultimi erano comuni: l'avvento di una Età dell'illuminismo. Naturalmente, ogni ricercatore serio è già a conoscenza del ruolo della massoneria nel dispiegarsi della storia mondiale. Il segno della mano nascosta usato da numerosi personaggi storici è semplicemente l'espressione di questa realtà poco nota. Come affermò Confucio: "Il mondo è governato da segni e simboli, non da leggi e frasi." Articolo in lingua inglese pubblicato sul sito The Vigilant Citizen

Lo scopo della massoneria è il trionfo del Comunismo. Pubblicato da "Neovitruvian". Secondo CG Rakovsky i massoni “devono morire per mano della rivoluzione, raggiunta grazie alla loro cooperazione”. Fu uno dei fondatori dell’Internazionale Comunista, ambasciatore sovietico a Parigi e Londra, e capo di Stato dell’Ucraina. “Il vero segreto della massoneria è il suicidio della massoneria come organizzazione, e il suicidio fisico di ogni importante massone.” Questa rivelazione proviene da un interrogatorio della polizia stalinista nel 1938 dal titolo “La Sinfonia rossa”, un documento non originariamente concepito per il pubblico. By Henry Makow Ph.D. (Trascrizione da Des Griffin, Fourth Reich of the Rich, p. 254, on-line) Tradotto da “Neovitruvian” . “So tutto questo non perche` sia un massone, ma poiché appartengo a Loro ‘” [gli Illuminati] dice Rakovsky, un collega di Leon Trotsky arrestato per aver complottato contro Stalin. L’obiettivo di Rakovsky è quello di convincere Stalin, un nazionalista, a collaborare con l' “internazionale comunista-capitalista. La massoneria è la più grande società segreta al mondo con oltre cinque milioni di membri, di cui tre milioni negli Stati Uniti. E ‘strumentale nella cospirazione totalitaria. Nei Protocolli dei Savi di Sion, l’autore (forse Lionel Rothschild, 1808-1879) scrive: “La muratoria Gentile funge ciecamente da schermo per noi e per i nostri obiettivi, ma il piano d’azione rimane per tutto il popolo un mistero sconosciuto …. Chi e che cosa è in grado di rovesciare una forza invisibile?” (Protocollo 4)”. Ancora egli scrive, «dovremo creare e moltiplicare le logge massoniche … assorbire in loro tutti che sono di primo piano nella attività pubblica e coloro che possono tornarci utili, perché in queste logge troveremo il nostro centro per l’intelligence e le attività di influenza …. Le trame politiche più segrete ci saranno note e cadranno sotto le nostre abili mani manipolatorie… Noi sappiamo quale è la meta finale … mentre i goyim non sanno nulla … “(protocollo 15) Nel suo interrogatorio, Rakovsky dice che milioni affollano la Massoneria per ottenere un vantaggio. “I governanti di tutte le nazioni alleate erano massoni, con pochissime eccezioni.” Tuttavia, il vero obiettivo è “creare tutti i presupposti necessari per il trionfo della rivoluzione comunista, questo è lo scopo evidente della massoneria, ma è chiaro che tutto questo va fatto con vari pretesti, ma sempre attraverso i loro ben noti slogan [Libertà, Uguaglianza, Fraternità]. Hai capito?” (254) I massoni dovrebbero ricordare la lezione della Rivoluzione francese. Anche se “hanno giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione, sono stati consumati da essa…” Dal momento che la rivoluzione richiede lo sterminio della borghesia come classe, [così tutta la ricchezza andrà dagli Illuminati nelle vesti dello Stato] ne consegue che i massoni devono essere liquidati. Quando questo segreto viene rivelato, Rakovsky immagina “l’espressione di stupidità sul volto di qualche massone quando si rende conto che deve morire per mano dei rivoluzionari. Urlerà e vorrà riconosciuti i suoi servizi nella rivoluzione! E ‘ uno spettacolo in cui si può morire … ma di risate!” (254) Rakovsky si riferisce alla massoneria come una bufala: “Un manicomio, ma in libertà” (254) In Russia nel 1929, ogni massone che non era ebreo venne ucciso insieme alla sua famiglia, secondo Alexey Jefimow (“Chi sono i governanti della Russia?» P.77) Come massoni, altri richiedenti per l’ammissione nella “utopica masterclass umanista” (neocons, i liberali, i sionisti, i gay e le attiviste femministe) potrebbero trovarsi in una brutta sorpresa. Probabilmente infatti verranno messi da parte una volta che adempiranno al loro scopo. Quando l’interrogatore fece pressioni su Rakovsky per avere informazioni su importanti Illuminati che gli si sono avvicinati con una iniziativa, Rakovsky era sicuro che almeno due di essi fossero morti: Walter Rathenau il ministro degli Esteri del Wiemar, e Lionel Rothschild. Dice che Trotsky era la sua fonte di informazione. Altre sono speculazioni: “Come istituzione, la banca di Kuhn Loeb & Company di Wall Street: [e] le famiglie Schiff, Warburg, Loeb e Kuhn, io dico le famiglie, al fine di sottolineare diversi nomi dal momento che sono tutti collegati … attraverso matrimoni, i Baruch, i Frankfurter, gli Altschul, i Cohen, i Benjamin, gli Strauss, i Steinhardt, i Blom, i Rosenman, i Lippmann, i Lehman, i Dreyfus, i Lamont, i Rothschild, i Lord, i Mandel, i Morganthau, gli Ezekiel, i Lasky.” (272) Consentendo ai banchieri il privilegio di creare denaro, abbiamo creato un vampiro insaziabile. Se si potesse produrre soldi, immaginate la tentazione di possedere e controllare tutto, anche il pensiero! Questo è il senso ultimo del comunismo. Rakovsky fa riferimento alla Grande Depressione del 1929 come ad una “rivoluzione americana”. Essa è stata deliberatamente provocata dagli Illuminati a scopo di lucro, per demolire lo “stereotipo americano” e conquistare il potere politico. “L’uomo per mezzo del quale hanno fatto uso di tale potere fu Franklin Roosevelt. Capisci? … In quell’anno, 1929, il primo anno della rivoluzione americana, nel mese di febbraio, Trotsky lasciò la Russia, l’incidente avvenne in ottobre… Il finanziamento ad Hitler fu concordato nel mese di luglio, 1929. Pensi che tutto questo sia una coincidenza? In questo momento si stavano preparando per la presa del potere negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica: lì tramite una rivoluzione finanziaria, e qui [in Russia] con l’aiuto della guerra [Hitler, Seconda Guerra Mondiale] e la sconfitta che doveva seguire.” (273) Rakovsky propose che Stalin collaborò con gli Illuminati, La prima condizione è che si fermasse con le esecuzione dei seguaci di Trotzky. Poi saranno stabiliti “diverse zone di influenza” dividendo “il Comunismo formale da quello reale.” Ci saranno “concessioni reciproche di aiuto per un periodo, mentre il piano è in corso di svolgimento … Appariranno persone influenti a tutti i livelli della società, anche molto alti, che aiuteranno il Comunismo…” (276) Rakovsky delineò il piano degli Illuminati di fondere il comunismo e il capitalismo. In ogni caso, gli Illuminati controlleranno tutta la ricchezza e il potere. “A Mosca c’è il Comunismo: A New York, il capitalismo, tesi e antitesi. Analizziamo entrambi. A Mosca c’è un comunismo soggettivo ma [oggettivamente] un capitalismo di Stato…a New York il capitalismo è soggettivo, ma oggettivamente si tratta di comunismo. (276) Nel caso del comunismo, lo Stato possiede le corporazioni, i banchieri e lo Stato. Nel caso del capitalismo, i banchieri controllano le corporazioni, e le corporazioni controllano lo Stato. In ogni caso, in Occidente, è necessario un capitalismo monopolistico, con crescente controllo politico e culturale simile a quello della Russia sovietica. The Red Symphony conferma che i nostri leader politici e culturali sono per lo più creduloni o traditori. Il sovvertimento degli Stati Uniti fa parte di un piano per la tirannia mondiale. Una cabala occulta di banchieri è dedita a schiavizzare l’umanità. La maggior parte delle religioni e gruppi sono stati sovvertiti dal piano degli Illuminati per dominare il mondo e usurpare tutta la sua ricchezza, come indicato nei protocolli. Il denominatore comune è la Massoneria. Una manifestazione dell’emergente tirannia luciferina Rothschild è il design massonico del nuovo edificio della Corte Suprema israeliana, sopra. La maggior parte dei massoni ed ebrei non sono a conoscenza di questo piano, si sarebbero opposti, e sono essi stessi vittime. L’accusa di “antisemitismo” è utilizzata per distrarci dal vero problema, la creazione di uno stato di polizia globale dedicato alla proiezione della ricchezza, della perversità e della potenza dei cabalisti in ogni sfera della vita. La “guerra al terrore” è utile a questo controllo autoritario. Che cosa stanno progettando se l’obiettivo è uno stato di polizia con tanto di confisca delle armi da fuoco? Un’altra Grande Depressione? Una Guerra civile? Un gulag americano? Un attacco nucleare o biologico “terrorista”? L’11 settembre dimostra che sono in grado di macellare americani senza alcun rimorso. Siamo nati all’80esimo minuto di una partita di calcio e la squadra di Dio non se la sta cavando bene. Gli Illuminati hanno definito Dio in termini privi di senso e quindi lo hanno bandito dal nostro universo. Dio è sinonimo di ideali spirituali. Invece di elevarci spiritualmente, ci hanno degradato e trasformato in animali, per servire meglio gli Illuminati.

Massoneria e Socialismo. Le radici occulte del socialismo, scrive Jean Vandamme l'8-27 luglio 2010 su "Centro San Giorgio". Se la tesi di dottorato di Nicholas Nicholas Goodrick-Clarke intitolata "The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology: The Ariosophists of Austria and Germany, 1890-1935" (The Aquarian Press, Wellingborough 1985) mostra l'influenza preponderante delle Logge nella genesi del nazionalsocialismo, lo stesso si può dire per il comunismo, il quale è solamente una forma radicale dell'ideologia socialista. Resta tuttavia da spiegare perché questi regimi totalitari si sono liberati dalla tutela delle Logge per poi osteggiarle. Allo stesso modo, ci si può legittimamente chiedere quale interesse abbia avuto la Massoneria a produrre tali mostruosità. Questo articolo ci propone alcune risposte a partire da citazioni estratte da testi massonici sull'argomento.

Gli iniziati dietro ogni ideologia - Introduzione di VLR. È bene sapere che nazisti e massoni avevano qualcosa in comune. Ecco nuova luce sulle ragioni della loro reciproca ostilità. Il fenomeno dei rapporti delle Logge con l'estrema destra è cosa nota da molto tempo: già il massone René Guénon (1886-1951) 2, nella sua lettera del 12 ottobre 1936 a R. Schneider, affermò a proposito di Benito Mussolini (1883-1945): «D'altronde, corrisponde a verità il fatto che (Mussolini) era massone, e - dettaglio divertente - la camicia nera con cui fece il suo ingresso a Roma gli era stata offerta dalle Logge di Bologna» 3. La questione merita di essere approfondita ma, certamente, tutto accadde come se si fosse prodotto uno scisma all'interno di ciò che può essere definita «la Chiesa Iniziatica»:

- da un lato, le obbedienze classiche, vicine all'internazionalismo e all'egualitarismo;

- dall'altro, alcune Logge come la Società Thule, l'Ordine del Nuovo Tempio, l'Ordo Templi Orientis (O.T.O.) 4, e altre organizzazioni gnostiche, élitarie, spesso fondate su un'inasprita ideologia razzista. L'opera di Nicholas Goodrick-Clarke ha l'immenso merito di rivelare che dietro ai movimenti politici del XX secolo, si nascondevano spesso dei guru, ossia degli Alti Iniziati. In definitiva, se si osservano gli avvenimenti tenendo conto di questo fattore nascosto, ci si accorge che la Rivoluzione, sotto le sue diverse maschere, non è nient'altro che una colossale manipolazione dei popoli per mezzo delle ideologie. L'internazionalsocialismo è mostruoso tanto quanto il nazionalsocialismo. Stalin (1878-1953), Mao (1893-1976) e Pol Pot (1928-1998) non hanno nulla da invidiare ad Adolf Hitler (1889-1945). In ciò non c'è niente di stupefacente: questi fratelli-nemici hanno le stesse origini iniziatiche.

Le origini massoniche del socialismo. Tutti coloro che dubitano di tale filiazione dovrebbero consultare il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie («Dizionario della Massoneria»), pubblicato da Daniel Ligou (Parigi 1987). Quest'opera autorizzata è molto istruttiva. Da essa, apprendiamo che tra i numerosi massoni, che furono gli apostoli del socialismo, figurano:

- Il conte de Saint-Simon (Claude-Henry di Rouvroy; 1760-1825). «Il fondatore del sansimonismo era stato iniziato nel 1786 alla Loggia "L'Olympique de la Parfaite estime", all'Oriente di Parigi e alla Società Olimpica» (pag. 1079);

- Pierre Leroux (1797-1871). «Filosofo, giornalista e scrittore socialista, tipografo, membro della Costituente del 1848 poi della Legislativa. Membro della Loggia "Les Droits de l'Homme", Oriente di Grasse» (pag. 695).

- Louis-Auguste Blanqui (1805-1881). Secondo il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie, il famoso teorico socialista fu «membro degli "Amis de la Vérité" ("Amici della Verità") intorno al anni 1830, e del "Temple des Amis de l’Honneur Français" ("Tempio degli Amici dell'Onore Francese") nel 1842» (pag. 141).

- Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Il padre del socialismo francese, prima amico e poi avversario di Karl Marx (1818-1883), venne iniziato «non senza avere esitato» per molto tempo «l'8 gennaio 1847, alla Loggia di Besançon "Spucar", come riportato anche nell'opera "De la justice dans la Révolution et dans l'Église" ("La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa"; 1858). La sua iniziazione è celebre soprattutto per il fatto che Proudhon, alla terza domanda d'ordine, "Doveri dell'uomo verso Dio", rispose: "La guerra"»! (pag. 967).

- Louis Blanc (1811-1882). «Militante repubblicano, poi socialista, membro del Governo provvisorio del 1848, deputato di Parigi nel 1871, poi senatore. Blanc venne iniziato in esilio, alla Loggia "Les Sectateurs de Menés ("I Seguaci di Menés"), all'Oriente di Londra, prima del 1854, data nella quale gli venne conferito il 93º Grado del Rito di Memphis e Oratore del Supremo Consiglio di questo Grado» (pagg. 140-141).

- Mikhail Bakunin (1814-1876). «Il principe Mikhail Bakunin, anarchico russo, nato l'8 maggio 1814 a Premoukhino (oggi Kalinine), venne educato da un padre massone, un aristocratico liberale che sosteneva di avere assistito alla presa della Bastiglia [...]. Divenuto massone nel 1845 [...], Bakunin si era avvalso di questa qualità nel 1848, ma non si sa molto sulla sua iniziazione [...]. Giunto a Parigi nel 1844, frequentò Lamennais, George Sang, Michelet, Nicolas Herzon e il "Fratello" Louis Blanc» (pag. 102).

- Lenin (Vladimir Ilyich Ulyanov; 1870-1924). «Vladimir sarebbe stato iniziato alla Loggia "L'Union de Belleville", all'Oriente di Parigi, prima della guerra del 1914. Ma essendo andati perduti gli archivi di questa Loggia, non si possiedono tracce formali dell'appartenenza di Lenin alla Massoneria. Tutto ciò che si sa con certezza è che Ulyanov fu amico di "Montehus” (1872-1958), un cantante antimilitarista che, precisamente, era membro della Loggia "L'Union de Belleville" nello stesso periodo» (pag. 693). Sapete a chi si deve L'lnternationale, questo canto rivoluzionario diventato l'inno internazionale dei partiti socialisti e comunisti, e che fu anche l'inno sovietico fino al 1936? Ce lo dice il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie (pag. 954): ad un massone!

- Eugène Pottier (1816-1887), «anarchico francese, nato nel 1816, partecipò alle Rivoluzioni del 1830, del 1848 e del 1871. Fu sindaco del dipartimento dell'IIe sotto la Comune di Parigi. Condannato a morte, si rifugiò in Belgio, in Inghilterra e in America dove venne iniziato nel 1875 alla Loggia "Les Égalitaires" ("Gli Egualitari"), fondata a New York dai proscritti della Comune. Ritornato in Francia nel 1887, volle farsi regolarizzare affiliandosi alla Loggia parigina "Le Libre Examen" ("Il Libero Esame"), ma l'autore dell'Internazionale morì alcuni giorni dopo» (pag. 954). Di fatto, è attestato storicamente che Pottier compose nel 1871 la poesia che fu messa in musica da Pierre Degeyter (1848-1932) nel 1888 ed eseguita per la prima volta lo stesso anno per la festa dei lavoratori di Lille.

Massoneria e comunismo. Anche se, come abbiamo visto, non si può affermare con certezza che Lenin fosse massone, una cosa è certa: tra la Massoneria e il socialismo radicale - il comunismo - non c'è vera opposizione. L'incompatibilità proclamata nel novembre 1922 al IV Congresso dell'Internazionale non deve ingannarci. In Francia, ad esempio, numerosi fondatori del giovane Partito Comunista erano massoni:

- Ludovic-Oscar Frossard (1889-1946), Segretario generale del giovane Partito Comunista Francese, ma ostile alla «bolscevizzazione» del Partito, sconfessato dall'Internazionale a causa del suo atteggiamento al II Congresso del Partito Comunista Francese, e per il suo rifiuto della 22ª condizione di Mosca (il Kominternl'humanité vietò l'appartenenza alla Massoneria), si dimise il 1º gennaio 1923. Creò allora il Partito Comunista Unitario (PCU, che nel 1924 divenne, dopo fusione con altri gruppi dissidenti, l'Unione Socialista Comunista).

- André Morizet (1876-1942). Membro fondatore del Partito Comunista, fu ostile alla 22ª condizione di Mosca, che vietava l'appartenenza alla Massoneria di cui era membro (Grand'Oriente di Francia). Escluso dal Komintern nel gennaio del 1923, con Ludovic-Oscar Frossard, per le stesse ragioni, uscì dal Partito Comunista Francese ed entrò nell'l'Unione Socialista Comunista rimanendovi fino al 1927.

- Antonio Coen (1885-1956). Iniziato alla Gran Loggia, membro dell'ufficio del Partito Comunista, dal quale si staccò dopo il IV Congresso dell'Internazionale. Alcuni anni più tardi, divenne Gran Maestro della Gran Loggia di Francia.

- Zéphirin Camélinat (1840-1932). Tesoriere della Section Française de l'Internationale Ouvrière («Sezione Francese dell'Internazionale Operaia»; SFIO), si riunì ai maggioritari comunisti del Congresso di Tours nel 1920, e favorì la nascita del comunismo in Francia. Nel 1921, egli vendette le azioni del giornale L'Humanité, (fondato da Jean Jaurès), al Partito Comunista Francese. Nel 1924, fu candidato alle elezioni presidenziali, ed ottenne ventun voti sull'insieme dei deputati e dei senatori. Malgrado le condizioni di Mosca, fu la sola personalità del Partito Comunista Francese ad essere al tempo stesso membro del Komintern e della Massoneria.

- Charles Lussy (1883-1967). Fin dalle elezioni legislative del 1914, egli difese i colori della Section Française de l'Internationale Ouvrière. Dopo la Grande Guerra, entrò nell'Humanité, poi seguì la maggioranza del Partito di Jean Jaurès (1859-1914) nella sua adesione all'Internazionale comunista. Rimase nel Partito Comunista per due anni. All'inizio del 1923, Lussy lasciò il Partito Comunista Francese, e dopo una breve parentesi con l'Unione Socialista Comunista, tornò al Partito Socialista.

- Marcel Cachin (1859-1958). Padre fondatore del Partito Comunista, direttore del giornale L'Humanité, fu iniziato alla Massoneria nella Loggia La Concorde Castillonnaise.

- Antoine Ker (1886-1923). Sostenitore della III Internazionale, assistette, nel dicembre 1920, al Congresso di Tours e venne eletto nel Comitato Direttivo del Partito Comunista. Collaborò all'Humanité e a La Vie Ouvrière («La vita operaia»), e venne incaricato di curare i rapporti tra il Partito Comunista Francese, il Partito Comunista Tedesco e l'Internazionale. In questa cornice, andò a Mosca. Rimase in collegamento col Partito fino alla sua morte, ma «si sarebbe dimesso» dalla Massoneria.

Ma ce ne sono tanti altri, come Ho Chi Min (1890-1969), il liberatore-oppressore comunista del Vietnam. Nel n° 256 della rivista L'Histoire, Jacques Dalloz - che ha dedicato un'opera a tale questione - scrive: «Alcuni vietnamiti venuti in Francia, soprattutto per studiare, si fecero iniziare a Parigi o nelle città universitarie del Sud. Tra essi, il futuro Ho Chi Min. All'inizio dell'anno 1922, il giovane comunista si presentò per l'iniziazione alla Loggia della capitale "La Fédération Universelle" ("La Federazione Universale"), raccomandato dall'incisore Roger Boulanger […]. Nel dicembre dello stesso anno, la IV Internationale condannò la Massoneria, "un'istituzione segreta della borghesia radicale": un paradosso che non sembrò disturbare affatto il futuro dirigente vietnamita […]. Nell'agosto 1945 […], altri massoni andarono al potere, come Hoang Minh Giam, che i responsabili francesi consideravano a quel tempo l'eminenza grigia di Ho Chi Min, e che partecipò ai suoi governi per molti anni […]. La fine della guerra in Indocina portò un nuovo colpo alla Massoneria locale. Già moribonda, la Fratellanza tonchinese si spense col passaggio al comunismo del Nord Vietnam. L'installazione del nuovo regime portò - come negli altri Paesi comunisti - alla scomparsa della Massoneria. In questo caso, l'iniziazione di Ho Chi Min non fece alcuna differenza» 5. Tutto porta dunque a pensare che tra comunismo e Massoneria si è prodotto un movimento simile a quello che Goodrick-Clarke constata tra il nazismo e le Logge: sia un affrancamento progressivo dalla loro tutela, e in seguito un'ostilità, o addirittura una persecuzione di queste società di pensiero, considerate - a buon diritto - come il fermento di altre ideologie concorrenti. Ci si può chiedere, dunque, per quale motivo le Logge abbiano suscitato ideologie contrapposte, col rischio, nelle loro forme radicali, di una persecuzione degli stessi massoni. Tenteremo di dare una spiegazione a questo dilemma alla luce di testi massonici sull'argomento.

L'unità fondamentale di tutti i «Fratelli». Ma - diranno gli scettici - come spiegare l'esistenza di certe obbedienze massoniche nei Paesi capitalisti che si sono dichiarate più volte ostili al comunismo? Ciò dimostrerebbe che i massoni non hanno una visione globale dell'avvenire dell'umanità. Ogni obbedienza lavorerebbe unicamente per conseguire gli scopi della nazione alla quale appartiene. Errore! Un testo fondante come le Costituzioni di Anderson (1723) proclama che riunendo gli uomini di tutti gli orizzonti la Massoneria persegue lo scopo di diventare «il centro d'unione e lo strumento per stringere un'amicizia sincera tra gli uomini che altrimenti sarebbero rimasti continuamente estranei». L'obiettivo è noto: l'instaurazione di un Governo Mondiale. Ciò è rivelato da quell'altro testo fondamentale che è il Discorso di Ramsay (1737): «I nostri antenati, i crociati (i Templari; N.d.R.), vollero riunire in una sola fratellanza gli individui di tutte le Nazioni. Quale obbligo abbiamo verso questi uomini superiori che hanno immaginato un'istituzione il cui unico scopo è la riunione degli spiriti e dei cuori per renderli migliori e per formare col passare del tempo una Nazione Spirituale in cui, senza derogare ai diversi doveri che esige la diversità degli Stati, si creerà un Popolo nuovo che, riunendo numerose nazioni, li cementerà attraverso i legami della virtù e della scienza».

Ideologie «opposte» come strumenti di «progresso». Importa poco se questi uomini, una volta usciti dalle Logge, siano appartenuti a partiti politici o persino a Paesi antagonisti. Una volta reclutati, avranno avuto in comune certi principî che hanno fatto sì che, pur combattendosi tra loro, hanno collaborato alla Grande Opera, vale a dire all'edificazione della civiltà massonica mondiale. Un simile modo di procedere è efficace: si chiama dialettica. Non sono io a dirlo, ma Oswald Wirth (1860-1943), uno dei teorici ufficiali della Massoneria: «Il due è il numero del discernimento, che procede per analisi, stabilendo incessanti distinzioni sulle quali nessuno potrebbe basarsi. Lo spirito che nega di fermarsi in questa via si condanna alla sterilità del dubbio sistematico, all'opposizione impotente, alla contestazione continua [...]. Il due rivela il tre, e il Ternario non è che un aspetto più intelligibile dell'unità. La Tri-unità di ogni cosa è il mistero fondamentale dell'iniziazione intellettuale. Il massone, che orna la sua firma con tre punti in forma di Triangolo, lascia intendere che sa riportare, attraverso il Ternario, il Binario all'unità. Si si è realmente elevato all'altezza del punto che domina gli due altri, non si perderà mai nelle vane discussioni, perché percepirà senza difficoltà la soluzione che si sprigiona da un dibattito contraddittorio. Giudicando dall'alto senza il minimo pregiudizio e in tutta libertà di spirito, otterrà la luce dallo scontro dell'affermazione e della negazione». Ecco dunque chiarita la filosofia massonica: di due tesi (o di due forze) opposte, si utilizza la risultante che farà avanzare la causa. Avrete notato, en passant, l'analogia profonda con l'ideologia marxista. Nel libro Idéalisme et matérialisme dans la conception de l’Histoire («Idealismo e materialismo nella concezione della Storia»), il socialista Jean Jaurès rivendica la filiazione del socialismo dai sistemi filosofici massonici di Immanuel Kant (1724-1804) e di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), considerati come tali dai massoni:

- Per Kant, lo sapete tutti, il problema filosofico consiste espressamente nel trovare la sintesi delle affermazioni contraddittorie che si presentano allo spirito dell'uomo: l'Universo è limitato o infinito? il tempo è limitato o infinito? La serie delle cause è limitata o infinita? Tutto è sottomesso all'universale e inflessibile necessità, o c'è spazio anche per la libertà delle azioni umane? Tante tesi e antitesi, negazioni e affermazioni, tra i quali lo spirito esita. Lo sforzo del filosofia kantiana è tutto nella soluzione di queste contraddizioni, di queste antinomie fondamentali.

- Infine è Hegel ad enunciare la formula di questo lungo lavoro, dicendo che la verità è nella contraddizione: coloro che affermano una tesi senza opporgli una tesi opposta errano e sono schiavi di una logica ristretta e illusoria.

Credo sia inutile ricordare agli adepti la dottrina di Marx, il quale è stato un discepolo intellettuale di Hegel: lo dichiara lui stesso, lo proclama nella sua introduzione al Capitale; sembra che anche Friedrich Engels (1820-1895), per alcuni anni, a causa di quella tendenza che porta l'uomo il capitale - das kapital che ha vissuto per molto tempo in un luogo a ritornare verso le sue origini, si sia applicato nello studio approfondito di Hegel. Una sorprendente applicazione di questa formula dei contrari la si trova in Marx il quale constata «l'antagonismo delle classi, lo stato di guerra economica, che oppone la classe capitalista alla classe proletaria […]. Secondo la vecchia formula di Eraclito che Marx ama citare ("La pace è solamente una forma, un aspetto della guerra; la guerra è solamente una forma, un aspetto della pace"). Non bisogna opporre l'uno all'altro: ciò che oggi è lotta, domani sarà l'inizio della riconciliazione. Il pensiero moderno dell'identità dei contrari (che i massoni definiscono "coincidentia oppositorum"; N.d.T.) si ritrova ancora in quest'altra concezione ammirevole del marxismo: "L'umanità è stata condotta fin qui, per così dire, dalla forza inconscia della Storia […]. Ebbene, quando sarà realizzata la rivoluzione socialista, quando l'antagonismo delle classi sarà cessato, quando la comunità umana sarà in possesso dei grande mezzi di produzione secondo i bisogni conosciuti e constatati dagli uomini, allora l'umanità verrà stata strappata al lungo periodo d'incoscienza in cui cammina dai secoli, spinta dalla forza cieca degli avvenimenti, ed entrerà nella nuova era in cui l'uomo anziché essere sottomesso alle cose regolerà l'andamento cose […]. Per Marx, questa vita incosciente è la condizione stessa e la preparazione della vita cosciente di domani, e così è ancora la Storia si incarica di risolvere una contraddizione essenziale. Ebbene, mi chiedo se non si può, se non si deve, senza mancare allo spirito stesso del marxismo, spingere oltre questo metodo di conciliazione dei contrari, di sintesi dei contraddittori, e cercare la conciliazione fondamentale del materialismo economico e dell'idealismo applicato allo sviluppo della Storia». Dopo questa lettura, non ci si può trattenere dal pensare che il socialismo si è adeguato alla dialettica massonica e l'ha sistematizzata ed interpretata in modo particolare ed esclusivo. Notiamo, en passant, l'analogia profonda del pensiero massonico e di quello socialista per via del loro carattere messianico, prometeico e olista. Sottolineiamo anche il loro obiettivo comune: l'unità e l'autonomia dell'umanità. Tuttavia, se, nelle righe precedenti, Jaurès illustra il concetto di dialettica marxista, ignoriamo ancora quello della dialettica massonica.

Ordo ab chao, o la finalità dello Stato totalitario. Ed ecco un primo chiarimento. Commentando il motto massonico Ordo ab Chao («L'ordine a partire dal caos»), l'illustre massone René Guénon, rivela che, in realtà, le organizzazioni opposte vengono utilizzate come la «materia» dagli «Alti Iniziati» per farle concorrere alla Grande Opera: «Menzioneremo ancora, senza insistere oltremodo, un altro significato di un carattere più particolare che del resto è legato abbastanza direttamente a quello che abbiamo appena indicato, perché si riferisce tutto sommato allo stesso campo: questo significato si rifà all'uso, per farli concorrere alla realizzazione dello stesso piano d'insieme, di organizzazioni esterne incoscienti di questo piano, e apparentemente contrapposte le une alle altre, sotto un'unica direzione "invisibile" che è essa stessa al di là di tutte le opposizioni. In sé stesse, le opposizioni, grazie all'azione disordinata che producono, costituiscono certamente un tipo di "caos" meno apparente; ma si tratta precisamente di usare questo stesso "caos" prendendolo in qualche modo come la "materia" sulla quale si esercita l'azione dell0 "spirito" rappresentato dalle organizzazioni iniziatiche di ordine l'elevato e più "interiore" alla realizzazione dell'"ordine" generale, come, nell'insieme del "cosmo", tutte le cose che sembrano opposte tra loro non sono realmente, in definitiva, che elementi dell'ordine totale». Se le parole hanno un senso, questa si chiama manipolazione su scala continentale. Il risultato di queste manovre, accuratamente nascoste al profano, sarà, come si è visto, la creazione di un Governo Mondiale. E questo Superstato sarà totalitario. Il motto Ordo ab Chao non lascia su questo punto alcun dubbio: dopo il disordine (solve), sapientemente provocato sul piano nazionale e internazionale - disordine ottenuto adulando le passioni degli uomini e sviluppando ideologie contrapposte - verrà l'«ordine» massonico (coagula) che sarà brutale. A quelli che vorrebbero sapere ciò che gli Alti Iniziati pensano della Democrazia, consiglio la lettura dell'opera del massone René Guénon più esplicita su questo argomento, vale a dire La Crise du Monde Moderne («La Crisi del Mondo Moderno»), un libro fondamentale presso gli iniziati di estrema destra.

Conclusione. Forse qualcuno mi rimprovererà di aver fatto troppe citazioni. La natura stessa del mio scritto mi ha obbligato a farlo. Per essere creduti, bisogna portare delle prove, soprattutto in questo caso in cui la realtà sembra superare la fantasia. Ancora una volta ci viene presentata questa verità, ossia che tutte le ideologie sono figlie della Rivoluzione, e che tra esse e il cattolicesimo l'incompatibilità è totale. Terminerò con una citazione presa dalla Bolla In Eminenti, nella quale Papa Clemente XII (1652-1740) condannò, con estrema chiaroveggenza, fin dal 1738, la Massoneria: «Già per la stessa pubblica fama Ci è noto che si estendono in ogni direzione, e di giorno in giorno si avvalorano, alcune società, unioni, riunioni, adunanze, conventicole o aggregazioni comunemente chiamate dei "Liberi Muratori" o "des Francs Maçons", o con altre denominazioni chiamate a seconda della varietà delle lingue, nelle quali con stretta e segreta alleanza, secondo loro Leggi e Statuti, si uniscono tra di loro uomini di qualunque religione e sètta, contenti di una certa affettata apparenza di naturale onestà. Tali società, con stretto giuramento preso sulle Sacre Scritture, e con esagerazione di gravi pene, sono obbligate a mantenere un inviolabile silenzio intorno alle cose che esse compiono segretamente. Ma essendo natura del delitto il manifestarsi da sé stesso e generare il rumore che lo denuncia, ne deriva che le predette società o conventicole hanno prodotto tale sospetto nelle menti dei fedeli, secondo il quale per gli uomini onesti e prudenti l'iscriversi a quelle aggregazioni è lo stesso che macchiarsi dell'infamia di malvagità e di perversione: se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce».

Massoneria e Comunismo. Il socialista Mussolini come vedeva nel 1919 il socialismo-comunismo: «Sulla Rivoluzione russa mi domando se non è stata la vendetta dell'ebraismo contro il Cristianesimo, visto che l'ottanta per cento dei dirigenti dei Soviet sono ebrei... La finanza dei popoli è in mano agli ebrei, e chi possiede le casseforti dei popoli dirige la loro politica.»

Il giornalista Mussolini e la finanza internazionale. Articolo pubblicato su "Il Popolo d'Italia" del 4 giugno 1919.

"I COMPLICI. I proletari evoluti e coscienti che gridano “Viva Lenin!” credendo di gridare “Viva il socialismo “, non sanno certamente ch'essi gridano “Abbasso il socialismo! “I falsi pastori che “mangiano e bevono” alle spalle delle masse sempre pronte a giurare, se non a morire, per gli ideali nuovi e lontani, danno ad intendere che quel che si è instaurato in Russia è socialismo. Colossale menzogna! In Russia si è stabilito il governo di una frazione del Partito socialista. In Russia i proletari lavorano come prima; sono sfruttati come prima perché devono mantenere una burocrazia innumerevole e succhiona, secondo la testimonianza non sospetta del capitano Sadoul; sono mitragliati come prima non appena osino insorgere contro il regime che li condanna alla schiavitù e alla fame; invece di uno czar ce ne sono, oggi, due, ma le forme e i metodi dell'autocrazia non sono affatto cambiati. Si capisce perfettamente che alcuni scrittori venuti dagli ambienti borghesi, abbiano delle simpatie per il bolscevismo. C'è in Russia uno Stato, un Governo, un ordine, una burocrazia, una polizia, un militarismo, delle gerarchie. Ma il socialismo non c'è. Non c'è nemmeno il cominciamento del socialismo, non c'è niente che somigli ad un regime socialista. Il leninismo è la negazione perfetta del socialismo. E' il governo di una nuova casta di politicanti. Gli è per questo che è assai difficile trovare degli apologisti del leninismo fra le teste pensanti del socialismo russo e del socialismo occidentale. Le più stroncanti requisitorie contro il leninismo non sono venute dai borghesi, ma da uomini che avevano lottato e sofferto per la redenzione della massa operaia. Questi uomini si chiamano Piekanoff, il maestro dei marxisti russi; si chiamano Kropotkin, l'apostolo dell'anarchia. La demolizione dei metodi di governo leninista non è opera del "Times", ma di un Axelrod, chiamato il decano dei socialisti russi; di un Souckhomline, collaboratore per lungo tempo dell' "Avanti". Il manifesto del Partito operaio russo e dei socialisti menscevichi, non sono stati stampati dal "Corriere della Sera", ma da "Critica Sociale". Non sono state inventate da noi "rinnegati" - che in questo caso (è strano ma vero!) difendiamo il socialismo!.- le pagine di Bernstein, di Kautsky, di Eisner, di Troelstra, di Branting e di infiniti altri socialisti, che si sono schierati contro la “caricatura del socialismo realizzatasi tra Pietrogrado e Mosca”. Non siamo noi, ma un dott. Totomianz, veterano della cooperazione russa che nell'ultimo numero della “Critica Sociale” di FilippoTurati, stampa queste parole eloquentissime: "I bolscevichi hanno creato, in fin dei conti, non già una vera democrazia bensì la denominazione della plebaglia, una oclocrazia che non si arresta davanti a nessun mezzo terroristico in una guerra di sterminio contro la borghesia e gli intellettuali." Infinite volte, e specialmente dopo il congresso di Berna, noi abbiamo prodotto documenti inconfutabili della vera natura del regime russo. Chi non ricorda la lettera di Alexeyev e quella della vedova di Plekanoff ? Noi riaffermiamo che il leninismo non ha niente di comune col socialismo, eppure i socialisti ufficiali italiani, con clamori minacciosi, chiamano al soccorso per salvare la Russia. Ma la Russia non ha bisogno di essere salvata, perché non corre pericolo alcuno. Chi sostiene il bolscevismo - ficcatevelo bene in testa, miei cari proletari! - non è la forza del popolo russo che subisce, dopo aver cercato di spezzarlo, quel regime di barbarie contro il quale sono più volte insorti e anarchici e socialisti rivoluzionari, con tentativi soffocati spietatamente nel sangue; chi sostiene il bolscevismo non è il famoso esercito rosso che esiste nelle carte di Trotzky, non nella realtà. Il giornale 'Humanité' del 30 maggio, reca la testimonianza imparziale del signor Paolo Birukoff, il quale, a proposito dell'esercito rosso, in cotal nonché significativa guisa si esprime: "Il popolo russo, così pacifico, detesta la guerra oggi, come ieri, come sempre. Oppone una resistenza accanita al reclutamento." Altro che entusiastica risposta agli ordini di mobilitazione, secondo ci narravano gli imbonitori dei crani proletari d'Italia. Il signor Birukoff dice qualche cosa di ancora più interessante: "Ci sono tanti disertori nell'armata rossa, quanti ce ne erano nell'esercito dello zar. Accade che un reggimento non arriva alla tappa designata perché tutti gli uomini si sono sbandati strada facendo..." Ed è questo esercito di sbandati che ferma Mannerheim e Kolcak? Mai più. Se Pietrogrado non cade, se Denikin segna il passo, gli che è così vogliono i grandi banchieri ebraici di Londra e di New York, legati da vincoli di razza cogli ebrei che a Mosca come a Budapest, si prendono una rivincita contro la razza ariana che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli, In Russia l'80 per cento dei dirigenti dei "Soviets" sono ebrei, a Budapest su 22 commissari del popolo ben 17 sono ebrei. Il bolscevismo non sarebbe, per avventura, la vendetta dell'ebraismo contro il cristianesimo? L'argomento si presta alla meditazione. E' possibile che il bolscevismo affoghi nel sangue di un "progrom" di proporzioni catastrofiche. La finanza mondiale è in mano degli ebrei. Chi possiede le casseforti dei popoli, dirige la loro politica. Dietro ai fantocci di Parigi, sono i Rotschild, i Warnberg, gli Schyff, i Guggheim, i quali hanno lo stesso sangue dei dominatori di Pietrogrado e di Budapest. La razza non tradisce la razza. Cristo ha tradito l'ebraismo, ma, opinava Nietzsche in una pagina meravigliosa di previsioni, per meglio servire l'ebraismo rovesciando la tavole dei valori tradizionali della civiltà elleno-latina. Il bolscevismo é difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa é la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare. Una Russia paralizzata, disorganizzata, affamata, sarà domani il campo dove la borghesia, si, la borghesia o signori proletari, celebrerà la sua spettacolosa cuccagna. I re dell'oro pensano che il bolscevismo deve vivere ancora, per meglio preparare il terreno alla nuova attività del capitalismo. Il capitalismo americano ha già ottenuto in Russia una concessione grandiosa. Ma ci sono ancora miniere, sorgenti, terre, officine che attendono di essere sfruttate dal capitalismo internazionale. Non si salta, specialmente in Russia, questa tappa fatale nella storia umana. E' inutile, assolutamente inutile, che i proletari evoluti ed anche coscienti, si scaldino la testa per difendere la Russia dei Soviets. Il destino del leninismo non dipende dai proletari di Russia o di Francia e meno ancora da quelli d'Italia. Il leninismo vivrà finché lo vorranno i re della finanza; morirà quando decideranno di farlo morire i medesimi re della finanza. Gli eserciti antibolscevichi che di quando in quando sono colpiti da misteriose paralisi, saranno semplicemente travolgenti ad un momento dato che sarà scelto dai re della finanza. Gli ebrei dei Soviets precedono gli ebrei delle banche. La sorte di Pietrogrado non si gioca nelle steppe gelide della Finlandia; ma nelle banche di Londra, di New York e di Tokio. Dire che la borghesia internazionale vuole oggi assassinare il regime dei Soviets è dire una grossa menzogna. Se, domani, la borghesia plutocratica si decidesse a questo assassinio, non incontrerebbe difficoltà di sorta poiché i suoi “complici”, i leninisti, siedono già e lavorano per lei al Kremlino. MUSSOLINI".

Cospirazione ebrea in Russia. Si legge su "Avventismo Profetico" «La realtà del bolscevismo stesso, il fatto che tanti ebrei sono bolscevichi e che l'ideale del bolscevismo concorda su molti punti con il più sublime ideale del giudaismo — di cui una parte almeno forma la base dei migliori insegnamenti del fondatore del Cristianesimo — ha un grande significato. Ogni ebreo cosciente e riflessivo dovrà esaminarlo con molta attenzione». Il mondo ebreo, gennaio 1929

- La Massoneria è un’organizzazione capitalistica o comunistica? Questi due termini per gli agenti del potere occulto non esistono praticamente…Ebrei e massoni formano un tessuto compatto e potente: quindi per i Massoni come per gli Ebrei, capitalismo e comunismo sono mezzi per il potere pag. 153 

 -  Massoneria e Comunismo: due aspetti della stessa medaglia, cioè l’alto ebraismo occulto, 204 

- Raggiungere un governo mondiale sotto la maschera del socialismo, 16 

- 1848: gli ebrei entrarono nell’ arena politica direttamente ed assunsero un ruolo dominante… nei movimenti liberali. La rivoluzione del 1848 finì per identificarsi con l’emancipazione ebraica, 25 

- Con l’Internazionale e la Comune l’ebraismo uscì allo scoperto: gli ebrei … parteciparono potentemente all’ organizzazione del partito socialista, 26 

- La rivoluzione proletaria comunarda risparmiò scrupolosamente le proprietà degli ebrei, 26 

- The American Hebrew, 10/09/1920: “la rivoluzione bolscevica fu… opera del pensiero ebreo, del malcontento ebreo, dei piani ebrei, lo scopo dei quali era di creare un nuovo ordine nel mondo”, 27 

- “Non vi era una sola organizzazione politica (rivoluzionaria) in questo vasto impero che non fosse influenzata da ebrei o diretta da essi…Gli ebrei sono stati gli artefici della rivoluzione del 1917”, 29 

- B.Lazare (ebreo, 1934): “L’ ebreo Karl Marx, discendente da una serie di rabbini e di dottori, fu un talmudista lucido e chiaro … fu un logico, un ribelle, un agitatore, un aspro polemista, che prese il dono del sarcasmo e dell’invettiva dalle sorgenti ebraiche”, 27 

- 1919: notizie di un’organizzazione segreta ebraico-massonico, la Lega dei Fratelli Internazionali, fondata dall’ ebreo tedesco Mordechai, cioè Karl Marx, 150 

- L’ oro ebreo americano forgiò il bolscevismo e consacrò la rivoluzione d’ ottobre alla causa egemonica d’ Israele, 36 

- Chicago Tribune del 19/06/1920: “Trotzkij (ebreo) conduce i rivoluzionari ebrei al potere mondiale – il bolscevismo non è che un mezzo per i suoi fini”, 36 

- (Oggi) il compito del comunismo è terminato (caduto il 1989): lo scopo era quello di preparare la strada ad una socialdemocrazia universale, 37 

- La forza mondialista ebrea si manifesta nella rivoluzione russa: Lenin (sposato ad un’ebrea) e Kerenskj (34), Stalin, Kaganov, Beria, etc (segue lunghissima lista), 145 

- Cronaca di Londra 1919: “moltissimi ebrei sono bolscevichi e gli ideali del bolscevismo coincidono … con gli alti ideali del giudaismo”, 38 

- Il Comunista (aprile 1919): “la rivoluzione russa è stata firmata soltanto da mani ebree”, 38 

- Finanziamenti massonico-giudaici alla rivoluzione d’ ottobre, 33 

- Jakob Schiff, banchiere ebreo-americano, nell’ aprile 1918 ebbe a dichiarare pubblicamente che grazie al suo appoggio finanziario la rivoluzione russa era riuscita. Tratto dal libro di Meurin "LA SINAGOGA DI SATANA" 

Il comunismo mascherato dall'assenza di classi sociali è un piano per schiavizzare le masse sotto il pugno di ferro degli elitari. La sua origine proviene dal Talmud ebraico.  Gli obiettivi comunista diretti dalla volontà dell'élite, è eliminare la classe media per mezzo di assassini (guerre, fame ecc.) la confisca di tutti i loro beni e possedimenti, permettendo così di restare solo due classi - l'élite e gli schiavi! Il comunismo è la falsificazione finale di "umanità". E' il piano della salvezza - - - ma SENZA Dio. Dio ha promesso nella Sua Parola che alla fine regnerà la giustizia, che ci sarà pace nel Suo regno, e che tutte le persone sono uguali. I comunisti, un gruppo dominato dagli ebrei sionisti, affermano che porteranno la pace nel mondo. Ma la loro definizione di "pace" è l'eliminazione di ogni resistenza alle loro politiche, con qualsiasi mezzo necessario. Quando i comunisti si impadronirono del potere in Russia, dopo la sanguinosa guerra civile che durò dal 1917 fino al 1922, crearono immediatamente un'organizzazione Terroristica che utilizzarono contro il popolo della Russia. Primo si chiamò "CHEKA" (1917-1922), sigle in russo che significano Commissione Straordinaria Russa per combattere la Contro Rivoluzione e il Sabotaggio. Di seguito, il nome si cambiò in "GPU", sigla in russo per Amministrazione Politica di Stato. Dal 1922 al 1934 si trasformò in "OGPU", sigla dell'Amministrazione Politica dello Stato Unificata; posteriormente questi si sostituirono dal "lNKVD" - Commissariato del Popolo per Temi Interni - fino al 1960. In quell'anno tornò a cambiare nome, il quale si ricorda bene: "KGB", sigla di Comitato di Sicurezza per lo Stato. Dalla caduta della Germania nazista nel 1945, si è indottrinata la gente in tutto il mondo mediante libri, film e l'insegnamento nelle scuole, sulle orribili condizioni esistenti in Germania durante il regime di Hitler; e della maniera in cui le persone furono brutalmente arrestate, alcuni dopo essere stati torturati, uccisi e altri inviati in campi di lavoro forzato e in quelli di sterminio. Non metto in dubbio che successero cose orribili a molte persone, tra cui la popolazione civile tedesca, il quale soffrì sotto l'oppressione della Germania nazista. Tuttavia, quello che gli "educatori" in Occidente hanno omesso di menzionare in maniera adeguata, sono le atrocità commesse dai governanti comunisti nell'Unione Sovietica; che furono, nella maggioranza dei casi, molto peggiore. Se i Nazisti versarono fiumi di sangue, i macellai comunisti sparsero oceani di sangue. Perché ogni cristiano che vive in Occidente possa comprendere la brutalità della CECA, lasci che la illustri di seguito: Immaginate qualsiasi città degli Stati Uniti (o altrove), circondato da forze armate e tutte le strade completamente disabilitati. Queste forze entrarono nella città, catturando tutti quelli che lavorano per agenzie locali o federali. Senza alcuna prova, condotti nei principali centri commerciali, dove furono uccisi davanti a un pubblico inorridito. Tra queste persone ci sarebbero tutti i funzionari responsabili dell'applicazione della legge, i lavoratori delle poste, gli operatori di servizi sociali, ecc. Dopo l'obiettivo della CECA fu la scuola pubblica. Lì si catturano tutti i migliori insegnanti e studenti, che furono anche tutti fucilati. Poi fu il turno delle chiese, i pastori, diaconi, insegnanti della scuola di Domenica, individuati tutti i responsabili, furono uccisi senza processo. Dopo, tutti i professionisti, come medici, infermieri, ingegneri, direttori di giornali e altri scrittori, uomini d'affari furono catturati e fucilati nei parchi pubblici. Pertanto, tutte le persone considerate di ceto superiore o della classe media (borghesia), furono catturati e fucilati. La città non ebbe più alcun autorità e la Ceca mantenne lì una guarnigione, la quale svuotò le carceri e i prigioni, collocando i detenuti in posti direzionali per assicurarsi che il resto della popolazione avrebbe obbedito ai suoi nuovi dirigenti. Immaginate che questo succeda in tutte le città del paese dove vivete, senza che rimanga salva nemmeno la più piccola città o comunità. La nazione sarebbe come una persona decapitata, giacendo solo il cadavere. Questo è quello che l'Internazionale Comunista fece in Russia. Fu uno dei peggiori genocidi nella storia dell'umanità. Il paese russo, e quello Ucraino, fu violato e assassinato; e quelli che sopravvissero, lo fecero sotto le peggiori condizioni di schiavismo che l'uomo abbia mai visto. Non appena si creò la Ceca nel dicembre del 1917, la leadership comunista pubblicò una lista dei suoi nemici, i quali dovevano essere eliminati, cioè, assassinati. In alto alla lista c’erano i membri della nobiltà russa (anche donne e bambini), uomini d'affari, tutti gli insegnanti, funzionari di polizia, tutte le persone appartenenti al vecchio sistema giudiziario, tutti i membri delle organizzazioni della società civile, funzionari delle Forze armate precedenti, tutti i chierici, includendo sacerdoti ortodossi e pastori e dirigenti cristiani (battisti e pentecostali). I maestri della Scuola di Domenica hanno considerato i comunisti come una minaccia terribile. Furono obiettivi di sterminio anche gli studenti più in primo piano nelle scuole che - secondo loro - sarebbero diventati potenziali leader di una possibile insurrezione anticomunista. Quando l'inferno arrivò e le bande della Ceca irruppero nelle città e villaggi, sequestrarono i bambini e li condussero alla periferia delle città; lì furono brutalmente assassinati e sepolti nella fossa comune - molti erano ancora in vita mentre furono seppelliti. Le Unità della Ceca erano conformate da dirigenti comunisti ed ex detenuti delle prigioni russe, i quali eseguirono i massacri. Man mano che i bolscevichi continuavano a guadagnare più territorio, tutte le prigioni si andavano vuotando. La brutalità del genocidio dei più illuminati del popolo russo, sarà presentato nel giorno del Grande Giudizio, quando si mostrerà tutta la verità e sarà ristabilita la giustizia da parte del RE dei re, Gesù Cristo (Apocalisse 20:10-15). Sono sicuro che la maggioranza di quelli che stanno leggendo questi fatti le sarà difficile comprendere questa brutalità, perché non ha una "mente criminale". Gli spietati dirigenti comunisti avevano però l'obiettivo di schiacciare il popolo russo per sempre e distruggere qualunque tipo di possibile opposizione contro gli invasori comunisti. Quello che non vi hanno insegnato nella scuola, è che la rivoluzione comunista fu un'invasione straniera da parte di una maggioranza di EBREI RUSSI che furono allenati e formati in Germania, Svizzera, Inghilterra e negli Stati Uniti. In questi momenti alcuni tra i lettori possono diventare nervosi e pensare che quello che scriva è antisemita. Quella che racconto loro è la verità, che è stata rimossa da oltre cento anni, nascosta sotto il coperchio della "PAURA". Se si sforzano di comprovare i fatti storici reali, scopriranno che quella che dichiaro è verità. Ora, lasciatemi citare una fonte che non può essere smentita: il pastore rumeno Richard Wurmbrand, che ha sofferto molto per la sua fede sotto il regime comunista in Romania (Wurmbrand è nato ebreo, ma è diventato un cristiano - vedi Giovanni tre). Citerò i seguenti estratti da un suo piccolo libro, dal titolo "Chi era KARL MARX?", pagine 51 e 52: "Per completare il quadro, qualche parola in più su Moisés Hess, l'uomo che convertì Marx ed Engels all'idea socialista. C'è una lapide in Israele iscritta con le parole: "Moisés Hess, fondatore del Partito Tedesco Social-democratico". Nel Catechismo Rosso per il Popolo Tedesco, Hess espone le sue credenze. "Chi è nero"? Nero è il Clero... questi teologi sono i peggiori aristocratici... il chierico insegna i principi per opprimere il popolo nel nome di Dio. In secondo luogo, insegna al popolo a lasciarsi opprimere e sfruttare, nel nome di Dio. In terzo luogo, il più importante, (il clero) provvede per se stesso, con l'aiuto di Dio, una vita meravigliosa sulla terra, mentre consiglia al popolo di aspettare il cielo... "La bandiera rossa simboleggia la rivoluzione permanente fino alla vittoria completa delle classi lavoratrici in tutti i paesi civilizzati: La Repubblica Rossa... la rivoluzione socialista è la mia religione... gli operai, quando abbiano conquistato un paese, devono aiutare i suoi fratelli nel resto del mondo."

Questa era la religione di Hess (Ebreo) quando fece la prima stampa del Catechismo. Nella sua seconda edizione, aggiunse alcuni capitoli. Questa volta la stessa religione, ossia, la rivoluzione socialista, usa un linguaggio cristiano per accreditare se stessa tra i credenti cristiani. Insieme con la propaganda della rivoluzione, si alternano alcune parole circa il cristianesimo come religione di amore e di umanesimo. Il suo messaggio, però, deve essere chiarito: l'inferno non può essere sulla terra e nel cielo, nella vita ultraterrena. La società socialista è la realizzazione vera del cristianesimo. Così, Satana si maschera da angelo di luce.  Dopo che Hess, ebbe convinto Marx ed Engels all'idea socialista, affermando anzitutto che il suo scopo avrebbe "dato il calcio definitivo alla religione medievale" (il suo amico Georg Jung disse più chiaramente: "Sicuramente Marx disperderà Dio dal suo cielo "), un interessante sviluppo ebbe luogo nella vita di Hess, che aveva fondato il socialismo moderno, creò anche un movimento completamente diverso, una specifica forma di sionismo. Hess, il fondatore del socialismo moderno, il cui obiettivo è cacciare Dio dal "cielo", fu anche il fondatore di un tipo diabolico di Sionismo, quello che supponeva andava a distruggere il Sionismo corretto, il Sionismo di amore, di comprensione e di pace. Egli, che insegnerà a Marx l'importanza della lotta di classe, scrisse nel 1862 le sorprendenti parole: "La lotta per la razza è primaria, lo scontro di classe è secondario". Aveva infiammato l'animo della guerra di classe, fuoco mai estinto, invece di insegnare alle genti a cooperare per il bene comune. Questo stesso Hess, dunque, generò un Sionismo distorto, un Sionismo di lotta di razza, un Sionismo imposto per forza contro gli uomini che non siano della razza ebrea. Così come respingiamo il marxismo satanico, ogni ebreo o cristiano responsabile deve respingere questa diabolica perversione del Sionismo. Hess reclama Gerusalemme per gli ebrei, ma senza Gesù il Re degli Ebrei. Che necessità aveva Hess di Gesù? Scrive: "Ogni ebreo può trasformarsi in un Messia, ogni donna ebrea in una Madre Dolorosa". Allora, perché non fece dell'ebreo Marx un Messia, un Unto di Dio, invece di un uomo pieno di odio, tentando di cacciare a Dio dal cielo? Per Hess, Gesù è "un ebreo che i pagani divinizzarono come suo Salvatore". "Né Hess né gli ebrei sembrano avere bisogno di Lui". Pag. 56: Potrebbe aggiungersi che Hess non fu solamente la fonte originale del marxismo, e l'uomo che cercò di creare un Sionismo anti-Dio (Anticristo), ma anche il predecessore dell'attuale teologia del rivoluzionario Concilio Mondiale di Chiese e delle nuove tendenze nel cattolicesimo che parlano di salvazione. "Uno stesso uomo, quasi sconosciuto, è stato il portavoce di tre movimenti satanici: il comunismo, il Sionismo razzista e pieno di odio, e la teologia della rivoluzione”.  Nella pagina 11 di questo libro, il Pastore Wurmbrand cita una parte di un poema scritto da Karl Marx che s’intitola "il Violinista": " I vapori infernali salgono e riempiono la mente. Fino a che impazzisco e il mio cuore è completamente cambiato. Vedi questa spada? Il Principe delle Tenebre me la vendé." Biografia breve di Moisés Hess. Il suo nome completo era Moritz Moisés Hess, nato nel 1812 a Bonn, Germania, in una famiglia ebrea di ricchi industriali. Moisés morì a Parigi nel 1875 e fu sepolto in Israele. Fu cabalista e seguace di Jacob Frank. In "Judisches Lexicón", Berlino, 1928, pagine 1577/78, fu catalogata come un rabbino comunista e il padre del socialismo moderno. Hess lanciò nel 1841 il periodico "Rheinische Zeitung", e un anno più tardi fece capo di redazione a Karl Marx, che allora aveva 24 anni di età. Hess introdusse Marx in un ordine Massonico e lo convertì al socialismo e dopo al comunismo. Nel 1844, Hess presentò Friedrich Engels a Karl Marx. Engels era più giovane di Marx di due anni. Moisés Hess era anche membro degli Illuminati, e nel 1847 introdusse Marx ed Engels in quest’ordine satanico. Il ramo degli Illuminati al quale appartennero si chiamava "LEGA DEI GIUSTI" (più tardi chiamata LEGA DEI COMUNISTI). Quando posteriormente Karl Marx si trasferì a Londra con la sua famiglia, fu supportato, fino al momento della sua morte, da Nathan Rothschild. Se qualcuno avesse profetizzato nell'anno 1850 che il lavoro di questi tre Ebrei tedeschi qualche giorno condurrebbe alla formazione dell'Unione Sovietica e alla propagazione del comunismo che abbracciò oltre alla metà della popolazione mondiale nel suo momento culminante, nessuno lo avrebbe creduto. La stessa cosa si può dire di Maometto, il fondatore dell'Islam, e di tutti gli altri uomini indiavolati che hanno causato tanta morte e dolore nel mondo attraverso i suoi scritti e malvagi complotti. Oggigiorno, i cristiani non possono discernere le malvagità che questa gente demoniaca sta spargendo; malvagità il cui obiettivo è spingere in questi giorni, l'arrivo dell'Anticristo in questo mondo. Hess morì nel 1875; Marx, otto anni più tardi, nel 1883. Engels visse 12 anni più che Marx, morendo nel 1895. Ebbero però discepoli poderosi che si sarebbero convertiti in nomi importanti dopo la rivoluzione bolscevica del 1917. Ventitré anni dopo la morte di Engels, Vladimir Lenin, la cui madre era ebrea, portò dalla Svizzera un gruppo di comunisti di diverse nazionalità. Questo gruppo attraversò Germania, Svezia e Finlandia fino ad arrivare a San Pietroburgo, in Russia. Con Lenin stava sua moglie ebrea Krupsakaya, la quale svolse un ruolo importante nella rivoluzione. Da New York approdò l'ebreo russo Lev Davidovich Trotzky (vero nome Lev Davidovich Bronstein) con 300 ebrei russi - ben allenati - che si prepararono a New York per convertirsi in ufficiali del futuro Esercito Rosso. A questi devono essere aggiunti altri 90.000 giovani ebrei russi che si erano esiliati temporaneamente in Siberia, o che erano fuggiti della Russia rifugiandosi in differenti paesi europei, allenandosi nell'attesa del momento della presa di potere in Russia. In Russia si unirono al giovane Stalin che era sposato con una donna ebrea. Non ho spazio per nominare tutti gli ebrei sotto la leadership di Lenin (vero nome Vladimir Ilic Ulianov) e, dopo, Stalin. Questi, tuttavia, sono i più importanti: Lenin formò una "troica" (= trio), con Zinoview e Kamenev, entrambi ebrei. Nel 1922 il politburo era formato da Lenin, Zinoviev, Kamenev, Trotzky, Bukharin, Tomsky e Stalin. Quando Lenin morì nel 1924, Stalin si servirono di tutti loro fino a che finalmente li assassinò mediante i suoi agenti. In quest’articolo però, voglio concentrarmi nelle operazioni dell'intelligenza comunista. I seguenti uomini e donne - tutti ebrei - furono leader della Ceca nel 1918, anno quando cominciò il terrore: presidente, Félix Dzerzjinskij (Rufin), alias "L'Acciaio Félix". Direttori aggiunti: Jakov Peters, Sjklovskij, Kneifis, Zeistin, Krenberg, María Chaikina, Sachs, Leontevitj, Delafabr, Blumkin, Alexandrovitj, Zitkin, Zahlman, Ryvkin, Reintenberg, Fines, Goldin, Gelperstein, Knigessen, Deibkin, Schillenckus, E. Rozmirovithj, G. Sverdlov, Karlson, Deibol, Zakis, Janson, Sjaumjan, Seizjan, Fogel, Antonov, Jakov Sorenseon. In solo un anno, 320.000 chierici russi furono assassinati da questa "macchina per uccidere". Secondo i registri del KGB, che diventarono pubblici dopo il 1991, questa "macchina per uccidere" della Ceca sterminò 10.180.000 persone tra il 1918 e il 1920. La brutale guerra civile che l'ebreo Lenin scatenò per sottomettere la Russia, causò altri quindici milioni di morti. Durante la fame nera "provocata" dal 1921 al 1922, morirono altri 5.053.000 russi. Durante i quattro primi anni che Lenin stette nel potere, sterminò oltre trenta milioni di russi. Quando Stalin assunse il potere in Russia, Lazar Kaganovitj si convertì nella sua mano destra. Lazar nacque nel 1893, e alla precoce età di 21 anni si laureò nell'Accademia Ebrea Superiore Talmudica; dopo, l'anno seguente, fu nominato "Gran Rabbino" della Russia. Stalin aveva piena fiducia in Kaganovitj, il quale utilizzò la "macchina per uccidere" dell’Intelligenza per continuare ad ammazzare il popolo russo. Fu Kaganovitj quello che portò l'enorme fame nera del 1932-33, essendo le zone più colpite dell'Ucraina e del Caucaso settentrionale. Tutti gli agricoltori autonomi furono obbligati ad abbandonare le loro fattorie; alcuni di essi furono costretti a fare parte dei "kibbutz" che si denominò "kolchos" in russo. Stalin ordinò che la popolazione russa doveva diminuire; con questo poté vantarsi che non c'era disoccupazione nell'Unione Sovietica, che fu presentata agli occhi dell'Occidente come il "Paradiso" dei Lavoratori. Nel 1933, sei milioni di persone, tra uomini, donne e bambini, morirono di fame. Durante la primavera del 1933, ogni giorno morivano circa 25.000 persone in Ucraina. I sovietici provocarono quindici milioni di morti. Stalin incaricò di questo sterminio tre ebrei comunisti; Lazar Kaganovitj, Jakov Jakovlev (Epstein) e G. Kaminskij.Questi tre uomini decisero quanti agricoltori sarebbero rimasti nell'Unione Sovietica, e quanti altri sarebbero morti di fame o sarebbero stati avviati ai Gulag (campi di lavoro forzato). Lo Storico Valentyn Moroz del dell'Institute for Historical Review ha scritto: - "Il villaggio ucraino era stato a lungo riconosciuto come il baluardo delle tradizioni nazionali. I bolscevichi hanno cercato di infliggere un colpo mortale alla struttura del villaggio perché era la spinta vitale dello spirito nazionale ". La situazione fu tanto grave in Ucraina che nel 1934 si generalizzasse il cannibalismo e i bambini orfani furono condotti a centri specializzati, dove furono sacrificati e i suoi corpi spezzati e venduti alla popolazione. È anche importante evidenziare che Lev Trotsky guidò un'unità in Russia tra il 1929-1931, per pignorare le fattorie dei contadini obbligarli a lavorare in fattorie collettive. Affinché i lettori comprendano i danni causati al popolo russo, prestino bene attenzione in queste cifre fornite. Inoltre le bande di assassini comunisti sacrificarono 17,7 milioni di cavalli, 29,8 milioni di teste di bestiame, 10 milioni di vacche lattiere, 14,4 milioni di maiali e 93,9 milioni di pecore e capre. Il risultato di questa distruzione generalizzata dell'agricoltura in Russia e del suo bestiame per carne e latticini, fu che circa 15 milioni di russi morissero di fame. Queste cifre sono state prese dagli archivi ufficiali del KGB, disponibili dopo la caduta dell'Unione Sovietica nel 1991. Mentre scrivo queste linee, la mia anima piange profondamente man mano che immagino la sofferenza e la distruzione di tutta una nazione, e alle persone che persero perfino tutto quello che avevano, le loro vite, nelle mani di "uomini satanici". I Gulag erano campi di lavoro forzato, uguali o ancora peggiori, dei campi dei nazisti. Esisterono circa 3000 campi di lavoro, sparsi da Murmansk, fino all'ovest della Siberia. Secondo Alexander Solzhenitsyn, per il Gulag passarono tra quaranta e cinquanta milioni di persone tra gli anni 1928 e 1953. Nonostante l'antica Unione Sovietica si ruppe nel 1991, ancora esistono i Gulag. In ogni campo c'erano da 2.000 a 10.000 prigionieri. Non tutti i carcerati, purtroppo, arrivarono ai campi. Molte volte i treni si fermavano durante il tragitto, in pieno inverno e si obbligava a tutti i carcerati di scendere. In quel luogo li costringevano a svestirsi e li irrigavano con acqua gelata, mentre le guardie si burlavano, ridendo e gridando: "Vanno in fumo caldo". Come dire che, con questo tipo di trattamento, non potevano sopravvivere. Durante l'anno 1937, il Comitato Centrale Comunista, decise che la popolazione russa doveva essere soppressa ancora di più. Si ordinò al NKVD che sterminasse un numero di 268,950 persone. I dirigenti allora conclusero che il ritmo del massacro era troppo lento; è cosicché la quota di morti s’incrementò a 48.000 persone. Durante gli anni 1937-38 la NKVD fermò a sette milioni di carcerati politici, dei quali la cifra di assassinati arrivava a 40.000 il mese. I detenuti non avevano commesso nessun delitto. Le unità della NKVD circondavano quartieri e villaggi, e dopo, a caso, caricavano gente come bestiame. Col fine di accelerare il massacro, le casse dei camion che trasportano i carcerati erano ermeticamente chiuse, per permettere che fossero ammazzati con il gas. Come vede, il procedimento di morte con il gas era applicato ancora prima che lo usassero i nazisti. Vittime del comunismo giudaico... 

- URSS, 80 milioni di morti; 

- Cina, 65 milioni di morti (oggi non si sa...); 

- Vietnam, 1 milione di morti; 

- Corea del Nord, 2 milioni di morti; 

- Cambogia, 2 milioni di morti; 

- Europa dell'est, 2 milioni di morti; 

- America Latina, 150.000 morti; 

- Africa, 1 milione e 700.000 morti; 

- Afghanistan, 1 milione e 500.000 morti; 

-movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti.

Il totale si avvicina ai 150 milioni di morti.

LA LISTA DELLE VITTIME E' STATA PRESA DA: Libro nero del Comunismo di Stéphane Courtois.

Nel Luglio del 1938, Lavrentii Beria, nato da una famiglia ebrea della Georgia nel 1899, fu nominato capo della NKVD. Beria si trasformò in uno dei peggiori assassini di massa della storia. Inoltre, era molto sadico e con orribili perversioni sessuali. Beria odiava i bambini, ed è per ciò che voleva inviarne il maggiore numero possibile ai campi di lavori forzati. Durante il mese di ottobre del 1940, la NKVD fermò attorno ad un milione di bambini, di età comprese tra i 14 e 17 anni. In città e villaggi, le unità del NKVD sequestravano semplicemente a caso i bambini, facendoli dopo sparire. Nel 1943 sequestrarono ed inviarono ai gulag circa due milioni di bambini. Secondo i registri ufficiali disponibili a Mosca, dopo la caduta del comunismo, circa 20 milioni di russi furono liquidati dai sicari, assassini, di Beria durante la guerra. I soldati e civili russi che erano stati catturati dai tedeschi e, dopo il 1945, obbligati a ritornare in Russia dai soldati nordamericani, furono trattati come nemici e posteriormente fucilati oppure inviati ai campi di lavori forzati. A titolo individuale, Beria utilizzò il suo potere affinché le sue pattuglie sequestrassero ragazze giovani e li conducessero ai suoi quartieri, dove li violava. Dopo che Beria soddisfaceva le sue perversioni sessuali, li assassinava. Ufficialmente Stalin si vantava dicendo che "Beria è per me ciò che Heinrich Himmler era per Adolf Hitler." Nel 1949, Stalin era irritato con la maggioranza degli ebrei con posizioni di leadership nell' Unione Sovietica. I leader ebrei avevano partecipato attivamente alla formazione dello stato d'Israele, canalizzando armi ed ebrei verso la Palestina. In un dibattito all'ONU nel 1948, furono congiuntamente l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti che, contro i britannici ed i francesi, forzarono la votazione affinché gli ebrei avessero un stato proprio: Israele. Stalin utilizzò il suo potere per ordinare la detenzione e l'esecuzione di centinaia di eminenti ebrei russi (una guerra tra ebrei). I leader comunisti ebrei avevano sufficienza forza per deporre a Stalin del suo carico di Segretario Generale del Partito comunista nel 1952. Stalin rispose fermando ad un gruppo di medici ebrei, tacciandoli di assassinare ai comunisti. Di seguito, attaccò tutti gli ebrei del politburo, come a tutti i membri che avevano mogli ebree, arrestandoli. Beria agì, ed i suoi agenti modificarono la medicazione di Stalin; e il 1° marzo del 1953, Stalin ricevé una dose letale di veleno che lo provocò un attacco cardiaco. Stalin perse la parola e tre giorni più tardi morì. Allora successe qualcosa di strano. Beria si trasformò nel capo dell'Unione Sovietica; ed il 23 marzo di 1953, ordinò che circa un milione di carcerati politici, rinchiusi nel GULAG, fossero messi in libertà. Il 27 maggio di 1953, suggerì che i sovietici abbandonassero la Germania Orientale e che la Germania potesse unificarsi. Volle anche consegnare i paesi baltici all'Occidente e ristabilire le autorità locali nell'Unione Sovietica. Allo stesso tempo, Beria cominciò a presentare relazioni pubbliche sui terribili assassini di massa ordinati da Stalin ed a rivelare la verità sul "culto di Stalin."  Allora, Bulganin, Malenkov e Kruschev, attraverso un colpo di Stato, assunsero il potere nell'Unione Sovietica e fermarono a Beria e sei dei suoi più vicini collaboratori. Si celebrò un finto processo nel dicembre del 1953, nel quale furono condannati a morte e fucilati. La persona più influente di Krusciov era Lazar Kaganovitj, ma pochi anni dopo fu cacciato dal potere e mandato in esilio negli Urali. Nel 1964 Krusciov fu costretto a ritirarsi. Questo ebreo russo simbolizza tutta la malvagità che l'uomo può arrivare ad essere. Suona ironico che, il 31 maggio del 1962, l'ufficiale nazi tedesco Adolf Eichmann sia stato eseguito nella forca di una prigione israeliana, dopo che lo si trovasse rifugiato in Argentina, passata la Seconda Guerra Mondiale. Agenti del Mossad israeliano andarono in Argentina; lì lo sequestrarono, lo tirarono fuori clandestinamente dal paese e lo portarono in Israele per giudicarlo per gli assassini in massa di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Eichmann ammise che era stato solo un amministratore del piano per la detenzione degli ebrei in Germania e nei paesi occupati dai tedeschi; e di inviarli a campi di lavoro dove la maggioranza di essi morì, ossia per malattia, per fame, per il duro lavoro, o semplicemente assassinati in seguito cremati. Eichmann si difese aggiungendo che eseguiva solo ordini, che era solo un ingranaggio nella catena di comando; che egli non era personalmente responsabile. Legittimamente, fu dichiarato colpevole dei crimini contro l'umanità fu impiccato e morì. Però, perché i dirigenti di differenti paesi non hanno elevato il grido verso il cielo contro Iván Serov; e, in particolare, perché la comunità ebrea non parla degli orrendi crimini di Serov? Qui espongo brevemente quello che questo uomo fece mentre viveva: all'età di 17 anni, Iván volle essere ufficiale dell'Esercito Rosso; ma dato che era basso - misurava solo 1,60 metri - entrò nelle Forze Sovietiche dell'Interno, dove realizzò funzioni di intelligenza. Siccome era astuto, divenne direttore della polizia segreta in Ucraina, sotto il comando diretto di Nikita Kruschev che a quei tempi era il segretario del partito Comunista in Ucraina. Iván Serov fu l'addetto della detenzione, deportazione ed assassinio di contadini ucraini durante i terribili anni di fame nera. Quando Stalin intervenne nella guerra civile spagnola (1936-1939), inviò a Serov per lavori di spionaggio e sterminio. Lavorò congiuntamente con individui che arrivarono ad essere comunisti famosi: Goumulka in Polonia e Tito in Yugoslavia. Nel 1939, quando congiuntamente Germania e l'Unione Sovietica attaccarono la Polonia, Serov fu inviato per occuparsi delle deportazioni e le esecuzioni. Serov si cambiò temporaneamente il nome con quello di "Generale Malinov". Un milione e mezzo di cittadini polacchi furono assassinati o deportati. Ci furono assassini di massa nel bosco di Katyn, nella periferia della città di Minsk; lì, 4,000 ufficiali polacchi furono assassinati e sepolti in fosse comuni. L'obiettivo era distruggere l'esercito polacco. Questo assassinio massiccio fu attribuito ai Nazisti, ma finalmente la verità uscì alla luce e si conobbe che fu opera della NKVD. Nel 1940, quando i paesi baltici furono occupati dall'esercito sovietico, Serov fu l'addetto della deportazione e l'esecuzione di un milione di persone in quei paesi. Nel suo infame ordine (001223) che è stato declassificato degli archivi di Mosca, scrisse le seguenti direttive: "Tutte le detenzioni devono farsi all'alba. La famiglia deve essere riunita in una sola stanza, vestita e con la cosa più elementare in quanto a bagaglio. Nella stazione di ferrovia devono separare gli uomini dalle sue mogli che non si vedranno mai più, spiegando loro che sarà fatto una visita medica in luoghi diversi. Tutti i treni devono essere fortemente custoditi. Dopo avere "tolto di mezzo a questi cittadini baltici", Serov fu premiato dietro l'ordine di Lenin. Durante il collasso della Germania, Serov fu inviato di nuovo in Polonia, dove, mediante inganno, potè "registrare" a 200.000 dei combattenti che lottarono per la libertà contro i tedeschi. Posteriormente furono fucilati o deportati nei Gulag. Sedici membri del governo polacco esiliato a Londra che volarono a Varsavia, furono arrestati e mandati a Mosca, e non furono mai più visti. Serov fu quindi inviato al Caucaso e in Crimea, dove schiacciò le rivolte e diresse più deportazioni e uccisioni. Successivamente, fu assegnato a Berlino Est, dove il suo dipartimento lavorò sul rapimento di scienziati tedeschi, congiuntamente con gli arresti di persone regolari da inviare al Gulag. Dopo la morte di Stalin, la cupola utilizzò a Serov per uccidere Beria ed i suoi collaboratori. A quei tempi, tutti i rami di intelligenza sovietica, eccetto il GRU, si fusero in una sola. Il suo primo direttore fu Serov. Circa 64.000 agenti dell'anteriore NKVD di Beria furono assassinati o deportati. Iván Serov Alexandrovitj fu il perfetto burocrate, senza nessun scrupolo in favore del carattere sacro della vita umana. L'unica ragione per la quale non è stato mai giudicato, fu perché ancora il regime al quale servì stava al potere e lo protesse. Dall'Europa no al reato di negazionismo per i crimini commessi dallo stalinismo. La Commissione Europea ha respinto una richiesta avanzata dai governi di Lituania, Lettonia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Repubblica Ceca di proibire e perseguire in tutto il territorio dell'Unione la negazione dei crimini staliniani esattamente come avviene con la Shoah. Il problema è trovare un accordo sulle orrende violenze che hanno insanguinato l'Europa orientale sotto il comunismo. La Russia si oppone all'equiparazione tra i massacri staliniani e quelli hitleriani e anche gli storici sono divisi. Un punto cruciale è la stessa definizione di genocidio, che comprende i tentativi di eliminare gruppi etnici o religiosi, ma non classi sociali. Fu già l'Urss di Stalin, nel 1948, ad opporsi all'introduzione di questa categoria in sede ONU. Bruxelles non è quindi riuscita a trovare un accordo nemmeno sulla natura delle deportazioni nei GULag. Dall'articolo "L’AMERICA VINTA", della D.ssa Lasha Darkmoon si legge tra l'altro: "L’orgia di morte, tortura e saccheggio che seguì il trionfo ebraico in Russia (dopo la Rivoluzione Bolscevica del 1917) non fu mai uguagliata nella storia del mondo. Gli Ebrei erano liberi di praticare le loro più fervide fantasie di omicidio di massa su vittime indifese. I cattolici furono trascinati giù dai loro letti, torturati e uccisi. Alcuni furono addirittura fatti a pezzi, un po’ alla volta, mentre altri furono marcati con ferri roventi, strappati gli occhi con dolori difficilmente immaginabili. Altri furono messi dentro a delle casse, all’interno delle quali venivano introdotti ratti affamati che si accanivano sui corpi. Alcuni furono inchiodati al soffitto per le mani o per i piedi e lasciati a penzoloni fintanto che sopraggiungeva la morte per sfinimento. Altri furono incatenati al pavimento e versato loro in bocca piombo bollente. Molti furono legati a dei cavalli e trascinati per le strade della città mentre la folla si accaniva su di loro con sassi e pedate fino alla morte. Le madri venivano portate nella pubblica piazza dove venivano strappati dalle braccia i loro bambini, i quali venivano buttai in aria per poi essere infilzati al volo sulla punta della baionetta. Le donne cattoliche gravide venivano incatenate agli alberi e i bambini strappati dal ventre materno. “Non dobbiamo mai dimenticare cosa successe quando gli ebrei erano una élite nemica nell’Unione Sovietica,” fa notare tristemente il Prof. Kevin MacDonald. “Il disgusto e il disprezzo per la gente tradizionale e la cultura della Russia fu un importante fattore nell’accanita partecipazione ebraica nei più grandi crimini del 20° secolo.” MacDonald si riferisce al genocidio sistematico di oltre 50 milioni di russi sotto il dominio di Lenin e Stalin: un periodo di assassinii di massa che attraversò ben 36 anni (1917-1953). La nuova elite americana, come ho evidenziato nella prima parte di questo articolo (L’America come Colonia Israeliana), è un elite ebraica. Esattamente come l’elite della Russia bolscevica e dell’Unione Sovietica stalinista. Ed è in sostanza un elite ostile che “detesta la nazione che governa.” Dobbiamo quindi stare in guardia. 

Putin al Museo Ebraico di Mosca: “Il primo governo sovietico era perlopiù composto da ebrei guidati da false ideologie.

Putin: il primo governo sovietico era perlopiù composto da ebrei. Parlando al Museo Ebraico di Mosca, il presidente russo ha affermato che tali politici sono stati guidati da false ideologie.

Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che almeno l’80 per cento dei membri del primo governo sovietico erano ebrei.

“Ho pensato a qualcosa solo ora: la decisione di nazionalizzare questa biblioteca è stata fatta dal primo governo sovietico, la cui composizione era perlopiù ebrea per l’80-85 per cento”, ha detto Putin lo scorso 13 giugno nel corso di una visita al Museo Ebraico e al Centro di Tolleranza di Mosca.

Putin si è riferito alla biblioteca del rabbino Joseph I. Schneerson, l’ultimo leader del movimento Chabad-Lubavitch. I libri, che vengono rivendicati dai rappresentanti Chabad negli Stati Uniti, sono stati spostati al museo di Mosca da questo mese.

Secondo la trascrizione ufficiale del discorso al museo, Putin ha continuato dicendo che i politici del primo governo sovietico a prevalenza ebraica “sono stati guidati da false considerazioni ideologiche ed hanno sostenuto l’arresto e la repressione di ebrei, cristiani ortodossi russi, musulmani e membri di altre fedi. Tutti sono stati raggruppati nella stessa categoria.

“Fortunatamente, tali visioni e percezioni ideologiche sono crollate. Ed oggi, stiamo essenzialmente restituendo questi libri alla comunità ebraica con un sorriso felice. “Ampiamente considerato come il primo governo sovietico, il Consiglio dei Commissari del Popolo è stata costituito nel 1917 ed era composto da 16 leader, tra cui il presidente Vladimir Lenin, il capo degli affari esteri Leon Trotsky e Stalin, che era a capo del Commissariato del Popolo delle nazionalità.

Il comunismo, mascherato dall'abolizione delle classi, è un piano per schiavizzare le masse sotto il pugno di ferro dell'élite ebrea. La sua origine è proprio uscita dal Talmud ebraico, e in sostanza tutti i leader importanti della rivoluzione bolscevica comunista erano ebrei, reclutati e finanziati dai banchieri sionisti ebrei di Wall Street a svolgere un ruolo fondamentale nella rivoluzione russa. Karl Marx era un Ebreo. Vladimir Lenin (vero nome Vladimir Ilic Ulianov) era un Ebreo, così come circa l'80% di tutti i leader della rivoluzione bolscevica. «Sulla spada e il fuoco trionfò il giudaismo con il nostro fratello Carlo Marx, l'ebreo che ha il compito di realizzare quanto hanno ordinato i nostri Profeti, elaborando il piano conveniente per mezzo delle rivendicazioni del proletariato». Chi scrisse queste frasi? Un ebreo, naturalmente. Queste frasi possono, infatti, essere lette nel giornale ebreo Haijut di Varsavia, del 3 agosto 1928. Ciò che i bolscevichi, ebrei nella maggior parte, fanno oggi in Russia contro il Cristianesimo, non è che una nuova edizione di quanto fecero i massoni durante la rivoluzione francese. Gli esecutori sono diversi, ma la dottrina che li muove e li autorizza, nonché la suprema direzione e guida, sono sempre le stesse». Cardinale José Maria Caro, E., Arcivescovo di Santiago, Primate del Cile. El Misterio de la masoneria. Diffusione Editoriale, pag. 258

"Non sussiste ormai alcun dubbio sul fatti che gli ideatori del comunismo furono gli ebrei. Essi, infatti, sono stati non solo gli inventori, ma anche gli autori della dottrina su cui poggia quel mostruoso sistema che tiene aggiogato con potere assoluto la maggior parte dell'Europa e dell'Asia, che sconvolge le nazioni americane e si diffonde progressivamente in tutti i popoli, anche cristiani, del mondo. Il comunismo agisce come un cancro letale, si spande come un tumore maligno nelle pieghe più recondite delle nazioni libere. E sembra purtroppo che non esista un rimedio contro tanto male. Non solo, ma risulta altrettanto chiaro che sono gli ebrei gli inventori ed i dirigenti della pratica comunista, della sua efficiente tattica di combattimento, della sua insensibile e spietata politica inumana messa in atto, nonché della sua aggressiva strategia internazionale". Tratto da "Complotto contro la chiesa".

Il mondo crede che gli EBREI hanno il monopolio sul "Ricordo dell’Olocausto." Ma il presidente ucraino Viktor Yushchenko ha gettato gli ebrei una curva dedicando il 2008 come "Anno della Memoria Ucraina dell'Olocausto". Questo "ricordo dell'olocausto", ricorda l'omicidio per fame forzata di 6 milioni di cristiani ucraini, uccisi dai bolscevichi ebrei. Gli ucraini chiamano questo olocausto "Holodomor" che significa "carestia-genocidio." Naturalmente gli ebrei sionisti lo negano. Proprio come negano tutti i loro numerosi crimini contro l'umanità. Lo storico Valentyn Moroz dell'Institute for Historical Review ha scritto: "Il villaggio ucraino era stato a lungo riconosciuto come il baluardo delle tradizioni nazionali. I bolscevichi hanno cercato di infliggere un colpo mortale alla struttura del villaggio perché era la primavera dello spirito vitale nazionale ".

Massoneria e Fascismo. Mussolini e la massoneria. Stemma della Repubblica Sociale Italiana. Rito Simbolico Italiano, scrive Stefania Nicoletti. Il rapporto fra fascismo e massoneria è a dir poco ambiguo e, al di là dei proclami propagandistici di Mussolini, fu tutt’altro che conflittuale, a cominciare dal finanziamento offerto da alcune logge milanesi alle squadre fasciste che si apprestavano a marciare su Roma. Il programma del movimento, per la parte sociale, si poneva il piano della massonica “democrazia del lavoro” e fu elaborato dal “fratello” Alceste De Ambris. Impossibile elencare qui tutti i fascisti massoni: sono davvero troppi, anche tra gli stessi fondatori dei Fasci di Combattimento nel 1919. Tra i più noti: Italo Balbo, Dino Grandi, Roberto Farinacci, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Giacomo Acerbo, Achille Starace. E Licio Gelli, la cui ascesa iniziò proprio in seno al regime fascista. Nel dopoguerra, nel carcere romano di Regina Cœli, il futuro fondatore della Loggia P2, che mai rinnegò il suo profondo credo fascista, condivise la cella e strinse amicizia con il principe Junio Valerio Borghese, l’autore del futuro tentato golpe del ’70. La Massoneria di Piazza del Gesù (Gran Loggia Nazionale d’Italia, di rito scozzese, separatasi dal Grande Oriente nel 1908), guidata in quegli anni da Raoul Vittorio Palermi, appoggiò l’ascesa del fascismo. Ma anche l’allora Gran Maestro del GOI Domizio Torrigiani augurò il successo al governo di Mussolini dopo la Marcia su Roma. In seguito, Palermi continuò ad appoggiare il fascismo, arrivando a conferire a Mussolini la sciarpa e il brevetto di 33esimo grado. Palermi figurò anche tra gli informatori dell’OVRA[vi], la polizia politica fascista. Torrigiani invece se ne discostò, pur continuando a mantenere presenze massoniche del GOI nei gangli finanziari dello Stato (emblematico il caso del massone Beneduce a capo dell’IRI). Se è vero ciò che diceva Antonio Gramsci, che la Massoneria fu il vero e autentico partito della borghesia italiana, non si fa fatica a capire come mai appoggiò l’ascesa al potere del fascismo. Il movimento di Mussolini, infatti, si presentava sia come anticapitalista (pur ricevendo finanziamenti dai più grandi gruppi industriali e bancari esteri, soprattutto francesi, inglesi e americani; ma, si sa, pecunia non olet), sia come antibolscevico, anticomunista e antiproletario. Mussolini, nei suoi discorsi demagogici, attaccava sia i grandi industriali sia i proletari. Si presentava quindi come il difensore della piccola e media borghesia, che fu infatti il maggiore sostenitore del fascismo, vedendo in pericolo i propri interessi economici dopo l’occupazione delle fabbriche nel cosiddetto “biennio rosso”. Si unirono così gli industriali del Nord e i latifondisti del Sud, che minacciati dalle lotte degli operai e dei braccianti, trovarono nel fascismo un naturale alleato. Nel blocco confluirono elementi dell’esercito e della burocrazia: quindi una parte non indifferente della base massonica italiana. Nel febbraio del 1923, Mussolini dette però il via a una campagna antimassonica, impartendo agli iscritti del Partito Fascista la direttiva di sciogliere ogni vincolo con le logge. Nel 1925 presentò una legge contro le associazioni segrete, la cosiddetta “Legge contro la massoneria”, che in realtà non cita mai esplicitamente la massoneria, ma parla solo di “associazioni segrete ed operanti anche solo in parte in modo clandestino od occulto e i cui soci sono comunque vincolati da segreto”. Infatti Antonio Gramsci, che in quell’occasione tenne il suo unico discorso alla Camera, ebbe a dire: «La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso. […] Poiché la massoneria passerà in massa al Partito Fascista e ne costituirà una tendenza.» Nel discorso alla Camera del 16 maggio 1925, Mussolini affermava che la società italiana era dominata da un manipolo di uomini mediocri, divenuti potenti solo perché massoni[x]. Ma in un’intervista tessé le lodi della massoneria tedesca, inglese e americana. Tre giorni dopo la legge fu approvata dalla Camera, con 289 sì e solo 4 no. Fra gli assenti al voto, i massoni Aldo Finzi e Dino Grandi. Lo stesso Dino Grandi che il 25 luglio 1943, spinto dai massoni americani (che ebbero un ruolo fondamentale nello sbarco degli Alleati in Sicilia), orchestrò la caduta di Mussolini presentando l’ordine del giorno che lo sfiduciò. E, a proposito di Gran Consiglio del Fascismo, c’è da sottolineare che i quattro quinti del Gran Consiglio che dichiarò fuori legge la massoneria erano formati da massoni. Mussolini sembrava irriducibile nei confronti della libera muratoria: era uno dei pochi socialisti a non aver indossato il grembiulino. Tuttavia affidava i destini finanziari e industriali del Paese a figure come Alberto Beneduce (suocero di Enrico Cuccia), socialista e massone, che il Duce scelse per creare l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, e in seguito per riorganizzare la Banca d’Italia. Dopo la legge del ’25, oltre ai massoni apertamente antifascisti, ci fu anche chi scelse la via della moderazione e del tiepidismo, rinunciando a esprimere qualsiasi forma di dissenso: così facendo, alcuni massoni continuarono a godere nella società italiana di posizioni anche altamente prestigiose. Questo è il caso, per esempio, oltre che del già citato Beneduce, anche del favorito di Giovanni Agnelli: Vittorio Valletta, direttore generale e amministratore delegato della Fiat dal 1929 al 1946, quando ne divenne presidente. Ma se il Duce, almeno a parole e negli atti pubblici e ufficiali, si scagliava contro la massoneria, non fu così duro nei confronti dei Rosa Croce. Una figura chiave nei rapporti tra Rosa Croce e Mussolini fu Giuseppe Cambareri. Teosofo, rosacruciano ed esoterista, si presentò quale antimassone, giacché i massoni erano ormai troppo invischiati nella politica e quindi contro-iniziati. Fu lui a proporre a Mussolini di utilizzare la “Fraternitas Rosicruciana Antiqua” quale strumento per attenuare l’isolamento dell’Italia, o quantomeno aggirare l’ostacolo delle sanzioni economiche deliberate dalla massonica Società delle Nazioni dopo l’aggressione italiana all’Etiopia. L’Italia era accusata di aver bombardato obiettivi civili, di aver fatto uso di gas asfissianti e di aver colpito bersagli protetti dalla (massonica) Croce Rossa. Il tentativo andò avanti per alcuni anni, almeno fino al 1938. Il 5 marzo 1937 Mussolini ricevette a Palazzo Venezia 120 rosacroce statunitensi dell’AMORC di Harvey Spencer Lewis. Attraverso la mediazione e l’attivismo di Cambareri molti antichi massoni tornarono a ronzare attorno ai poteri forti. Un percorso culminato nella massonica Conferenza di Monaco. Uno sguardo all’estero: il regime fascista di Mussolini fu sostenuto dagli anglo-americani fino a quando l’Italia entrò in guerra a fianco di Hitler (anch’egli finanziato da capitali esteri). Essere sostenuto dagli anglo-americani significa sostanzialmente essere sostenuto dalla massoneria anglo-americana, che è il vero governo-ombra. Solo per fare alcuni esempi: si sa già tutto sull’ “intensa simpatia” che il massone Winston Churchill nutriva nei confronti di Mussolini. Inoltre l’ambasciatore americano in Italia, William Philips, disse che Mussolini aveva “portato ordine dove c’era il caos”. Frase non casuale, dato che ricalca il motto massonico “ordo ab chao” (=“ordine dal caos”). Infine, i simboli. Fondamentali per capire sia la massoneria che il fascismo. Solo per fare un esempio, il sigillo del Rito Simbolico Italiano (formatosi ufficialmente a Milano nel 1876), oltre a contenere i soliti simboli massonici (stella, squadra, compasso), è costituito da un aquila che sovrasta un fascio littorio. Molto simile allo stemma della Repubblica Romana del 1848-49, e identico all’aquila con il fascio littorio che si trova al centro della bandiera della Repubblica Sociale Italiana, lo Stato fantoccio creato dai nazisti e da Mussolini a Salò, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Un caso? Tra l’altro: “Rito Simbolico Italiano” =RSI. “Repubblica Sociale Italiana” =RSI. Ma questa sarà sicuramente una coincidenza…

Massoneria e Nazismo. Gli Stati Uniti d'America ed il Regno Unito, come è noto, a Norimberga, nel principale dei processi ai criminali dirigenti del nazismo, assunsero una posizione diversa da quella della Francia e dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Questi due paesi infatti rivendicavano che il processo fosse esteso ai protettori e finanziatori del nazismo, ai grandi banchieri ed industriali del nazismo, mentre la scelta dei giudici rimase legata alla volontà degli anglosassoni di condannare solo i diretti responsabili. Nel principale processo di Norimberga, ricordiamo, si ebbero 12 esecuzioni di altrettante condanne a morte.

Le origini occulte ed esoteriche del nazismo, scrive Pierluigi Tombetti. Il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi ha la sua origine in una delle tante associazioni, o bund, in cui il popolo tedesco tendeva naturalmente a riunirsi: questa si chiamava “Germanenorden” (Ordine dei Germani) e vide la luce il 12 marzo 1912 incorporando l’Hammer–Gemeinden (Lega del Martello) ed altri gruppi antisemiti. Il Germanenorden (GO) convocò nel maggio 1914 a congresso tutte le associazioni nazionaliste germaniche con lo scopo di creare una loggia antisemita segreta da contrapporre all’internazionale ebraica: in agosto i membri del “GO” erano già migliaia con oltre cento logge in cui le idee di List e Lanz von Liebenfels erano discusse ed apprezzate dai membri per il loro antisemitismo e per l’enfasi posta sulla ricerca dell’antica sapienza aria. Sarà nel 1916 che il GO acquisterà il suo elemento di spicco, Rudolf von Sebottendorff: giovane inquieto ed avventuroso, dopo essersi iscritto al politecnico di Berlino si imbarca e viaggia in tutto il mondo. Si ferma al Cairo dove si avvicina al misticismo e all’insegnamento iniziatico dei dervisci Mevlevi (cfr HERA n°31 pag.48). Da queste prime esperienze trae il nucleo dell’insegnamento iniziatico che perfeziona negli anni successivi a Costantinopoli dove rimane al servizio di Hussein Pasha come sovrintendente delle proprietà. Qui Sebottendorff frequenta la famiglia degli ebrei Termudi, ricchi studiosi della Qabbala e proprietari di una vasta biblioteca di testi alchemici e rosacrociani; entra a far parte della loro loggia del rito di Memphis ed elabora un sistema di meditazione e respirazione forzata con tecniche di posizionamento delle mani e del corpo che descriverà in “Die Praxis der alten Turkischen Freimaurerei” (1924). Questa sua attività spirituale si nutre anche della sapienza egizia poiché nel 1900 aveva visitato la piramide di Cheope a Giza, studiandone il significato cosmologico e numerologico, avvicinandosi così alla gnosi occulta delle teocrazie egiziane. Poco a poco Sebottendorff si convince che rune e misticismo islamico hanno un’origine comune e su questa idea continua i suoi studi elaborando una sorta di yoga sillabico, in cui dopo aver assunto speciali posture ed attuato una respirazione canalizzata e controllata, si ripetono alcune sillabe mistiche. Il suo sistema si propone di accumulare il più possibile la forza cosmica all’interno del corpo umano e indirizzarla in punti desiderati così da gustare sapori ed odori sottili fino alla percezione dell’ “ombra nera” che segna l’inizio di una nuova vita spirituale ed il discepolo riceve il nome di Loggia. Il passo successivo porta a gradi superiori di meditazione, fino alla visualizzazione interiore dei colori, qualcosa di simile agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che fu uno dei direttori spirituali a cui Heinrich Himmler attinse per le meditazioni SS a Wewelsburg. Le tecniche di Sebottendorff avevano come scopo il miglioramento dell’individuo fino a farlo divenire un essere spirituale completo secondo l’insegnamento della massoneria turca. Una sorta di Pranayama massonico. Sebottendorff tornerà in Germania nel 1913 e si affilierà al “Germanenorden”, diventando il responsabile della sezione bavarese. Con lui troviamo il giovane Walter Nauhaus, studioso di tradizioni esoteriche e cultura nordica ed altri esponenti di quella cultura germanica che mescola esoterismo e ricerca storica sulla scia di Guido von List che ricercano nella cultura ariana una superiore saggezza da contrapporre al potere ebraico in Germania. Se anche il GO era senza dubbio una loggia con intenti antisemiti e politici, non possiamo non riconoscere che un uomo dell’esperienza di Sebottendorff, con una fortissima base esoterica e sapienziale avrebbe apportato nuova linfa spirituale alla loggia bavarese. Le direttive della loggia erano chiare:

1) sarebbe entrato a farne parte solo chi poteva dimostrare la purezza del sangue fino alla terza generazione;

2) Si sarebbe compiuta un’opera di propaganda razziale con dimostrazione scientifica della decadenza dovuta a mescolanza con razze inferiori.

Per ribadire il carattere religioso e massonico dell’ordine, esaminiamo brevemente il rituale di iniziazione dell’ordine. La serata di iniziazione era un evento da frac e ogni nuovo fratello si sarebbe dovuto sottoporre ai controlli frenologici tramite il plastometro, uno strumento inventato da un frenologo di Berlino che prendeva le misure del cranio per verificare l’appartenenza alla pura razza ariana. Mentre i novizi attendevano nella sala attigua, nella sala della Loggia prendevano posto il Maestro sul suo scranno con baldacchino, protetto simbolicamente da due cavalieri in tunica bianca e con elmo adorno di corna. Di fronte sedevano il tesoriere e il segretario mentre l’araldo prendeva posto al centro della stanza. Dalla parte opposta al Maestro, nella zona denominata “Bosco del Graal” era seduto il Bardo e davanti a lui il Maestro di cerimonie in abito blu. Intorno sedevano i fratelli mentre un armonium e un pianoforte suonavano accompagnando un piccolo coro di “elfi della foresta”. Si cominciava con il Tannhaeuser di Wagner. A luce di candela i fratelli si facevano il segno della swastika levogira ed il maestro rispondeva allo stesso modo. I novizi venivano introdotti bendati mentre il Maestro spiegava loro la visione del mondo ario–germanica dell’Ordine e si accendeva la “sacra fiamma del bosco”. Il Maestro brandiva la lancia di Wotan e i due cavalieri incrociavano le spade sopra di essa; aveva luogo poi una serie di chiamate e risposte accompagnata dal Lohengrin e i novizi prestavano giuramento. Seguivano altri rituali in cui venivano personificate figure divine del pantheon germanico creando così un’atmosfera vicina sia al misticismo ariosofico che al rituale massonico. In “Prima che Hitler venisse”, Sebottendorff afferma che le opere di Guido von List e Lanz von Liebenfels “erano un pregevole patrimonio di dati non certo trascurabili, nonostante la mistica oltranzista” e dichiara che Philipp Stauff, noto per le sue ricerche sulle case runiche, riunì nella Associazione dei seguaci di List i simpatizzanti di quest’ultimo. La loggia berlinese della Società Guido von List si scisse e nel 1912 Stauff e i suoi collaboratori entrarono a far parte del Germanenorden. Abbiamo quindi tutti i motivi per affermare che il GO aveva al suo interno elementi guida (Stauff, Nauhaus, Sebottendorff, e altri) che approvavano e praticavano gli insegnamenti di Guido von List e Lanz von Liebenfels. Se aggiungiamo a questo gli esercizi di yoga massonico e la preparazione iniziatica di Sebottendorff che avrebbe influenzato poco a poco gli insegnamenti della loggia bavarese, dobbiamo ammettere che il GO era intriso di una sapienza esoterica che si esprimeva essotericamente con discorsi pubblici nazionalisti ed antisemiti, e attraverso l’organo ufficiale della loggia, “Runen”, (il primo numero uscì nel gennaio 1918) diretto da Sebottendorff che ne era il principale finanziatore. Tra l’altro le cerimonie importanti venivano svolte durante i giorni dei solstizi, come era costume tra gli antichi germani. Lo stemma della società includeva una swastika, secondo gli insegnamenti solari degli ariosofi che i membri sfoggiavano su una spilla. Gli aderenti al GO inoltre portavano un anello con rune con intento apotropaico: lo stesso anello (ideato da Weisthor, il consigliere – mago del Reichsfuehrer SS) che troveremo tra gli ufficiali superiori SS con rune e teschio all’esterno e la firma di Himmler all’interno. Sebotendorff era anche uno studioso di astrologia e preparava ponderosi oroscopi allo scopo di evidenziare il futuro del GO e della Germania. Il 18 agosto 1918 la loggia bavarese del “GO” cambia ufficialmente nome in Thule come copertura per le attività politiche. Thule Bund significa ritorno alla mitica età dell’oro nella zona di origine della civiltà aria. Le cerimonie di iniziazione richiamano alla mitica patria nordica e collegano il rituale massonico ad una religione wotanica solare evidente nei simboli swastika e nell’immagine di Odino sui fogli ufficiali della Loggia. Fra gli ospiti della Thule troviamo personaggi che avrebbero rivestito ruoli chiave nel partito nazista come Alfred Rosenberg, articolista del “Muenchener Beobachter” (il giornale della Thule che si sarebbe trasformato in “Voelkischer Beobachter”, il quotidiano del partito nazionalsocialista) il futuro ministro della cultura, Dietrich Eckart, il maestro spirituale di Hitler e Karl Hausofer Membri invece ne furono Rudolf Hess, occultista e studioso di esoterismo, grande amico di Hitler e Hans Frank, futuro governatore di Polonia. Ma come si giunge dalla Thule al partito nazista? Dopo il primo conflitto mondiale, Hitler, che aveva combattuto in trincea, tornò a Monaco dove lavorò come spia per la polizia locale che voleva raccogliere informazioni sui vari gruppi operanti in città. Nel settembre 1919 egli frequentò una riunione del “Deutsche Arbeiterpartei” (DAP – Partito dei Lavoratori Tedeschi) fondato all’interno del gruppo Thule il 5 gennaio 1919 dal fabbro Anton Drexler in una birreria di Monaco. Hitler rimase colpito dalle idee del nuovo partito che erano in perfetta sintonia con le sue e presentò ai suoi superiori un rapporto favorevole. Fece visita di nuovo al gruppo e si iscrisse con la tessera n° 7. Di lì a poco Hitler ne assunse la presidenza, il nome fu modificato in Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP) e la Thule seppe di aver trovato il proprio capo e il proprio destino politico. Nella Thule Bund si instillava l’idea che le dottrine scientifiche dovessero piegarsi a dimostrare la veracità della dottrina della Razza superiore germaniche con studi ed esperimenti su animali e uomini: ritroviamo qui le idee degli ariosofi che saranno poi realizzate con la tipica precisione tedesca nelle accademie scientifiche SS durante il III Reich. La Thule aveva dunque come scopo la purificazione eugenetica di una élite destinata ad occupare i posti chiave nella guida di una nazione in cerca del sé; la stessa ideologia degli arconti, degli iniziati o dei gerofanti che veniva diffusa dalla corrente teosofica e ariosofica tra la seconda metà del XIX sec. e i primi anni del XX. Tuttavia alla base vi è una nostalgia delle origini, il senso della caduta dalla purezza originale al peccato (la commistione con razze inferiori) e la convinzione che il popolo ebreo rappresentasse la più colpevole di queste razze. A questo punto abbiamo gli elementi per affermare che la società Thule, da cui nasce il nazionalsocialismo come braccio politico, catalizza una corrente di pensiero che si origina da un’ansia religiosa, la Thule crea addirittura propri rituali all’interno della Loggia degli iniziati. In pratica, come nel caso dell’Ariosofia, stiamo assistendo alla nascita autonoma e spontanea di una nuova religione. La società Thule verrà, però, lasciata a sé stessa in quanto Hitler trovava insopportabile l’idea di una conventicola politica che non riusciva ad andare oltre il concetto di società segreta. Decise di trasformare l’Arbeiterpartei in un grande partito di massa mentre la Thule perderà gradualmente di importanza di fronte al NSDAP che sembrava incarnarne meglio l’ideologia. Quando Hitler si avvicinò al gruppo Thule, gravitavano intorno a Sebottendorff personalità curiose che non cercavano solo una riscossa politica tedesca ma approfondivano la cultura ariosofica e studiavano le teorie di vittoria solare del germanesimo sulle razze inferiori; l’emblema della croce uncinata teosofica con a fianco il dio Wotan/Odin delle pubblicazioni della Thule evidenzia la visione pangermanica e pseudo-religiosa del gruppo. Ma per confermare questo aspetto diamo una breve scorsa ai membri più famosi e all’influenza che ebbero su Hitler: Dietrich Eckart. Hitler lo considerava il suo mentore, il maestro a cui ricorrere per consigli e suggerimenti su qualsiasi campo, ritenendolo un uomo dalla superiore conoscenza. Eckart, a sua volta, lo introdusse nella società bene di Monaco che strinse rapporti di simpatia con il Fuehrer, sostenendo finanziariamente il NSDAP. Eckart era anche uno studioso dell’occulto, della magia tibetana e conosceva personalmente alcuni esponenti di questa disciplina. Le lunghe conversazioni che aveva regolarmente con Hitler avrebbero probabilmente fornito l’occasione per trasmettere questa conoscenza. Egli era convinto che una misteriosa e superiore razza ariana ovunque nel mondo e da millenni sarebbe in marcia dal nord al sud e sarebbe costantemente impegnata nel combattimento contro le razze inferiori di sub–uomini (untermenschen). Il destino escatologico del mondo si sarebbe realizzato attraverso la vittoria della stirpe ariana, una salvezza spirituale. Nella Thule Bund troviamo anche Karl Haushofer, che era stato addetto militare a Tokyo. Sembra che negli anni 1903–1908 facesse frequenti visite a Gurdjieff in Asia centrale, seguendone per un po’ gli insegnamenti, ma si tratta di voci non del tutto confermate. Haushofer si dedicò ad uno studio personale sulle dottrine teosofiche e si convinse che i popoli ariani avevano avuto un’origine comune in Asia, forse proprio in Tibet. Qui e nel deserto di Gobi aveva cercato invano l’entrata di Agarthi e aveva stabilito contatti con saggi tibetani che gli avevano trasmesso conoscenze millenarie. Allo scoppio della prima guerra mondiale tornò in Germania e aderì al GO. Al temine della guerra accettò l’incarico di professore di geopolitica presso l’università di Monaco dove approfondì il concetto di sangue e suolo secondo cui la sopravvivenza di una razza dipende dalla conquista del lebensraum (spazio vitale) ottenuta sottomettendo le razze inferiori. Il suo interesse per la scienza esoterica incorporava anche l’astrologia di cui era appassionato cultore; tutti elementi che ritroveremo nella persona di Hitler. Tra l’altro l’astrologia permeava anche gli ambienti dello stato maggiore tedesco. Infatti il generale Ludendorff, che era stato compagno di Hitler durante il tentativo di impadronirsi di Monaco con la marcia del putsch dell’8 novembre 1923, condivideva, insieme al presidente Hindenburg, una credenza che mescolava vari elementi esoterici ed astrologici. Haushofer andava spesso a trovare Hitler durante il periodo di detenzione di Landsberg, dove il Fuehrer fu rinchiuso per aver partecipato al putsch fallito. Le loro lunghe conversazioni vertevano su geopolitica, teorie della razza e origine della stirpe aria. È difficile credere che Haushofer non gli abbia parlato di ciò che più gli stava a cuore e cioè della sua ricerca dell’Agartha e della sapienza tibetana. Le missioni della sezione “SS Ahnenerbe” in Tibet e il ritrovamento di cadaveri di monaci tibetani nel bunker di Berlino nel maggio del ’45 sembrano confermarlo. Ma a Landsberg c’era un altro personaggio che faceva parte della Thule: Rudof Hess. Nato ad Alessandria il 26 aprile 1894 frequentò scuole destinate ai fanciulli più benestanti e allo scoppio del conflitto si arruolò nell’esercito tedesco come fante. Al temine della prima guerra mondiale si iscrisse all’università di Monaco dove studiò economia, storia, geografia (fu allievo di Haushofer) e scienze politiche. Hess incontrò Hitler a Monaco nel 1920, e ne fu affascinato. Si iscrisse al NSDAP con la tessera n° 16 e divenne da subito il secondo di Hitler. Le testimonianze che abbiamo ci parlano di una strettissima amicizia tra Hitler e Hess (l’unico a cui Hitler dava del tu e non del voi) che scelse di internarsi volontariamente a Landsberg per stare vicino al suo Fuehrer: in quei mesi di assidua frequentazione, Hess spiegò a Hitler le teorie di Haushofer e gli parlò dei suoi interessi di occultismo ed esoterismo. Hess era vegetariano, come Hitler, e faceva preparare i suoi cibi con particolari procedimenti bio-dinamici, secondo i precetti della medicina omeopatica. Hitler ed Hess nutrivano un altro interesse in comune: quello per le culture dell’Asia orientale, e per l’astrologia. Hess aveva una cerchia di amici particolari, tutti come lui affascinati dalla conoscenza segreta ariana, ed approfondiva questi argomenti con studi appassionati nella sua biblioteca personale. A Landsberg Hitler, Hess e Haushofer preparano a tre mani il “Mein Kampf”, la dottrina politica espressa essotericamente di una ideologia che ha le sue radici nel movimento teosofico ed ariosofico. In conclusione la nascita del partito nazionalsocialista è legata al Germanenorden, che a sua volta cambiò nome in Thule, la mitica patria degli iperborei (cfr HERA n°29 pag.46). Hitler preferì sempre stendere un velo di segretezza sulle sue attività esoteriche, sul fatto che si era nutrito delle ideologie di von Lanz, che si era fatto ordinare da Lanz confratello dell’ONT e sulle dottrine segrete ariosofiche che condivideva. L’effetto della generale destabilizzazione delle coscienze causato dalla filosofia irrazionalista ed idealista e la spinta ariosofica e patriottica dell’emozione voelkisch si risolse in una manifestazione violenta ed esplosiva dell’archetipo Wotan/Odin. Questo fenomeno si tradusse in pratica durante il III Reich con la dottrina ariana a cui Hitler donò il crisma della legalità in nome della razza superiore. Tratto da: Informazione Consapevole.

Fascismo e comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani, Domenica 07/12/2014 su "Il Giornale".  La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

Lenin accese la scintilla. Stalin bruciò ogni cosa. Togliatti raccolse le ceneri. Nuove carte provano la continuità politica tra Mosca e il comunismo italiano. Stessa logica, stessi tragici effetti, scrive Giampietro Berti, Martedì 8/04/2014" su "Il Giornale".  Sulla storia dei legami e dei contrasti fra il comunismo sovietico e il comunismo italiano esiste una vasta e varia bibliografia, ma quest'ultimo libro di Giancarlo Lehener (con Francesco Bigazzi), Lenin, Stalin, Togliatti. La dissoluzione del socialismo italiano (Mondadori, pagg. 360, euro 19), è particolarmente istruttivo perché mette in luce l'implacabile logica che sottende l'intera vicenda; logica che trascende la volontà dei singoli uomini. C'è infatti una linea di continuità politica che, senza alcuna degenerazione, inesorabilmente da Lenin, attraverso Stalin, giunge a Togliatti. Essa porterà nel secondo dopoguerra - data la preminenza dei comunisti sui socialisti - a recidere le possibilità riformatrici, e concrete, del socialismo italiano. Il libro prende le mosse dalle tappe fondamentali che portarono un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione - Lenin, Trotskij, Stalin e pochi altri - alla fortunata conquista del potere con il golpe dell'ottobre 1917. Come è noto in Russia esistevano allora circa 140 milioni di persone, ma il putsch bolscevico che fece cadere Kerenskij - lo ha ripetutamente ammesso Trotskij - fu attuato da 25mila militanti. Ciò spiega perché fin da subito vennero poste in atto le direttive criminali per annientare ogni forma di opposizione, di destra e di sinistra: così nel 1918 con l'abolizione dell'Assemblea costituente; così nel 1921 a Krondstad, con i marinai insorti, decimati a centinaia su ordine di Trotsky; così, nello stesso periodo, in Ucraina con il movimento contadino machnovista. Scrive Lehener: «Dal 1918 al 1922 una statistica per difetto dà la cifra di 250mila persone assassinate dai cekisti (la polizia segreta)». La sistematica distruzione di ogni opposizione è la prova più evidente della scarsa adesione al regime da parte della popolazione: infatti perché usare tanto terrore, se vi fosse stato un vero consenso al comunismo? Non dimentichiamo che fra il 1935 e il 1941, si deve registrare l'arresto di milioni di persone, di cui almeno sette milioni uccise. Nella fase più acuta del Grande Terrore (1937-1938) furono assassinate 690mila persone, mentre un milione 800mila vennero deportate. Il mito della rivoluzione d'ottobre infiammò comunque fin dall'inizio il movimento operaio e socialista europeo. In Italia diede il via alla rottura fra la componente riformista e quella massimalista, culminata nella drammatica scissione di Livorno del 1921, che portò alla nascita del partito comunista. Come sottolinea Lehener, la conseguenza di questo «errore irrecuperabile» fu l'indebolimento generale delle forze democratiche, e ciò, ovviamente, favorì la vittoria del fascismo. Con l'adesione alla Terza Internazionale, il cui ruolo consisterà nell'essere un mero organo esecutivo delle decisioni prese dal Kremlino, i comunisti italiani, come del resto i comunisti di qualsiasi altro Paese, vennero sottoposti ai diktat di Mosca. L'ascesa di Stalin comportò l'abbandono definitivo di ogni progetto di rivoluzione mondiale, sostituito con l'idea del «socialismo in un solo Paese». Di qui l'ovvia sudditanza del partito all'Unione Sovietica, che generò un contrasto inevitabile al proprio interno circa la linea da tenere di fronte alla nuova situazione acuitasi con l'avvento al potere del dittatore georgiano; contrasto mosso dalla logica dell'epurazione, come è confermato dal conflitto fratricida scatenatosi fra i suoi maggiori esponenti, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, Grieco, Silone, Tresso, Leonetti, Secchia, Ravazzoli, Terracini e altri (con reciproche accuse di tradimento e conseguenti isolamenti, criminalizzazioni ed espulsioni). Inoltre i comunisti italiani, pervasi sempre più dal loro settarismo, attivarono una cieca ostilità contro coloro che non si piegavano alle direttive del Komintern, in modo particolare contro le forze socialdemocratiche, i cui militanti, bollati come «socialfascisti» e «socialtraditori», erano considerati i veri ostacoli della rivoluzione proletaria e spesso ritenuti più pericolosi degli stessi nemici borghesi, compresi i fascisti. La profonda convinzione, del tutto fantastica, del crollo imminente del capitalismo, specialmente dopo il 1929, fu causa di ulteriori settarismi, uniti a un senso di superiorità verso l'intero fronte progressista, dovuta alla certezza di possedere - grazie all'infallibilità del marxismo-leninismo - la conoscenza del processo storico. Dalla preziosa e inedita documentazione raccolta da Francesco Bigazzi si evince l'impressionante clima di terrore instaurato dallo stalinismo. Tutti coloro che si erano rifugiati nell'Urss - gran parte furono uccisi o scomparvero nei Gulag - finirono per spiarsi l'uno con l'altro, e con ciò diventarono zelanti esecutori delle direttive staliniste, compresa la delazione di compagni, per non cadere nelle sgrinfie della polizia politica. Una tragedia immane che non ha prodotto nulla di buono.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

Churchill-Mussolini. Ecco le (nuove) prove del mitico carteggio. Le lettere tra un capo partigiano e una spia confermano l'esistenza del compromettente documento, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 15/01/2014, su "Il Giornale". Il carteggio Churchill-Mussolini, uno dei documenti più misteriosi della storia contemporanea italiana, torna di nuovo a far parlare di sé. La vicenda è abbastanza nota al grande pubblico. Prima e durante la seconda guerra mondiale il duce del fascismo e il primo ministro britannico intrattennero quasi sicuramente una corrispondenza riservata. Mussolini aveva custodito gelosamente quelle carte, soprattutto da quando le sorti dell'Asse si erano volte inesorabilmente alla sconfitta. Cosa contenevano? Molto probabilmente aperture di Churchill verso il più fragile dei suoi nemici - l'ex primo lord dell'ammiragliato considerava la penisola italiana il ventre molle della «Fortezza europa» del nazifascismo. Il contenuto esatto di quegli scritti non è noto, ma nel marzo del '45 Mussolini confidò ad Alessandro Pavolini: «Questi documenti valgono per l'Italia più di una guerra vinta... perché documentano la malafede inglese». Probabilmente esagerava perché qualsiasi corrispondenza val ben poco a confronto con una disfatta militare. Però di certo se le tenne ben strette durante la sua fuga verso Dongo. Come ricostruito da alcuni storici, a esempio Luciano Garibaldi, il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, Benito Mussolini aveva con sé due borse piene di documenti contenenti - secondo le testimonianze - parte della sua corrispondenza con Churchill. Le due borse furono subito requisite dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici. Da quel momento il destino dei documenti diventa meno chiaro. Secondo alcuni testimoni, dopo la produzione di alcune copie, il 4 maggio 1945, il materiale fu esaminato da una commissione formata, tra gli altri, dal segretario della Federazione comunista locale, Dante Gorreri, e dal nuovo prefetto di Como, Virginio Bertinelli. Era materiale scottante, ma forse i partigiani non capirono quanto. Sta di fatto che poi accadde l'incredibile: il 2 settembre 1945, a nemmeno due mesi dalla conclusione della guerra, dopo aver perso le elezioni e non più primo ministro, Winston Churchill si recò sul lago di Como, a trascorrere una breve vacanza nella Villa Apraxin di Moltrasio, dietro falso nome. Forse si trattò di una missione di recupero aiutata e gestita dai servizi segreti inglesi. Infatti dopo quel momento del famoso carteggio non si ebbe più traccia. Ora a questo quadro si aggiunge un nuovo tassello. In una ricostruzione dello storico Roberto Festorazzi pubblicata sul nuovo numero di Oggi emerge che in questo intrigo internazionale ebbe un ruolo rilevante anche un agente dei servizi segreti italiani, Bruno Piero Puccioni (1903-1990). Puccioni era stato un fascista della prima ora e già nella Repubblica sociale in qualità di agente aveva svolto il ruoli di collegamento tra fascisti, partigiani e alleati (le parti si parlavano molto più di quanto si creda). Da una villa del borgo di Damaso, non lontano da Dongo, Puccioni era riuscito a stabilire buoni rapporti con i partigiani moderati tra i quali il nobile fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle, comandante della 52ª Brigata. Puccioni cercò di elaborare un piano per salvare Mussolini e consegnarlo agli americani. Il piano fallì e Mussolini venne fucilato (non è qui il caso di riaprire la discussione annosa se per volontà partigiana o con una spintarella degli agenti inglesi). Quel che è certo è però che Puccioni e Bellini delle Stelle cercarono anche nel dopoguerra di rimettere le mani sul carteggio. Festorazzi ha ritrovato alcune delle loro missive. Così scrive, secondo Oggi e Festorazzi, Bellini delle Stelle a Puccioni il 7 maggio del '49: «Il carteggio pare sia andato a chi già supponevamo, ma seguendo tutt'altra via da quella che ho dapprima seguito... Pare però che seguendo questa via si possa giungere ad entrare in possesso di una copia fotografica di tutti i 63 fogli...». Il piano dei due ex nemici-amici evidentemente non andò a buon fine. Secondo Festorazzi speravano con quelle carte di far tornare Trieste all'Italia. Di certo questa è un'ulteriore conferma dell'esistenza del carteggio e di quale strada probabilmente prese. Come spiega al Giornale Francesco Perfetti, contemporaneista della LUISS Guido Carli di Roma: «Che il carteggio sia esistito ormai è un fatto che negano soltanto alcuni storici inglesi, più che altro per un non molto sensato amor di patria». E che potesse essere compromettente? «All'epoca senz'altro, chiaro che potesse imbarazzare il primo ministro inglese, anche se non va sopravvalutato. Non credo ci sia al suo interno qualcosa che possa cambiare la Storia. Al massimo le prove di quella Realpolitik che si pratica sempre in tempo di guerra e che era un tratto chiaro e noto del modo di operare di Churchill. Quanto alla simpatia umana che molti conservatori inglesi e Churchill provarono a lungo prima della guerra per Mussolini è cosa nota anche quella».

Riemerge un dossier sulle lettere tra Churchill e Mussolini, scrive Roberto Festorazzi il 13 giugno 2015 su "Avvenire". Winston Churchill nel settembre 1945 soggiornò tre settimane sul lago di Como. Lo scopo della «strana vacanza» è oggetto di discussioni da decenni. Non pare che lo statista sia venuto sul Lario solo per dipingere e riposare... Lo dimostrano, tra l’altro, gli importanti colloqui che ebbe nella villa di Moltrasio dov’era ospite. Il leader conservatore ricevette pure il nunzio in Italia, monsignor Francesco Borgongini Duca, che gli avrebbe riferito le preoccupazioni di Pio XII circa l’eventualità che l’Italia venisse trattata con durezza ai tavoli della pace. L’incontro è confermato da un documento degli archivi americani, pubblicato dallo storico Nicola Tranfaglia: la relazione che il delegato apostolico in Gran Bretagna, monsignor William Godfrey, redasse il 6 novembre 1945 dopo un colloquio con Churchill in cui il premier sostenne che la Penisola, come nazione vinta, non poteva essere interamente libera, ma doveva adeguarsi a una forma di tutela. ​Le discussioni sul carteggio Churchill-Mussolini – la corrispondenza segreta intercorsa tra i due uomini di Stato dalla metà degli anni Trenta almeno fino al 1940, se non oltre – hanno ripreso vigore dopo la pubblicazione dell’ultimo libro di Mimmo Franzinelli L’arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini(Rizzoli). Ai teoremi negazionisti dello storico bresciano che, con toni polemici un po’ sopra le righe, esclude l’esistenza di un simile epistolario, si possono tuttavia opporre molti dati di fatto che militano a favore della tesi opposta. Qui proporremo un’inedita scoperta che consente di aggiungere nuovo pepe alla pietanza. Qualche tempo fa, in una villa della Brianza, è emerso un plico di documenti esplosivi, con l’intestazione «Carteggio Churchill-Mussolini». Si tratta di un dossier appartenuto all’ex proprietario di quella residenza, e incautamente dimenticato nel corso di un trasloco non troppo accurato. Padrone della villa fu un agente segreto britannico, autore di fortunosi recuperi dei dossier esteri che Mussolini portò con sé sul lago di Como, nelle giornate di fine aprile del 1945. Si tratta di Malcom Hector Smith, un personaggio di cui si sa molto poco, ma la cui figura è di grandissimo interesse per penetrare a fondo i misteri del carteggio più controverso della storia. Il maggiore Smith, nato a Palermo nel 1910 da genitori scozzesi e morto a Como nel 1991, non soltanto fu al centro di molti intrighi, ma nel dopoguerra venne incaricato dal governo britannico di restare a occuparsi, in Italia, dei cascami di quei recuperi di «preda cartacea», come una sorta di agente permanente degli interessi della Corona. Sotto l’incarico di copertura di console del Sudafrica, Smith, tra una partita di golf e l’altra, agì così per occultare le tracce di quelle lontane operazioni speciali svolte nella primavera-estate del 1945. Il primo a sollevare il coperchio sui ruoli dell’ufficiale scozzese fu Duilio Susmel, cacciatore di carte ducesche, il quale sulla Domenica del Corriere nel gennaio 1967 scrisse a chiare lettere che questi, nelle giornate di Ferragosto del ’45, aveva disseppellito i carteggi nel giardino di Villa Mantero di Como, dove erano transitati Rachele Mussolini e i suoi figli minori. A fornire indicazioni dettagliate sulla esatta localizzazione dei preziosi fascicoli era stato l’industriale chimico Guido Donegani, padrone della Montedison. Costui, arrestato e rinchiuso a San Vittore con l’accusa di collaborazionismo, aveva barattato la scarcerazione con suggerimenti agli inglesi atti a individuare i nascondigli delle carte. E non è privo di rilevanza osservare che Churchill, durante la sua «strana vacanza» pittorica sul lago di Como nel settembre 1945, soggiornasse proprio nella villa di Moltrasio dell’industriale, recandosi poi in visita a Venegono, località varesina dove Donegani si trovava sotto scorta militare britannica: praticamente «piantonato»! Non è tutto: lo stesso Smith, il 22 maggio precedente, era riuscito a intercettare altri segmenti della corrispondenza Duce-Churchill, occultati nell’imbottitura di una cavallina della palestra Negretti, sempre nel capoluogo lariano. A questo punto torna molto utile considerare il plico dei documenti riemerso dalla ex-villa dell’agente segreto: carte che contribuiscono ad avvalorare ulteriormente questa pista di indagine. Di che cosa si tratta? La busta, oltre a copie di relazioni inedite e sensazionali che descrivono le missioni svolte da Smith nelle settimane successive alla conclusione del conflitto, contiene le trascrizioni in inglese sia dello scoop di Susmel, apparso sulla Domenica del Corriere, sia delle polemiche che ne seguirono. Una prima domanda sorge spontanea: per quale ragione Smith, che parlava correntemente l’italiano, avvertì l’esigenza di tradurre quelle notizie di stampa? Evidentemente qualcuno a Londra, nel governo o nella direzione dei servizi segreti, gli aveva chiesto una relazione dettagliata sull’argomento. Curiosamente, il servizio esclusivo della Domenica del Corriere, «lanciato» dal rotocalco fin dalla copertina, provocò una serie di reazioni. Un ex agente dell’Ovra (il braccio operativo della Polizia politica fascista) scrisse al settimanale per attaccare Smith. Terzilio Borghesi – questo il suo nome – lamentò di essere stato derubato, quando nel maggio del ’45 era stato arrestato a San Maurizio di Brunate da agenti inglesi, tra cui il nostro. Smith replicò alla lettera diffamatoria della spia dell’Ovra, ma – questo è il lato interessante della vicenda – la sua rettifica non riguardava in nulla le notizie sul suo ruolo nella vicenda del trafugamento del carteggio Churchill-Mussolini. In tal modo è come se confermasse indirettamente lo scoop di Susmel. Soltanto poco prima di morire, in un’intervista rilasciata allo storico Marino Viganò, il maggiore Smith ammise ufficialmente di essere stato l’autore di quei recuperi cartacei, chiarendo di aver incontrato lo stesso Winston Churchill durante il soggiorno dello statista britannico sul Lario. Benché lo smentisse a Viganò, l’ufficiale scozzese in privato ad amici e conoscenti rivelava inoltre di aver avuto un ruolo anche nell’epilogo cruento di Mussolini: indiscrezioni di cui è molto difficile valutare il reale fondamento. Le «carte della villa» contengono anche appunti dattiloscritti di Smith, che danno consistenza al suo (finora) evanescente profilo biografico. Egli infatti, trasferitosi in Scozia dopo l’infanzia palermitana, era emigrato in Sudafrica nel 1923, rimanendovi fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Rientrato in Gran Bretagna, era stato poi arruolato nel Field Security Service e nel luglio 1943 era sbarcato in Sicilia con le truppe alleate. Durante la campagna d’Italia, aveva lavorato in stretta collaborazione con il controspionaggio del Sim. In qualità di ufficiale di collegamento britannico, operava alle dipendenze degli alti comandi della sicurezza militare congiunta anglo-americana, cioè agli ordini del G-2 della 5ª Armata americana. Nei suddetti appunti, si riporta, tra l’altro, una dichiarazione del capo dell’808° Battaglione del controspionaggio italiano in zona di operazioni, la quale attesta che «il maggiore Smith e la sua Sezione, composta da 6 uomini più il comandante, aveva "compiti di ricerca delle spie tedesche lasciate dietro le linee alleate"». Nel luglio 1945 Malcom Smith si unì in matrimonio al soprano fiorentino Elda Ribetti. Come d’incanto il padre della sposa, il fascistissimo colonnello di fanteria Alfredo Ribetti, che si trovava agli arresti, venne scarcerato... Semplici coincidenze?

Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei Nationals Archives di Londra, scrivono il 2 settembre 2015 Dino Messina e Eugenio Di Rienzo su "Il Corriere della Sera". La caccia al carteggio segreto tra Churchill e Mussolini, dove il premier britannico, prima del 10 giugno 1940, invitava il capo del fascismo a far entrare l’Italia in guerra a fianco della Germania per mitigare, in caso di sconfitta del Regno Unito, le pretese di Hitler al tavolo delle trattative, ha impegnato per quasi settanta anni, storici della domenica, inguaribili nostalgici del Ventennio nero, giornalisti in cerca di scoop, spregiudicati editori. Solo, nel marzo di quest’anno, come ha scritto Paolo Mieli sulle pagine del «Corriere», questa caccia si è ufficialmente chiusa, definitivamente ci auguriamo, grazie all’importante lavoro di Mimmo Franzinelli (“L’arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini”, Rizzoli). Nel suo studio Franzinelli ci ha rivelato con meritoria pignoleria la lunga storia di falsificazioni e di manipolazioni che si è sviluppata intorno al fantomatico commercio epistolare. Inventato di sana pianta e costruita con molta rozzezza è, infatti, lo schema di accordo dell’11 aprile con la quale l’inquilino di Downing Street chiedeva all’ospite di Palazzo Venezia di catapultare il nostro Paese nella tragedia del secondo conflitto mondiale, in modo da «aiutare la Gran Bretagna nella futura conferenza di pace a frenare il militarismo tedesco e a ottenere la vittoria finale contro di esso», promettendo l’intervento del Governo di Sua Maestà per sostenere le rivendicazioni italiane verso la Francia e per «ripristinare i diritti dell’Italia sul Mediterraneo». Egualmente contraffatta, come numerose altre missive, era la risposta 4 maggio, dove il Capo del Governo italiano informava Churchill di aver ottenuto il consenso di Vittorio Emanuele a quell’accordo.

Tutto falso, tutto da buttare in quel carteggio? Assolutamente sì. E, a titolo di direttore di una rivista storica, voglio qui pubblicamente ringraziare Franzinelli, sicuro che, dopo il suo libro, la mia redazione non sarò più invasa, come tante volte è accaduto, da clamorose rivelazioni sulla diplomazia segreta di Mussolini, opera di pseudo-studiosi dominati dalla teoria del complotto. Come analista del passato, devo però rimproverare all’autore dell’Arma segreta del Duce un errore di metodo e un’insufficienza nella ricerca archivistica che si collegano l’uno all’altra, dando vita a un circolo vizioso storiografico. Per il primo punto devo dire che l’aver dimostrato che lo scambio di missive tra Churchill e Mussolini della primavera-estate del 1940, in nostro possesso, è un apocrifo non vuol dire che non siano esistiti in quello stesso periodo, come Franzinelli presume, negoziati o magari semplici pourparlers con l’Italia, attraverso i quali Francia e Inghilterra cercarono di ottenere l’assicurazione che il Duce in una futura conferenza di pace avrebbe speso la sua influenza a loro favore, in cambio di una sostanziosa contropartita ma soprattutto al fine di arginare la preponderanza del «Reich millenario». Per il secondo punto, mi spiace dover osservare che quanto afferma l’autore dell’ “Arma segreta del Duce”, e cioè che ogni rapporto tra il Mussolini e i leaders delle democrazie liberali si sarebbe interrotto il 19 maggio, dopo il secco rifiuto di Palazzo Venezia a prendere in considerazioni gli inviti di Churchill e Roosevelt a non seguire Hitler nell’avventura bellica iniziata nel settembre 1939, costituisce una grave imprecisione. Un’imprecisione che Franzinelli si sarebbe potuta facilmente risparmiare con un più lungo e fruttuoso soggiorno di studio nei Nationals Archives britannici o più semplicemente grazie a un’attenta lettura dell’ultimo capitolo del lavoro di Emilio Gin, “L’ora segnata dal destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento. Settembre 1938 – Giugno 1940!”, pubblicato da Nuova Cultura Editore nel 2012. Negli archivi di Londra, sono conservati, sotto il titolo “Suggested Approach to Signor Mussolini”, i verbali della riunione del War Cabinet del 26 maggio 1940. In quella data, previa intesa con il governo di Parigi, l’esecutivo britannico decideva di inviare a Roosevelt una bozza di accordo, che il Presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto sottoporre all’attenzione di Mussolini. Nel testo, le Potenze occidentali, nel momento in cui il fronte francese si era letteralmente sbriciolato sotto la spallata della Blitzkrieg scatenata dall’esercito tedesco, chiedevano al Duce di offrire la sua collaborazione nelle future trattative con la Germania per assicurare una soluzione di tutte le questioni europee, da cui dipendeva «la sicurezza e l’indipendenza degli Alleati» e la possibilità di garantire «una pace giusta e duratura all’Europa». Qualora Mussolini avesse accettato questa proposta, Londra e Parigi s’impegnavano a non aprire nessun negoziato con Hitler, se questi non avesse consentito all’Italia di partecipare, nonostante il suo status di non belligerante, alla conferenza di pace. Inoltre Churchill e il Primo ministro francese, Paul Reynaud, promettevano formalmente, sotto la malleveria degli Stati Uniti, di ricompensare il governo di Roma soddisfacendo «tutte le sue legittime aspirazioni nel Mediterraneo» che all’epoca comprendevano, in primo luogo, l’internazionalizzazione di Gibilterra e la partecipazione al controllo del Canale di Suez, oltre importanti acquisti territoriali nell’Africa francese. Il cammino per arrivare a questa iniziativa era stato difficile e contrastato. Churchill aveva dovuto, infatti, superare le resistenze di Reynaud, che alla fine si era arreso, contando sullo «sconforto che l’idea di un’Europa dominata da Hitler doveva causare in Mussolini». Anche Roosevelt aveva recalcitrato all’idea di un suo nuovo intervento su Palazzo Venezia, dopo la cattiva accoglienza ricevuta da un suo precedente messaggio, che era stato definito dal Duce un’indebita ingerenza nella politica italiana. Per vincere la ritrosia di Washington, il premier britannico aveva incaricato il Segretario agli Esteri, Halifax, di abboccarsi con l’ambasciatore italiano a Londra, Bastianini, per sondare gli umori di Palazzo Venezia. L’incontro, svoltosi nel pomeriggio del 25 maggio, durante il quale Halifax aveva consegnato al nostro diplomatico la bozza della lettera di Roosevelt, era stato positivo. Con tutte le cautele del caso, Bastianini, che certo non parlava a titolo personale, informava Halifax che il Presidente del Consiglio italiano non avrebbe opposto nessun pregiudiziale rifiuto a partecipare a una «peace conference by the side of the belligerents». Mussolini, aggiungeva Bastianini, era interessato a risolvere tutte le questioni europee, e in particolare ad arrivare a un’equa sistemazione politica e territoriale della Polonia, e aveva sempre pubblicamente manifestato il vivo desiderio di costruire un «accordo generale sull’Europa» che non avrebbe dovuto essere «un semplice armistizio» ma piuttosto un patto di sicurezza collettiva in grado di «salvaguardare la pace del continente per almeno un secolo». Nella mattinata del 27, l’ambasciatore americano Phillips, dopo aver appreso il rifiuto di Mussolini di concedergli udienza, consegnava la lettera di Roosevelt a Ciano, ribadendo che, in caso di risposta positiva, il Presidente degli Stati Uniti sarebbe divenuto «personalmente responsabile per l’esecuzione, a guerra finita, degli eventuali accordi». Con perfetto tempismo, in quella stessa giornata, anche l’ambasciatore francese François-Poncet incontrava il nostro ministro degli Esteri, annunciandogli che, con l’esclusione della Corsica, la Francia era disposta a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull’Algeria». La replica di Ciano non lasciava, però, adito a nessuna speranza. La decisione di entrare in guerra era stata ormai presa e se anche il Duce avesse potuto avere pacificamente il doppio di quanto da lui reclamato, egli avrebbe rifiutato. Come ha scritto Emilio Gin, la rinuncia di Mussolini a prendere in considerazione il piano di Churchill obbediva a un calcolo razionale che poco aveva a che fare con l’infatuazione bellicista che gran parte della storiografia italiana gli attribuisce. Il Duce, infatti, non avrebbe potuto tollerare di partecipare ai colloqui per la pace, accanto ad un Hitler trionfante, solo per gentile concessione di Giorgio V e del suo fiacco alleato. In questo caso, la sua posizione sarebbe stata debolissima, del tutto ininfluente, e il Führer, divenuto padrone assoluto del gioco, avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il Neue Ordnung nazionalsocialista, eliminando dalla scena politica Nazioni Neutrali, Paesi occupati, Alleati e la stessa Italia. Solo dopo aver partecipato al conflitto, al “modico” prezzo di «un pugno di morti» per sedersi al tavolo delle trattative, Mussolini poteva dunque far sentire la sua voce con la fondata speranza di essere ascoltato. Come, il 28 maggio, Ciano fece intendere al ministro d’Inghilterra, Percy Lorraine, non esisteva altra via d’uscita dalla guerra scatenata dal Reich se non la partecipazione italiana al conflitto. Si trattava un messaggio cifrato, volutamente ambiguo, che pure fu perfettamente inteso dalle Cancellerie alleate. Fu soprattutto Parigi a penetrare il senso di quell’enigmatico avvertimento e comprendere che nei piani di Palazzo Venezia l’intervento italiano doveva costituire il contrappeso necessario alla vittoria di Hitler. Il 2 giugno, infatti, il Ministro francese della Difesa e degli Esteri, Daladier, sosteneva che il governo di Roma intendeva iniziare una «guerra a termine», che non aveva «precedenti nella storia diplomatica». Dopo sei giorni, il Sottosegretario del Quai d’Orsay Baudouin manifestava al nostro ambasciatore a Parigi, Guariglia, la speranza che Italiani e Francesi potesse adoperarsi nel futuro per colmare l’abisso che attualmente li separava perché alle due Nazioni latine non conveniva né una pax britannica né la vittoria completa di Hitler. La risposta dell’italiano, sebbene fornita a titolo strettamente personale, veniva incontro a quel desiderio. Guariglia replicava che, considerando che il Duce aveva sempre avuto a cuore «la necessità della ricostruzione europea», da raggiungere mediante «una giusta e intelligente politica evolutiva», era forse possibile ipotizzare che egli, in questo triste momento, pensasse di «arrivare agli stessi risultati attraverso la via della guerra». La più forte conferma al fatto che, anche dopo il 10 giugno, Mussolini non intendeva recidere il filo del colloquio con Parigi e Londra è, sempre secondo Emilio Gin, nelle istruzioni impartite agli Stati Maggiori delle nostre Forze Armate, poco prima dell’inizio delle ostilità. Se si eccettua l’offensiva italiana sulle Alpi occidentali, iniziata con inspiegabile ritardo solo il 21 giugno, la guerra del Duce doveva essere, per sua stessa ammissione la replica di quella «guerra seduta» (Sitzkrieg), che per quasi un anno aveva opposto, senza grande spargimento di sangue, gli Alleati e i Tedeschi sul suolo francese. All’Esercito, che con una manovra a tenaglia dalla Libia e dall’Etiopia, avrebbe potuto seriamente minacciare l’Egitto, fu ingiunto di restare con l’arma al piede senza prendere nessuna iniziativa. Alla Regia Marina, che era in condizioni di disturbare efficacemente, se non addirittura di interrompere, i movimenti dei convogli britannici nel Canale di Suez, si ordinò di aprire il fuoco solo se attaccata. All’Aeronautica si diedero disposizioni di soprassedere «fino a nuovo ordine a qualsiasi operazione offensiva» e di vietare ai propri aerei di portarsi a più di dieci chilometri dal confine con la Francia. Furono, inoltre, annullate le incursioni su Gibilterra e Alessandria d’Egitto, già da tempo programmate e fu ridotto d’intensità il bombardamento di Malta dell’11 giugno. Fino a quando i raids effettuati da 36 velivoli della Raf, che nella notte del 12 giugno colpirono Torino e Genova completamente illuminate, come in tempo di pace, non provocarono una escalation militare italiana, era dunque intenzione del Duce di limitarsi a una «guerra di parata», per non pregiudicare il rapporto con Churchill nella futura conferenza di pace, dove sarebbe iniziata la guerra vera, quella contro Hitler. Dopo questo lungo periplo, torno, ora, al punto di partenza. A differenza di Franzinelli e di molti altri storici mainstream, io concordo con Renzo de Felice nel ritenere che, con buona verosimiglianza, la logora borsa di cuoio che Mussolini trascinò con sé nella sua fuga da Milano doveva contenere materiale scottante. Forse non dei documenti che potevano valere per l’Italia «più di una guerra vinta», come il Duce confidò a Pavolini, ma certo delle testimonianze in grado di mettere in seria difficoltà il governo britannico. Allo stesso tempo reputo però che, se questa documentazione è esistita, sia del tutto inutile cercarla perché essa è stata distrutta o sepolta in luogo inaccessibile, nei giorni immediatamente successivi l’uccisione di Mussolini. Uccisione resa possibile, occorre ricordarlo, da un colpo di mano organizzato, come i lavori di Mauro Canali e miei hanno dimostrato, dallo Special Operations Executive, l’organizzazione terroristica che, dall’inizio del conflitto, Churchill aveva posto sotto il suo comando diretto.

Patto Molotov-Ribbentrop. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il patto Molotov-Ribbentrop, talvolta chiamato patto Hitler-Stalin, fu un trattato di non aggressione fra la Germania nazista e l'Unione Sovietica. Venne firmato a Mosca il 23 agosto 1939 dal ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Molotov e dal ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop. Si trattò di una conseguenza della decisione di Stalin, dubbioso della reale volontà delle potenze europee occidentali di opporsi all'espansionismo aggressivo della Germania nazista, di ricercare un accordo con Hitler per contenerne la spinta verso est, per acquisire vasti territori appartenuti all'impero zarista e per dirottare le mire tedesche verso ovest, guadagnando tempo per rafforzare i suoi preparativi militari. Hitler accolse prontamente la sorprendente disponibilità sovietica contando di sfruttare l'accordo per concentrare le sue forze a ovest, senza temere minacce alle spalle pur mantenendo le sue mire strategiche a lungo termine verso le terre dell'est. L'accordo, considerato da alcuni storici uno dei fattori causali determinanti dell'inizio della seconda guerra mondiale (1º settembre 1939), definiva tra l'altro le sfere di influenza del Terzo Reich e dell'Unione sovietica per le zone vicine ai confini dei due Stati. Le conseguenze immediate più importanti del trattato furono la divisione del territorio polacco tra sovietici e tedeschi e l'occupazione delle repubbliche baltiche da parte dell'Armata Rossa. L'equilibrio di potere in Europa, durante la pausa successiva alla prima guerra mondiale, veniva eroso un poco alla volta. Basti pensare alla crisi causata dalla guerra d'Etiopia (1935-1936), che preludeva alla crisi dell'unico organismo di pace internazionale, la Società delle Nazioni; oppure all'accordo di Monaco (1938) che dava mano libera a Hitler nel suo intento di estendere i propri territori (a costo di altri stati come la Cecoslovacchia). Le potenze occidentali, perseguendo la politica chiamata dell'Appeasement, per timore di scatenare un nuovo conflitto mondiale, decisero di consentire alle continue pretese territoriali del Terzo Reich. Visto dalla prospettiva sovietica, un patto con la Germania poteva essere una risposta necessaria al deterioramento della situazione in Europa, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, quando la Germania nazista si allineò con l'Italia fascista per formare il gruppo delle Potenze dell'Asse. Da una parte, un patto avrebbe garantito una certa sicurezza all'URSS; dall'altra questa mirava, come la Germania, a rovesciare l'ordine stabilito nel trattato di Versailles, stipulato dopo la prima guerra mondiale dagli Alleati occidentali senza il concorso dei diplomatici sovietici considerati rappresentanti di un'entità politica non riconosciuta internazionalmente (la Russia bolscevica) e minacciosa per l'ordine politico-sociale. Infatti la grande guerra era finita in maniera svantaggiosa anche per i russi: le loro perdite territoriali erano la conseguenza dello stato di debolezza in cui si trovava nel 1918 lo stato sovietico, che allora era appena nato e reduce da sconvolgimenti come la rivoluzione d'Ottobre del 1917 e la guerra civile russa. I territori ceduti ad altri stati erano immensi. Poi si erano formati i nuovi paesi indipendenti interamente sul territorio dell'ex-impero russo: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania; un simile discorso valeva per i territori occupati dai polacchi nel 1920, a est della linea Curzon; inoltre, l'Unione sovietica era interessata a riprendere il controllo sulla Bessarabia, territorio abitato in larga maggioranza da moldavi, occupato dalla Romania nel 1918 nonostante le inutili proteste sovietiche. Tanto la Germania quanto l'Unione Sovietica erano dunque interessate a sovvertire un ordine stabilito senza che né l'una né l'altra potessero avere voce in capitolo. Il Regno Unito e la Francia erano invece notori garanti dello status quo territoriale, e rimasero in attesa fino alla distruzione della Cecoslovacchia da parte della Germania, resa possibile dalla Conferenza di Monaco: quest'ultima era stata decisa in comune accordo da Adolf Hitler, Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Édouard Daladier il 29 settembre 1938: in seguito all'accordo, il territorio cecoslovacco andava a finire, più o meno direttamente, sotto il controllo di Hitler. Da parte della Francia e del Regno Unito, era stata decisiva la tendenza a cercare compromessi con la Germania allo scopo di evitare un confronto militare: si trattava di quella che veniva chiamata politica dell'Appeasement, una pacificazione ricercata quasi a tutti i costi: infatti, la decisione di cedere alle richieste territoriali dei tedeschi era in contraddizione con l'alleanza franco-cecoslovacca del 1924. Le decisioni prese erano comunque a favore della politica hitleriana di quegli anni, atta a procurare al popolo tedesco il cosiddetto "spazio vitale" in Europa dell'est (Lebensraum im Osten). Nel frattempo, comunque, le due potenze occidentali si erano arrese all'evidenza dei fatti, dato che le loro concessioni non avevano placato, ma anzi stimolato le velleità di Hitler. La politica dell'Appeasement non poteva assolutamente più essere perseguita, dunque l'espansione tedesca doveva assolutamente essere fronteggiata. Così, inglesi e francesi si dichiararono disposti a garantire l'integrità della Polonia già nel marzo del 1939, il che fornì alla Germania un pretesto per disdire un patto di non aggressione stipulato con la Polonia sei anni prima. Per gestire la situazione, i francesi e gli inglesi si sforzarono di trovare un accordo con i sovietici, i quali tuttavia, nella primavera del 1939, stavano negoziando anche con i nazisti e giocavano quindi contemporaneamente su due tavoli. La politica franco-inglese era mal vista dai sovietici per diverse ragioni: durante il 1938 il governo sovietico si era invano offerto di difendere la Cecoslovacchia in caso di invasione tedesca, ma quest'ultima, così come altri paesi dell'area, nutriva dubbi sulle reali intenzioni di Mosca ed aveva preferito appoggiarsi alle potenze occidentali. Il primo Segretario sovietico Stalin, che non era stato invitato alla conferenza di Monaco, cominciò a credere che Francia e Gran Bretagna agissero in accordo con Hitler nell'interesse di porre un freno al comunismo, o che addirittura volessero aizzargli contro una Germania sempre più potente. Del resto, non si trattava di un'impressione del tutto nuova: Stalin aveva già sospettato un certo disinteresse da parte dell'occidente nei confronti di un fascismo in continua avanzata, esemplificato dagli eventi della guerra civile spagnola. Le negoziazioni della primavera del 1939 intraprese da Unione Sovietica e il binomio Francia-Regno Unito per fronteggiare il pericolo tedesco si bloccarono: la causa principale di questo fallimento furono i reciproci sospetti. L'Unione Sovietica cercava garanzie contro l'aggressione tedesca e il riconoscimento del diritto di interferire contro "un cambio di politica favorevole a un'aggressione" nelle nazioni lungo il confine occidentale dell'URSS: anche se nessuna delle nazioni coinvolte aveva formalmente richiesto la protezione dell'Unione Sovietica (alcune nazioni come la Finlandia, la Romania, le repubbliche baltiche e la Turchia consideravano l'Unione Sovietica più pericolosa della stessa Germania), i sovietici annunciarono "garanzie per l'indipendenza di Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Turchia e Grecia". Dall'altra parte, i britannici e i francesi temevano non senza motivo che ciò avrebbe consentito l'intervento sovietico negli affari interni delle nazioni confinanti, anche in assenza di una immediata minaccia tedesca. Con la Germania che chiedeva concessioni territoriali alla Polonia, e di fronte all'opposizione polacca, la minaccia di una guerra era crescente. Ma anche se ci fu uno scambio di telegrammi tra sovietici ed occidentali (non più tardi dell'inizio di aprile) una missione militare inviata via nave dalle potenze occidentali non arrivò a Mosca prima dell'11 agosto. Un punto spinoso era senz'altro l'atteggiamento della Polonia, stato che aveva ripreso ad esistere solo dopo la prima guerra mondiale e che ora si trovava a metà strada tra Germania e Unione Sovietica: il governo polacco temeva giustamente che il governo di Mosca cercasse l'annessione di regioni della Polonia orientale rivendicate dall'Unione Sovietica. Si trattava dei territori ad est della linea Curzon, incorporate nella Polonia nel 1920, considerati dai sovietici come "irredente" (l'Ucraina occidentale e la Bielorussia occidentale). Le rivendicazioni territoriali sovietiche erano fondate non tanto sulle aspirazioni degli abitanti di questi territori ma sulla costatazione oggettiva che la maggioranza della popolazione non era di lingua polacca; vi era piuttosto corrispondenza etnica tra questi territori e quelli dell'Ucraina e della Bielorussia. Dato che la Polonia si rifiutava non immotivatamente di permettere all'esercito sovietico un intervento militare sul suo territorio in caso di aggressione tedesca, la situazione pareva lasciare i sovietici senza nessuna possibilità di contrastare i nazisti prima dell'invasione della Polonia. Questa, dal canto suo si sentiva abbastanza forte grazie alle garanzie di protezione pronunciate da inglesi e francesi; così, nella terza settimana di agosto i negoziati si fermarono: ormai i sovietici sospettavano che sarebbero entrati in un conflitto limitato a loro e ai tedeschi. Anche su questo fronte si svilupparono febbrili reazioni, parallelamente a quanto facevano i sovietici con francesi e britannici. Il Primo Segretario sovietico Stalin aveva aperto, già nel mese di maggio, dei negoziati per un miglioramento delle relazioni con la Germania sostituendo il Ministro degli Esteri Maxim Litvinov con Molotov. L'ebraico e pro-occidentale Litvinov non si addiceva a guidare l'Unione Sovietica verso un accordo con la Germania nazista, visto che era largamente percepito come un sostenitore dell'alleanza con le potenze occidentali e contro i poteri fascisti. La sua sostituzione non era altro che la conferma dell'irrimediabile scetticismo sviluppato da Stalin nei confronti della Francia ed il Regno Unito. Per il momento, Stalin aveva invece approvato il programma di Molotov di provocare una guerra tra la Germania e le nazioni occidentali. Infatti, un avvicinamento ai nazisti avrebbe concesso all'Armata Rossa il tempo di cui aveva assolutamente bisogno per prepararsi a una forse inevitabile guerra contro la Germania. L'esigenza di rimandare il più possibile il confronto era dovuta al fatto che gli apparati governativi e l'Armata Rossa erano stati indeboliti dai quattro processi indetti da Stalin negli ultimi tre anni per eliminare le vecchie prominenze del comunismo sovietico (Grandi purghe). Per quanto riguarda Hitler, questi era convinto che questo accordo avrebbe costretto francesi e britannici a desistere dall'intento di difendere la Polonia. Il fin troppo facile successo diplomatico raggiunto alla Conferenza di Monaco gli aveva dato la falsa sicurezza che i suoi avversari fossero degli smidollati. Spartizione territoriale tra Germania e Unione Sovietica che vede a sinistra la suddivisione come sarebbe dovuta avvenire in base agli accordi, a destra la spartizione effettivamente avvenuta; in blu il Reich tedesco; in celeste gli obiettivi tedeschi, in arancione gli obiettivi sovietici; in rosso l'Unione Sovietica: in realtà gli scopi militari di Hilter andavano ben oltre quelli indicati dalle cartine, tanto che nel 1941 la Germania avrebbe aggredito l'Unione Sovietica. Le negoziazioni riuscirono: concludendo un accordo strategico tedesco-sovietico, Molotov, il 19 agosto propose anche un protocollo aggiuntivo "che coprisse i punti sui quali i Partiti Contraenti erano interessati, nel campo della politica estera". Il trattato veniva reso noto all'opinione pubblica come un patto di non aggressione articolato in sette articoli e della durata di dieci anni. Tuttavia, buona parte dell'Europa orientale veniva segretamente divisa in due sfere d'influenza, una tedesca ed una sovietica, come era previsto in un protocollo supplementare diviso in quattro articoli:

Secondo il primo articolo il confine tra le due sfere doveva coincidere con la frontiera settentrionale della Lituania, che cadeva così nella zona di interesse tedesca. Questo significava che Finlandia, Estonia e Lettonia, espressamente indicate nell'accordo, cadevano nell'area sovietica.

Secondo il secondo articolo la Germania e l'Unione Sovietica stabilivano le rispettive zone di interesse sul territorio della Polonia nell'eventualità di un suo "riarrangiamento politico": le aree a est dei fiumi Narew, Vistola e San rientravano nell'area di interesse sovietica, mentre a quella tedesca spettava la parte ovest. Questa linea di confine si trovava poco più ad ovest della linea Curzon. La questione se la sopravvivenza di uno stato polacco fosse "desiderata" o meno veniva in teoria lasciata in sospeso: secondo il testo, dovevano essere attesi gli sviluppi politici successivi.

Secondo il terzo articolo la Germania dichiarava il suo disinteresse nei confronti della Bessarabia.

Secondo il quarto articolo le due potenze promettevano la segretezza di questo documento aggiuntivo.

Dati gli enormi conflitti di potere tra sovietici e tedeschi, era chiaro ad entrambe le parti che l'accordo stipulato non sarebbe stato rispettato troppo a lungo. Basti pensare ai piani hitleriani di espansione in Europa orientale, la sua teoria di unLebensraum (ossia la ricerca di uno spazio vitale per il popolo che secondo Hitler era giudicato il più forte). Già il 22 agosto, prima della conclusione del patto, Hitler aveva dichiarato: (DE) « Ich brauche die Ukraine, damit man uns nicht wieder wie im letzten Krieg aushungert. » (IT) «Ho bisogno dell'Ucraina, altrimenti ci faranno morire di fame come durante la guerra passata. » (Adolf Hitler)

Il controllo dell'Ucraina, detta "granaio d'Europa", avrebbe assicurato le risorse economiche nel confronto con qualsiasi avversario. Mussolini, non ancora preparato al conflitto, tentò all'ultimo momento di evitare un confronto immediato proponendo per la seconda volta una conferenza a livello europeo, simile quella di Monaco. Stavolta, però, francesi ed inglesi non reagirono concretamente all'iniziativa. Il Duce dichiarò a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra soltanto in seguito; nonostante una certa perplessità, quest'ultimo era deciso a procedere anche senza l'apporto italiano per concludere le operazioni prima dei rigori invernali. Il mondo dei paesi democratici reagì con sorpresa e disappunto alla notizia del patto giacché, nonostante la segretezza dell'appendice, la pubblicazione del patto di non aggressione fu interpretata con pessimismo: si prospettava un ridimensionamento o una spartizione della Polonia, eventi che con tutta probabilità avrebbero provocato una guerra. Il 1º settembre, solo una settimana dopo che il patto era stato firmato, la divisione ebbe inizio con l'invasione tedesca, giustificata da un pretesto (il cosiddetto incidente di Gleiwitz: una messa in scena posta in essere da soldati tedeschi camuffati con un'uniforme polacca che attaccarono una stazione radio in territorio tedesco). A sua volta, l'Unione Sovietica attaccò da est il 17 settembre, senza prendere in considerazione il Patto di non aggressione sovietico-polacco concluso sette anni prima. Dopo l'inizio delle operazioni militari contro la Polonia, la costernazione non accennava a diminuire, sia tra i governi che più di tutti avevano temuto un simile risultato, sia tra i tanti sostenitori del comunismo, molti dei quali trovavano incomprensibile che i sovietici fossero scesi a patti con il nemico ideologico nazista. Una famosa vignetta di David Low apparsa sul London Evening Standard del 20 settembre 1939 mostrava Hitler e Stalin scambiarsi un inchino sopra il cadavere della Polonia, con Hitler che diceva: "La feccia della Terra, suppongo?" mentre Stalin replicava "Il sanguinario assassino dei lavoratori, presumo?". La stampa italiana, controllata dal regime, reagiva invece in maniera positiva: Il Corriere della Sera del 24 agosto parlava di uno "splendido successo" delle potenze dell'Asse, non mancando di attaccare la politica di Regno Unito e Francia. Il 28 settembre 1939 i tre deboli Stati baltici non ebbero altra scelta che firmare un cosiddetto patto di assistenza e mutua difesa, che permetteva all'Unione Sovietica di far stazionare delle truppe in Estonia, Lettonia e Lituania; lo stesso giorno un protocollo supplementare tedesco-sovietico trasferiva gran parte della Lituania dalla prevista sfera d'influenza tedesca a quella sovietica. La Finlandia resistette a simili pretese (non volle accettare nemmeno uno scambio di territori con l'URSS a lei favorevole in termini di estensione) e venne per questo attaccata dall'URSS il 30 novembre. Comunque, le truppe finlandesi, pur enormemente inferiori sul piano numerico, erano molto motivate e perfettamente attrezzate per un confronto militare durante la stagione invernale. Dopo più di tre mesi di aspri combattimenti e pesanti perdite da parte sovietica nella seguente guerra d'inverno, l'Unione Sovietica desistette dal suo intento di occupare ed annettersi l'intera Finlandia, in cambio di circa il 10% del territorio finlandese (la Carelia), gran parte del quale era ancora nelle mani dell'esercito finnico (questa cessione sarebbe rimasta definitiva). Nel giugno 1940 i tre stati baltici subirono l'occupazione e la successiva annessione da parte dell'Unione Sovietica. Il 26 giugno 1940 i sovietici posero un ultimatum alla Romania per la cessione della Bessarabia e della parte settentrionale della Bucovina: la richiesta sovietica della Bucovina Settentrionale, un territorio mai appartenuto alla Russia che i tedeschi consideravano mitteleuropeo e che non era stato preso in considerazione nei protocolli del patto di non aggressione, fu una sorpresa non solo per la Romania, ma anche per il Terzo Reich. Senza l'appoggio dei suoi tradizionali alleati, Regno Unito e Francia, Bucarest cedette i territori richiesti, ma da parte sovietica vi fu il mancato rispetto dei patti: i militari rumeni in ripiegamento verso il nuovo confine nei tempi e nei modi concordati furono attaccati proditoriamente, anche con lancio di paracadutisti, dall'Armata Rossa. I soldati sovietici aprirono il fuoco non solo contro i militari rumeni, ma anche contro masse di civili in fuga verso la Romania (si ricordi in merito il massacro di Fântâna Albă). Non paghe, le forze armate sovietiche invasero anche il territorio di Herța, con una maggioranza di popolazione rumena pari a circa il 95% del totale, che non era stato menzionato dall'ultimatum sovietico e che apparteneva alla Romania in epoca anteriore allo scoppio della prima guerra mondiale. Per ritornare alla Polonia, lo stato in fondo maggiormente citato negli accordi segreti, la politica di occupazione tedesca era sin dall'inizio orientata verso la creazione di uno spazio vitale per i tedeschi e lo sterminio degli ebrei. Dato che la teoria nazista delle razze era difficile da estendere ai popoli slavi, era intenzione di Hitler quella di mostrare la differenza tra tedeschi e polacchi con particolare chiarezza, adottando speciali misure. Ad esempio, una parte dei bambini polacchi era destinata alla deportazione nella parte originaria dell'impero tedesco per svolgere le mansioni più umili. La Polonia doveva invece essere germanizzata grazie a due provvedimenti: da una parte era previsto l'insediamento di tedeschi fino ad allora residenti in Germania e nei Paesi Baltici; dall'altra, la cultura polacca doveva essere sostituita da quella germanica. Non diversamente i sovietici miravano a cancellare il "mito" della nazione polacca e decidevano lo sterminio degli ufficiali polacchi che si erano loro consegnati per sfuggire alla cattura da parte dei nazisti: questa decisione era maturata nella consapevolezza che i laureati polacchi al momento dell'arruolamento assumevano automaticamente il grado di ufficiale. Per l'inizio del 1941, gli imperi di Germania e Unione Sovietica condividevano un confine che passava attraverso le odierne Lituania e Polonia. Subito dopo, le relazioni tedesco-sovietiche iniziarono a raffreddarsi e lo scontro tra lo Stato nazista e quello comunista sembrò sempre più inevitabile: esso si sarebbe poi concretizzato con l'inizio dell'operazione Barbarossa (22 giugno 1941). La Germania ruppe il patto due anni dopo che era stato stipulato invadendo l'Unione Sovietica il 22 giugno 1941: come anticipato poc'anzi, quest'azione bellica venne chiamata "operazione Barbarossa". Nel giro di settimane, l'aggressione tedesca venne imitata da una ripresa delle ostilità da parte della Finlandia, il 26 giugno, che iniziava la cosiddetta guerra di continuazione contro l'Unione Sovietica: se il paese scandinavo aveva riscosso simpatie a livello mondiale per le operazioni militari dell'inverno 1939-40, la decisione finlandese di riprendere le ostilità contro Stalin al fianco di Hitler fu criticata dalle potenze occidentali che erano nel frattempo diventate alleate dell'URSS. La Germania nazista trovava nella Finlandia, retta da un governo democratico, un importante alleato per stabilizzare il fianco settentrionale del suo schieramento e minacciare anche da nord Leningrado. La conseguenza più immediata del patto fu senz'altro l'occupazione tedesca e sovietica della Polonia (che quanto alla circostanza aveva affrontato precedenti storici settecenteschi, vedi spartizione della Polonia). La divisione riguardava anche i Paesi Baltici: questi ultimi, entrati alla fine nella sfera di potere sovietica, non riuscirono più a ritrovare la loro indipendenza neppure a conflitto terminato, dovendo invece attendere fino al 1991. Nonostante le previsioni di Hitler, il fatto sigillò definitivamente la fine della politica dell'Appeasement: Hitler dovette rendersi conto che le potenze occidentali non erano più intenzionate ad assistere passivamente all'espansione del Terzo Reich. Dopo l'occupazione della Polonia, Regno Unito e Francia erano ormai in guerra contro la Germania per dare vita al conflitto che più tardi sarebbe stato chiamato seconda guerra mondiale. Si trattava di un confronto drammatico, ma di un evento dalla portata non ancora mondiale: per il momento le due potenze vicine all'Europa, gli USA e l'URSS, ne rimanevano fuori. Era quella che Winston Churchill chiamò twilight war (guerra del crepuscolo). Stalin trasse profitto dal patto. Per lui veniva rimandata l'eventualità di ritrovarsi coinvolto in una guerra su due fronti contro il Giappone e la Germania. Ottenne una "pausa di respiro" di due anni per riorganizzare le strutture sovietiche in attesa del confronto militare con la Germania, cui non era ancora preparato[10]. Peraltro il tempo a disposizione, a causa della confusione e disorganizzazione dell'Armata Rossa e di alcune scelte sbagliate dei dirigenti sovietici, non produsse i risultati sperati e il 22 giugno 1941 l'Unione Sovietica venne colta di sorpresa dall'attacco e subì una serie di pesanti disfatte. Inoltre l'innaturale accordo con il nemico ideologico nazista e la passiva adesione agli ordini di Stalin dei dirigenti sovietici e dei partiti comunisti europei diffuse incertezza e inquietudine tra i militanti. Sempre a proposito dei vantaggi di cui godette Stalin, va aggiunto che la sua sfera di interessi, dopo il confronto militare con la Germania, non sarebbe più stata messa seriamente in discussione (eccezion fatta per la Finlandia). Quindi, il paesi baltici e la parte orientale dello stato polacco sarebbero stati inglobati nell'Unione Sovietica. La Romania vedrà divisa una regione molto importante per la sua storia come la Moldavia in due entità territoriali sotto due stati diversi (quello orientale diventerà infatti sovietico). Questo darà inizio anche ad un progressivo allontanamento culturale tra le genti delle due zone. Dal punto di vista di Hitler l'accordo fu un successo: grazie alla sicurezza acquisita sulle frontiere orientali, la Germania evitò momentaneamente una disastrosa guerra su due fronti e poté schierare la massa delle sue forze all'ovest, guadagnando un predominio decisivo in Europa. Ottenuti questi risultati, Hitler, pur avendo ceduto temporaneamente ai sovietici importanti posizioni strategiche, poté nel giugno 1941 riversare all'est tutto il peso della Wehrmacht, divenuta ora molto più potente ed esperta del 1939, con il sostegno politico-economico di gran parte dell'Europa, assoggettata o alleata con il Terzo Reich.

Peggio Stalin o Hitler? Scrive Arrigo Petacco. L'anniversario della morte di Giuseppe Stalin — 50 anni fa, il 5 marzo 1953, quando il dittatore aveva 73 anni — oltre a consentire ai pochi e malinconici nostalgici del culto della personalità di levare suffragi alla memoria del «grande e amato capo del popolo lavoratore» come lo definivano con reverenza Togliatti e i suoi seguaci, ha anche riaperto il gioco della comparazione. Chi era più criminale, chi ne ha ammazzati di più, chi si merita di finire più in giù dell'altro nelle profondità dell'inferno: Hitler o Stalin? Io me ne guarderò bene dal dare una risposta perché non sarà certo la cinica conta dei milioni di cadaveri, a stabilire il primato fra i due principali protagonisti negativi del secolo scorso. Non ho invece la minima esitazione a indicare il più ipocrita: l'Oscar della doppiezza spetta a Giuseppe Stalin. Hitler, a modo suo, era sincero. Non ha mai tenuto nascosta la sua volontà di sopraffare, il suo razzismo sanguinario. Da quando pubblicò il Mein Kampf nel 1921, il futuro Fuhrer non ha mai fatto mistero dei suoi infernali progetti e chi aderì al suo movimento sapeva di entrare a far parte di una congrega di malfattori. Stalin invece ingannò per decenni il suo e altri popoli promettendo il Paradiso in terra per i lavoratori di tutto il mondo e realizzando invece un sistema infernale che dovunque è stato applicato ha prodotto soltanto miseria, fame, ingiustizia e morte. Ancora oggi a 50 anni dalla morte di Stalin e a 10 dall'implosione epocale dell'Unione Sovietica, c'è qualcuno (soprattutto sui libri di scuola, purtroppo) che si ostina a «salvare» la memoria di Stalin ammettendo certi suoi errori più o meno gravi ma sottolineando che a lui si deve l'industrializzazione dell'Unione Sovietica e soprattutto la vittoria delle democrazie occidentali nella seconda guerra mondiale. Ora, a parte il fatto che lo sviluppo industriale dell'Unione Sovietica costò un tale prezzo di sangue che fa ancora inorridire, è sullo Stalin salvatore delle democrazie che vorrei soffermarmi. Stalin infatti non salvò affatto le democrazie occidentali dalla minaccia nazista ma al contrario ne fu salvato. Molti ancora oggi non sanno o non amano ricordare che nei primi due anni del secondo conflitto mondiale l'Unione Sovietica fu alleata e complice della Germania nazista. Dall'agosto del 1939, quando firmò il patto di amicizia con Hitler, al giugno del 1941 quando con l'«operazione Barbarossa» le armate naziste aggredirono l'Unione Sovietica a tradimento, Stalin aveva sempre aiutato l'«amico» di Berlino a realizzare i suoi piani di conquista. Con Hitler Stalin si spartì la sventurata Polonia, d'accordo con Hitler si impadronì della Bessarabia, dei tre paesi baltici (Estonia, Lituania, Lettonia) e cercò infine di piegare la resistenza degli eroici finlandesi. Non solo: anche quando la svastica sventolava ormai su tutte le capitali europee e l'Inghilterra sembrava ridotta al lumicino, Stalin continuò volenterosamente a rifornire di materie prime le industrie belliche tedesche e continuò anche quando, alla vigilia dell'aggressione, la Germania aveva improvvisamente congelato i propri rifornimenti verso l'Urss. Il 21 giugno 1941, l'inizio di «Barbarossa» fu ritardato di alcune ore per consentire a un treno sovietico carico di preziosa gomma, di oltrepassare il confine russo-tedesco. Poi come è noto le divisioni corazzate germaniche penetrarono in Russia «come una baionetta in un pane di burro». Se Hitler non avesse calcolato male i tempi e se le democrazie occidentali e soprattutto gli Stati Uniti con i loro convogli artici non avessero rimpinguato di armi e di mezzi l'esauste risorse sovietiche, difficilmente l'Armata rossa avrebbe trovato la forza di reagire. L'imputazione quasi giudiziaria che oggi grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane. In questo, milione più milione meno egli eguaglia certamente Hitler ma con una differenza. Salvo il colonnello Roehm, che fece uccidere nella famosa «notte dei lunghi coltelli» perché gli insidiava il potere, Hitler fu leale e collaborativo con tutti i suoi principali gerarchi. Stalin invece, tutto istinto, rozzezza, crudeltà, passionalità vendicativa, in nome di un idilliaco paradiso socialista che non arrivava mai, portò milioni di individui a morte, comprese schiere di comunisti sinceri che credevano ciecamente in lui. L'immane carneficina cominciò subito dopo la sua conquista del potere. Liquidò per primi gli altri membri della «cinquina» dei possibili eredi nominati nel famoso testamento di Lenin fra i quali forse non a caso lui era collocato all'ultimo posto (Trotzcky, Bucharin, Kamenev, Zinoviev e Stalin) poi liquidò il 95% dei componenti del comitato centrale, quindi il 90% dello stato maggiore dell'Armata rossa con in testa il famoso maresciallo Tukacewsky; e il tragico balletto delle cifre potrebbe continuare a lungo. Ancora alla vigilia della sua morte, Stalin aveva appena avviato «il caso dei medici» prologo di una nuova purga che puntava a eliminare tutti i suoi possibili concorrenti e in particolare l'altro genio del male Laurenti Beria il quale, secondo alcune ipotesi, avrebbe giocato d'anticipo affrettando la fine del dittatore. Oggi il mito di Stalin è ancora vivo e sopravviverà a lungo. Non c'è dubbio infatti che l'uomo ha lasciato una profonda impronta nella storia del mondo. Ancora a lungo storici e studiosi si affanneranno per studiare la complessa psiche di questo personaggio che fu certamente l'uomo più amato e più odiato della storia. Continueranno anche a cercare di individuare la molla segreta che fece scattare nel rozzo ex-seminarista di Tbilisi la sua inarrestabile volontà di potenza. Fra le ipotesi finora avanzate ne sono emerse anche di singolari. L'ultima, più curiosa, addebita il temperamento di Stalin alla sua statura. Il «piccolo padre» era infatti piccolo di nome e di fatto. Misurava appena un metro e cinquantotto. 

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e prioprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo– ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali.

Quei magistrati calabresi iscritti alla massoneria. Tre dossier che scottano per un unico filone investigativo. Al centro i rapporti inconfessabili tra 'ndrangheta, politica e istituzioni all'ombra delle logge, scrive il direttore Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria", sabato, 09 Gennaio 2016. Un filone investigativo che scotta quello che si ritrovano in mano diversi magistrati calabresi: porta a rivisitare e riattualizzare i rapporti tra l'élite della 'ndrangheta e pezzi importanti del mondo massonico. Non bastasse, ecco ricomparire anche il nodo dell'appartenenza alla massoneria, in maniera diretta o velata ("all'orecchio"), di magistrati con ruoli particolarmente delicati dentro le strutture giudiziarie della Calabria e non solo della Calabria. Singoli filoni che fin qui non hanno avuto una lettura unitaria, tracce e piste seguite dalle inchieste condotte da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda reggina, da Giuseppe Lombardo, della stessa Dda reggina, e da Pierpaolo Bruni, che invece lavora alla Dda di Catanzaro. Va ribadito che affiliarsi alla massoneria non è reato, in quanto la massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l'articolo 18 («Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»). Diverso è dimostrare che alcune logge massoniche, magari sfuggite al controllo della fratellanza universale, fanno da punto di ritrovo per rapporti e sinergie inconfessabili tra mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni. A questo lavorano le singole inchieste e su questo stanno tornando a rendere dichiarazioni importanti faccendieri che hanno rappresentato la cerniera tra nomine, affari, appalti e riciclaggio riconducibili al mondo criminale. Ma quando ci si imbatte nel nome di magistrati affiliati alla massoneria il discorso cambia, perché se pure non si può qualificare l'affiliazione massonica come reato, c'è tuttavia quanto statuito dal Consiglio superiore della magistratura che ha affermato con chiarezza «l'incompatibilità fra affiliazione massonica e l'esercizio delle funzioni di magistrato», perché le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezione a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell'immagine e del prestigio del magistrato e dell'intero ordine giudiziario». A dare manforte al Csm c'è anche una sentenza della Suprema corte: «Il giudice massone può essere ricusato dall'imputato, in quanto l'appartenenza a logge preclude "di per sé l'imparzialità" del magistrato» (la Cassazione, 5a sezione penale numero 1563 / 98), in altre parole, perché – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi a interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia». Come regolarsi, dunque, se nell'acquisizione di documenti o nella raccolta di deposizioni sotto giuramento, arriva sul tavolo del magistrato inquirente il nome di un collega indicato come affiliato alla massoneria? Se lo stanno chiedendo in queste ore all'interno delle Procure calabresi più esposte sul fonte delle indagini sui rapporti apicali tra 'ndrangheta, politica e affari. I dossier che scottano sono sostanzialmente tre. Il primo trae origine dalle denunce incrociate tra il gran maestro Gustavo Raffi e uno dei massimi esponenti storici della massoneria calabrese, il gran maestro Amerigo Minnicelli. Quest'ultimo, in sostanza, ha accusato pubblicamente il Grande Oriente di aver consentito una dilatazione delle iscrizioni in Calabria al fine di condizionare l'esito dell'elezione del nuovo gran maestro Stefano Bisi, giornalista e vicedirettore de Il Corriere di Siena, scelto da Raffi e vittorioso grazie al fatto che attorno a lui si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione, la Calabria, che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Un contenzioso interno? Non più, dopo le feroci critiche del fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l'esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere. E l'operazione "Decollo money" che ha portato in carcere nel 2011 l'imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. Illuminanti, invece, sono le parole di Pantaleone Mancuso (alias "Vetrinetta"), mammasantissima del crimine calabrese, deceduto il 3 ottobre scorso, che ha teorizzato la confluenza della 'ndrangheta nella massoneria. Una preziosa intercettazione ambientale, infatti, ci consegna il boss mentre spiega che la 'ndrangheta «non esiste più», è roba da paese, la 'ndrangheta vera si è trasferita all'interno della massoneria, anzi è «sotto la massoneria». Un poco quanto va spiegando, e siamo al secondo filone investigativo, in queste ore ai magistrati reggini un altro esponente di spicco della massoneria che ha ripreso a collaborare con la magistratura. Spiega perché, negli anni, il potere in Calabria si è concentrato sull'asse Reggio-Gioia Tauro-Vibo e nel farlo chiama in causa anche magistrati che avrebbero agito a protezione del "sistema" ogni qualvolta le inchieste si sono avvicinate pericolosamente a tale cabina di comando criminale. Il terzo nasce dal materiale sequestrato dal pm Pierpaolo Bruni in casa e nei locali che ospitano la loggia massonica fondata da Paolo Coraci, originario di Messina e residente a Roma ma con amicizie salde nel Vibonese e nel Reggino, tra queste quelle con alcuni magistrati calabresi. Dall'archivio del gran maestro Coraci sono saltate fuori anche le schede di valutazione e i curricula di adepti da segnalare per l'ingresso nei consigli d'amministrazione di 15 enti pubblici. Non solo, anche tre Questure sarebbero state elevate al livello di dirigenza generale attraverso un intreccio di interessi tra la loggia, un sacerdote ed esponenti politici. L'intervento della loggia massonica avrebbe riguardato due Questure del sud Italia e una in una regione del Centro. Secondo la Dda di Catanzaro, la loggia massonica fondata da Coraci aveva interesse a creare un intricato sistema di potere che portava anche alla nomina di consiglieri d'amministrazione in enti pubblici. C'è quanto basta a mettere in fibrillazione più di un "palazzo", più di una "loggia" e più di una "cosca", specialmente alla vigilia di una serie di scelte importanti che proprio il Consiglio superiore della magistratura è chiamato a compiere per via del turnover ai vertici di uffici giudiziari delicatissimi, quali ad esempio le procure di Catanzaro e Cosenza.

CHI FA LE LEGGI? 

Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?

Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.

I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.

Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.

Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.

Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.

I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.

Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.

Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.

Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.

Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).

Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.

Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.

Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.

LA MASSONERIA E PALAZZO GIUSTINIANI.

Palazzo Giustiniani era della massoneria. «Sarà il nostro museo», scrive Francesco Straface il 21 settembre 2016 su "Il Dubbio". La richiesta del Grande Oriente. Il poncio di Garibaldi e i testamenti di Totò, Carducci e Pascoli tra i cimeli che la loggia vorrebbe esporre nei locali confiscati da Mussolini. Secondo un diffuso luogo comune la Massoneria ha un potere occulto sui governi. Eppure, nel caso di Palazzo Giustiniani, la politica l'ha letteralmente osteggiata. Il Grande Oriente d'Italia, infatti, reclama invano il rispetto della transazione stipulata nel 1991 con l'allora presidente del Senato Giovanni Spadolini e il ministero delle Finanze. Un accordo in virtù del quale il Governo si impegnava a concedere dei locali da 120 metri quadrati ad un affitto simbolico ventennale, da rinnovare periodicamente. L'immobile era dal 1901 sede della Massoneria. Il Gran Maestro Ettore Ferrari l'acquistò dieci anni dopo grazie alle sottoscrizioni degli associati per poco più di un milione di lire. La proprietà originaria contava ben 405 vani, distribuiti su sette piani. Espropriato da Mussolini nel 1926, divenne la casa del Senato. Con un dossier documentario, curato da Carlo Ricotti ed Elisabetta Cicciola, a 25 anni dall'intesa sottoscritta, il Grande Oriente torna a chiedere con forza la restituzione dei locali, che vorrebbe adibire a Museo Storico della Massoneria italiana. Il patrimonio che è conservato nelle teche del Vascello, in via di San Pancrazio, è oggettivamente di grande valore. Tra i cimeli storici in attesa di essere esposti al Senato, il collare storico indossato dai Gran Maestri, che venne nascosto nelle fasce di un neonato per sottrarlo ai fascisti, il poncio di Giuseppe Garibaldi, autenticato da uno dei figli, e i testamenti spirituali di Totò, Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli, che sono stati tra i massoni più illustri. Il Gran Maestro Stefano Bisi non nasconde la sua amarezza: «Da un quarto di secolo attendiamo la consegna dei locali. Un'ingiustizia tutta italiana. Forse non ci si indigna perchè a subire un torto è la Massoneria». A nulla sono servite le richieste inoltrate al presidente del Senato Pietro Grasso e al Segretario Generale Elisabetta Serafin. «Chiediamo un accordo pacifico, che prenda atto delle precedenti convenzioni. Altrimenti dovremmo avviare un nuovo iter giudiziario contro quelle stesse Istituzioni che celebriamo regolarmente, con numerosi eventi su tutto il territorio italiano, per i 70 anni della Repubblica». Il Grande Oriente vorrebbe esporre lettere, documenti e simboli storici della Libera Muratoria e affidarne la gestione a cooperative sociali di detenuti o diversamente abili. «Non siamo i soli a tenere riservati i nomi di tutti gli associati. La nostra è una casa aperta ribadisce Bisi  Soltanto qualche giorno fa abbiamo conferito a Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, l'onorificenza dedicata a Galileo Galilei, la massima riconoscibile a un non massone». Il Grande Oriente si è impegnato a supportare il suo laboratorio, fornendogli mezzi e aiuto logistico.

IL RITO DI INIZIAZIONE.

Nudo accanto allo scheletro: i riti della massoneria "hard". Un pentito racconta l'iniziazione da affrontare per entrare nella superloggia, scrive Gianfranco Turano il 21 settembre 2016 su “L’Espresso”. Finora l'ammissione in loggia era stata svelata ai profani dal film “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli con il Venerabile Romolo Valli che accoglie fra le colonne di Jachin e Boaz un Alberto Sordi voglioso di carriera. Ma il personaggio di Sordi è un semplice apprendista. Il superpentito Cosimo Virgiglio ha raccontato ai magistrati reggini un rito “molto duro”, chiamato “penta” perché riservato a cinque persone e dedicato a un grado iniziatico superiore. Nel verbale del 29 aprile 2015, ancora in larga parte riservato, Virgiglio parla di un personaggio, il cui nome è coperto da omissis, che ha il compito di sovrintendere al cerimoniale segreto e occupa le cariche di Gran maestro del Grande Oriente di San Marino e di Venerabile della loggia Montecarlo, madre di tutte le logge coperte. I cinque candidati pensano a una semplice formalità. È l’inizio di un’ordalia. «Vengono arrestati», racconta il pentito, «all’ingresso della dogana, si chiama così. Tutti belli pimpanti, ridono. Di colpo, pum, vengono bloccati e messi nel furgone al buio». Il Venerabile «si permetteva il lusso di farli morire al mondo profano perché il rito di iniziazione è molto duro. Lui si permetteva di farli morire al mondo profano nella Rocca di San Leo, la Rocca di San Marino». Virgiglio si riferisce alla Rocca o Forte di San Leo, antica capitale del ducato di Montefeltro che si trova circa 5 chilometri a ovest del territorio del Titano ma ancora in provincia di Rimini. La Rocca ha un particolare significato per il rito massonico perché le sue segrete hanno ospitato Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, frammassone e avventuriero settecentesco di fama internazionale. «Io l’ho vissuto», continua Virgiglio parlando del penta, «Non lì. Io l’ho vissuto a Vibo e ho fatto sette ore, seminudo con lo scheletro a fianco e una luce. Lì fai testamento». Il pubblico ministero che interroga, Giuseppe Lombardo della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, chiede se si tratti di uno scheletro vero. La risposta è affermativa. Come nel Borghese piccolo piccolo, la commedia all’italiana lascia presto il posto al dramma. Nel racconto di Virgiglio emergono i motivi che impongono ai livelli più riservati dell’associazione segreta tali durezze con chi deve “morire al mondo profano”. Virgiglio spiega al magistrato: «Per farle capire come materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale, il varco, che nel gergo massonico è riferito alla breccia di Porta Pia, è costituito da quella nuova figura criminale che è identificata con la Santa. Attraverso quel varco, costituito dai santisti che sono rappresentati da soggetti insospettabili, il mondo massonico entra nella ’ndrangheta e non viceversa. Il ruolo di santista all’interno della ’ndrangheta non consente in automatico il contatto con la massoneria. È necessario che si individuino ulteriori soggetti-cerniera, in giacca, cravatta e laurea». Virgiglio delinea il doppio scopo strategico della nuova formazione. «Il sistema allargato aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ’ndrangheta mirava al consolidamento dei capitali sporchi che andavano ricollocati sul mercato anche estero mediante strumenti finanziari evoluti». Virgiglio descrive per diretta conoscenza la struttura massonica calabrese grazie al «mio ruolo qualificato all’interno della Loggia dei due mondi di Reggio di cui detenevo il “maglietto pulito”; esiste il cosiddetto “maglietto sporco o occulto” che costituisce quell’ambito riservato o invisibile della stessa componente massonica; di tale contesto facevano parte numerosi soggetti collegati all’ambiente criminale di tipo mafioso che per evidenti ragioni non potevano essere inseriti nelle logge regolari ovvero nella parte visibile». Questi nomi sono ancora segreti, tranne uno che non è più perseguibile. Appartiene all’inventore della massoneria segreta italiana, morto a 96 anni nel suo letto alla fine del 2015. Licio Gelli, chi altri? 

ERO MASSONE.

Ero massone. Storia di Maurice Caillet, l’ex venerabile convertito al cattolicesimo grazie a Lourdes, scrive il 21 Novembre 2014 Pietro Piccinini su “Tempi”. «Dopo quindici anni di guanti e grembiuli posso testimoniare che per un “fratello” l’uomo da abbattere è sempre il Papa». Cari amici di Tempi, recentemente sono incappato su Youtube in un’intervista a Maurice Caillet, ex massone convertito. Una storia bellissima che mi ha fatto tornare in mente di averla già letta sul vostro settimanale. Cercando nell’archivio, però, non sono riuscito a trovarla. Potreste aiutarmi a recuperarla? Grazie.

Paco Minelli: Gentile lettore, lei ha ragione. L’intervista apparsa su un numero del settimanale nel giugno 2010 non era mai stata riportata on line. Eccola di seguito:

Maurice Caillet. La formazione razionalista, le battaglie per il controllo demografico, poi l’iniziazione. Così un medico francese in cerca di Lumi si ritrovò immerso in una notte fatta di trame segrete, corruzione e occultismo. Dove tutto è tollerato, tranne la Chiesa. Confessioni di un ex Venerabile Di Pietro Piccinini. Maurice Caillet è stato massone. Anzi, massonissimo. Per la precisione, è stato Maestro Venerabile di una delle più antiche e importanti logge del Grande Oriente di Francia. Di più: iniziato alla libera muratoria nel 1970 nel Tempio di Rennes, nei suoi quindici anni di fedele appartenenza il dottor Caillet, medico specializzato in chirurgia ginecologica e urologia, ateo razionalista quasi fin dentro il dna, è stato una specie di enfant prodige della massoneria, guadagnandosi il privilegio di accedere agli Alti Gradi del Rito Scozzese Antico Accettato (dei quali molti “fratelli” ignorano perfino l’esistenza), fino a raggiungere il diciottesimo, quello di Cavaliere Rosacroce. Da membro storico dell’Organizzazione per la Pianificazione Familiare, praticava la contraccezione artificiale e la sterilizzazione prima ancora che fossero legalizzate, e dal 1975, dopo aver visto andare in porto il piano massonico per l’introduzione in Francia di una legge sull’aborto, divenne il primo medico a esercitare le interruzioni di gravidanza in Bretagna. Nel frattempo, nel 1973, era anche diventato rappresentante locale del Partito socialista di François Mitterrand, perciò quando, nel 1981, quest’ultimo fu eletto presidente della Repubblica e nominò dodici ministri massoni, Caillet ebbe modo di valutare da vicino il conseguente boom di domande di iniziazione, molte delle quali provenivano naturalmente da politici in cerca di utili amicizie. Lo stesso Caillet, che pure era entrato nella massoneria immaginandola come «un luogo dove scambiarsi le idee all’insegna della laicità», in seguito non disdegnò di scambiarsi appoggi di carriera e favori giudiziari coi fratelli. Tutto questo, completo di nomi e cognomi, Maurice Caillet lo ha scritto in un libro, Ero massone (Piemme), che da un paio di mesi è uscito anche in Italia. Peccato che pochi se ne siano accorti. Peccato perché tra quelle pagine ci sono cose che forse neanche Dan Brown avrebbe il cuore di attribuire alla più fanatica delle sue sette inventate. A parte l’armamentario classico di compassi e grembiuli, ci sono – raccontati nel dettaglio – formule e riti occulti con tende nere, teschi e bare. C’è (prima dell’iniziazione) l’ispezione dei Maestri in incognito a casa Caillet. Ci sono resoconti di riunioni segrete, mitologia, ideologia, corruzione e trame di potere. Ma soprattutto ci sono l’isolamento, il mobbing spietato e le minacce di morte di cui Caillet fu fatto oggetto a partire dal momento in cui, nel 1984, decise di comunicare ai “fratelli” la sua conversione al cattolicesimo. Sembra il romanzo di un incredibile complottone della massoneria intergalattica. Invece è la storia vera di Maurice Caillet. Che oggi vive in Spagna, sotto protezione.

Dottor Caillet, lei chiese di entrare nella massoneria da convinto ateo razionalista. E in genere è così che ci si immagina i massoni. Quella che lei racconta, però, è più che altro una strana forma di religione misterica ultrafideista. Che logica ha questo tuffo dai Lumi all’occulto?

«C’è qualche cosa di incomprensibile anche per me nell’essere passato dal razionalismo e dallo scientismo all’accettazione di rituali di tipo animista fondati su una mitologia discutibile e a una vera e propria negazione della ragione. Il mio stesso raziocinio ne è rimasto chiaramente annebbiato. Anche altre persone più qualificate di me hanno ceduto alla seduzione delle “sirene” massoniche: curiosità, ricerca di saperi nascosti ai comuni mortali, ambizione di entrare nell’élite. Questa irrazionalità contrasta effettivamente con le filosofie cosiddette dei Lumi, che facevano l’apologia della ragione, spesso con disprezzo per la fede».

Molti princìpi della massoneria non sono altro che una specie di cristianesimo senza Cristo. La sua stessa conversione iniziò quando, durante una Messa a Lourdes, lei scoprì che quel «chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» non era un motto massonico bensì la «parola del Signore Gesù».

«Il mio ultimo libro, Ero massone, mostra bene, spero, che i princìpi massonici “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” sono effettivamente scimmiottature degli insegnamenti di Gesù, perché deviati o proprio traditi nella pratica. Ma in quindici anni di massoneria io non mi sono mai preoccupato dell’origine di quei princìpi e non ne vedevo le contraddizioni, in particolare l’assenza di uguaglianza tra gli iniziati e i profani e perfino tra i massoni stessi, suddivisi in 33 gradi ben distinti».

Nella storia della sua conversione c’è anche «lo sguardo» del suo padre spirituale Yves Boucher. Possibile che in un monaco ci sia più “umanesimo” che in un libero muratore?

«Senza alcun dubbio l’incontro con quel monaco benedettino ha rafforzato la mia conversione: prima in modo intuitivo, poi in modo più cosciente nel corso degli anni, ho avvertito la presenza dello Spirito Santo che animava quell’uomo autentico e distaccato dai beni di questo mondo, presenza che io non avevo mai percepito tra i miei “fratelli” massoni, guidati da ogni sorta di brama e di sofisma. Il suo buonsenso mi ha convinto che la fede non esclude la ragione, ma la eleva. Mi ha anche insegnato a lasciarmi trasformare dalla Grazia che dona la vera gioia».

Dopo la folgorazione a Lourdes le capitarono alcuni fatti inquietanti che lei attribuisce all’«azione del Maligno». Cosa c’entra il diavolo con la massoneria?

«Per me è evidente che il Maligno ci tiene a mantenerci sotto la sua dipendenza attraverso l’influenza di false filosofie, il fascino di saperi sedicenti occulti e quella cultura di morte alla quale io ho contribuito con la pratica delle interruzioni di gravidanza. Questo ci svia da Gesù che è la verità e la vita».

Nel suo libro lei cita diversi cattolici affiliati alla massoneria che vivono questa “doppia appartenenza” come se non ci fosse alcun problema. Secondo lei nella Chiesa la massoneria è sottovalutata?

«In Francia c’è sempre stata una tradizione di gallicanesimo, vale a dire di indipendenza nei confronti dell’autorità del magistero. È per questo che la prima condanna dell’appartenenza alla massoneria di Clemente XII (1738), poi le seguenti, non furono trascritte né applicate dai diversi regimi francesi, regno, impero o repubblica. Molti tra i massoni giustificano la loro doppia appartenenza col pretesto che il nuovo diritto canonico, uscito dal Vaticano II, non condanna esplicitamente l’adesione alla massoneria e fingono di ignorare la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede del 26 novembre 1983, firmata da monsignor Ratzinger e approvata da Giovanni Paolo II, dunque senza alcun equivoco possibile. Per di più, alcuni cattolici un po’ ingenui si lasciano sedurre dai princìpi di tolleranza e di umanesimo esibiti dalla massoneria, per la quale in realtà l’antidogmatismo è un vero dogma».

E gli altri la sottovalutano? Sa che nel Partito democratico italiano è iniziato uno psicodramma quando è emerso che alcuni suoi esponenti sono massoni?

«Non conosco la situazione in Italia, ma nei paesi anglofoni, così come in Francia, è normale per un uomo politico appartenere alla massoneria».

C’è chi entra in una qualche loggia «per progredire su una qualche via iniziatica o spirituale» e chi invece lo fa «per ampliare la rubrica dei contatti illustri». Dove si incrociano le due strade?

«Quando ero Venerabile (o presidente) di loggia, avevo suddiviso i miei “fratelli” in tre categorie: un terzo di idealisti che sperano di migliorare l’uomo e la società (senza l’aiuto di Dio: si chiama pelagianesimo), un terzo di arrivisti che contano sulle loro nuove relazioni per migliorare la loro posizione sociale, un terzo di assistiti che hanno bisogno di una famiglia in cui sentirsi al sicuro, alla maniera dei clientes delle famiglie influenti ai tempi della società romana antica. Ma certamente non c’è una separazione ermetica fra queste tre categorie».

Ma la smania di potere può portare un massone a sostenere battaglie contrarie alle proprie convinzioni? Ha visto esempi di questo?

«Assolutamente sì, e il migliore esempio che posso fare è quello dei parlamentari francesi di destra, membri della massoneria, che hanno votato nel 1974 a favore della legge Veil sulla liberalizzazione dell’aborto, mentre le loro convinzioni personali li spingevano a non farlo. Ma due Gran Maestri erano stati scelti come consiglieri del governo e avevano chiesto ai “fratelli” di sostenere quel progetto. La stessa Madame Veil rimase stupita di avere così pochi oppositori».

Lei scrive che l’edonismo massonico «ha portato a preparare e promuovere in Francia», oltre all’aborto, tutte le leggi che favoriscono la cosiddetta secolarizzazione, dal libertinaggio sessuale alla manipolazione degli embrioni. Quindi esiste veramente il famigerato complotto che decide l’agenda della politica e dell’opinione pubblica? E come funziona?

«Per prima cosa la massoneria recluta sempre negli ambienti influenti e in particolare negli ambienti della politica e del giornalismo, dell’educazione pubblica e delle professioni liberali. Non si può veramente parlare di complotto, ma nel corso delle riunioni che si svolgono ogni quindici giorni si produce una “unificazione” delle idee, un consenso, che porta i “fratelli” a usare della loro influenza là dove si trovano, e in genere con grande discrezione».

Aborto, legalizzazione delle droghe, eutanasia, divorzio… Come mai il culto massonico della natura e dell’umanità finisce sempre per ritorcersi contro l’uomo?

«Effettivamente tutto l’umanesimo che esclude Dio si ritorce contro l’uomo: è così che il comunismo, le cui intenzioni originali erano lodevoli, è sfociato in uno dei più grandi genocidi della storia».

Lei parla esplicitamente del «maschilismo della massoneria». Ma se la massoneria è maschilista, dovrebbe essere maschilista, per esempio, anche la legge sull’aborto. E come la mettiamo con la storia della “liberazione della donna”?

«Non c’è tutta la contraddizione che si potrebbe credere tra il maschilismo delle obbedienze massoniche maschili e la cosiddetta liberazione della donna. Il punto che accomuna le due cose è la volontà di sbarazzarsi di tutti gli ostacoli alla possibilità per l’uomo di approfittare delle grazie femminili senza alcun vincolo. Le obbedienze femminili, minoritarie, hanno inseguito la libertà sfrenata senza valutare le conseguenze per la loro femminilità e la loro reale indipendenza».

Dice che non si può usare la parola “complotto”. Ma l’«universalismo massonico» di cui scrive nel libro, che addirittura «aspira al governo del mondo, progetto sostenuto in forma sotterranea da parecchie organizzazioni internazionali pilotate da massoni: Trilaterale, Bilderberg, B’nai B’rith» un po’ ci assomiglia. Cosa succede in quelle segrete stanze?

«Benché sia chirurgo, i miei mezzi finanziari non mi hanno permesso di entrare negli arcani della massoneria internazionale politica e finanziaria, riservata ai grandi di questo mondo. Ma io so quel che si diceva all’interno delle logge su questo argomento. A proposito, Monsieur Zapatero, che credo sia massone, ha ricevuto pochi giorni fa i suoi amici del Bilderberg nei pressi di Barcellona».

Qualcuno vede spuntare grembiuli anche dietro le varie “campagne” contro il Papa e la Chiesa. Perché la massoneria dovrebbe odiare Benedetto XVI?

«Per aver partecipato alla massoneria per quindici anni, posso testimoniare che per i massoni, i quali affermano continuamente la loro grande tolleranza, l’uomo da abbattere è il Papa, che si tratti di Pio XII, di Giovanni Paolo II o di Benedetto XVI. Mentre la famosa tolleranza è effettiva nei confronti delle Chiese protestanti e ortodosse (Chiese divise), come nei confronti del giudaismo e dell’islam, l’ostilità contro la Chiesa cattolica riguarda il fatto che essa è centralizzata attorno al Santo Padre, il quale vigila sulla sana dottrina e sostiene in particolare la conciliabilità tra la fede e la ragione».

Sulla rivista cattolica L’homme nouveau lei ha invocato «una legge per la separazione dello Stato dalla massoneria». Era solo una battuta?

«Certo, era ironico quel che ho scritto, e cioè che bisognava ottenere la separazione dello Stato francese dalla massoneria, così come la massoneria aveva ottenuto all’inizio del XX secolo la separazione della Chiesa e dello Stato. Io però lo penso sinceramente, pur non prevedendone la realizzazione prima di qualche decennio. Ma i tempi di Dio non sono i nostri… e io prego per la conversione dei massoni».

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

P2 E DINTORNI. CHI ERA LICIO GELLI?

Chi era Licio Gelli, l'ex "venerabile" della P2. Il gran maestro della loggia massonica, morto ieri, è stato protagonista di una lunga stagione di trame e misteri della storia italiana, scrive "Panorama" il 16 dicembre 2015. Il "burattinaio", "Belfagor", "il venerabile". Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della loggia massonica P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, è morto a 96 anni nella sua dimora storica Villa Wanda, alle porte di Arezzo.

La vita. Nato a Pistoia il 21 aprile 1919, a 18 anni si arruolò come volontario nelle camicie nere di Franco in Spagna. Fu fascista, "repubblichino" e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio.Le di Castiglion Fibocchi.

La massoneria. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia "Propaganda 2", nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi.

I guai con la giustizia. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia.

La condanna. L'11 aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. (ANSA)

A 96 muore Licio Gelli. In Italia non ha mai fatto un giorno di carcere. Scompare l'ex venerabile della loggia P2. E' deceduto a Villa Wanda, ad Arezzo. Condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, dopo essere stato detenuto in Francia e Svizzera era tornato a vivere in Toscana, scrive R.I. su "L'Espresso" il 16 dicembre 2015. E' morto Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2, coinvolto nei misteri più oscuri dell'Italia del dopoguerra. Si è spento alle 23 del 15 dicembre a Villa Wanda, la casa sulle colline di Arezzo. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli fu condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, era tornato a vivere a Villa Wanda. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e i tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali sono previsti giovedì a Pistoia, mentre la camera ardente potrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda. Il «burattinaio», «Belfagor», «il venerabile». Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, a 18 anni si arruolò come volontario nelle «camicie nere» di Franco in Spagna. Fu fascista, repubblichino e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio.Le di Castiglion Fibocchi. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia «Propaganda 2», nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia. L'11aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex venerabile porta con se nella tomba alcuni dei segreti, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo il 17 marzo 1981, quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di ’grand commis’ aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervaso e Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.  

Cia, golpe, esercito e crac: tutti i torbidi segreti che Licio Gelli si porta nella tomba, scrive “Libero Quotidiano” il 16 dicembre 2015. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex "venerabile "porta con se nella tomba alcuni dei segreti più torbidi d’Italia, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo allignato dentro e dietro quello ufficiale il 17 marzo 1981 quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di "grand commis" aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervasoe Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia. Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crac del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni. Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.

È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo, scrive Luca Romano Mercoledì 16/12/2015 su "Il Giornale". È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo. Gelli era stato ricoverato recentemente in ospedale. L'ex imprenditore divenuto famoso per la vicenda legata alla loggia massonica P2 si è spento poco prima delle 23 di martedì a Villa Wanda dove risiedeva da anni. Da due giorni le condizioni di salute di Licio Gelli, già precarie, erano fortemente peggiorate tanto da indurre la moglie Gabriela Vasile a ricoverarlo nella clinica pisana di San Rossore da dove era stato dimesso alla fine della scorsa settimana perché giudicato ormai in fin di vita. Dopo un rapido check up all'ospedale di Arezzo che aveva dato lo stesso esito, la famiglia aveva deciso di riportarlo a Villa Wanda dove è spirato. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli è stato condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, si era ritirato nella sua abitazione sulle colline di Arezzo dove è morto. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali si svolgeranno probabilmente giovedì a Pistia, mentre la camera ardente dovrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda.

Licio Gelli e la P2. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981, continua Luca Romano. Condannato per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1982, è stato l'uomo dietro ai grandi misteri d'Italia, il nome dell'ex venerabile - gran maestro della loggia deviata - è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia dello scorso secolo: tentato golpe Borghese, strategia della tensione (strage alla stazione di Bologna in testa), crac Sindona, caso Calvi e Moro, mafia, tangentopoli. Classe 1919, si è spento nella sua villa Wanda (ribattezzata in onore della prima moglie Wanda Vannacci) sulle colline di Arezzo, dove era rientrato dopo un breve ricovero in ospedale. Definito "il burattinaio d'Italia", faccendiere e imprenditore, fu fascista durante il regime e la Repubblica di Salò e, poi, partigiano, quando la vittoria della guerra cominciò a rivelarsi impossibile per i nazi-fascisti. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981. I giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell'ambito di un'inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona (banchiere coinvolto nell'affare Calvi e mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli), fecero perquisire la villa di Gelli e la fabbrica di sua proprietà (la Giole di Castiglion Fibocchi, Arezzo), che portò alla scoperta di una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di funzionari pubblici aderenti alla P2. La scoperta di un potere parallelo, di un altro Stato che controllasse ogni intrigo di potere, fu un terremoto politico, che travolse un pezzo della classe dirigente italiana. Tra le 962 persone inserite nell'elenco vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell'allora governo (Enrico Manca, Psi e Franco Foschi, Dc), un segretario di partito, 12 generali dei carabinieri, 5 generali della guardia di finanza, 22 generali dell'esercito italiano, 4 dell'aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, diversi giornalisti ed imprenditori. Tra i nomi più noti, oltre a Vittorio Emanuele di Savoia, anche il futuro premier Silvio Berlusconi. Nel 2008, in un'intervista a Klaus Davi per Klauscondicio, l'ex venerabile dichiarò: "Con la P2 avevamo l'Italia in mano. Con noi c'era l'esercito, la guardia di finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia". Il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani attese il 21 maggio 1981, prima di rendere pubblica la lista degli appartenenti alla P2. Fu istituita, per volontà della presidente della Camera Nilde Iotti, una commissione parlamentare d'inchiesta, guidata dalla deputata democristiana Tina Anselmi, ex partigiana e prima donna a diventare ministro. La commissione affrontò un lungo lavoro di analisi venendo a scoprire come la P2 fu anche un punto di riferimento in Italia per ambienti dei servizi segreti americani, intenzionati a tenere sotto controllo la vita politica italiana fino al punto, se necessario, di promuovere riforme costituzionali apposite o di organizzare un colpo di Stato. La commissione denunciò la loggia come una vera e propria organizzazione criminale ed eversiva. Fu sciolta con un'apposita legge, la numero 17 del 25 gennaio 1982.

Gelli e i misteri d'Italia. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia, conclude Luca Romano. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 scomparso nella serata di martedì 15 a 96 anni nella sua casa di Arezzo, è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia: dal tentato golpe Borghese a tangentopoli, dalla scalata a gruppi editoriali al caso Moro.

Questo un elenco dei principali fatti che lo hanno visto coinvolto e indagato negli ultimi anni.

- STRAGE DI BOLOGNA (2 agosto 1980 - 85 morti e 200 feriti): assolto definitivamente dall' accusa di associazione eversiva Gelli nel 1994 è stato condannato per calunnia (10 anni) al processo d'appello-bis. Nell'ambito del processo l' ex "venerabile" fu protagonista anche della misteriosa rinuncia all'incarico da parte di uno dei legali di parte civile Roberto Montorzi che abbandonò il collegio dopo due incontri con Gelli a villa Wanda.

- BANCO AMBROSIANO: al processo di primo grado a Milano, Gelli è stato condannato a 18 anni di reclusione per il ruolo avuto nella bancarotta dall'istituto di Calvi (che aveva la tessera n.519 della P2). Il suo nome è da sempre anche al centro delle indagini sulla morte del "banchiere di Dio". Nel processo di secondo grado la pena venne ridotta a 12 anni. Il 6 maggio 1998 Gelli, che doveva scontare la condanna divenuta definitiva, fugge da villa Wanda e si rende irreperibile. Il 10 settembre viene fermato e arrestato a Cannes. Gelli entrò anche nell'inchiesta sull'omicidio del banchiere, ma il procedimento venne archiviato il 30 maggio 2009.

- CONTO "PROTEZIONE": il 29 luglio 1994 Gelli è stato condannato a Milano a sei anni e mezzo, in primo grado, per la vicenda del conto 633369 di Silvano Larini all'Ubs di Lugano, del quale fu trovata traccia nel 1981 a Castiglion Fibocchi con riferimenti a soldi destinati al Psi di Craxi e Martelli. La pena fu ridotta a 5 anni e 9 mesi in appello. La Cassazione decise l'annullamento della condanna per Gelli per improcedibilità dell'azione penale, essendo stata la sua posizione definita nel processo per il crac del Banco Ambrosiano.

- ATTENTATI AI TRENI IN TOSCANA: accusato di aver finanziato le organizzazioni eversive "nere" per gli attentati degli anni Settanta, Gelli è stato prima condannato a 8 anni e poi dichiarato non processabile.

- MAFIA-POLITICA-AFFARI: Gelli era uno dei 126 imputati al processo a Palmi sui presunti collegamenti tra mondo politico ed imprenditoriale e organizzazioni mafiose. Secondo l'accusa, si sarebbe adoperato per "aggiustare" un processo in Cassazione a due presunti mafiosi di Taranto. Venne assolto il 3 marzo 1995 dall' accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 1998 è chiamato in causa dal procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli nell'inchiesta Sistemi criminali poi archiviata nel 2000.

- INCHIESTA OPERAZIONI FINANZIARIE: tra il 1993 ed il 1994, Gelli è stato al centro dell'attenzione dei magistrati di Arezzo e Roma per una serie di operazioni finanziarie miliardarie che avrebbe disposto in varie banche. Le indagini sono legate in particolare al fallimento della holding Cgf del gruppo Cerruti. Un ruolo di primo piano nelle vicende è rivestito dall'ex vicepresidente del Csm Ugo Zilletti.

- LEGAMI CON LA CAMORRA: la Dda di Napoli ha indagato sui rapporti tra Gelli ed alcuni esponenti della camorra.

- INCHIESTA CHEQUE TO CHEQUE: Gelli venne iscritto nel registro degli indagati, insieme al figlio Maurizio, nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura di Torre Annunziata (Napoli) in relazione ad un presunto traffico internazionale di armi e valuta. Una trentina le persone arrestate. L'inchiesta venne poi trasferita a Milano.

- CASO BRENNEKE: le presunte rivelazioni fatte al Tg1 dal sedicente ex agente della Cia Richard Brenneke sui rapporti tra servizi segreti Usa e P2, duramente smentite da Gelli, estate del 1990 provocarono tensioni e polemiche, anche per il coinvolgimento dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

- FALLIMENTO DI NEPI: Il 10 giugno 1997 la procura di Roma emette 9 ordini di arresto per il fallimento della holding Di Nepi e di numerose società legate al gruppo. Per Gelli scatta l'obbligo di dimora a Arezzo. Il 18 aprile 2005 venne condannato a 2 anni e 3 mesi di reclusione per associazione a delinquere e bancarotta insieme ad altre 9 persone.

Licio Gelli, quel megalomane di provincia diventato potente per caso. Un uomo bugiardo. Che solo le circostanze, la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti, avevano potuto trasformare in un uomo capace di infilarsi ovunque, dai partiti ai servizi segreti. E all'ombra delle grandi stragi di questo Paese, scrive Marco Damilano il 16 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Gli ho parlato una sola volta, al telefono, più di dieci anni fa. Chiamai il numero della casa ad Arezzo per un'intervista, l'apparecchio suonò un paio di volte, poi qualcuno rispose. «Pronto, vorrei parlare con Licio Gelli», dissi. Dall'altra parte un lungo silenzio, poi quella voce: «Non è in casa». Io, stupito: «Ma scusi, Gelli è lei, la riconosco!». E lui: «No, guardi, non sono io». E mise giù. A me venne in mente che l'attore Alighiero Noschese, il primo imitatore della tv italiana, era stato affratellato alla loggia P2, si diceva che falsificasse le voci nelle telefonate del Venerabile, fingeva di essere un ministro o il presidente del Consiglio. E anche lui all'epoca si era inventato un'altra identità, al telefono si faceva chiamare dottor Luciani, per paura delle intercettazioni. E pensai che questo era, prima di tutto, Licio Gelli. Un bugiardo. Un megalomane di provincia che solo le circostanze - la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti - avevano potuto trasformare in un uomo potente. In vecchiaia si era messo a scrivere versi di dubbio valore letterario ma di sicuro impatto per le cronache: ««Passano gli anni e il tempo affresca le rughe, / scalfisce i segreti remoti che durano nel cuore…». Untuoso, anzi viscido, ogni parola un soffio di ricatto. «Sono il confessore di questa Repubblica», amava vantarsi ai tempi della sua ascesa. Quando arrivava all'hotel Excelsior in via Veneto, si rinchiudeva nelle sue tre stanze, dalla 127 alla 129, e riceveva. I suoi seguaci. I candidati alla loggia. «Il braccio sinistro appoggiato su una scrivania con molti cassetti. Ogni tanto ne apriva uno e tirava fuori qualche fascicolo ben conservato in copertine di cartoncino rosa. Era il suo archivio. Lo faceva intravedere, ora ammiccante ora minaccioso, ai suoi ospiti costretti a sedersi su una poltrona più bassa, tanto per far notare la differenza. Quasi sempre, dopo ogni visita, le cartelline rosa si arricchivano di altri fogli, nuovi segreti», scrivevano Maurizio De Luca e Pino Buongiorno, due giornalisti che non ci sono più, nell'instant-book a più mani "L'Italia della P2" uscito subito dopo la pubblicazione degli elenchi della loggia nel maggio 1981, a tutt'oggi il libro più bello su Gelli e i suoi cari. Generali, ammiragli, direttori di giornale, ministri, segretari di partito. Piccoli uomini, ridicoli e sinistri. Questa era la loggia massonica P2. Nella lista ritrovata a Castiglion Fibocchi erano 962, sfilarono uno a uno a palazzo San Macuto, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi. Nei diari della parlamentare democristiana ci sono gli appunti di quelle audizioni, dove tutti negavano e insieme confermavano. «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». La carriera di Gelli era cominciata nel biennio 1943-45, nel passaggio di regime, al trapasso del fascismo, con la penisola occupata da eserciti stranieri, l'ideale per cominciare una lunga trafila di doppiogiochista. Il giovane repubblichino resta in forza alle SS ma traffica con i partigiani, è un fascista che trama con gli antifascisti, per lui a guerra finita garantisce il presidente comunista del Cln di Pistoia Italo Carobbi: «Il Gelli Licio di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti». Due righe che valgono un'intera biografia, ricordate dallo storico Luciano Mecacci nel volume-inchiesta sull'assassinio di Giovanni Gentile, intitolato "La ghirlanda fiorentina". Quella pianta intrecciata di fiori secchi, appassiti, putridi che soffoca ogni raggio di luce. La Ghirlanda massonica e piduista cresce negli anni della democrazia, come una radice marcia di un albero rigoglioso, una cellula malata in un corpo sano, nell'oscurità. Gelli entra nella segreteria di un deputato democristiano, diventa dirigente di una nota ditta di materassi, la Permaflex, e in questa veste accoglierà Giulio Andreotti all'inaugurazione dello stabilimento di Frosinone (il Divo lo ricorderà sempre così: «Era uno che vendeva materassi», e via sminuzzando), giura fedeltà alla massoneria, il Grande Oriente. Prospera negli anni Settanta dei misteri e delle stragi, si infila dappertutto: nei partiti, al Quirinale, a Palazzo Chigi, a Montecitorio, tra gli alti gradi delle forze armate, al comando dei servizi segreti. Controlla le scalate bancarie più prodigiose, da quella di Michele Sindona a quella di Roberto Calvi, destinati a morti tragiche e mai chiarite. È un'ombra nelle più grandi tragedie italiane: la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Si allarga al Sud America, nell'Argentina di Peron e dei generali golpisti. Sogna di riscrivere la Costituzione: il piano di rinascita democratica, i partiti da chiudere, la tv privata da diffondere, lo statuto dei lavoratori da stracciare, la separazione delle carriere dei magistrati, «l'obbligo di attuare i turni di festività per sorteggio, per evitare la sindrome estiva che blocca le attività produttive». Cede alla vanità e si fa intervistare dal "Corriere della Sera" di cui alla fine degli anni Settanta ha il pieno controllo. Il verbo gelliano va nella prestigiosa terza pagina del quotidiano di via Solferino domenica 5 ottobre 1980. Titolo in ginocchio: «Parla, per la prima volta, il signor P2 Licio Gelli». Incipit genuflesso: «Capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un'intervista esponendo anche il suo punto di vista...», scrive felice l'intervistatore Maurizio Costanzo, iniziato alla loggia due anni prima. «Una brodaglia disgustosa, con il burattinaio che (tronfio, allusivo, arrogante, ricattatorio) pontifica su tutto e tutti, dispensando ridicole ricette economiche dietro le quali s'intravedono speranze di nuovi affari», scrive Giampaolo Pansa. Silvio Berlusconi giurò da fratello il 26 gennaio 1978 nella sede romana della P2 in via Condotti, con il grado di apprendista, tessera numero 1816. E in quel sodalizio tra il Gran Maestro e il Cavaliere c'era un'intuizione potente: che per attuare il piano di rinascita e conquistare l'Italia non servivano le bombe sui treni ma il Mundialito, il mini-mondiale di calcio in Uruguay strappato alla Rai dalla tv del Biscione grazie alla mediazione di Gelli. Non ci voleva il colpo di Stato, bastava "Colpo grosso". Tra i due personaggi distanti in tutto, uno dedito ai segreti, l'altro all'immagine, c'è in realtà la stessa concezione del mondo. In cui le relazioni valgono più delle regole, le lobby occulte e trasversali contano di più delle appartenenze visibili, la fedeltà alle istituzioni va scavalcata da doppie, triple fedeltà non dichiarate. Gelli se ne va e a leggere le cronache di questi giorni si direbbe che abbia vinto lui. Le vicende bancarie di questi giorni, con la ghirlanda di relazioni intrecciata attorno alla Banca Etruria, fiore all'occhiello di Arezzo, la città del Venerabile. Lo scandalo vaticano di ricatti incrociati e millanterie. Il ritrovato attivismo di Luigi Bisignani, il più giovane tra i nomi comparsi nella lista dei piduisti (lui ha sempre negato, naturalmente: «Non avevo neppure l'età per iscrivermi»). La P3, la P4, numerate con scarsa fantasia, per certificare il marchio di origine, il logo di successo. Quante volte, in questi ultimi anni, in questi ultimi mesi, ci siamo sorpresi ad avvertire in alcune carriere improvvise l'inconfondibile odore della P2, gli stessi metodi, a volte le stesse persone. I burattinai o presunti tali si sono moltiplicati nei palazzi, solo che la posta in gioco è più meschina, non c'è il grande gioco della guerra fredda che serviva a nascondere i piccoli affari. E ancora più avvilenti sono i protagonisti: banchieri di provincia, monsignori allupati, ragazze esibizioniste, faccendieri invecchiati... «Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta». Con queste parole, il 9 gennaio 1986, Tina Anselmi presentava nell'aula della Camera le conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta sulla P2 da lei presieduta. Trent'anni dopo Gelli se ne va. Ma ancora c'è tanto da fare per custodire la Repubblica e le sue istituzioni, la trasparenza della democrazia, dai suoi eredi, i suoi imitatori, i suoi fratelli. I tanti Gelli d'Italia che si aggirano tra di noi.

Quando Licio bocciò Silvio, scrive Gianfrancesco Turano il 16 dicembre 2015 su "L'Espresso". È morto Licio Gelli, 96 anni, fascista vertical che passerà alla storia per avere legittimato in quasi un secolo di vita il sistema del potere oligarchico attraverso l'associazionismo segreto. Che si chiamasse loggia P2 o altrimenti, per l'Aretino non faceva grande differenza purché depotenziasse la democrazia nell'unico modo ammesso dai sistemi politici dell'Occidente: l'oligarchia, appunto. L'unica cosa che Gelli non poteva tollerare, da ex fautore del sistema autocratico, erano le imitazioni. Per questo, cinque anni fa, sconfessò il suo ex iscritto e Nostro Caro Leader Silvio Berlusconi in un'intervista all'Espresso. La malattia e una sua certa vicinanza, puramente territoriale, con elementi del governo in carica hanno forse impedito al Venerabile Maestro di esprimersi compiutamente sulla squadra di Matteo Renzi. In modo alquanto compassato, Gelli ha criticato come goffe le riforme, poco più di un anno fa, e ha usato il termine "bambinone" per il primo ministro senza chiarire chi siano i genitori dell'infante. Il paleocraxiano Rino Formica, felice inventore dell'espressione "sinistra ferroviaria", ha attribuito la paternità del renzismo proprio a Gelli e al suo Piano Rinascita in un'interemerata risalente al marzo 2014. Esagerato? Di certo l'Istituzione, cioè la massoneria, ha continuato fino a oggi ad avere un rapporto contrastato amore-odio verso il "fratello che sbaglia" Licio. La sua influenza reale è però stata continua, costante, a dispetto dei proclamati rinnovamenti di grembiuli e cappucci. La morte di Gelli arriva quasi contemporanea alla dipartita verso l'Oriente Eterno di Armando Cossutta e della Popolare dell'Etruria e del Lazio. Il primo ha rappresentato per anni l'Urss all'interno del Pci. La seconda è la banca aretina appena fallita dopo decenni di gestione del massonissimo Elio Faralli, scomparso a 91 anni nell'aprile 2013. La morte è trasversale. Una specie di massoneria. Il Raguno invernale è intitolato, ovviamente, al Venerabile. Si invitano i partecipanti a vestirsi in modo adeguato. In attesa di comunicare gli indirizzi delle migliori boutique di fashion massonica, vorrei pregare GLU di interrompere i servizi di Discovery Channel che ama accompagnare all'iniziativa. La scelta del luogo è di pertinenza del Venerabile BM, clonato e seviziato dalle suore nel Raguno Gaetano di semifausta memoria. Propenderei per Roma dove si trovano i migliori grembiuli in pelle d'agnello. Se no Abruzzo, dove abbondano i suscuoiati agnelli. PS Mi sono appena accorto che questo è il post numero 333 di RdC. Ça ne s'invente pas.

Gelli: "Sono le mie brutte copie". "Il governo Berlusconi si è abbeverato al mio Piano di Rinascita nazionale. Ma il premier non è in grado di realizzarlo". Parla l'ex capo della Loggia P2, scrive Gianfrancesco Turano il 20 giugno 2010 su “L’Espresso”.

"La democrazia è una brutta malattia, una ruggine che corrode. Guardi quello che accade in Grecia, in Spagna, in Portogallo: anarchia completa". In partenza, Licio Gelli è coerente con il credo di una vita giunta al traguardo dei 91 anni: ordine e disciplina. Eppure no. Il Venerabile della poco disciolta loggia P2 non può godere appieno del successo della sua creatura, quel Piano di Rinascita che per Antonio Di Pietro e molti altri oppositori è la stella polare dell'esecutivo. "È vero", sostiene Gelli: "Gli uomini al governo si sono abbeverati al mio Piano di Rinascita, ma l'hanno preso a pezzetti. Io l'ho concepito perché ci fosse un solo responsabile, dalle forze armate fino a quell'inutile Csm. Invece oggi vedo un'applicazione deformata".

Non è contento dell'esecutivo?

"Ho grandi riserve. Ci sono gli stessi uomini di vent'anni fa e non valgono nulla. Sanno solo insultarsi e non capiscono di economia. Tremonti è un tramonto. Il Parlamento è pieno di massaggiatrici, di attacchini di manifesti e di indagati. Chi è sotto inchiesta deve essere cacciato all'istante, al minimo sospetto". 

Almeno il suo ex iscritto Silvio Berlusconi ha la sua benedizione?

"Io sono un laico. Non do benedizioni ma certamente non condivido ciò che accade per sua volontà. Anche certe questioni private si risolvono in famiglia. Deve essere meno goliardico".

Vede in lui il realizzatore del Piano Rinascita?

"Non è adatto. Inoltre, non ha molti collaboratori di valore".

Pensa che sia vittima della pressione leghista?

"La Lega per me è un pericolo. Sta espropriando la sostanza economica dell'Italia. Le bizzarrie di Umberto Bossi hanno già diviso il Paese. Bisogna dire basta".

Altri segnali di crisi?

"I partiti non esistono più e i leader attuali passano il Rubicone con tre tessere in tasca. Non bisogna riformare solo la giustizia, ma prima di tutto l'economia e la sanità".

Ci tranquillizzi, dottor Gelli. Lei non sta diventando di sinistra?

"Io sono per il buon senso. Sono per il benessere al popolo che oggi patisce, non arriva al 20 del mese. Qui siamo oltre i margini della rivolta. Siamo alla Bastiglia".

Filippo Facci il 17 luglio 2014 su “Libero Quotidiano”: "Aveva ragione Gelli". Se Hitler era vegetariano (che poi non lo era) non è che allora ci strafoghiamo di carne. Del resto Hitler fece la prima campagna antifumo: non è che allora ci ammazziamo di canne. A Stalin piaceva Mozart: non è che allora ascoltiamo tutti Peppino di Capri. Eccetera. Il discorso è demenziale ma serve a dire che persino Licio Gelli poteva aver ragione in alcune cose: non perché fosse un genio visionario, ma perché il suo Piano di Rinascita democratica sosteneva anche dei progetti in parte banali e in parte condivisi da democrazie di tutto il mondo. Ecco perché esorcizzare i tentativi di riforma paragonandoli a quanto scriveva Gelli nel 1976 - vedi Il Fatto di martedì - resta di un livello intellettuale annichilente, minestra riscaldata persino per un pubblico para-grillino. Un Parlamento semplificato, un Senato regionale, un premier eletto dalla Camera, i decreti legge non emendabili, dei limiti all'ostruzionismo, l'abolizione delle province, riduzione dei parlamentari: la verità è che certi propositi piduisti erano di assoluta usualità; oppure, come nel caso dell'Italicum, erano delle oasi di democrazia se paragonati alle liste bloccate che ci vanno cucinando. Altre proposte di Gelli, poi, non sono né banali né moderate: sono dei sogni. Tipo "dissolvere la Rai in nome della libertà di antenna" o ancora la chimera della "responsabilità civile dei magistrati": quella vera, non l'inapplicabile legge Vassalli o il consommè che il ministro Andrea Orlando va preparando.

Licio Gelli al Fatto: “Il bambinone Renzi e gli ex lacchè di Berlusconi”. Il Venerabile della Loggia P2 dice la sua sulle ultime mosse del governo: "Le riforme sono goffe". E sull'Italia di oggi: "Sono felice che vengano a galla le responsabilità della cattiva politica", scrive di Marco Dolcetta il 23 maggio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Di questi tempi sia la schiena che il cuore stanno dando qualche problema a Licio Gelli. Il 96enne Venerabile della Loggia P2, nonostante la voce affaticata, mantiene una certa energia verbale: “Lei deve sapere che sono entrato nei Servizi di intelligence dello Stato italiano dopo un incontro con Mussolini che voleva conoscermi. Io, il volontario ‘Licio Gommina’ della guerra civile di Spagna, nella quale aveva perso la vita mio fratello. Il Duce mi chiese quale poteva essere la ricompensa che lo Stato italiano poteva dare alla mia famiglia. In quella occasione, gli dissi che senz’altro mi sarebbe interessato conoscere il mondo dei Servizi segreti… Da allora non ne sono più uscito”.

Ma che ne pensa dell’attualità italiana e di Renzi?

Renzi è un bambinone, visto il suo comportamento che è pieno di parole e molto ridotto nei fatti: non è destinato a durare a lungo… Comunque, non è mai stato (né lui né i suoi familiari) nella massoneria. Vedo che nel suo governo ci sono molte giovani donne che io personalmente vedrei molto meglio a occuparsi d’altro…”.

E le riforme del premier?

Quelle di Renzi, per la legge elettorale e il Senato, sono goffe. Per quanto riguarda Palazzo Madama, mi fa piacere pensare che, nonostante tutti mi abbiano vituperato, sotto sotto mi considerano un lungimirante propositore di leggi; una quarantina di anni fa, con Rodolfo Pacciardi, scrivemmo, su invito dell’allora presidente Giovanni Leone, il cosiddetto Piano R., di Rinascita nazionale. Prevedeva una serie di norme e riforme che avrebbero potuto creare i fondamenti per uno Stato più efficace. Leone fu eletto presidente della Repubblica grazie ai voti della massoneria: lui mi ringraziò e poi mi chiese questo contributo. Così gli facemmo avere il testo del Piano R., cui lui non diede mai alcun riscontro e, anzi, da allora evitò di incontrarmi… Riguardo al Piano di Rinascita democratica, sfogliando le pagine di quel testo, si ritrova – nella parte riguardante le riforme istituzionali – una quasi totale abolizione del Senato. Riducendone drasticamente il numero dei membri, aumentando la quota di quelli scelti dal presidente della Repubblica e attribuendo al Senato una competenza limitata alle sole materie di natura economica e finanziaria, con l’esclusione di ogni altro atto di natura politica. L’intento era ed è ancora oggi chiaro. Dare un taglio effettivo a un ramo del Parlamento che, storicamente, ha maggiore saggezza e cultura non solo politica, a favore di una maggiore velocità nel fare leggi e riforme. Ricordo di averne parlato in seguito, quando veniva a trovarmi ad Arezzo, anche con la mia amica Camilla Cederna”.

In tema di amici, che ne pensa della carriera letteraria di Luigi Bisignani?

Più che mio amico, Luigi è mio figlioccio. Quando era ancora giovane, dopo la scomparsa di suo padre, sia io che Gaetano Stammati ci prendemmo cura di lui. Avevo e ho sempre avuto una grande stima di Luigi. Tanto che, quando nacque il progetto dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica, a Roma, il 1 gennaio 1975, decidemmo di affidargli l’incarico di addetto stampa, perché eravamo certi di poter fare pieno assegnamento sulla sua preziosa collaborazione…”.

Lei con la Svizzera ha un rapporto particolare, conosce bene le galere ma anche le banche di quel Paese…

Sì, soprattutto quando mi sono stati sottratti dai giudici milanesi diversi milioni di franchi che risultavano il frutto lecito di mia mediazione internazionale e che furono destinati a risarcire piccoli azionisti del Banco Ambrosiano dopo le note vicende che mi videro ingiustamente coinvolto. Ma nonostante tutto, ho accettato questo risarcimento forzato. La cosa più sorprendente, però, è che quei soldi non sono stati mai destinati a piccoli azionisti, tanto che da tempo io, assieme al loro legale, l’avvocato Gianfranco Lenzini di Milano, ho presentato richiesta di chiarimenti in tutte le sedi, ma senza alcun risultato”.

Come spiega il caso Renzi, la sua veloce ascesa, e cosa prevede per il futuro?

Beh, Renzi è un fenomeno parzialmente italiano, e mi risulta che fra i suoi mentori politici ci siano persone che vivono a Washington. È circondato, però, da mezze tacche: gli ex lacchè di Berlusconi. Fini, che ho conosciuto bene, quando faceva l’attendente ossequioso di Giorgio Almirante cui prestavo denari per il Msi. Soldi sempre resi… quello sì che era uomo di parola. E poi Schifani, Alfano: personaggi non certo di livello. Berlusconi ha sbagliato con le giovani donne, ma soprattutto circondandosi di personaggi di bassa levatura… Penso a Verdini, un mediocre uomo di finanza; è un massone… credo, ma non della nostra squadra. Il più alto livello di maturità politica in Italia c’è stato con Cossiga e Andreotti che avevano entrambi dei sistemi di controllo politico, uno con ‘Gladio’ e l’altro con Anello, cosa che Berlusconi non è mai riuscito a ripetere. E si sono visti i risultati di questa sua incapacità…”.

Per concludere, che ne pensa dell’Italia, e del suo futuro?

Non le nascondo che vedo, con una certa soddisfazione, il popolo soffrire. Non mi fraintenda: non sono felice di questa situazione. Sono felice, invece, che vengano sempre più a galla le responsabilità della cattiva politica. Perché, probabilmente, solo un tributo di sangue potrà dare una svolta, diciamo pure rivoluzionaria, a questa povera Italia”. Da Il Fatto Quotidiano del 23 maggio 2014

A SINISTRA SI E’ PIU’ INTELLIGENTI?

Le persone di sinistra sono più intelligenti? Si Chiede su “La mente è Meravigliosa”. “Tutti i giorni la gente si sistema i capelli, perché non il cuore?” Vi sembra una frase intelligente? Queste parole sono state formulate dalla mente di Ernesto Che Guevara, il famoso rivoluzionario. Ci sono molte altre citazioni epiche di questo mito che sono sopravvissute fino ai giorni d’oggi. Ciò ha forse a che vedere con la sua ideologia di sinistra? Uno studio della Brock University sostiene di sì. Lo studio della Brock University nell’Ontario, Canada. Secondo i risultati ottenuti dai ricercatori della Brock University, nell’Ontario, Canada, coloro che sono meno intelligenti già durante l’infanzia sviluppano un’ideologia di destra e tendenze razziste e omofobe, rispetto alle ideologie di sinistra, che sono più aperte e comprensive. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori si sono basati su studi condotti negli anni 1958 e 1970 nel Regno Unito. Questi studi analizzarono il livello d’intelligenza di migliaia di bambini tra i 10 e gli 11 anni, che poi risposero a domande di politica una volta raggiunta l’età di Cristo, 33 anni. Tra le domande poste ai bambini ormai adulti, c’erano questioni riguardo i pregiudizi di vivere affianco a vicini di una razza diversa o sulle preoccupazioni che sorgono quando bisogna lavorare con qualcun altro. Altre domande alle quali dovettero rispondere i soggetti riguardavano l’ideologia politica conservatrice, come rendere più severe le pene dei criminali o mostrare ai bambini la necessità di ubbidire all’autorità. Le persone di sinistra sono davvero più intelligenti? Alcune delle conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della Brock University sostengono che i politici conservatori facilitano la nascita di pregiudizi. Basandosi sui risultati delle ricerche inglesi, i ricercatori sostengono che le persone meno intelligenti si localizzano nello spettro della destra politica, perché qui si sentono più sicuri. Secondo i creatori di questo studio, è l’intelligenza innata a determinare il livello di razzismo di una persona, molto più dell’educazione e dell’istruzione. Nemmeno lo status sociale ha un ruolo importante a proposito. Semplicemente affermano che l’ideologia conservatrice è la via giusta per trasformare bambini che hanno difficoltà a ragionare in persone razziste. Le capacità cognitive sono fondamentali per avere una mente aperta. Ciò significa che coloro che hanno capacità cognitive ridotte o molto ridotte tendono ad adottare ideologie conservatrici per la sensazione di ordine che implicano. Questa è un’altra delle conclusioni dello studio. Intelligenza innata. Secondo le ricerche condotte dalla Brock University, tutto ciò significa che l’intelligenza innata ha un ruolo determinante nell’ideologia ultima adottata da un individuo. Questo significa che essere di destra è sinonimo di stupidità? Assolutamente no. Oggigiorno, in tutto il mondo le ideologie politiche sono un po’ ingarbugliate. Niente è più ciò che sembra. Possiamo definire un regime comunista come quello imposto in Corea del Nord di sinistra? Qui, i cittadini si sono abituati a vivere sotto gli ordini di un dittatore che si definisce d’ideologia progressista, ma che manipola i destini di milioni di persone con un pugno di ferro. Esistono altri esempi di paesi in cui si è tentato di stabilire un regime di sinistra e comunista, ma senza successo. Russia o Cuba, per esempio, hanno sofferto terribili repressioni popolari durante la fase della dittatura del proletariato, che alla fine si è trasformata nel mandato di un singolo leader come Stalin o Castro, con accesso limitato alla libertà o al pensiero. Ciò significa che, tra i partiti della sinistra mondiale, c’è gente camuffata che in realtà è di destra? È possibile che nell’ideologia progressista si siano infilate persone poco intelligenti che in realtà sono conservatori? Non esiste una risposta chiara a questo tipo di domande, poiché le ideologie hanno sempre meno peso in un mondo mosso meramente da interessi economici e dei partiti. In realtà, ciò che importa è avere una mente aperta e curiosa. Imparate da tutti coloro che hanno qualcosa da apportarvi nella vita. Se non avete un’intelligenza innata che apra la vostra mente, almeno stimolate la vostra intelligenza emotiva. Siate sensibili a qualsiasi tipo di tendenze e modi di essere e adottate una vita piena e felice. Come diceva Ernesto Che Guevara, se siete in grado di avere capelli splendenti, siete anche capaci di avere un cuore nobile e buono.

BRUNO TINTI E IL MALVEZZO DI SCRIVERE ARTICOLI PER NULLA CALZANTI, scrive Francesco Maria Toscano su “Il Moralista”. Il magistrato Bruno Tinti, blogger in forza al Fatto Quotidiano, ha oggi scritto un pezzo, pubblicato nella versione cartacea del giornale diretto da Padellaro, per criticare la sempiterna “mania di complottismo” ora sublimata dall’uscita del libro “Massoni” scritto da Gioele Magaldi per Chiarelettere. Al netto di qualche divagazione storica non sempre pertinente, Tinti non riesce però a contestare nel merito alcunché. La prima cosa da fare per valutare bene la qualità di un testo dovrebbe essere quella di leggerlo con attenzione. O perlomeno di leggerlo e basta. Non so se Tinti abbia studiato in profondità le questioni poste da Magaldi con prosa asciutta ed invidiabile acribia. A leggere il suo articolo si direbbe però di no, contenendo perlopiù raffronti raffazzonati e per nulla calzanti che tentano maldestramente di bollare l’opera del Gran Maestro del Grande Oriente Democratico con il marchio del complottismo spiccio. Quindi, tralasciando una serie di considerazioni preliminari avulse dal contesto e messe in fila a casaccio, dalle scie chimiche al ruolo delle multinazionali, dal caso Ferraro alla banda Baader-Meinhof, per finire con l’immancabile Licio Gelli, andrei subito al punto. E’ chiaro infatti il tentativo di Tinti di mischiare un lavoro puntuale e scrupoloso, quello di Magaldi per l’appunto, con teorie strampalate e improbabili nella speranza di costringere il lettore a non poter più distinguere le cose serie da quelle ridicole. Si tratta di una tecnica narrativa ampiamente conosciuta, questa sì suggestiva e di tipo sensazionalistico, in genere nemica del ragionamento socratico, pacato e razionale. A cosa serve infatti tirare in ballo la storia di un magistrato dichiarato affetto da disturbi mentali se non a lasciar surrettiziamente intendere che anche Magaldi, forse, è un po’ pazzo? Allo stesso modo, a cosa serve riesumare per l’occasione la vecchia vicenda di Igor Marini se non ad insinuare il dubbio volto a fare credere che, in fin dei conti, anche questo Magaldi è potenzialmente un calunniatore provetto? Trovo poco nobile questo modo di recensire un libro che sta riscuotendo un grande successo. Non mi pare poi che né l’ex magistrato Ferraro né il sedicente conte Igor Marini siano mai stati autori di Chiarelettere, onde per cui l’editore Lorenzo Fazio dovrebbe forse spendere qualche parola a tutela della serietà e della credibilità della casa editrice che con passione guida. A questo punto, finita la lunga ma necessaria premessa, andiamo al sodo. Cosa lamenta Tinti? Lamenta principalmente la mancanza di documenti a supporto delle tesi articolate dal Magaldi, non accontentandosi della spiegazione che giudica sconveniente l’appesantimento di un’opera, corposa ma scorrevole e avvincente, per il tramite di mille documenti dal taglio spiccatamente burocratico. Ribalto l’impostazione. Magaldi ha detto chiaramente di essere pronto a fornire le prove in caso di specifiche e plateali contestazioni da parte dei diretti interessati. Cosa aspettano quindi i vari Napolitano, Draghi, Merkel e Monti, tutta gente caruccia e a modo a voler dare retta all’affresco proposto da Tinti, a sbugiardare la ricostruzione del Magaldi? Perché, ad esempio, l’ufficio stampa del Quirinale, con esplicito riferimento al libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere editore), non dirama una bella nota ufficiale per dire che il Presidente della Repubblica non è mai stato iniziato nelle loggia “Three Eyes”? Forse per le stesse ragioni per le quali nessuno mai si sognò di smentire o di approfondire le rivelazioni dell’ex ministro del Tesoro americano Tim Geithner, buone per smascherare le trame messe in campo da alcuni “alti dignitari europei” che vollero e ottennero l’arrivo al potere in Italia dell’irreprensibile Mario Monti? Chi lo sa, magari pure Geithner, al pari di tanti altri, crede alle scie chimiche e agli omini verdi. Anziché difendere acriticamente l’operato di un banchiere centrale come Draghi, unanimemente ritenuto fra i massimi responsabili della crisi in atto, il magistrato Tinti dovrebbe forse invitare molti potenti a smentire o, semmai, a querelare. Questo sarebbe l’unico modo per ottenere quelle “pezze d’appoggio” che in tanti sperano legittimamente di poter prima o poi visionare. Se però nessuno dice niente mentre tutti gli alti papaveri citati scelgono la via dell’imbarazzato silenzio, un motivo magari ci sarà. E un magistrato come Bruno Tinti dovrebbe probabilmente chiedersi quale.

Tortura per chiunque osi ribellarsi, Genova fu solo l’inizio, scrive “Libreidee”. La folla che riempie lo stadio di La Spezia, un silenzio livido e uno spettro sul palco, Bob Dylan, alle prese con uno strano concerto segnato dal lutto per la morte di Carlo Giuliani poche ore prima, a una manciata di chilometri di distanza, in mezzo alla follia criminale esplosa a Genova dopo un’accurata preparazione logistica e militare. Lo ha detto un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel libro “G8 Gate”: i colossi finanziari e le multinazionali che avevano portato Bush al potere temevano i No-Global più di ogni altra cosa, inclusa Al-Qaeda. Per questo furono ben 1.500 gli agenti della National Security Agency impegnati nell’operazione-Genova, insieme a 700 operatori dell’Fbi. Missione: organizzare (e far eseguire alla polizia italiana) la più feroce punizione collettiva della storia occidentale contemporanea. Lo conferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo: esistono “strutture” abilitate a smistare falsi militanti, facendoli passare indenni attraverso più frontiere. Loro, i black bloc, incaricati di devastare Genova in modo da creare un alibi per la repressione indiscriminata dei manifestanti pacifici. Fino al reato di tortura, ora contestato all’Italia, 14 anni dopo. A Genova nel 2001 accadde qualcosa di irreparabile e sinistramente profetico, scrive “Come Don Chisciotte”: «Nell’arco di una manciata di giornate ci accorgemmo di essere stati proiettati e letteralmente catapultati nel nuovo millennio». Di colpo, ci siamo scoperti «ingenui figli di un tempo già antico, quel ventesimo secolo che, nonostante l’atomica e i lager, non aveva completamente scalfito le speranze in un mondo migliore». Il funerale delle illusioni: «La nostra Italietta – così piccola e così gracile – sarà pure stata anche la Repubblica delle stragi impunite, delle molte mafie e della corruzione dilagante, ma, ai nostri occhi, rimaneva l’imperfetta democrazia che i padri costituenti ci avevano consegnato per attuare concretamente i principi di uguaglianza e libertà. Invece – scrive “HS” – quello che accadde superò la nostra immaginazione». Sepolta, a Genova, anche l’ingenuità fisiologica del movimentismo, che in fondo «non abbandona l’illusione che si possa dialogare con l’avversario per riformare il sistema in senso migliorativo». Il movimento No-Global bisognava «domarlo, criminalizzarlo e reprimerlo in nome del neoliberismo “neomercantile”», togliendo ai giovani l’arma della politica e della giustizia. Hanno vinto loro, conclude il blog: i ragazzi di oggi non hanno idea di cosa accadde davvero a Genova, perché ormai «appartengono a un altro mondo», nel senso che «sono cresciuti in un contesto in cui la digitalizzazione dei segni, dei simboli e pure dei comportamenti ha quasi oscurato il senso concreto e tangibile delle cose», con la sua spietata durezza. All’epoca della mattanza genovese, Google e YouTube «appartenevano ancora al regno del “futuribile” e del realizzabile». Ora, il paesaggio antropologico è irriconoscibile: «In un certo qual modo smartphone, blueberry, iPod, Whatsapp, Twitter, Facebook e compagnia cantante sono diventati parte integrante delle nostre vite, e per i nostri figli o nipoti non è quasi concepibile un mondo senza la tecnologie digitali. Nel nostro nuovo mondo postmoderno digitalizzato e “virtualizzato” il tempo scorre via veloce come lo scoccare di una scintilla nel buio, si scompone in fantastiliardi di millisecondi, frazionati e separati, insinuando un senso di comprensibile vuoto e di assenza di memoria». Oggi la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per gli atti di tortura inflitti ai manifestanti dalle forze dell’ordine nell’Istituto Pascoli? Confinare le giornate di Genova in quelle aule, dove raggiunse il culmine l’ultimo atto di feroce violenza repressiva, «significa smarrire il senso di quelle ore». Perché nel capoluogo ligure «era accaduto qualcosa di definitivo e irreparabile, qualcosa che non avrebbe potuto essere cancellato lavando quei muri imbrattati di sangue». In realtà, continua il blog, «non abbiamo mai compreso fino in fondo quanto possano contare le parole e i consigli degli “ingegneri sociali”, degli esperti di sociologia, psicologia, antropologia, di questioni militari, geopolitiche, strategiche, di sicurezza e ordine pubblico», perché in fondo siamo rimasti «ragionevoli uomini democratici e perbene». Per questo non ci siamo accorti di essere diventati «altro che le cavie di uno dei più arditi esperimenti mai tentati fino ad allora in un paese dell’Occidente civile e avanzato». Come se in quella torrida estate del 2001 il capoluogo ligure «si fosse trasformato in un enorme laboratorio per applicare i nuovi modelli militarizzati e tecnologicamente avanzati di gestione dell’ordine pubblico». Di lì a poco, «Ground Zero avrebbe cancellato tutte le residue speranze per un “altro mondo possibile”, e dalla guerriglia e controguerriglia urbane artificiosamente costruite, si passava alla guerra permanente e globale», con tanti saluti alle belle speranze del movimento No-Global, che pretendeva pari opportunità e diritti per l’intera umanità. Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi illumina le pagine più oscure e confuse della nostra storia recente, rivelando il ruolo spesso decisivo delle “Ur-Lodges”, le superlogge latomistiche dell’élite cosmopolita che sovrintende alle grandi decisioni, anche attraverso istituzioni transnazionali e “paramassoniche” come la Commissione Trilaterale, il Bilderberg, i grandi think-tank che orientano la dirigenza finanziaria, industriale, bancaria, editoriale, culturale, politica, giornalistica. Magaldi, a sua volta massone e associato alla prestigiosa superloggia “Thomas Paine”, nonché animatore del “Movimento Roosevelt” che si propone di scuotere la politica italiana ed europea liberandola dal dogma neoliberista che impone il taglio dello Stato, accusa anche l’ambiente massonico internazionale più progressista, colpevole di aver aderito a cuor leggero già nel 1981 allo storico patto “United Freemasons for Globalization”. Una stretta di mano con i più pericolosi oligarchi che, di lì a poco, avrebbero precipitato il pianeta nella privatizzazione universale. Genocidio di popoli, guerre, rapina delle risorse, delocalizzazioni criminose e scomparsa del lavoro e dei diritti sindacali, fino all’agonia inconcepibile del sistema industriale più evoluto del mondo, l’Europa, messa in ginocchio dall’austerity finanziaria pianificata a tavolino dai supremi globalizzatori. Paolo Franceschetti, ex avvocato e indagatore di strani delitti rituali, riletti come cerimonie del massimo potere oligarchico, si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno: la storia dell’umanità è lastricata di abusi abominevoli, se oggi li si denuncia significa che sta crescendo una consapevolezza diffusa che, prima o poi, cambierà l’orizzonte. Inutile stupirsi della ferocia del supremo potere: lo sostengono voci diversissime tra loro, per formazione e provenienza. Per esempio Paolo Ferraro, prestigioso magistrato allontanato dalla magistratura. O un ex dirigente dei servizi segreti come Fausto Carotenuto. O Paolo Barnard, il primo a denunciare la brutale restaurazione europea, col saggio “Il più grande crimine”. O, ancora, un massone come Gianfranco Carpeoro, allievo di Francesco Saba Sardi e grande studioso del linguaggio simbolico. Dal canto suo, Magaldi esprime un’indignazione lucida e pacata: lo Stato laico, moderno e democratico, fatto di cittadini e non più di sudditi, «non è stato un regalo della cicogna», ma dall’intellighenzia massonica occidentale, impegnata in una lotta plurisecolare contro l’oscurantismo e l’assolutismo. Per questo, insiste, è necessario che insorga il vertice massonico progressista, il solo in grado di contrastare – a livello elitario – la deriva neo-feudale del nuovo potere che, col pretesto di una crisi artificiale costruita a tavolino, sta smantellando la democrazia in tutto l’Occidente. I ragazzi di Genova, che nel 2001 volevano diritti estesi a tutti i popoli del mondo, mai si sarebbero aspettati che quegli stessi diritti considerati inviolabili – a cominciare dall’accesso al lavoro – sarebbero stati presto perduti anche qui, nel cuore di un’Europa devastata dalle leggi speciali imposte dall’élite tecnocratica attraverso il braccio secolare di una moneta unica non sovrana. La scomparsa dell’orizzonte cominciò proprio nelle piazze genovesi trasformate in campo di battaglia: «Genova per noi è stato solo il primo dei tanti esperimenti di ingegneria sociale volti a spezzare qualsiasi volontà di resistenza nei confronti di un sistema iniquo e ingiusto», osserva “Come Don Chisciotte”. «Deposte l’immaginazione e la volontà di cambiamento siamo solo diventati più gretti, cinici ed egoisti». Per questo, i globalizzatori dell’abuso «hanno vinto su tutta la linea». De Gennaro resta al suo posto, alla presidenza di Finmeccanica? Ovvio. Lo difende Renzi, l’uomo che in nome delle riforme strutturali dettate dalla Troika e da Wall Street abolisce Senato e Province, introduce il licenziamento facile con il Jobs Act e costruisce una legge elettorale monarchica. La differenza, rispetto al 2001, è che nessuno scende più in piazza. Pochi si accorgono di quello che sta realmente accadendo, nell’area-test chiamata Europa. Al pessimismo universale dei blogger si oppone la voce di Magaldi: insieme alla Francia, sostiene, l’Italia è il solo paese in cui è possibile far partire qualcosa che assomigli a un risveglio. Non a caso, la “punizione” dell’infame G8 del 2001 fu progettata proprio in Italia. Ed era solo l’inizio: la “tortura” continua: Genova era solo l’inizio.

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

Frasi, citazioni e aforismi sull’uguaglianza. Pubblicato da Fabrizio Caramagna.

Nasciamo uguali, ma l’uguaglianza cessa dopo cinque minuti: dipende dalla ruvidezza del panno in cui siamo avvolti, dal colore della stanza in cui ci mettono, dalla qualità del latte che beviamo e dalla gentilezza della donna che ci prende in braccio. (Joseph Mankiewicz)

Tutti gli uomini nascono uguali, però è l’ultima volta in cui lo sono. (Abraham Lincoln)

Ognuno è impastato nella stessa pasta ma non cotto nello stesso forno. (Proverbio Yiddish)

Dovunque sono uomini, sono diversità di opinioni, disparità di sentimenti, differenza di umori, tali e tante variazioni temporanee o permanenti, che il consenso perfetto è impossibile, non dico fra tutti o fra molti, ma fra pochi, fra due. (Federico De Roberto)

Equa distribuzione della ricchezza non significa che tutti noi dovremmo essere milionari – significa solo che nessuno dovrebbe morire di fame. (Dodinsky)

L’uguaglianza sarà forse un diritto, ma nessuna potenza umana saprà convertirlo in un fatto. (Honoré de Balzac)

È falso che l’uguaglianza sia una legge di natura: la natura non ha fatto nulla di eguale. La sua legge sovrana è la subordinazione e la dipendenza. (Marchese di Vauvenargues)

L’uguaglianza consiste nel ritenerci uguali a coloro che stanno al di sopra di noi, e superiori a coloro che stanno al di sotto. (Adrien Decourcelle)

Egalitarista. Il genere di riformatore politico e sociale interessato a fare scendere gli altri al proprio livello più che a sollevarsi a quello degli altri. (Ambrose Bierce)

In America tutti sono dell’opinione che non ci sono classi sociali superiori, dal momento che tutti gli uomini sono uguali, ma nessuno accetta che non ci siano classi sociali inferiori, perché, dai tempi di Jefferson in poi, la dottrina che tutti gli uomini sono uguali vale solo verso l’alto, non verso il basso. (Bertrand Russell)

Ci sono due dichiarazioni sugli esseri umani che sono vere: che tutti gli esseri umani sono uguali, e che tutti sono differenti. Su questi due fatti è fondata l’intera saggezza umana. (Mark Van Doren)

Davanti a Dio siamo tutti ugualmente saggi… e ugualmente sciocchi. (Albert Einstein)

Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo. (Michel De Montaigne)

L’uguaglianza deve essere quella delle opportunità, non può essere ovviamente quella dei risultati. (John Dryden)

Ho letto tempo fa che nel futuro gli uomini saranno tutti uguali. Ugualmente ricchi o ugualmente poveri? (Zarko Petan)

Gli uomini sono nati uguali ma sono anche nati diversi. (Erich Fromm)

La figlia del re, giocando con una delle sue cameriere, le guardò la mano, e dopo avervi contato le dita esclamò: “Come! Anche voi avete cinque dita come me?!”. E le ricontò per sincerarsene. (Nicolas Chamfort)

Noi sosteniamo che queste verità sono per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini i governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo diventi perniciosa a questi fini, è nel diritto del popolo di modificarla o di abolirla. (Thomas Jefferson, Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America)

“Libertè, Egalitè, Fraternitè”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, 1795)

Tutta la società diventerà un unico ufficio e un’unica fabbrica con uguale lavoro e paga uguale. (Vladimir Lenin)

Il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’uguale condivisione della miseria. (Sir Winston Churchill)

Allo stato naturale… tutti gli uomini nascono uguali, ma non possono continuare in questa uguaglianza. La società gliela fa perdere, ed essi la recuperano solo con la protezione della legge. (Montesquieu)

La prima uguaglianza è l’equità. (Victor Hugo)

L’uguaglianza ha un organo: l’istruzione gratuita e obbligatoria. (Victor Hugo)

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 3, 1947)

Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela. (Malcolm X).

Finché c’è una classe inferiore io vi appartengo, finché c’è una classe criminale io vi appartengo, finché c’è un’anima in prigione io non sono libero. (Eugene V. Debs)

Le lacrime di un uomo rosso, giallo, nero, marrone o bianco sono tutti uguali. (Martin H. Fischer)

C’è qualcosa di sbagliato quando l’onestà porta uno straccio, e la furfanteria una veste; quando il debole mangia una crosta, mentre l’infame pasteggia nei banchetti. (Robert Ingersoll)

L’uguaglianza non esiste fin a quando ciascuno non produce secondo le sue forze e consuma secondo i suoi bisogno. (Louis Blanc)

Amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. (Martin Luther King)

Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. (William Faulkner)

Fino a quando la giustizia non sarà cieca al colore, fino a quando l’istruzione non sarà inconsapevole della razza, fino a quando l’opportunità non sarà indifferente al colore della pelle degli uomini, l’emancipazione sarà un proclama ma non un fatto. (Lyndon B. Johnson)

Un uomo non può tenere un altro uomo nel fango senza restare nel fango con lui. (Booker T. Washington)

Viviamo in un sistema che sposa il merito, l’uguaglianza e la parità di condizioni, ma esalta quelli con la ricchezza, il potere, e la celebrità, in qualunque modo l’abbiano guadagnato. (Derrick A. Bell)

Se le malattie e le sofferenze non fanno distinzione tra ricchi e poveri, perché dovremmo farlo noi? (Sathya Sai Baba)

Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? (William Shakespeare)

Guardo i volti delle persone che lottano per la propria vita, e non vedo estranei. (Robert Brault)

Qualunque certezza tu abbia stai sicuro di questo: che tu sei terribilmente come gli altri. (James Russell Lowell)

Lo stesso Dio che ha creato Rembrandt ha creato te, ed agli occhi di Dio tu sei prezioso come Rembrandt o come chiunque altro.” (Zig Ziglar)

È bello quando due esseri uguali si uniscono, ma che un uomo grande innalzi a sé chi è inferiore a lui, è divino. (Friedrich Hölderlin)

Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)

Il sole splende per tutti. (Proverbio latino)

La pioggia non cade su un tetto solo. (Proverbio africano)

In quanto uomini, siamo tutti uguali di fronte alla morte. (Publilio Siro)

La morte è questo: la completa uguaglianza degli ineguali. (Vladimir Jankélévitch)

Nella vita si prova a insegnare che siamo tutti uguali, ma solo la morte riesce ad insegnarlo davvero. (Anonimo)

Nella democrazia dei morti tutti gli uomini sono finalmente uguali. Non vi è né rango né posizione né prerogativa nella repubblica della tomba. (John James Ingalls).

Finito il gioco, il re e il pedone tornano nella stessa scatola. (Proverbio Italiano).

L’uguale distribuzione della ricchezza dovrebbe consistere nel fatto che nessun cittadino sia tanto ricco da poter comprare un altro, e nessuno tanto povero che abbia necessità di vendersi. (Armand Trousseau)

L’amore, è l’ideale dell’uguaglianza. (George Sand)

L’amore pretende di parificare, ma il denaro riesce a differenziare. (Aldo Busi)

Noi che siamo liberali e progressisti sappiamo che i poveri sono uguali a noi in tutti i sensi, tranne quello di essere uguali a noi. (Lionel Trilling)

La saggezza dell’uomo non ha ancora escogitato un sistema di tassazione che possa operare con perfetta uguaglianza. (Andrew Jackson)

Nessun uomo è al di sopra della legge, e nessuno è al di sotto di esso. (Theodore Roosevelt)

Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti a coloro che devono applicarla. (Stanislaw Jerzy Lec)

La maestosa uguaglianza delle leggi proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per strada e di rubare il pane. (Anatole France)

Perché in Italia la stupenda frase “La Giustizia è uguale per tutti” è scritta alle spalle dei magistrati? (Giulio Andreotti)

La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori. (Erri De Luca)

Qui vige l’eguaglianza. Non conta un cazzo nessuno!” (Dal film Full metal jacket)

Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. (George Orwell)

Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? (Massimo Gramellini)

La via dell’uguaglianza si percorre solo in discesa: all’altezza dei somari è facilissimo instaurarla. (Conte di Rivarol)

La parità e l’uguaglianza non esistono né possono esistere. E’ una menzogna che possiamo essere tutti uguali; si deve dare a ognuno il posto che gli compete. (Pancho Villa)

Fu un uomo saggio colui che disse che non vi è più grande ineguaglianza di un uguale trattamento di diseguali. (Felix Frankfurter)

Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. (Lorenzo Milani)

Quella secondo la quale tutti gli uomini sono eguali è un’affermazione alla quale, in tempi ordinari, nessun essere umano sano di mente ha mai dato il suo assenso. (Aldous Huxley)

L’uguaglianza è una regola che non ha che delle eccezioni. (Ernest Jaubert)

Nell’incredibile moltitudine che potrebbe venir fuori da una sola coppia umana, che disuguaglianze e varietà! Vi si trovano grandi e piccoli, biondi e bruni, belli e brutti, deboli e forti. Tutto vi figura: il peggiore e l’eccellente, la tara e il genio, la mostruosità in alto e quella in basso. Dall’unione di due individui, tutto può nascere. Punto di congiunzione da cui non si deve sperare tutto e temere tutto. La coppia più banale è gravida di tutta l’umanità. (Jean Rostand)

Anche tra egualitari fanatici il più breve incontro ristabilisce le disuguaglianze umane. (Nicolás Gómez Dávila)

Io non ho rispetto per la passione dell’uguaglianza, che a me sembra una semplice invidia idealizzata. (Oliver Wendell Holmes Jr)

Il significato della parola uguaglianza non deve essere “omologazione”. (Anonimo)

Sì, c’è qualcosa in cui noi ci assomigliamo: tu e io ci crediamo differenti in modo uguale. (Jordi Doce)

Le donne che cercano di essere uguali agli uomini mancano di ambizione. (Timothy Leary)

Assistere l’autodeterminazione del popolo sulla base della massima uguaglianza possibile e mantenere la libertà, senza la minima interferenza di qualsivoglia potere, neppure provvisorio. (Michail Bakunin)

L’uguaglianza non può regnare che livellando le libertà, diseguali per natura. (Charles Maurras)

I legislatori o rivoluzionari che promettono insieme uguaglianza e libertà sono o esaltati o ciarlatani. (Goethe)

Quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata. (Jeremy Bentham)

Una società che mette l’uguaglianza davanti libertà otterrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza avrà un buon livello di entrambe. (Milton Friedman)

Libertà, Uguaglianza, Fraternità – come arrivare ai verbi? (Stanislaw Jerzy Lec)

“Libertà, Fraternità, Uguaglianza”, d’accordo. Ma perchè non aggiungervi “Tolleranza, Intelligenza, Conoscenza?” (Laurent Gouze)

Dicesi problema sociale la necessità di trovare un equilibrio tra l’evidente uguaglianza degli uomini e la loro evidente disuguaglianza. (Nicolás Gómez Dávila)

Credo nell’uguaglianza. Gli uomini calvi dovrebbero sposare donne calve. (Fiona Pitt-Kethley)

Nel mondo contemporaneo l’unico posto dove si realizza la perfetta uguaglianza è nel traffico. (Fragmentarius)

Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l’annua riproduzione si restringe al puro necessario, e l’industria s’annienta, poiché il popolo cade nel letargo. (Pietro Verri)

Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero. (William Butler Yeats)

Chiunque può fuggire nel sonno, siamo tutti geni quando sogniamo, il macellaio e il poeta sono uguali là. (EM Cioran)

Io amo la notte perché di notte tutti i colori sono uguali e io sono uguale agli altri…(Bob Marley)

Il mio diritto di uomo è anche il diritto di un altro; ed è mio dovere garantire che lo eserciti. (Thomas Paine)

Chi vede tutti gli esseri nel suo stesso Sé, ed il suo Sé in tutti gli esseri, perde ogni paura. (Isa Upanishad)

«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso

che se veduto avesse uomo farsi lieto,

visto m’avresti di livore sparso.

(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv.82-84)

L’invidia sociale, scrive Francesco Colonna, su ”Facci un salto”. Si sono impiegati molti decenni per sradicare il tratto fondamentale del marxismo, cioè la lotta di classe. Gli argomenti contrari a quel principio si riassumono in un concetto semplice: la collaborazione è più efficace della lotta. Permette di costruire di più, di fare più cose, di redistribuire meglio non solo i soldi, ma le competenze e la giustizia. Gli argomenti a favore invece erano e sono quella di una divergenza di interessi che si concilia male con l’idea di giustizia sociale. Non importa qui dibattere il tema. Quel che conta è quell’idea non circola più, e infatti nessuno ne parla e nessuno la usa per sostenere le proprie tesi. Di conseguenza, la logica sarebbe questa, tutto dovrebbe essere più tranquillo, una società più conciliante, meno aggressiva, più disposta alla collaborazione, nella quale i problemi si risolvono in modo pacifico e ragionato. E invece a quella ideologia (giusta o sbagliata che fosse non importa) si è sostituito non un pensiero o una filosofia nuovi ma un sentimento: l’invidia, alla quale si può aggiungere l’aggettivo “sociale”. L’invidia nelle sue forme più comuni si riferisce alla cose, invidia per ciò che non ho e altri hanno. Invece nella nostra società fatta di immagine e comunicazione (parole che sembrano sempre sottintendere una falsità o almeno una irrealtà) l’invidia è rivolta all’essere, ai modelli di successo, di fama o di notorietà. E questa invidia prende tante forme: dalla ostilità alla imitazione. E, per capire bene cosa significhi e comporti, basta guardare alla etimologia: invidere in latino vuol dire guardare storto, guardare in modo non corretto. Cioè l’invidia impedisce di vedere giusto e quindi di capire. Ed è trasversale, colpisce ovunque. Mentre la lotta di classe comunque dava una identità, una appartenenza, l’invidia sociale disgrega, atomizza la lotta, relegandola nell’intimo, pur esibendosi poi come ricerca di giustizia sociale. Difficile che in questa luce si possa trovare una strada comune, al massimo si cercano nemici, veri o presunti. Una caccia nella quale brillano il sospetto, la vendetta, il complotto, il pregiudizio. E con questo carico sulla coscienza diviene difficile ragionare e scegliere bene il tipo di società nel quale vivere.

 Monti, Bersani, Vendola e Cgil: il club della patrimoniale. La tentazione di patrimoniale è sempre più forte: Bersani ne vuole una light, Vendola punta alle rendite finanziarie, la Cgil sogna una stangata da 40 miliardi, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. E, adesso, patrimoniale. La spinta è forte. In piena campagna elettorale, la tentazione di fare una tentazione extra sui grandi patrimoni sembra impossessarsi trasversalmente sui leader di molti partiti. Il primo a proporla è stata Mario Monti che, nella sua agenda, l'ha inserita (senza farsi troppi problemi) per riuscire a ridurre la pressione fiscale, a partire dal "carico fiscale gravante su lavoro e impresa". In men che non si dica, una schiera di amanti delle tasse hanno subito fatto propria la smania di andare a mettere le mani sui risparmi degli italiani. "I ricchi devono andare all'inferno". Sebbene si riferisse al Gerard Depardieu che, per l'eccessiva tassazione, ha deciso di lasciare la Francia e accogliere il passaporto russo offertogli da Vladimir Putin, l'imprecazione lanciata da Nichi Vendola dà una chiara idea della crociata che, in caso di vittoria alle politiche, la sinistra condurrà contro i beni degli italiani. Dove potrà, razzolerà per far cassa e appianare i debiti di una macchina statale che fagocita tutti i soldi che vengono versati nell'erario pubblico. Nel giorni scorsi, in una intervista a Radio24, il leader del Sel aveva poi spiegato che, quando sarà al governo, andrà a "stanare" la ricchezza che deriva dalle rendite finanziarie. "Se si immagina che quella finanziaria del Paese è stimata in 4mila miliardi di euro e che viceversa meno di mille persone dichiarano nella denuncia dei redditi più di un milione di euro all'anno di reddito, siamo di fronte a una ricchezza largamente imboscata - ha spiegato Vendola - la tassazione alle transazioni finanziarie e sugli attivi finanziari non è una proposta bolscevica". Nascondendosi dietro alla ragione economica tesa alla ricostruzione del Paese, il governatore della Puglia sembra muoversi solo per una ragione di invidia sociale. Il primo a parlare di patrimoniale è stato, però, il Professore. Nell'agenda presentata a dicembre, Monti ha spiegato che è possibile tagliare le tasse a scapito di altri cespiti: "Il carico corrispondente va trasferito su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio". Si legga: patrimoniale e appesantimento dell’Iva sui be­ni di lusso. Insomma, al premier uscente sembra non bastare l'aver introdotto l'Imu che, è già di per sé, una patrimoniale sull'abitazione. E, su questo punto, si trova in perfetta sintonia con Pierluigi Bersani che ieri sera, negli studi di Ballarò, ha spiegato chiaramente che l’imu non è una patrimoniale "abbastanza progressiva" per i suoi gusti. "Nel prossimo anno non saremo in condizione di ridurre le entrate dell’imu ma potremmo fare un riequilibrio caricando sui possessori di grandi patrimoni immobiliari - ha spiegato il segretario del Partito democratico - a fronte di una detrazione del 5% dobbiamo caricare con un’imposta personale sui detentori di grandi patrimoni immobiliari dal valore catastale di 1,5 milioni di euro". La segreteria di via del Nazareno, modificando leggermente i propositi iniziali vagamente massimalisti, ha fatto balenare una patrimoniale light da applicare agli immobili oltre il milione e mezzo di valore catastale. Lo staff di Bersani ha, invece, specificato che si tratterebbe di circa tre milioni a prezzi reali. Al suo fianco si è subito schierato anche Antonio Ingroia che ha già annunciato di voler togliere l'Imu perché la ritiene "un peso insopportabile e intollerabile". Il progetto del leader di Rivoluzione civile è rendere "il sistema economico più equo" mettendo "una patrimoniale sui redditi più alti e sui patrimoni più consistenti". Il sindacato di Susanna Camusso, che garantisce un’area elettorale decisiva per il Pd, ha preparato una piano fiscale che presenterà a Roma il 25 e 26 gennaio. Piano che fa impallidire gli slogan anti ricchi di Vendola: la Cgil punta, infatti, a reperire 40 miliardi di euro all'anno dalla patrimoniale, 20 miliardi dalla "ristrutturazione della spesa pubblica", 10 miliardi dal riordino dei finanziamenti alle imprese e 10 miliardi dai fondi dell'Unione europea. Gli 80 miliardi rastrellati verrebbero destinati, ogni anno, al lavoro (creazione di nuovi posti, sostegno dell’occupazione e nuova riforma del mercato del lavoro), al welfare e alla "restituzione fiscale" attraverso il taglio della prima aliquota dal 23 al 20% e della terza dal 38 al 36%. Progetto che senza la patrimoniale da 40 miliardi non sta in piedi.

Ci volevate uguali? Ora sim tutti poveri, scrive Mimmo Dato su "L'Intraprendente". In questo nostro bel paese, mio caro Mictel o come ti chiami, abbiamo avuto imponenti correnti d’ispirazione populista, con orientamenti internazionali con sguardo alla sovietizzazione ed al marxismo, forse un po’ radicalizzanti ma certo, a loro dire, pacifisti. Insomma tutta gente all’opposizione che ha vissuto una vita a gridare quanto fosse giusto eliminare le diseguaglianze economiche e ridistribuire le ricchezze, per ovvio sempre prodotte dagli altri e mai da loro; che bisognava aumentare le spese dello Stato per attuare queste pseudo misure egualitarie. Insomma tutti questi contro tutti quelli che non ponevano quale obiettivo principe la massimizzazione dell’uguaglianza. Poi il sogno in Italia si avvera e i governi a marchio populista, pacifista, egualitario si succedono a raffica pur senza che nessuno li elegga ma la Costituzione non viene infranta per questo, per i comunisti il voto non serve, ed eccoci all’oggi, tutti poveri uguale. Tutte le decisioni per la sopravvivenza del paese sono state omesse come qualunque sistema libero e democratico farebbe, tasse da record mondiale, caccia alle streghe, si è omesso di rafforzare le forze di difesa e di cercare le alleanze a garanzia internazionale. Quindi tutte le decisioni sono tendenti alla massimizzazione dell’uguaglianza in povertà contro quelle tese a garantire l’indipendenza e la sopravvivenza del sistema economico e democratico, si legga la nuova legge elettorale che dovrebbe esser varata. Ma allora, caro Mictel, ti chiederai chi erano e chi sono i veri potenti? Forse i ceti abbienti che sostenevano gruppi di maggioranza senza aver avuto, per loro frazionamento ed opportunismo, la capacità di arrestare forme populiste egualitarie o questi ultimi che hanno preso il potere da anni e stanno perseguendo opzioni politiche da disastro, spesa pubblica e disoccupazione al cielo? Vedi Mictel se tu mi fai la domanda, e non me la fai, su come la penso credo che oggi esistano due gruppi di pensatori, quelli che non vogliono l’uguaglianza nemmeno come valore e quelli che pensano che sia comunque impossibile. A questo punto, inutili e terra di conquista, che ci compri la Russia o la Cina. Eppoi il tuo nome sembra americano e mi dici esser cinese. Come ho fatto a non capirlo quando sei sceso da quel macchinone di lusso?

Altro che tutti uguali. Meglio tutti più ricchi. Frankfurt: ridurre le differenze di reddito non è un ideale morale. Il problema è invece che troppi sono poveri, scrive Harry G. Frankfurt Martedì 27/10/2015 su "Il Giornale". In un recente discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Barack Obama ha dichiarato che la disuguaglianza di reddito è «la sfida che definisce la nostra epoca». A me sembra, invece, che la sfida fondamentale per noi non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono ampiamente disuguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere. Dopo tutto, la disuguaglianza di reddito potrebbe essere drasticamente eliminata stabilendo semplicemente che tutti i redditi devono essere ugualmente al di sotto della soglia di povertà. Inutile dire che un simile modo di ottenere l'uguaglianza dei redditi - rendendo tutti ugualmente poveri - presenta ben poche attrattive. Eliminare le disuguaglianze di reddito non può quindi costituire, di per sé, il nostro obiettivo fondamentale. Accanto alla diffusione della povertà, un altro aspetto dell'attuale malessere economico è il fatto che, mentre molte persone hanno troppo poco, ce ne sono altre che hanno troppo. È incontestabile che i molto ricchi abbiano ben più di ciò di cui hanno bisogno per condurre una vita attiva, produttiva e confortevole. Prelevando dalla ricchezza economica della nazione più di quanto occorra loro per vivere bene, le persone eccessivamente ricche peccano di una sorta d'ingordigia economica, che ricorda la voracità di chi trangugia più cibo di quanto richiesto sia dal suo benessere nutrizionale sia da un livello soddisfacente di godimento gastronomico. Tralasciando gli effetti psicologicamente e moralmente nocivi sulle vite degli stessi golosi, l'ingordigia economica offre uno spettacolo ridicolo e disgustoso. Se lo accostiamo allo spettacolo opposto di una ragguardevole classe di persone che vivono in condizioni di grande povertà economica, e che perciò sono più o meno impotenti, l'impressione generale prodotta dal nostro assetto economico risulta insieme ripugnante e moralmente offensiva. Concentrarsi sulla disuguaglianza, che in sé non è riprovevole, significa fraintendere la sfida reale che abbiamo davanti. Il nostro focus di fondo dovrebbe essere quello di ridurre sia la povertà sia l'eccessiva ricchezza. Questo, naturalmente, può benissimo comportare una riduzione della disuguaglianza, ma di per sé la riduzione della disuguaglianza non può costituire la nostra ambizione primaria. L'uguaglianza economica non è un ideale moralmente prioritario. Il principale obiettivo dei nostri sforzi deve essere quello di rimediare ai difetti di una società in cui molti hanno troppo poco, mentre altri hanno le comodità e il potere che si accompagnano al possedere più del necessario. Coloro che si trovano in una condizione molto privilegiata godono di un vantaggio enorme rispetto ai meno abbienti, un vantaggio che possono avere la tendenza a sfruttare per esercitare un'indebita influenza sui processi elettorali o normativi. Gli effetti potenzialmente antidemocratici di questo vantaggio vanno di conseguenza affrontati attraverso leggi e regolamenti finalizzati a proteggere tali processi da distorsioni e abusi. L'egualitarismo economico, secondo la mia interpretazione, è la dottrina per cui è desiderabile che tutti abbiano le stesse quantità di reddito e di ricchezza (in breve, di «denaro»). Quasi nessuno negherebbe che ci sono situazioni in cui ha senso discostarsi da questo criterio generale: per esempio, quando bisogna offrire la possibilità di guadagnare compensi eccezionali per assumere lavoratori con capacità estremamente richieste ma rare. Tuttavia, molte persone, pur essendo pronte a riconoscere che qualche disuguaglianza è lecita, credono che l'uguaglianza economica abbia in sé un importante valore morale e affermano che i tentativi di avvicinarsi all'ideale egualitario dovrebbero godere di una netta priorità. Secondo me, si tratta di un errore. L'uguaglianza economica non è di per sé moralmente importante e, allo stesso modo, la disuguaglianza economica non è in sé moralmente riprovevole. Da un punto di vista morale, non è importante che tutti abbiano lo stesso, ma che ciascuno abbia abbastanza. Se tutti avessero abbastanza denaro, non dovrebbe suscitare alcuna particolare preoccupazione o curiosità che certe persone abbiano più denaro di altri. Chiamerò questa alternativa all'egualitarismo «dottrina della sufficienza», vale a dire la dottrina secondo cui ciò che è moralmente importante, con riferimento al denaro, è che ciascuno ne abbia abbastanza. Naturalmente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia di per sé un ideale sociale moralmente cogente non è una ragione per considerarla un obiettivo insignificante o inopportuno in qualsiasi contesto. L'uguaglianza economica può avere infatti un importante valore politico e sociale e possono esserci ottime ragioni per affrontare i problemi legati alla distribuzione del denaro secondo uno standard egualitario. Perciò, a volte, può avere senso concentrarsi direttamente sul tentativo di aumentare l'ampiezza dell'uguaglianza economica piuttosto che sul tentativo di controllare fino a che punto ognuno abbia abbastanza denaro. Anche se l'uguaglianza economica, in sé e per sé, non è importante, impegnarsi ad attuare una politica economica egualitaria potrebbe rivelarsi indispensabile per promuovere la realizzazione di vari obiettivi auspicabili in ambito sociale e politico. Potrebbe inoltre risultare che l'approccio più praticabile per raggiungere la sufficienza economica universale consista, in effetti, nel perseguire l'uguaglianza. E ovviamente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia un bene in sé lascia comunque aperta la possibilità che abbia un valore strumentale come condizione necessaria per ottenere beni che posseggono, questi sì, un valore intrinseco. Pertanto, una distribuzione di denaro più egualitaria non sarebbe sicuramente criticabile. Tuttavia, l'errore assai diffuso di credere che esistano potenti ragioni morali per preoccuparsi dell'uguaglianza economica in quanto tale è tutt'altro che innocuo. Anzi, a dir la verità, tende a essere una credenza piuttosto dannosa. (2015 Princeton University Press2015 Ugo Guanda Editore Srl)

GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.

Gli intoccabili. Il caso Saguto e la società delle caste, scrive Pino Maniaci su "Telejato" il 26 ottobre 2015. IL CASO SAGUTO E LA SOCIETÀ DELLE CASTE: L’ANTIMAFIA, I GIUDICI, I BUROCRATI, I POLITICI. E POI LA PLEBE. Di fronte a tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in questi ultimi tempi sul caso della gestione personalizzata dei beni sequestrati da parte di un nutrito numero di magistrati, componenti del CSM, cancellieri, funzionari della DIA, personale giudiziario e amministratori giudiziari, sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Ci chiediamo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti: Se a un comune mortale cittadino italiano fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stato sottoposto agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Ci chiediamo ancora una volta, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che a “Zà Silvana” indossi ancora la toga? È opportuno che tutte le persone coinvolte in favoritismi, raccomandazioni e assunzioni ad amici e parenti restino ancora al loro posto? È opportuno che funzionari della DIA al servizio di questo sistema continuino a svolgere ancora funzioni pubbliche? Non comprendiamo quale sia la differenza tra questi soggetti e chi incassa una tangente. Entrambi utilizzano i propri ruoli istituzionali per rubare soldi pubblici. La giustizia è davvero uguale per tutti? Non ci soddisfano più le assicurazioni che tutto sarà chiarito. Sarà chiarito da chi? Quando e davanti a chi? Tutti invece devono essere immediatamente rimossi dai loro pubblici incarichi, in modo trasparente perché come cittadini abbiamo concesso credito a giudici che abbiamo ritenuto credibili, che abbiamo rispettato per la loro vita blindata, giudici che abbiamo ascoltato e dei quali abbiamo rispettato il lavoro senza alcuna delegittimazione preventiva. Vengano rimossi senza stipendio per rispetto verso tutti quei magistrati che hanno onorato e onorano i valori di autonomia e indipendenza, assicurando credibilità alla Giustizia con i comportamenti di tutti i giorni. Vengano rimossi per rispetto a tutti quei servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere. Vengano rimossi e gli vengano sequestrati i beni per rispetto a tutti coloro che chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria con compiti delicatissimi e complessi lo fanno con coraggio. Pochi giorni fa i deputati della nostra regione hanno approvato in Commissione in tempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle società partecipate dalla Regione e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxicompensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia, Crocettino, è diventato il Santo protettore della casta. Ricordiamo che negli anni ’80, ’90, il sogno di tanti giovani era quello di una società nella quale se sei bravo e se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli antimafia, come se l’antimafia fosse una categoria dello spirito, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. E in quanto tali trattano gli altri con arroganza e sfacciataggine. Ci sentiamo come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che ha detto “Se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo a “Zà Silvana” che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. È la Rivoluzione Francese ai tempi da “Zà Silvana”. Un ultimo e accorato appello a tutte le Associazioni Antiracket e Antimafia che non sentono la necessità di proferire parola neanche davanti a delle gravissime minacce ricevute dal Direttore di Telejato, Pino Maniaci, da parte della Saguto (a “Zà Silvana”) e del Prefetto Cannizzo, che parlando tra di loro hanno affermato: “Pino Maniaci ha le ore contate”. E ai ragazzi di Addiopizzo. Forza ragazzi fate sentire la vostra variopinta presenza e alzate in coro la voce organizzando graziosi sit-in di protesta nelle pubbliche piazze e davanti al Tribunale di Palermo, datevi da fare ad appendere sui pali e le vetrine di Palermo la scritta: “Un Magistrato e un Prefetto che usano il loro potere per fini personali sono persone senza dignità”.

Il caso Saguto e la società delle caste: l'antimafia, i giudici, i burocrati, i politici. E poi la plebe. L'inchiesta che riguarda il giudice Saguto, insieme ad una serie di altri fatti di cronaca mi hanno convinta che viviamo in una società divisa in caste. Da un lato gli intoccabili, i privilegiati, dall'altro la plebe. Ai tempi di Maria Antonietta lei diceva "mangiate biscotti se non avete pane", oggi c'è un giudice che non si accorge di 18 mila euro di conto non pagato al supermercato..., scrive domenica 25 Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. Il caso Saguto non mi ha fatto dormire la notte. Per 10 giorni ho avuto il panico temendo quale cosa raccapricciante avrei letto il giorno dopo a proposito dell’inchiesta su Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione misure preventive del Tribunale di Palermo. L’indagine su quel che accadeva nella gestione dei beni confiscati alla mafia (che in Sicilia rappresentano il 43% del totale) sta facendo emergere di tutto. La Saguto spaziava dalle nomine di amministratori giudiziari nelle società confiscate in cambio di incarichi per il marito, i parenti e gli amici, all’utilizzo dell’auto blindata come taxi per prelevare la nuora e accompagnarla nella villa al mare, o delle sue ospiti per non incappare nel traffico palermitano, oppure dal farsi recapitare a casa per le cene 6 chili tonno fresco, lamponi, (di provenienza da aziende sotto sequestro) al conto da quasi 20 mila euro non pagato al supermercato confiscato (“una dimenticanza, non sono io quella che va a fare la spesa..”). La “zarina” delle misure preventive si è data da fare per la laurea del figlio ottenuta grazie all’aiuto del docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano che in cambio veniva nominato consulente. Il giovane laureato, stando alle intercettazioni, la festa proprio non la voleva “questa laurea è una farsa, gli altri sgobbano per averla” ma il giudice non sentì ragioni e affidò l’organizzazione proprio al professore Provenzano che oltre a scrivere la tesi ha provveduto al menù, così come avverrà per la successiva festa di compleanno della Saguto. Gli agenti della scorta infine venivano utilizzati per andare in profumeria a fare acquisti. Ciliegina sulla torta del dichiarazioni del giudice antimafia a proposito dei figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Anna. Il 19 luglio, anniversario dell’assassinio di Borsellino, Silvana Saguto partecipa come madrina alla manifestazione Le vele della legalità, fa il suo bel discorso antimafia, poi sale a bordo dell’auto blindata ed al telefono dice ad un’amica: “Poi Manfredi che si commuove, ma perché minc...a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff....o". Di fronte a tutto questo sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Mi chiedo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti ma se a Donna Sarina fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stata agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Mi chiedo, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che indossi ancora la toga? La giustizia è davvero uguale per tutti? Leggo anche dell’arresto per corruzione dell’ex direttrice del carcere di Caltanissetta Alfonsa Miccichè. La signora affidava progetti con somme inferiori ai 40 mila euro (quindi non soggetti ad evidenza pubblica) a società che in cambio assegnavano incarichi alla figlia ed al genero. Sempre in questi giorni scopro che al Comune di Sanremo il 75% dei dipendenti è assenteista e c’è chi è stato filmato mentre timbrava il cartellino in mutande e poi tornava a letto o lo faceva timbrare da moglie e figli. Il sindaco di Sanremo dichiara: “sto valutando i provvedimenti da prendere. Forse ANCHE il licenziamento”. A prescindere dal fatto che se licenzi questi ladri di lavoro almeno puoi assumere qualcuno onesto che ti fa funzionare il Comune e adesso è disoccupato, mi chiedo signor sindaco: che significa ANCHE il licenziamento? Che vorresti fare? Premiarli? Che differenza c’è tra questi assenteisti e l’impiegato che incassa la tangente? Entrambi rubano soldi pubblici. Torniamo in Sicilia dove pochi giorni fa i deputati hanno approvato in Commissione intempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle partecipate e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxi compensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia è diventato il Santo protettore della casta. A Roma mentre la sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu viene rinviata a giudizio per peculato per rimborsi da 81 mila euro il presidente del Consiglio Renzi annuncia di voler togliere l’Ici sulla prima casa a TUTTI, sia che abbiamo un castello che un tugurio. E si definisce di sinistra….Ricordo negli anni ’80, ’90, il sogno della Milano da bere era quello di una società nella quale se sei bravo, se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli “antimafia”, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. La Barracciu era la candidata che Renzi voleva ad ogni costo per la presidenza della Regione Sardegna. A causa dello scandalo, ha ripiegato per un posto di sottosegretario. La Barracciu, la Saguto, le leggi ad personam mentre la Sicilia muore di fame. E’ la sfacciataggine degli intoccabili. Mi sento come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che dice “ma se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo il giudice antimafia Silvana Saguto che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. E’ la Rivoluzione Francese ai tempi della Saguto. Rosaria Brancato.

Cultura antimafia con pregi e difetti, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 ore” del 26 Ottobre 2015. I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti – istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi – in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della “mela marcia”. Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo – sostiene Saguto – sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari – anche molto meno esposti di Palermo – che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, gli ammontari, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere «una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta» (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un po’ più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti.

QUESTIONI DI FAMIGLIA. I fatal mariti, scrive Sabato 19 Settembre 2015 Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Silvana Saguto è costretta a lasciare il suo incarico a causa di una indagine che riguarda presunti favori al marito. La corsa di Anna Finocchiaro verso il Quirinale è stata frenata anche dal caso del Pta di Giarre che coinvolse il coniuge. E non sono gli unici casi, dalla consulenza del "signor Chinnici" al ritardo di "mister Monterosso". La moglie di Cesare deve apparire più onesta dell'imperatore. L'immagine è rievocata a ogni scandalicchio e parentopolina. Qualcuno, però, in questi anni ha forse dimenticato i mariti delle imperatrici. Fatal mariti, in molti casi. È il caso di Silvana Saguto, ma non solo il suo. Perché i coniugi delle donne di potere, in qualche caso, hanno finito per frenare e troncare carriere. O, in qualche caso, per trascinare nella centrifuga di polemiche più o meno sensate, le mogli. Ne sa qualcosa, come abbiamo già detto, Silvana Saguto, che ha lasciato l'incarico di presidente della Sezione misure di prevenzione. È indagata per corruzione e abuso d'ufficio. E la questione riguarda anche il marito, appunto. L'accusa al magistrato infatti è relativa ai rapporti con Gaetano Cappellano Seminara, il più noto degli amministratori giudiziari. A lui sono giunti diversi incarichi di gestione di beni confiscati alla mafia. Una fiducia ripagata – questa l'accusa, tutta da dimostrare – tramite consulenze che lo stesso Cappellano Seminara avrebbe assicurato a Lorenzo Caramma, marito della Saguto. Quanto basta, ovviamente, per fare da miccia a un'esplosione di veleni e accuse incrociate che pare ancora all'inizio. E ha già portato all'estensione dell'indagine ad altri tre magistrati. Intanto, la Saguto ha fatto le tende. Attenderà un altro incarico. Ma il “colpo” alla carriera del magistrato è stato durissimo. Marito, fatal marito. Che a pensarci bene, un'altra storia di coniuge “scomodo” potrebbe aver contribuito a chiudere le porte del Quirinale a una donna siciliana. È il caso di Anna Finocchiaro e soprattutto del fatal marito, Melchiorre Fidelbo. Quest'ultimo è infatti finito dentro una inchiesta su un maxi appalto dell'Asp di Catania destinato all'apertura del “Pta” di Giarre: una struttura sanitaria “intermedia” che avrebbero dovuto alleggerire il peso dei grossi ospedali. Fidelbo nell'ottobre del 2012 è stato anche rinviato a giudizio per abuso di ufficio e truffa: è accusato di aver fatto pressioni indebite sui dirigenti dell'Azienda sanitaria con lo scopo di ottenere l'affidamento. Una vicenda ovviamente tirata fuori dai detrattori della Finocchiaro, nei giorni caldi che hanno portato alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Siciliano, ma uomo. Nonostante la Finocchiaro pare piacesse molto anche a Forza Italia. Ma quella storia... Chissà cosa si saranno detti, invece, Patrizia Monterosso e Claudio Alongi, suo marito. E no, non c'entrano nulla i potenziali conflitti di interesse tra un Segretario generale che contribuisce a scrivere le norme sui dipendenti regionali e il commissario dell'Aran che – visto il ruolo – con i dipendenti regionali deve discutere le norme che li riguardano. No, la storia è un'altra. Ed è, in fondo, sempre la stessa. Quella per la quale la plenipotenziaria di Palazzo d'Orleans è stata condannata dalla Corte dei conti a oltre un milione di risarcimento per la vicenda degli extrabudget nella Formazione professionale. Una condanna giunta nonostante l'appassionata difesa del marito-avvocato Claudio Alongi. Anzi, “tecnicamente” proprio a causa dell'avvocato-consorte. Perché il ricorso della Monterosso, al di là delle questioni di merito che, stando ai giudici sarebbero rimaste tutte in piedi, è stato respinto per un ritardo nella presentazione di alcuni documenti. Ritardo dei legali, appunto. Marito compreso. Paradossi delle vite coniugali che si intrecciano con le vite pubbliche. Ne sa qualcosa Caterina Chinnici. Fu lei la massima sostenitrice di una legge sulla trasparenza che finalmente poneva dei paletti (in questi anni a dire il vero, serenamente ignorati) riguardo alla pubblicazione degli atti, degli stipendi e degli incarichi pubblici. Il caso, però, ha voluto che a ignorare quelle disposizioni fosse anche un consulente dell'Asp di Siracusa, Manlio Averna. Marito di Caterina Chinnici. Un caso che creò anche tensioni all'interno della giunta di Raffaele Lombardo, con Massimo Russo, ad esempio, molto critico sulla “dimenticanza” dell'Azienda siracusana. "Non si può addebitare alla sottoscritta – replicò Caterina Chinnici - l'eventuale inadempienza di coloro che dovrebbero controllare”. Polemiche, ovviamente, poco più. Nulla a che vedere col “caso Saguto”, se non il ricorrere di questi “incroci pericolosi” tra il divano di casa e le scrivanie del sistema pubblico. Fastidi, o poco più, in cui il marito non sarà stato “fatale” per la carriera, ma che certamente ha regalato alla consorte qualche minuto o qualche giorno di tensione. Avvenne anche a Vania Contrafatto, attuale assessore all'Energia. E il casus belli fu addirittura una cena, organizzata da Sandro Leonardi, candidato dell'Idv al Consiglio comunale e marito della Contrafatto. All'appuntamento c'erano, tra gli altri, il procuratore Francesco Messineo e gli aggiunti Leonardo Agueci e Maurizio Scalia. Quest'ultimo era il magistrato che coordinava l'indagine sui brogli alle primarie del centrosinistra. Una rivelazione, quella, lanciata ironicamente nel corso di una conferenza stampa da Antonello Cracolici: “Per sapere qualcosa sui presunti brogli alle primarie - disse il capogruppo del Pd all'Ars - forse avremmo dovuto essere a una cena elettorale che si è tenuta sabato a Mondello alla quale hanno partecipato, oltre al candidato sindaco Leoluca Orlando, alcuni pm di Palermo che seguono le indagini sulla vicenda". Orlando aveva denunciato brogli a quelle consultazioni accusando il vincitore di quelle primarie, Fabrizio Ferrandelli. Tutto si sgonfiò presto, con una nota del pm Scalia con la quale il magistrato spiegò di aver preso parte “a un ricevimento in una casa privata di una collega e amica per festeggiarne l'inaugurazione”. Vania Contrafatto, appunto. Una delle cene probabilmente più indigeste per quello che sarebbe diventato il futuro assessore all'Energia. E un marito può essere fatale persino “a costo zero”. Chiedete a Valeria Grasso, nominata da Crocetta Soprintendente della Fondazione orchestra sinfonica. Tra i consulenti, ecco spuntare il marito Maurizio Orlando: “Ma è qui a titolo gratuito”, provò a spiegare l'imprenditrice antiracket. Pochi mesi dopo, Crocetta l'avrebbe rimossa dalla guida della Foss.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Lo scandalo dei beni sequestrati alla mafia e il ruolo della Massoneria, scrive Riccardo Gueci su "La Voce di New York" dekl 29 ottobre 2015. Tutti sapevano come veniva gestita la Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ma nessuno parlava. E il motivo è semplice: perché dietro questo grande affare c’è la Massoneria. I grandi 'numeri' della holding di don Ciotti, Libera: chi guadagna sulle lucrose vendite dei prodotti agricoli di questa associazione antimafia? Sull’indegna questione che ha investito la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo vanno in scena le sceneggiate di tanti protagonisti. Il primo è un esponente del mondo politico. A recitarla è l'onorevole Claudio Fava, membro autorevole della Commissione parlamentare Antimafia. Salvo Vitale - come riportato nella pagina Facebook di Riccardo Compagnino - riprende una dichiarazione del deputato di Sinistra Ecologia e Libertà nella quale si legge: “C'è un punto di cui nessuno ci ha mai parlato, ovvero che il marito della presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, avesse una preziosa consulenza con lo studio del commercialista che si occupa della gran parte dei beni sequestrati”. A questa dichiarazione, Salvo Vitale, con la serenità di chi sa il fatto suo, ribatte: “A parte il fatto che Cappellano Seminara è un avvocato e non un commercialista, non è giusto, né corretto che tu faccia questa affermazione”. E, nel far trasparire che egli con quel deputato ha avuto una qualche frequentazione, continua: “Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi (presidente della Commissione Antimafia, ndr) per 'tutelare' l'immagine di un settore della Procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del Prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c'era sotto, hai abbassato il capo, dicendo che bisognava intervenire, ma forse eri distratto”. Vitale prosegue nella sua replica affrontando un aspetto che, con tutta probabilità, è quello di maggiore rilevanza economica e sociale di questo andazzo affaristico-massonico: il fallimento di aziende, anche quelle sequestrate a gente che è risultata estranea agli affari di mafia. Questa serie di fallimenti ha concorso a determinare l'impoverimento dell'economia di Palermo e della sua provincia, che già di suo non è mai stata prosperosa. “Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura - aggiunge Vitale - cosa peraltro ripetuta dal giudice Morosini - sarebbe stato più utile per la storia che ti porti appresso chiedere di far pulizia all'interno di essa, anche perché la fiducia dei cittadini non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto, quando bisogna far pulizia in casa. Bastava guardare a Villa Teresa (Villa Santa Teresa, clinica privata confiscata all’ingegnere Michele Aiello ndr) - dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Andrea Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili - per renderti conto che la signora Saguto Silvana, il signor Caramma Elio, suo figlio, e il signor Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti sulla lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla signora Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E, invece, non si è fatto niente. E' facile dire che non sapevamo...è difficile crederci”. In sostanza, il deputato di Sel e vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia ha recitato la sua sceneggiata e Vitale con dovizia di particolari e di argomenti l'ha recensita a dovere. Fin qui l'arringa di Vitale. Ma c'è un'altra fonte di notizie che va tenuta in debita considerazione ed è quella di Pino Maniaci, direttore di TeleJato, la testata che per prima ha sollevato il caso. Maniaci è stato intervistato dal nostro Giulio Ambrosetti “per conoscere qualche dettaglio in più e le sue valutazioni sul caso” ed ha avuto modo di annotare alcune sue valutazioni assai interessanti. In particolare su quanto riportato in un articolo del Giornale di Sicilia che rende noti alcuni stralci delle intercettazioni telefoniche tra la dottoressa Silvana Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dove si fa riferimento all'impresa Calcestruzzi. Pino Maniaci, saggiamente, precisa: “Quando si parla di Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere (del Tribunale di Palermo ndr) amministra almeno dodici aziende di calcestruzzo”. Quindi l’affondo: “La dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera. Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”. Ad una seconda domanda generica sulle associazioni antimafia, “parliamo un po' di Libera e di Addiopizzo”, Pino Maniaci puntualmente fa rilevare che “sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta 5/6 euro, un vasetto di caponata 5 euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Sull'argomento ho chiesto un parere a don Ciotti. Ma non ho avuto risposte”. Le tirate moralistiche di don Luigi Ciotti le dobbiamo considerare anch'esse sceneggiate? “Poi c'è la questione legata ai sequestri. Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Matello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”. E sempre a questo proposito, che risulta essere uno dei temi più delicati del sistema delle confische, Maniaci prosegue nel ricordare come in alcune vicende che hanno visto tante imprese avere avuto riconsegnate le loro aziende dopo il sequestro, svuotate di ogni attività, al limite del fallimento. Con questa procedura “è stata distrutta buona parte dell'economia di Palermo e della sua provincia”. Ed aggiunge “sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”. E ricorda la vicenda dell'impresa Niceta che con tutta probabilità chiuderà i battenti: “Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa 50 dipendenti e ne hanno assunti 24. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici del solito giro. L'ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare le teste lasciando il corpo non serve a nulla. A che serve mandare via Virga se poi i coadiutori, nominati dallo stesso Virga, restano?”. E continua: “Dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti”. Fin qui l'intervista a Pino Maniaci. C'è poi un'altra sceneggiata, che sa di paradosso. Stavolta la limitiamo al massimo. La dottoressa Saguto, poverina, a causa del magro stipendio che le passa lo Stato per il suo lavoro di magistrato, si era ridotta a contrarre un debito con il supermercato - sequestrato alla mafia - dove faceva la spesa per sfamare la famiglia. Ed addirittura secondo un articolo apparso sul Giornale di Sicilia, la poverina non aveva i soldi per pagare la bolletta della luce. Le cronache ci consegnano questo quadro, al netto delle intercettazioni telefoniche che riguardano giudizi del tutto gratuiti sui figli di Paolo Borsellino, il magistrato fatto saltare con la sua scorta in via D'Amelio nel 1992, delle quali ci intratterremo in seguito. Queste cronache ci inducono a sottolinearne alcuni aspetti. Il primo riguarda il sistema gerarchico del Tribunale di Palermo. Se la Sezione Misure di prevenzione procede al sequestro di beni per i quali la stessa ‘macchina’ della Giustizia ha escluso la provenienza mafiosa, non c'è in quel sistema gerarchico qualcuno che faccia presente che quel sequestro è illegittimo? La ragione di questa 'assenza' è dovuta ad un potere occulto, che anche i ciechi e i sordi sanno fare capo alla Massoneria. Infatti, tutti gli uffici del Tribunale, specialmente Civile e in parte del Lavoro, sono largamente infiltrati dal potere massonico. Lo sanno tutti, ma nessuno parla. Nel giro è compresa larga parte dell'avvocatura. La cosa non è nuova, basta ricordare quello che è accaduto al dottor Alberto Di Pisa quando, sull'argomento, si 'permise' di esprimere qualche opinione. Ricordate la vicenda del “corvo”? Da allora non è cambiato nulla. Anzi! Non va trascurato il fatto che molto spesso tra la Massoneria e la mafia è esistita una intesa molto stretta. Infatti, tra sette segrete ci si intende più facilmente e si possono curare affari molto lucrosi se si opera di comune accordo. Intanto quelle aziende, affidate alle 'cure' di amministratori di fiducia vengono distrutte e, talora, riconsegnate ai legittimi proprietari semi fallite e con le maestranze licenziate. Con il bel risultato di avere provocato sia un danno all'economia, sia un contributo in più alla disoccupazione. Il secondo fa riferimento alle perplessità manifestate da Pino Maniaci a proposito di Libera, l'associazione creata dal don Luigi Ciotti per amministrare, attraverso un sistema di cooperative, i beni immobili, specialmente terreni agricoli confiscati alla mafia. Maniaci fa riferimento ai prezzi proibitivi dei prodotti agricoli di queste cooperative e di averne chiesto inutilmente le motivazioni a don Ciotti. E rileva che ormai Libera è una vera e propria holding. A proposito di tale questione va ricordato che le cooperative agricole, promosse da Libera, che gestiscono i terreni agricoli confiscati alla mafia sono finanziate con le risorse finanziarie europei dei PON, cioè dei Piani Operativi Nazionali, sezione fondi strutturali europei per la sicurezza. In definitiva quelle cooperative hanno i costi di gestione coperti dai fondi europei e, spesso, utilizzano locali di vendita dei loro prodotti anch'essi confiscati alla mafia. Non solo. Per l'uso dei terreni agricoli non pagano nulla, ancorché in affidamento. Il capitale investito dai loro soci è di entità simbolica. In sostanza, gestiscono soltanto utili. In presenza di queste condizioni irripetibili in nessuna parte del mondo, non si capisce la ragione economica del perché i loro prodotti abbiano questi prezzi proibitivi destinati al consumatore di reddito medio alto. A chi vanno questi ragguardevoli profitti? Un’indagine su costi, ricavi e investimenti delle cooperative di Libera non sarebbe del tutto fuori luogo. Il terzo riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Secondo quanto riferito dalla dottoressa Silvana Saguto, l'organo di autogoverno dei magistrati ha invitato tutti coloro che sono implicati nelle vergognose vicende ricordate in precedenza a chiedere il trasferimento. Questo è un punto delicato per la credibilità della Magistratura che rischia di farla apparire una corporazione al di sopra e al di fuori della legge che vale per tutti gli altri cittadini italiani. La questione, invece, è molto semplice: la dottoressa Saguto, nell'ambito dei suoi compiti d'istituto, ha compiuto quegli atti che le vengono addebitati? Allora: se quegli atti si configurano non conformi alla deontologia professionale o, addirittura, come reati, la dottoressa Saguto e i suoi complici vanno licenziati in tronco alla stregua di qualsiasi altro lavoratore che non svolga i compiti che gli sono assegnati con la dovuta correttezza. In questo caso nella condizione del licenziamento dovrebbe figurare pure il divieto perenne ad entrare in un'aula di qualsiasi Tribunale italiano, neanche come avvocato. Il congresso del sindacato italiano dei magistrati, ove volesse darsi un minimo di dignità, dovrebbe discutere di deontologia e di valori etici nell'esercizio della professione per dare più forza e credibilità alla funzione del magistrato. *Riccardo Gueci è un dirigente pubblico in pensione. Cresciuto nel vecchio Pci, non ha mai dimenticato la lezione di Enrico Berlinguer. Per lui la politica non può essere vista al di fuori della morale (Berlinguer, grande leader del Pci, a proposito della gestione del potere in Italia, parlava infatti di "Questione morale"). Per noi Gueci commenta i fatti legati alla politica estera e all'economia. Oggi affronta il tema delle polemiche che stanno accompagnando la gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Tema che affronta da una particolare angolazione: quella economica, per l'appunto. Sottolineando il ruolo che nell'economia siciliana - spesso in modo occulto - viene svolto dalla Massoneria.

Quello che gli altri non dicono.

Omicidio Mauro Rostagno, le motivazioni: “Logge e 007, ma ad ammazzarlo fu Cosa nostra”, scrive Giuseppe Pipitone il 29 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Depositate le tremila pagine di motivazione della sentenza di condanna all'ergastolo per Vincenzo Virga e Vito Mazzarra, mandante ed esecutore dell'omicidio del sociologo e giornalista. "La torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata". Di sicuro c’è solo che ad ammazzarlo fu la mano di Cosa nostra. Sullo sfondo, invece, rimangono ancora troppi i moventi, all’interno di un contesto difficilissimo da ricostruire tra depistaggi, interessi incrociati, relazioni pericolose e prove scomparse. Ventisette anni dopo, occorrono più di tremila pagine per spiegare chi e perché uccise Mauro Rostagno, sociologo e giornalista, militante arancione e leader di Lotta continua, fondatore della comunità terapeutica Saman e testimone della svolta nera di Cosa nostra a Trapani, tra logge massoniche e attività coperte dei servizi d’intelligence. Si era trasferito in Sicilia già da alcuni anni Rostagno, quando il 26 settembre del 1988, viene freddato a colpi di fucile in contrada Lenzi, a pochi passi dalla comunità che aveva creato insieme a Ciccio Cardella, conosciuto in India negli anni ’70, poi coinvolto in uno dei tanti rivoli investigativi sul mai del tutto risolto omicidio del sociologo torinese. Quasi trent’anni dopo, però, la corte d’assise del comune trapanese ha trovato autori e mandanti di quel delitto: sono, nell’ordine, il killer Vito Mazzara e il boss di Cosa nostra Vincenzo Virga, condannati all’ergastolo il 16 maggio del 2014. Ci sono voluti altri quattordici mesi perché il giudice Angelo Pellino depositasse le tremila pagine con le quali motiva quelle condanne. Un documento storico – giudiziario importante quello di Pellino, perché ricostruisce il contesto trapanese degli anni ’80, all’interno del quale matura l’omicidio Rostagno. “La torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni e che ha a Trapani, con la costituzione dell’ultimo Cas nella storia di Gladio, un suo epicentro, crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale”, scrive il presidente della corte d’assise nelle motivazioni della sentenza. La Trapani degli anni ’80, infatti, è una città borderline, cerniera di rapporti tra 007 coperti, massoni, boss di Cosa nostra, all’ombra dell’ultimo centro d’addestramento di Gladio, la struttura paramilitare segreta nata come costola di Stay Behind, che stabilisce nella città delle saline una delle cinque basi coperte della VII divisione del Sismi: la stessa che nascondeva gli Ossi, gli operatori speciali Stato Italiano, che per l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, erano legati alla Falange Armata. “Ne scaturisce – continua Pellino – una rete di relazioni pericolose, fatte di intese e scambi di favori reciproci e protezioni. Un’organizzazione criminale che detiene un controllo capillare del territorio può essere fonte della merce più preziosa per un apparato di intelligence, le informazioni; ma può servire anche per operazioni coperte, ovvero per offrire copertura a traffici indicibili da tenere al riparo da sguardi indiscreti. Traffici che coinvolgono pezzi di apparati militari e di sicurezza dello Stato, all’insaputa dei vertici militari e istituzionali o dei responsabili politici”. Ed è in questo contesto che Rostagno comincia a fare il giornalista a Trapani, seguendo per primoil processo per l’omicidio Vito Lipari, sindaco della Castelvetrano dei Messina Denaro, e avviando una serie d’inchieste sul territorio “Su questo versante – continua la motivazione della sentenza – Rostagno poteva essere una minaccia, dopo che aveva scoperto gli strani traffici che avvenivano a ridosso della pista di un vecchio aeroporto militare ufficialmente in disuso alle porte di Trapani”. Tra i lavori svolti dal reporter Rostagno, una nota a parte meritano per i giudici le “autonome inchieste inchieste giornalistiche che miravano a varcare la soglia di autentici santuari del potere locale come era all’epoca la rete di circuiti massonici che faceva capo al Centro studi Antonio Scontrino a Trapani”.  È un centro importante quello di via Carreca, un posto dove non vanno in onda solo aperitivi e iniziative culturali: è l’11 aprile del 1986, due anni prima dell’omicidio Rostagno, quando la polizia fa irruzione e scopre che Scontrino è il paravento di sei logge massoniche, Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d’Alcamo, Hiram e Cafiero. Dopo che venne alla luce l’esistenza delle logge, Paolo Scontrino, si giustifica parlando delle conferenze pubbliche organizzate dal circolo : “Ricordo che in qualche riunione, anzi in una riunione fu presente l’Onorevole Sergio Mattarella, un’altra volta il Sindaco di Trapani, ma anche alcuni lama tibetani e fra gli altri che ricordo, tale padre Antonj, di religione indù, la signora Dacia Maraini, il capo della comunità israelitica di Roma padre Toaf, padre Evloghi, della Chiesa ortodossa ed altri”. Ad interrogare Scontrino il 28 ottobre del 1986 fu il maresciallo dei carabinieri Beniamino Cannas, uno dei testi per i quali la Corte d’Assise ha chiesto oggi la trasmissione degli atti in procura. Il presidente della Repubblica Mattarella, che all’epoca dei fatti era un deputato della Dc, oggi invece smentisce di essere stato un “frequentatore” delle iniziative del circolo Scontrino. “La sola volta in cui è venuto a conoscenza dell’esistenza di questo circolo – fanno sapere dal Quirinale – è stata, nei primi anni Ottanta, in occasione della conferenza, sulla giustizia tributaria, di un suo collega, che Mattarella è andato ad ascoltare apprendendo in quella sede che la conferenza era promossa da un circolo denominato Scontrino a lui del tutto sconosciuto e con il quale non ha mai avuto, né prima né dopo, alcuna relazione o contatto di qualsivoglia genere”. Il paravento del circolo Scontrino è comunque crocevia d’interessi e rapporti ad alto rischio. E per questo motivo che i giudici sottolineano come i “sordidi legami” tra pezzi della massoneria e agenti dei servizi “per quanto non direttamente afferenti al movente del delitto, abbiano avuto l’effetto di incoraggiare i vertici dell’organizzazione mafiosa ad agire, nella ragionevole convinzione di poter contare, una volta commesso il delitto, su una rete di protezioni e connivenze pronta a scattare in caso di necessità: come alcune sconcertanti emergenze di questo processo fanno paventare sia accaduto”. Come dire che la mano che ha sparato a Rostagno è targata Cosa nostra, ma per proteggerla si sono mossi poteri differenti da quelli mafiosi. È per questo motivo che oggi rimangono ancora parecchi i buchi neri irrisolti. A cominciare dai pezzi mancanti dell’indagine: le lettere che Rostagno si scambiava con il fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio, la videocassetta in cui il giornalista aveva registrato le riprese del presunto traffico d’armi scoperto nei pressi della pista d’atterraggio di Kinisia, il memoriale sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, fino alla partizione del proiettile calibro 38 estratto dal corpo del sociologo durante l’autopsia. Poi c’è la relazione elaborata dagli 007 del centro Scorpione su Saman: svanita nel nulla come tutti gli altri pezzi di puzzle. Nonostante le numerosi tesi investigative, la presenza intorno alla matrice del delitto di personaggi che anche durante il processo sono rimasti sullo sfondo, per Pellino l’unica pista provata sull’omicidio Rostagno è quella mafiosa.  “L’indagine sul movente dell’omicidio che ha impegnato larga parte dell’istruzione dibattimentale – spiega il giudice – ha consentito di misurare tutta l’inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa, che pure sono state esplorate, senza preconcetti. Di contro, a partire proprio da una ricognizione dei contenuti salienti del lavoro giornalistico della vittima, di talune sue inchieste in particolare, ma del suo stesso modo di concepire e soprattutto di praticare il giornalismo e l’informazione come terreno di elezione di una ritrovata passione per l’impegno civile, è emerso come Cosa Nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, dal suo punto di vista, per volere la morte di Rostagno. E il bisogno di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche mafiose”. Nella città dei misteri, dove 007 si danno appuntamento con mafiosi e massoni, Rostagno inizia a dare fastidio, inizia ad essere una “camurria” per i boss di Cosa nostra. “Il suo sforzo – continua Pellino – di ridisegnare la mappa degli organigrammi del potere mafioso e di individuare le figure emergenti che potevano avere preso il posto degli esponenti della vecchia guardia di Cosa Nostra, decimati da arresti ma ancora di più dai colpi messi a segno dalle cosche antagoniste che nuovo slancio traevano dalla loro capacità di inserirsi nella gestione del narcotraffico o in altre redditizie attività”. È per questo motivo che alla fine, Pellino spiega come “le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dopo una doverosa scrematura di quelli meno affidabili, convergono su una duplice indicazione: l’omicidio fu deciso dai vertici di Cosa Nostra trapanese o comunque con il loro assenso e dopo che fu vanamente esperito il tentativo di indurre il giornalista a più miti consigli con pressioni e minacce per interposta persona”. Sul terreno oltre al cadavere del giornalista, rimane un processo che dopo 27 anni è arrivato solo al primo grado di giudizio, due colpevoli condannati e gli artefici di insabbiamenti in serie mai individuati.

NO DAI, ABBIAMO PURE UN PRESIDENTE MASSONE? (NON SAREBBE IL PRIMO) – SERGIO MATTARELLA TENNE CONFERENZE AL CENTRO CULTURALE “SCONTRINO” DI TRAPANI, PARAVENTO DI LOGGE MASSONICHE INFILTRATE DA MAFIOSI – DEL CENTRO SI ERA OCCUPATO ROSTAGNO PRIMA DI ESSERE AMMAZZATO.

Al processo Rostagno la “gola profonda” Paolo Scontrino ha spiegato che il Gran Maestro Giovanni Grimaudo, che mandava avanti il centro, era notoriamente un Venerabile e che i personaggi che accettavano di andare a tenere conferenze sapevano di avvicinarsi ad ambienti massonici…scrive Sandra Rizza per il “Fatto Quotidiano” il 29 luglio 2015 pag. 1 e 2. C’erano Calogero Mannino e Carlo Vizzini, ma anche il capo dello Stato Sergio Mattarella (all’epoca deputato Dc) tra i frequentatori delle iniziative pubbliche del circolo “Scontrino”, il centro di cultura ospitato in un palazzo barocco, che negli anni ‘80 nascondeva un vero e proprio tempio massonico e che ora la Corte d’Assise di Trapani, nelle motivazioni della sentenza Rostagno, definisce un paravento di logge infestate da elementi mafiosi del calibro di Gioacchino Calabrò, l’artificiere della strage di Pizzolungo. Quando, l’11 aprile 1986, la polizia perquisì il circolo di via Carreca, nel centro storico trapanese, saltarono fuori sei logge: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d’Alcamo, Hiram e Cafiero, ma anche una copiosa documentazione di agende e rubriche fitte di numeri di telefono di esponenti politici locali e nazionali. I loro nomi, ora scolpiti nero su bianco nel verdetto su Rostagno, li aveva già elencati in aula il generale Nazareno Montanti, ex dirigente dei carabinieri di Trapani: “Sergio Mattarella e Francesco Canino, entrambi Dc, Carlo Vizzini del Psdi, e l’ex sindaco di Trapani Erasmo Garuccio”. Informazione confermata da Paolo Scontrino, una delle fonti più introdotte nel circolo, che nel suo verbale reso alla Criminalpol il 28 ottobre nel 1986, raccontò come il centro Scontrino organizzasse “conferenze alle quali mi risulta abbiano partecipato l’on. Sergio Mattarella, l’on. Vincenzino Culicchia (oggi Pdr), l’on. Francesco Canino (morto nel 2014)” ma anche “il rabbino Toaf” e ancora “lama tibetani, tale padre Antonj di religione Indù, Dacia Maraini… e altri’’. Nella perquisizione si trovò anche una lettera di Mannino, datata 24 ottobre 1984, e indirizzata al Gran Maestro Giovanni Grimaudo, nella quale il politico informava che era stato concesso al centro Scontrino “un contributo in denaro”. Poco prima di essere ucciso, Rostagno indagava proprio sul mondo delle logge. L’avvocato Antonio Marino, ex segretario del Pci a Trapani, ha rivelato che sulla scoperta della loggia segreta Iside 2, alla quale erano iscritti “soggetti importanti” (oltre a Calabrò, il mafioso Natale L’Ala e il principe Gianfranco Alliata di Montereale, coinvolto e poi prosciolto dall’indagine sul golpe Borghese), si era confrontato con Mauro più di una volta. L’avvocato racconta che il primo editoriale sul caso Scontrino firmato da Rostagno, il 22 febbraio del 1988, fu connotato da una “plateale banalizzazione della vicenda”: fino ad insinuare che fosse tutta “una montatura di Sergio Mattarella per colpire l’avversario Canino”. In realtà, ha raccontato Marino: “Mauro mi disse: faccio finta di non aver capito, perché è una cosa grossa e voglio indagare ancora”. Il legale racconta anche che Rostagno volle incontrare il giudice istruttore Nunzio Trovato, per riferirgli che si era recato al circolo Scontrino, scoprendo che Licio Gelli per due volte era stato a Trapani, proprio nel periodo della costituzione di Iside 2, anche se Grimaudo ha sempre smentito. Professore di filosofia, l’organizzatore delle iniziative culturali del circolo Scontrino era proprio il Gran Maestro, che esibiva le sue conoscenze con i politici, mentre teneva riservate le amicizie con l’avvocato catanese Michele Papa, che vantava precedenti per banda armata, e con Pino Mandalari, il commercialista di Totò Riina. Parlando delle relazioni altolocate di Grimaudo, però, la “gola profonda” Paolo Scontrino ha spiegato che era così notorio il suo ruolo di Venerabile, da presumere “che i personaggi invitati alle conferenze sapessero di avvicinarsi ad ambienti massonici”. È stato il maresciallo dei carabinieri Beniamino Cannas, uno dei testi per i quali la Corte d’Assise ha chiesto la trasmissione degli atti in Procura, ad interrogare Paolo Scontrino: non provò neppure, rilevano i giudici, ad “approfondire il coinvolgimento del circolo in traffici d’armi o tresche con i servizi”. Né si scomodò a passare il verbale ai pm del delitto Rostagno: “sebbene contenesse spunti investigativi quanto meno rilevanti”.

In riferimento all’articolo pubblicato il 29 luglio a pagina 1 e 2 da il Fatto Quotidiano con il titolo “Mattarella ospite del circolo della loggia massonica deviata” a firma di Sandra Rizza, l’Ufficio Stampa del Quirinale precisa quanto segue: Sergio Mattarella non ha mai tenuto alcuna conferenza al circolo “Scontrino”, di cui non è stato affatto “frequentatore” delle iniziative. La sola volta in cui è venuto a conoscenza dell’esistenza di questo circolo è stata, nei primi anni Ottanta, in occasione della conferenza, sulla giustizia tributaria, di un suo collega professore della Facoltà di Giurisprudenza di Palermo che lo ha invitato ad assistervi. Sergio Mattarella si è recato ad ascoltarlo, apprendendo in quella sede che la conferenza era promossa da un circolo denominato “Scontrino”, a lui del tutto sconosciuto e con il quale non ha mai avuto, né prima né dopo, alcuna relazione o contatto di qualsivoglia genere.

Il punto: Mattarella ospite della massoneria deviata. Il nome del presidente spunta fuori dalle motivazioni della sentenza sul caso Rostagno, scrive Domenico Camodeca su “L’Indro”. Le carte del processo Rostagno, chiuso a Trapani nel 2014, descrivono l’attuale inquilino del Colle nella veste di inconsapevole conferenziere al centro culturale "Scontrino", secondo i giudici copertura legale di logge massoniche deviate. Il giornalista Mauro Rostagno aveva scoperto tutto e, forse per questo, venne ammazzato dalla mafia nel 1988. Se Mattarella sa qualcosa, parli. Ma, intanto, i mass media di Regime mettono il silenziatore alla notizia. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella partecipò più volte, durante gli anni ’80 quando era deputato DC, alle iniziative del circolo culturale "Scontrino" di Trapani. Insieme a lui anche altri politici di moda a quei tempi come Calogero Mannino e Carlo Vizzini. In realtà, il simposio trapanese avrebbe avuto la funzione di ‘paravento’ per gli affari occulti di logge massoniche in cui coesistevano pacificamente mafiosi, uomini dei Servizi e altri pezzi dello Stato. Questa notizia bomba non è un’ipotesi investigativa, ma parte del contenuto scritto nero su bianco delle 3000 pagine delle motivazioni della sentenza del 16 maggio 2014 sul caso Rostagno, da poco depositate. La verità processuale finora emersa ci dice che Mauro Rostagno era il giornalista-sociologo ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988 allo scopo di impedirgli, così la pensano i giudici, di rivelare quanto aveva scoperto sui torbidi rapporti intrecciati nell’Isola da massoneria, Cosa Nostra, pezzi dello Stato e gli immancabili Servizi deviati. E allora? Cosa ci stava a fare in quel covo di presunti massoni corrotti il fratello di Piersanti, presidente della Regione Sicilia, ucciso nel 1980 e divenuto per questo emblema dell’antimafia? Fino a prova contraria niente di male, perché il discusso centro ‘Scontrino’ organizzava conferenze partecipate anche da personaggi noti come il rabbino Elio Toaff e Dacia Maraini. Ma, ad inquietare, è la curiosa coincidenza che il fondatore della comunità Saman stava indagando proprio sul caso Scontrino, aveva capito che sotto la cenere covava qualcosa di grosso e, per non agitare le acque, aveva sparso in giro la voce che il polverone alzato dalle indagini sull’associazione cripto massonica fosse una «montatura di Sergio Mattarella per colpire l’avversario Francesco Canino (onorevole DC morto nel 2014 ndr)». In realtà, Rostagno era anche venuto a conoscenza dell’arrivo per due volte a Trapani di Licio Gelli, il Venerabile Maestro della Loggia P2. Ed è a questo punto che si interrompe tragicamente la vita del coraggioso giornalista, lasciando ancora aperti molti interrogativi sulla Verità di una vicenda a cui il silenzioso presidente della Repubblica potrebbe fornire un valido contributo con la sua testimonianza.

IL BALLO DEL MASSONE – STATERA: C’ERANO ALMENO 13 GREMBIULINI IN GARA PER IL QUIRINALE – E COME TUTTI I “FRATELLI” CHE CONTANO, NON MILITANO NELLE RISSOSE LOGGETTE NAZIONALI, MA NELLE BLINDATISSIME FRATELLANZE INTERNAZIONALI.

Il mitico Rino Formica: “Oggi c’è un proliferare di pseudo-massonerie che dà luogo a una totale confusione tra metodo massonico e istituzioni. In fondo, è il metodo di Renzi, che, se lo lasciamo fare metterà al Quirinale un vigile urbano”..., scrive Alberto Statera per “la Repubblica”. Tutti ci pensano, ma pochi osano nominare pubblicamente la muta presenza minacciosa della massoneria nel torneo del Quirinale. Il Convitato di pietra, tuttavia, è tradizionalmente vigile e solerte quando si tratta di scegliere le alte cariche dello Stato, figurarsi quando si seleziona la più alta. Ma se chiedi al nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi, toscano come Matteo Renzi e come il plenipotenziario berlusconiano Denis Verdini, per chi tra i candidati sta lavorando la più grande e importante obbedienza italiana ti senti rispondere che «il GOI non tratta questioni di politica, l’elezione del presidente della Repubblica non rientra tra i compiti del Gran Maestro, che si occupa della gloria del Grande Architetto dell’Universo e in questi giorni di molte installazioni di Maestri Venerabili in ogni parte d’Italia. Ogni parola in più sul Quirinale verrebbe strumentalizzata». Per cui non ce la dice, nonostante il fatto che degli almeno 48 nomi di quirinabili che fin qui si sono fatti (escluso per pudore Giancarlo Magalli), almeno tredici sono considerati in odore di massoneria. Per la verità, da quando ha contratto il Patto del Nazareno con il piduista Silvio Berlusconi (noto appassionato di simboli esoterici) un certo effluvio insegue lo stesso Matteo Renzi, suo padre Tiziano e alcuni fiduciari del giglio magico fiorentino. Il presidente del Consiglio ha tuttavia garantito: «Non sono massone, la mia è una famiglia di boy scout», ignorando probabilmente che il fondatore britannico dello scoutismo Robert Baden Powell era un autorevole massone. Per carità, non è una prova, come mai furono provati i sospetti di affiliazioni massoniche di precedenti presidenti della Repubblica, come Einaudi, Saragat, Ciampi (che ha smentito con forza il professor Aldo Mola, storico della massoneria) e persino Pertini. Percentuale peraltro eventualmente non solo aleatoria, ma comunque esigua, se è vero quanto andava dicendo Francesco Cossiga: dei 48 presidenti americani solo tre non sono stati massoni e due dei tre sono stati ammazzati. Già nella sua fase pre-picconatoria, Cossiga rivendicava con fierezza e con chiunque l’appartenenza a una famiglia di massoni e la sua con il grado di “33” a una misteriosa Loggia internazionale. Vedeva massoni dappertutto e si considerava un esperto della materia, come di aggeggi elettronici e spionistici: «Gelli — disse in un’intervista pubblicata nel libro “Fratelli d’Italia” — è stato sostenitore della candidatura di Pertini. Nelle ultime votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica arrivò ai massoni, deputati e senatori, una circolare di Gelli perché votassero Pertini, il quale era circondato di massoni: il suo grande elettore Teardo, socialista, presidente della regione Liguria era piduista». In effetti, nel discorso di fine d’anno del 1981, il presidente più amato affrontò lo scandalo della P2 rassicurando sulla lealtà delle istituzioni, con queste parole: «Poi si è aggiunta a tutte queste preoccupazioni, italiane e italiani, la questione della P2. Mi si intenda bene, perché non voglio che ancora una volta il mio pensiero sia travisato. Quando io parlo della P2 non intendo coinvolgere la massoneria propriamente detta, con la sua tradizione storica. Per me almeno, una cosa è la massoneria, che non è in discussione, un’altra cosa è la P2, questa P2 che ha turbato, inquinato la nostra vita». Anche Giorgio Napolitano, figlio dell’avvocato Giovanni che fu un alto grado della massoneria napoletana, ha subìto il venticello. Il 13 giugno 2010 nella trasmissione televisiva “In mezz’ora” Lucia Annunziata chiese se il presidente della Repubblica potesse essere un massone sotto il profilo dei valori all’allora Gran Maestro del Grande Oriente Gustavo Raffi. Il quale rispose appassionatamente: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche per Ciampi, in un’altra occasione, usò il linguaggio «muratorio»: «Se devo ragionare sotto il profilo del weltanschauung lo considero un fratello», pur smentendo l’appartenenza del presidente al Goi. Certo, fin dai tempi di re Vittorio Emanuele e di Umberto I, la massoneria, se non al vertice, non è mai mancata nell’alta burocrazia quirinalizia, come in tutte le alte burocrazie più “nobili” dello Stato. Ma è ancora kingmaker presidenziale? Non vi faremo i nomi degli almeno tredici possibili candidati considerati massoni o amici della massoneria. Sia perché non c’è modo di provarlo, dal momento che, nonostante i numerosi annunci contrari, le liste degli affiliati restano riservate. Sia perché le personalità molto importanti fin dai tempi dello scandalo P2 non sono iscritte a logge nazionali, ma a super-logge sovranazionali assai esclusive dette Ur-Lodges. Almeno così sostiene Gioele Magaldi, scissionista del Grande Oriente che ha fondato il Grande Oriente Democratico e che in un suo monumentale libro ne cita diverse: dalla Three Eyes alla Pan Europe, dalla Edmund Burke alla Leviathan e alla Thomas Paine. Se uno aspira al Quirinale, insomma, non milita nelle rissose loggette italiane, ma naviga nel vasto mondo di potenti planetari, dove le relazioni sono alte e la riservatezza blindata. La tesi di Rino Formica, ex ministro socialista che di elezioni presidenziali ne ha viste tante, è che in realtà l’unica elezione al Quirinale condizionata effettivamente dalla massoneria italiana fu quella del paglietta napoletano Giovanni Leone, perché fu messo a disposizione della risicata maggioranza un piccolo ed essenziale pacchetto di voti di parlamentari massoni, su richiesta di Ugo La Malfa per sbarrare la strada a Pietro Nenni. Lucidissimo e ironico a 84 anni, Formica sghignazza sul fatto che le massonerie italiane sono ormai fatte di «quattro sfessati». Secondo lui, «di fronte ai nuovi intrecci dei grandi poteri occulti, in Italia c’è stata una proliferazione di pseudo-massonerie dai comportamenti deviati, che hanno trasferito il metodo massonico in consorterie di potere e affari. Ciò che prima era incardinato in un mondo esoterico, politico alto, civile e riservato, ora dà luogo a una totale confusione tra metodo massonico e istituzioni. In fondo, è il metodo di Renzi, che, se lo lasciamo fare metterà al Quirinale un vigile urbano», dopo aver trattato per mesi la prima poltrona della Repubblica con il piduista pregiudicato Berlusconi e il suo attendente pluri-inquisito Verdini. Niente di nuovo in fondo, se all’inizio del 1900 Ernesto Nathan, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e sindaco di Roma diceva di molti suoi fratelli in massoneria: «Più che del bene altrui troppi ve ne sono preoccupati dei vantaggi che la loro qualità può portare; nella vita politica essi hanno recato un elemento dissolutore: il reciproco appoggio per fini disinteressati ha finito per diventare mutua assistenza per interessi che giova far prevalere».

E’ ufficiale: siamo governati dalla massoneria. “Le alte cariche dello stato? Tutti massoni!”. Scrive Alessandro Raffa per nocensura.com. Magaldi più volte ha parlato dell’affiliazione massonica di importanti personalità, senza essere mai smentito, e ha affermato di essere pronto ad esibire le prove di quanto da lui dichiarato, se gli sarà chiesto da un giudice. Nell’ambito di un servizio dedicato a “Politica e massoneria” de La Gabbia dove l’inviato domanda a diversi politici “se sono massoni” o se “conoscono politici massoni”, viene intervistato Gioele Magaldi, leader della loggia massonica “Grande Oriente Democratico”, che in passato ha rivelato l’affiliazione di Mario Monti a ben due logge, (circostanza ribadita anche in questa occasione), rivelando che il suo governo era composto da molti “grembiulini”. Il servizio risale al Gennaio 2014, tuttavia, visto che molti italiani credono che queste storie siano barzellette, bufale, minchiate, alias “gombloddismo!1!1!” come dicono ironicamente i deficienti, coloro che pendono dalle labbra dei conduttori televisivi, coloro che si bevono qualsiasi cosa sia propinata loro dal tubo catodico, quelli del “lo ha detto la televisione” come se ciò fosse prova di autorevolezza, e si permettono di sputare sentenze sulla base non di informazioni, ma della loro presunzione personale, convinzioni plasmate dai media frutto di pensieri e valutazioni fatte da persone che prima di farsi un’idea e ritenerla valida, non si sono informate minimamente, o al massimo in modo più che superficiale. Queste sono questioni che richiedono profondi studi per essere analizzate, studi che richiedono anni e non poche ore. Ovviamente è la propaganda del sistema a forgiare queste mentalità. Magaldi più volte ha parlato dell’affiliazione massonica di importanti personalità, senza essere mai smentito, e ha affermato di essere pronto ad esibire le prove di quanto da lui dichiarato, se gli sarà chiesto da un giudice. Magaldi sostiene che le prime tre cariche dello Stato – Presidente della Repubblica, della Camera e del Senato – sono affiliati alla massoneria. A domanda Magaldi risponde che buona parte dei Presidenti della Repubblica che si sono avvicendati in questi anni erano affiliati alla massoneria: “compreso l’attuale inquilino”, Giorgio Napolitano. Poi rivela che Piero Grasso “è stato iniziato molti anni fa” (quando era in magistratura quindi?) e secondo Magaldi, persino Laura Boldrini “nell’ambito delle sue esperienze internazionali ha avuto un’affiliazione massonica”. Nonostante siano passati anni dalla divulgazione del servizio, vi risulta che qualcuno di questi abbia smentito?!? A me no! Tra i politici intervistati, nessuno sembra sapere niente, nessuno vuole parlare; tra questi Giulio Tremonti, che risponde cortesemente di non voler parlare; eppure lui probabilmente di cose da dirne ne avrebbe, visto che in più occasioni ha parlato di “illuminati”. L’unico tra i politici a rispondere in modo “dignitoso”, seppur molto, molto, molto cauto, è l’ex Ministro Sacconi; alla domanda “molti suoi colleghi sono massoni?” Sacconi annuisce e risponde “presumo, può darsi”, per poi rilasciare, sempre in modo molto cauto, la seguente dichiarazione: “Io penso che molti gruppi di pressione guardino all’Italia come un paese insieme importante e fragile, e questo tenti molti dal manipolare il corso democratico”. Una risposta che per chi sa “leggere tra le righe”, esprime più di quanto sembra…

Il complottismo del “Fatto” sul libro di Magaldi che sostiene come tutti i potenti siano massoni, scrive Andrea Mollica sul blog di Gad Lerner. Gioele Magaldi è un massone di cultura progressista, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico, che ha appena pubblicato un libro, “Massoni società a responsabilità illimitata”, di cui si è innamorato il “Fatto Quotidiano”. Dopo una lunga, ed entusiasta, presentazione scritta da Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito, oggi il quotidiano diretto da Padellaro e Travaglio intervista l’autore del libro sulla “grande scoperta” di questo volume, le Ur-Logdes, le superlogge massoniche che dominerebbero il mondo. La tesi del libro di Magaldi è la seguente: tutti i grandi della Terra appartengono a network massonici che decidono tutto quanto succede nelle nostre società, più o meno. Una chicca svelata da Magaldi al sito Affaritaliani.it chiarisce l’impianto del suo libro: Abu Bakr al-Baghadi, il califfo guida dell’Isis, sarebbe uscito dalla prigione irachena in cui era tenuto prigioniero dagli statunitensi dopo che si è affiliato a una Ur-Logdes. L’Isis sarebbe di conseguenza un progetto massonico per scatenare nuove guerre. Le Ur-Lodges a livello mondiale sarebbero 36, divise tra conservatrici e progressiste, e praticamente ogni leader, politico oppure economico, vi sarebbe affiliato. Matteo Renzi sarebbe l’unico presidente del Consiglio italiano non ancora fratello massone, anche se tra poco lo diventerà. I suoi predecessori, Letta, Monti, così come D’Alema o Berlusconi, militano in queste Ur-Lodges. Il leader di Forza Italia è iscritto alla superloggia Three Eyes nel 1978, anche se ora ne ha fondata una personale, la Loggia del Drago. In quell’anno Berlusconi entrò nell’organizzazione che aveva tra i suoi fratelli anche il futuro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Matteo Renzi aspirerebbe a entrare in questa superloggia, ma al momento la sua richiesta di affiliazione viene frenata perchè gli altri potenti iscritti, come Merkel o Weidmann, si fidano poco di lui.  Il massone italiano più influente, ça va sans dire, è Mario Draghi. Il presidente della Bce apparterebbe a ben cinque Ur-Lodges, tra cui la Three Eyes. Magaldi spiega nell’intervista concessa al “Fatto Quotidiano” di giovedì 20 novembre 2011 come sia riuscito a ricomporre tutti gli schemi che hanno dettato la storia dell’ultimo secolo, più o meno. Le tesi di Magaldi appaiono un poco, giusto un attimo, esagerate nel loro complottismo sfrenato, dove l’intera storia dell’ultimo secolo sarebbe stata decisa dagli esperimenti di poche logge massoniche. Il libro esce per i tipo di Chiarelettere, società editrice del “Fatto”, e chissà che ne pensano le Ur-Lodges di questo legame.

Tutte le super-logge della massoneria che governano l’Italia e il mondo. Il libro di Gioele Magaldi che si ripromette di svelare l’album segreto dei massoni (e i politici italiani sono molti), scrivono Gianni Barbacetto e Fabrizio d’Esposito su il Fatto Quotidiano, mercoledì 19 novembre 2014. Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Gioele Magaldi, quarantenne libero muratore di matrice progressista, ha consegnato all’editore Chiarelettere (che figura tra gli azionisti di questo giornale) un manoscritto sconcertante e che sarà presentato domani sera alle 21 a Roma, a Fandango Incontro. Il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, è intitolato Massoni società a responsabilità illimitata, ma è nel sottotitolo la chiave di tutto: La scoperta delle Ur-Lodges. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico, in polemica con il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro Paese, in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli. I documenti che mancano sono a Londra, Parigi e New York. Prima però di addentrarci nelle rivelazioni clamorose di Massoni è d’obbligo precisare, come fa Laura Maragnani, giornalista di Panorama che ha collaborato con Magaldi e ha scritto una lunga prefazione, che l’autore non inserisce alcuna prova o documento a sostegno del suo libro, frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti depositati in studi legali a Londra, Parigi e New York. Detto questo, andiamo al dunque non senza aver specificato che tra le superlogge progressiste la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha. Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges e finanche i vertici della fu Unione Sovietica, a partire da Lenin per terminare a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario. In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: “Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi. E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti”. Altri affiliati: Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie. “Il vero potere è massone”. E descritto nelle pagine di Magaldi spaventa e fa rizzare i capelli in testa. Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici, persino Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista. L’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: “Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi”. Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Ecco l’elenco degli italiani nelle Ur-Lodges: Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago. Bisognerà aspettare le “contestazioni”, per vedere le carte di Magaldi.

Mafia e massoneria per aggiustare processi, il racconto del pentito, scrive “Oltre lo Stretto”. “Cosa Nostra all’interno di ogni loggia massonica deve avere due uomini d’onore. Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani. Bontade per esempio era sia uomo d’onore, sia massone. Dicevano che anche Madonia era massone. Nella massoneria c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli”. Lo ha rivelato il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, parlando dei rapporti esterni alla mafia, interrogato dal pubblico ministero al processo di Firenze sulla strage del treno Rapido 904 il 23 dicembre 1984. Messina ha anche distinto i ruoli di mafia e massoneria: “La massoneria è un’amministrazione del potere differente, intelligente: un dottore non va a sparare per strada, un avvocato, un magistrato, non lo fanno, mentre il potere nostro, quello di mafiosi è il potere della paura, la gente ci rispetta per questo. In Sicilia specie negli anni ’70 non c’era quasi controllo e la gente ci temeva”. Sempre Messina ha detto che i rapporti della mafia con la massoneria in Sicilia servivano ad “aggiustare i processi”. Alla richiesta di raccontare un fatto specifico, Messina ha detto che ”nel mio caso, per un mio processo, mi sono rivolto a un massone che ha parlato con il giudice e si è rivolto anche a un giudice popolare, qualcuno è andato a parlare con loro e sono stato assolto”.

Due uomini d’onore all’interno di ogni loggia: così Cosa Nostra e la massoneria hanno unito le rispettive forze nella medesima strategia criminale, scrive Giuseppe Pipitone su "L'Ora Quotidiano". A raccontarlo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, boss di San Cataldo, ex braccio destro di Piddu Madonia, già autore di alcune rivelazioni inedite. Era stato Messina il primo a raccontare dei summit nei dintorni di Enna, alla fine del 1991, per mettere a punto la strategia stragista della primavera successiva. Oggi il pentito ha deposto al processo per la strage del Rapido 904, in corso davanti alla corte d’assise di Firenze che sta processando Totò Riina, accusato di essere il mandante dell’eccidio che il 23 dicembre 1984 fece 17 vittime. Durante la sua deposizione, Messina ha descritto nel dettaglio il rapporto tra la mafia e le logge massoniche. “Cosa Nostra – ha detto il pentito – all’interno di ogni loggia massonica deve avere due uomini di onore. Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani. Bontade per esempio era sia uomo d’onore, sia massone. Dicevano che anche Madonia era massone. Nella massoneria c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli”. Un rapporto, quello tra Cosa Nostra e la massoneria, ancora attualissimo. Il boss di Castelvetrano. Matteo Messina Denaro starebbe puntando sulla creazione di nuove logge nella zona di Mazara del Vallo: un escamotage per stringere nuovamente alleanze con professionisti e imprenditori. La nuova strategia di Messina Denaro è descritta nella relazione consegnata dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato al presidente della corte d’appello in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un report, quello di Scarpinato, che s’incrocia con e indagini della procura di Palermo: Messina Denaro, stando ad un’intercettazione telefonica, “si è rifatto tutte cose”, e cioè si sarebbe sottoposto ad un intervento di chirurgia estetica per alterare i suoi connotati. Un interrogativo che da qualche mese impegna gli inquirenti. Quel che è certo, però, è che l’ultima primula rossa di Cosa Nostra sta cercando di inserire uomini a lui fidati nelle logge del trapanese. “I metodi della mafia e della massoneria – ha detto Messina – erano molto simili. La massoneria è un’amministrazione del potere intelligente: un dottore non va a sparare per strada, un avvocato, un magistrato, non lo fanno. Il mafioso invece è il vero potere, é il potere della paura, la gente ci rispettava. In Sicilia specie negli anni ’70 non c’era quasi controllo e la gente ci temeva”. Un elemento importante del rapporto tra Cosa Nostra e la massoneria era quello relativo alle inchieste della magistratura. “Serviva ad aggiustare i processi – ha spiegato il pentito – nel mio caso, per un mio processo, mi sono rivolto a un massone che ha parlato con il giudice e si é rivolto anche a un giudice popolare, qualcuno é andato a parlare con loro. Sono stato assolto. Se ero colpevole? Si, ma loro non avevano le prove”.

Mafia, il pentito Messina: “Volevamo uccidere Bossi per attacchi ai meridionali”, scrive Giuseppe Pipitone su  “Il Fatto Quotidiano”. E' quanto rivelato dal pentito di Cosa Nostra Leonardo Messina, spietato uomo d'onore di Caltanissetta e fedelissimo del boss Piddu Madonia. Umberto Bossi ha rischiato di finire nella lista nera di Cosa Nostra: troppo pesanti le sue posizioni contro il Meridione… Talmente pesanti che avevano infastidito Leonardo Messina, all’epoca spietato uomo d’onore di Caltanissetta e fedelissimo del boss Piddu Madonia. Era il 1991, Tangentopoli e le stragi dovevano ancora fare capolino nella storia italiana, e Messina aveva pensato di assassinare il leader della Lega Nord. “Un giorno c’era Bossi a Catania e io dissi a Borino Micciché: questo ce l’ha con i meridionali: vado e l’ammazzo” ha raccontato l’ex uomo d’onore, oggi collaboratore di giustizia, deponendo come teste al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, in corso all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. L’idea di assassinare Bossi, però, venne bloccata immediatamente dallo stesso Micciché, all’epoca capomafia di Enna. “Mi disse di fermarmi: questo è solo un pupo, disse. L’uomo forte della Lega è Miglio che è in mano ad Andreotti. Insomma, si sarebbe creata una Lega del Sud e la mafia si sarebbe fatta Stato” ha detto Messina, aggiungendo che “in Cosa nostra si diceva che Andreotti era uomo d’onore, che era punciuto (punto, ovvero affiliato formalmente, ndr) e che ci avrebbe garantito al maxiprocesso: si riteneva che sarebbe finito in barzelletta. Poi quando si seppe che invece a presiedere il collegio giudicante che avrebbe celebrato il maxi sarebbe stato un altro (e non il giudice Corrado Carnevale ndr) si capì che i politici si erano allontanati”. Secondo la ricostruzione dell’accusa, la data che cambia per sempre la storia d’Italia è il 30 gennaio del 1992, quando la Corte di Cassazione mette il bollo sulle condanne del Maxi Processo: è in quel momento che Riina decide di eliminare i politici che non avevano mantenuto i patti e dichiarare quindi guerra allo Stato. Un passaggio cruciale, che Messina aveva già svelato anni fa, quando molte sue dichiarazioni erano finite nel fascicolo sui Sistemi Criminali, l’inchiesta della procura di Palermo sulle strategie eversive di Cosa Nostra e di altre associazioni criminali, poi archiviata nel 2001. “All’inizio degli anni ’90 Cosa nostra era pronta ad acquistare dalla ‘ndrangheta una grossissima partita di armi investendo circa 2 miliardi di lire” ha raccontato Messina. Le sue dichiarazioni sulle spinte eversive della mafia, fanno il paio con quelle dello stesso Gianfranco Miglio, che in un’intervista a Il Giornale, teorizzò la “legalizzazione” di Cosa Nostra. “C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica“­ disse l’ideologo della Lega -­ Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”. E’ per questo motivo che tra il 1992 e il 1993 nascono in tutto il Sud movimenti indipendentisti, omologhi meridionali della Lega Nord. A spingere per le stragi e per un impegno diretto in politica delle associazioni criminali, non è soltanto Cosa Nostra. “Mi venne detto chiaramente, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, che c’era una commissione nazionale che deliberava tutte le decisioni più importanti. Una commissione in cui sedevano i rappresentanti di altre organizzazioni criminali”. Sullo sfondo dell’eversione targata Cosa Nostra, spunta anche l’ombra della massoneria. “Tutti i capi di Cosa nostra facevano parte della massoneria” ha spiegato Messina, che decise di diventare collaboratore di giustizia nel giugno del 1992. Il primo pm a cui affida i suoi segreti è Paolo Borsellino, che lo interroga per l’ultima volta il 17 luglio del 1992. “Quel giorno ­ racconta Messina ­ il dottore Borsellino era molto nervoso, accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: signor Messina, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto. E non l’ho più visto”. In quel momento l’autobomba da piazzare in via d’Amelio era quasi pronta. 

Trattativa Stato-mafia, Leonardo Messina: “Borsellino mi disse che era arrivata la sua ora”, scrive  Lorenzo Baldo su Antimafia duemila. In udienza il collaboratore di giustizia parla anche di Giulio Andreotti definendolo “punciutu”. “La mia crisi è anche di tipo morale nonostante già mio nonno e molti parenti fossero uomini d’onore non mi riconosco più nell’organizzazione e quando ho sentito in televisione la vedova dell’agente di scorta, Vito Schifani, parlare e pregare gli uomini della mafia, le sue parole mi hanno colpito come macigni e ho deciso di uscire da questa organizzazione nell’unico modo che è possibile, cioè collaborando con la giustizia”. Era il 30 giugno 1992 quando Leonardo Messina rilasciava queste dichiarazioni ai pm di Palermo che lo stavano interrogando. Nei giorni successivi lo stesso Messina aveva chiesto di essere sentito direttamente da Paolo Borsellino. E così era stato. “Borsellino mi disse: a noi serve solo la verità, non le congetture o i pensieri. E così ho iniziato a collaborare parlando per ore mentre lui mi stava ad ascoltare”. Ed è esattamente ricordando quell’ultimo interrogatorio del 17 luglio 1992, appena due giorni prima della strage di via D’Amelio, che lo stesso “Narduzzo” ha fatto rivivere in aula la tensione del giudice dei giorni prima della strage. “Quel giorno – ha raccontato il collaboratore durante l’udienza al processo sulla trattativa – il dottore Borsellino era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘signor Messina, non ci vediamo più, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto’. Sapeva di morire…”. Seduto tra i banchi c’era anche il fratello del giudice, Salvatore Borsellino. Nel sentire quelle parole è rimasto assorto nei suoi pensieri. L’immagine di Paolo Borsellino che, con piena consapevolezza, affronta la morte ha preso forma. La deposizione di Leonardo Messina si è protratta attraverso un excursus storico che ha aperto uno spaccato importantissimo sulla potenza della mafia del nisseno. “Sono uomo d’onore che ha giurato due volte, la prima da uomo d’onore riservato con Luigi Calì, successivamente c’è stata una guerra di mafia, mi hanno richiamato e ho dovuto giurare pubblicamente con la famiglia San Cataldo nel 1982”. “Dall’82 fino a quando ho collaborato con la giustizia ho rivestito degli incarichi in Cosa Nostra a Caltanissetta. Nel 1985 fui nominato sotto capo”, sottolinea ulteriormente. Nel suo racconto c’è pure un aspetto legato alla sua prima relazione sentimentale. “Sono nato e cresciuto nell’ambiente di Cosa Nostra, in particolare con gli uomini d’onore di Caltanissetta.  Quando mi sono sposato nel 1978 abbiamo fatto con mia moglie un giuramento in chiesa, davanti a Dio, in cui abbiamo giurato di onorare la mafia tutta la vita”. Proseguendo nella sua deposizione l’ex boss ha ricordato di aver vissuto “il trapasso tra la vecchia Cosa Nostra e quella voluta dai corleonesi. Ho assistito al cambiamento – ha specificato – e alla distruzione di Cosa Nostra”. Nel racconto del collaboratore di giustizia è stata ulteriormente approfondita la reazione dei boss mafiosi in merito alla Corte di Cassazione che doveva occuparsi del Maxi processo. “In Cosa Nostra – ha sottolineato Messina –, durante il Maxi processo veniva detto che tutto si sarebbe ridotto in una bolla di sapone. Non ci sarebbero state grandi condanne e tutto sarebbe andato bene”. “Ci veniva detto – ha proseguito – che in Cassazione avrebbero buttato tutto giù. Si riteneva che sarebbe finito in barzelletta. Lillo Rinaldi, che frequentava Piddu Madonia, disse che Andreotti era ‘punciutu’ (punto, cioè affiliato formalmente, ndr), mentre c’era chi diceva che Andreotti fosse il figlio di un Papa”. “Salvo Lima e Andreotti – ha quindi ribadito il collaboratore – erano i politici che dovevano garantire tutto questo e che poi il maxi processo sarebbe stato assegnato al giudice Carnevale in Cassazione e non ci sarebbero stati problemi”. “L’ottimismo cessa quando i politici si allontanano e non riescono a far assegnare il processo al giudice Carnevale – ha spiegato successivamente Messina –. Iniziano le recriminazioni di Cosa Nostra nei confronti del vertice politico nazionale. C’è stato un momento in cui in Cosa Nostra fu deciso di non votare per la Democrazia cristiana ma per i socialisti”. “Io – ha aggiunto – ho ricevuto l’ordine preciso di votare e far votare per i socialisti. L’onorevole Martelli quando è arrivato al potere, scavalcando l’ala craxiana, non ha mantenuto i patti. Io non partecipavo alle riunioni ma venivo messo a conoscenza delle decisioni prese”, ha quindi evidenziato. “Io ero con Borino Miccichè – ha proseguito Messina – e altri uomini d’onore e mi è stato detto chiaramente, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, che c’era una commissione nazionale che deliberava tutte le decisioni più importanti. Una commissione in cui sedevano i rappresentanti di altre organizzazioni criminali e il cui capo era Totò Riina”. “Un giorno c’era Umberto Bossi a Catania. Dissi a Borino Miccichè: ‘questo ce l’ha con i meridionali, vado e l’ammazzo’. Mi disse di fermarmi: ‘questo è solo un pupo. L’uomo forte della Lega è Miglio (Gianfranco, ndr) che è in mano ad Andreotti’. Si sarebbe creata una Lega del Sud e la mafia si sarebbe fatta Stato”. Di tutto ciò Leonardo Messina aveva già parlato ai magistrati in quella famosa inchiesta denominata “Sistemi criminali”, successivamente archiviata, i cui fascicoli sono stati acquisiti al processo sulla trattativa Stato-mafia. Nei faldoni del 2001 c’erano già le sue dichiarazioni nelle quali l’ex uomo d’onore di San Cataldo aveva fatto riferimento a svariate riunioni tra i capi dell’organizzazione, tenutesi tra il ’91 ed il 92, nel corso delle quali discutevano proprio di un “progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati. In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria. Lo stesso Messina aveva parlato anche di una “Lega Sud”, che sarebbe stata risposta naturale alla Lega Nord. Quest’ultima avrebbe visto proprio Gianfranco Miglio quale suo vero artefice. Dietro di lui spuntavano le ombre di Gelli e Andreotti. E proprio Miglio avrebbe poi raccontato, nel ’99, di essersi trovato a Villa Madama, a trattare di nascosto con Andreotti. Da evidenziare che molte dichiarazioni rilasciate da esponenti di diverse organizzazioni criminali, oltre Cosa Nostra, quali ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita convergono proprio su questi punti. Di fatto Cosa Nostra sembrava a tutti gli effetti intenzionata a sfruttare il successo politico della Lega Nord in modo da favorire la secessione della Sicilia e delle regioni meridionali in genere, con lo scopo di gestire con maggior facilità, a livello politico, gli interessi illeciti della criminalità. “Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Era il 14 dicembre 1992 quando Leonardo Messina rendeva queste dichiarazioni davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia. A distanza di 21 anni quelle parole sono tornate ad echeggiare in un’aula di giustizia. Parlando della forza della mafia l’ex boss Messina ha specificato che non ha eguali in quanto detiene “potere economico e potere punitivo”. Sugli spalti ad ascoltare attentamente erano presenti diversi studenti palermitani, alcuni dei quali del Liceo Classico Umberto I; alcuni esponenti delle Agende Rosse (anche da altre parti d’Italia) e dell’associazione studentesca ContrariaMente. Decisamente molto interessante è stato il riferimento del collaboratore di giustizia all’avvocato Raffaele Bevilacqua. Immediatamente è tornata alla memoria la recente inchiesta giudiziaria (successivamente archiviata nel 2004) sull’ex vicepresidente diessino dell’ARS, Vladimiro Crisafulli, sorpreso da un’intercettazione ambientale a parlare di politica e affari proprio con l’avvocato Bevilacqua, già rappresentante di Cosa Nostra nell’ennese, nonché ex consigliere provinciale DC. L’ennesima dimostrazione dello strettissimo connubio Mafia e politica. Del tutto inquietante l’accenno alla “nave piena di armi” nella disponibilità di Cosa Nostra, armi che servivano ad “un sistema” per “fare la guerra”. Ed è proprio nei confronti di quel “sistema criminale” che si continuerà a cercare di fare luce. Le prossime udienze dei giorni 11, 12 e 13 dicembre saranno dedicate all’audizione di Giovanni Brusca in trasferta a Milano.

Messina Denaro, politici e massoni. Un pentito fa tremare mezza Sicilia, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. L'architetto Giuseppe Tuzzolino da mesi collabora con i magistrati e tira in ballo politici, magistrati e superburocrati regionali. Parla degli intrecci fra mafia e massoneria. E sostiene di avere notizie su "Diabolik". In tanti ritengono "fantasiose" le sue dichiarazioni. C'è, però, chi ritiene di dovere andare avanti per non lasciare nulla al caso. Fra questi il procuratore aggiunto Teresa Principato che coordina la caccia al super latitante. Alza il tiro. E di parecchio. L'architetto Giuseppe Tuzzolino, che da alcuni mesi collabora con i magistrati di mezza Sicilia, tira in ballo politici, magistrati e superburocrati regionali. Parla degli intrecci fra la mafia e la massoneria. E sostiene di avere notizie su Matteo Messina Denaro. E così c'è un gran viavai al Palazzo di giustizia di Palermo. Il suo nome finì coinvolto in un'inchiesta giudiziaria nel 2013. Tuzzolino era al centro del malaffare che ruotava attorno al rilascio di una sfilza di concessioni edilizie nel comune di Palma di Montechiaro. Dopo il carcere, l'architetto trentacinquenne patteggiò una condanna e iniziò a parlare con i pubblici ministeri agrigentini. I suoi racconti, però, hanno finito per sconfinare dalla città dei templi ed è stato necessario attivare i magistrati della Direzione distrettuale antimafia palermitana che si occupano delle indagini sulle cosche di Palermo, Trapani e Agrigento. Ma pure dai pm di Caltanissetta competenti quando si tratta di indagare su vicende che riguardano i colleghi palermitani. Il nodo della questione è la credibilità di Tuzzolino. In tanti ritengono "fantasiose" le sue dichiarazioni. C'è, però, chi ritiene di dovere andare avanti per non lasciare nulla al caso. Fra questi il procuratore aggiunto Teresa Principato che coordina la caccia al super latitante di Castelvetrano. La vicenda Tuzzolino è stata oggetto di confronto anche nelle recenti riunioni della Dda. E' proprio sul padrino trapanese che l'architetto ha fornito le ultime indicazioni. Dice di averlo visto alcuni anni fa seduto al tavolo di un ristorante di Castelevetrano. Tuzzolino saprebbe dei contatti fra Messina Denaro e la massoneria. Circostanza non nuova, per la verità. Indica in un palazzo nel centro di Trapani il cuore di una importante loggia di cui ha indicato il simbolo. Un simbolo che è stato trovato anche nella memoria del telefonino di uno dei Guttadauro, parenti di Messina Denaro e arrestati per mafia. Sul capitolo massoneria ha fatto i cognomi di alcuni pezzi grossi della burocrazia siciliana e persino di alcuni magistrati palermitani, raccontando di un vorticoso intreccio di rapporti illeciti. Un groviglio di interessi, favori e intrighi di potere. Chi è davvero Tuzzolino e sono attendibili i suoi racconti? Fino a quando le sue dichiarazioni si sono concentrate su realtà locali agrigentine è stato accertato che l'architetto ha detto la verità. La sua credibilità, però, ha vacillato quando è diventato un fiume in piena. Si è pure beccato una denuncia per calunnia che ha in mano il procuratore aggiunto Maurizio Scalia con tanto di registrazione che farebbe emergere il suo intento di utilizzare le sue dichiarazioni per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Solo che adesso non si parla più di sassolini. Più si va avanti e più Tuzzolino alza il tiro. E in Procura c'è chi, anche se solo in parte, lo prende sul serio e chiede di mantenere il massimo riserbo sulle sue dichiarazioni.

Il neo pentito, Giuseppe Tuzzolino, lancia pesanti dichiarazioni sconquassando la Sicilia, scrive “Palermomania”. Parla a ruota libera l'architetto Tuzzolino, coinvolgendo svariate sfere della società siciliana, dalla politica, alla magistratura ad "importanti burocrati", tocca il tema delle connivenze tra queste sub strutture e la mafia e ancora tra la stessa mafia e la massoneria, senza lesinare notizie in merito all'argomento centrale della latitanza mafiosa siciliana, la localizzazione del boss Matteo Messina Denaro. Tuzzolino, era finito nei registri degli inquirenti nel 2013, durante un'inchiesta riguardante il rilascio di concessioni edilizie nel comune di Palma di Montechiaro, inchiesta in cui venne condannato al carcere per poi patteggiare una riduzione della pena e divenire collaboratore di giustizia verso i pm di Agrigento. Attualmente, il tribunale interessato alle dichiarazioni del trentacinquenne Tuzzolino è il Palazzo di Giustizia di Palermo, dato che le ultime informazioni, da lui rilasciate, atterrebbero a movimenti non localizzati nel solo agrigentino ma variegati, spazianti da Palermo, a Trapani e Caltanissetta. Il procuratore aggiunto, Teresa Principato, occupantesi della ricerca del boss latitante, Messina Denaro, sembra voler seguire le tracce indicate dal Tuzzolino, ma gran parte della magistratura interessata, e non solo, si chiede quanto possano essere attendibili le dichiarazioni del neo pentito, affermazioni già definite "fantasiose". In merito alla figura di Messina Denaro, sembrerebbe aver indicato un ristorante di Castelvetrano, dove alcuni anni fa avrebbe scorto il boss. Dei contatti tra il super latitante e la massoneria, già si avevano delle conoscenze, notizie che lo stesso Tuzzolino avrebbe confermato indicando un palazzo, situato nel centro di Trapani, sede di un'imponente loggia e il simbolo stesso della loggia, simbolo che venne riscontrato anche nel cellulare di un membro della famiglia Guttadauro arrestato per mafia, parente del boss. Sempre in ambito massoneria avrebbe narrato di intrecci particolarmente tortuosi, e illeciti, che vedrebbero coinvolti magistrati, politici, e "importanti burocrati" siciliani. Il problema dell'attendibilità di Tuzzolino si è aperto nel momento in cui le dichiarazioni sono tracimate, ampliando confini e contenuti, lasciando temere un tentativo di "vendetta" più che una reale presenza di informazioni. Tracimazione che ha già comportato una denuncia per calunnia. Bisogna però dire, che le dichiarazioni dell'architetto, quelle legate all'ambito agrigentino, riguardanti festini con "cocaina e escort", appalti truccati, tangenti e killer, sono risultate esatte, da ciò l'importanza della richiesta di riserbo, da parte delle autorità, e di ulteriori, approfondite indagini su quanto Tuzzolino ha e avrà da dichiarare.

Intervista all'avv. Giuseppe Arnone da parte di iena giudiziaria Marco Benanti su "Le Iene Sicule".

Avv Arnone ci spiega cos'è accaduto in occasione dell'ultima sua clamorosa iniziativa?

“Io dispongo di un balcone, nel mio nuovo studio, che sta proprio di fronte al Palazzo di Giustizia, tra il cancello di accesso al Tribunale e il mio balcone vi è una distanza esattamente di 12 metri. Si scende dal marciapiede, si attraversa la carreggiata di vai Mazzini e siamo innanzi al cancello del Tribunale. Volendo col Dott. Ignazio Fonzo potremmo, dai rispettivi studi, prenderci a pietrate con una fionda. Ma ormai, poiché credo fermamente che la legge è uguale per tutti, i colpi di fionda oggi sono formali ed istituzionali. Dal mio balcone ho collocato il primo manifesto che sollecita l’allontanamento nei tempi più rapidi di Fonzo e dei suoi partners in Procura dalla realtà agrigentina. Io prevedo la cacciata dalla Magistratura e processi penali a non finire, per Fonzo e i correi. E più avanti mi soffermerò sui procedimenti che sono già avviati con le indagini a carico di Fonzo e del PM Maggioni, il suo braccio destro. Torniamo alla mattina di martedì 10 marzo. Ho collocato lo striscione da stadio, delle dimensioni di 6 metri per un metro e mezzo. Dopo un po’ è arrivata la Digos in forze, chiedendomi di rimuovere lo striscione. Ho risposto che non se ne parlava nemmeno, sollecitandoli a fare la relazione di servizio inviandola al Ministero e al CSM. Alle loro insistenze verbali, con un ampio sorriso, li ho invitati a tornare con un provvedimento scritto, magari frutto della sapienza giuridica degli scienziati del diritto Fonzo e del procuratore capo Di Natale. Ed ho aggiunto che la mia sapienza giuridica mi consentiva di dire che la Carta Costituzionale  tutela quello striscione. Lo striscione è rimasto esposto. Lo toglierò domani mattina."

Avvocato ci può illustrare fatti e situazioni del processo cosiddetto delle tangenti al comune di Agrigento?

"Lo striscione, come si può agevolmente leggere, fa riferimento al “babbìo” con il quale Fonzo ha affrontato la importantissima indagine sulle tangenti all’ufficio urbanistica del Comune di Agrigento. Dai rapporti della Polizia, in primo luogo Digos, e dalle intercettazioni telefoniche e dalle testimonianze dell’ing. Morreale, tutti elementi acquisiti cinque anni fa o giù di li, a processo dovevano andare innanzitutto il sindaco Zambuto e il suocero on. La Russa, da me definiti il pupo e il puparo. Invece, come si suol dire, sono volati gli stracci, solo i funzionari del Comune, di cui uno – il principale imputato – assolutamente marginale, e pure gravemente malato da tempo. Sembrerebbe che il marciume al Comune di Agrigento fosse rappresentato da un architetto di secondo ordine, che prendeva tangenti di qualche centinaio di euro. Nelle telefonate degli indagati intercettati si faceva riferimento alla mia persona con questi termini: “quel cornuto di Arnone…..quel gran cornuto, quel cornuto che si fa….il cappotto di legno di Arnone”. A fronte di queste telefonate e di decine di mie denunzie nei confronti del capo dell’ufficio urbanistica Di Francesco, oggi pure imputato,  io non sono mai stato sentito come testimone, né nell’indagine preliminare, né innanzi al Tribunale."

Quali distorsioni giudiziarie ha lei denunciato questa volta?

"Proseguo il ragionamento e completo la risposta. La mia deduzione è che la mia testimonianza avrebbe dovuto comportare processo e probabilmente manette – come avvenuto per altri imputati in questa vicenda – per il sindaco Zambuto e il puparo suocero La Russa. Aggiungo che il testo di questa intervista verrà inviato al Procuratore Generale Scarpinato: è il caso che Scarpinato affitti una suite nella Valle dei Templi perché quello che sta combinando qui Fonzo e i suoi partners non ha eguali credo in Europa. Adesso Fonzo è andato a sequestrare di persona gli atti del PRG di Zambuto, sulla base delle informative della Digos di 5 anni addietro. I testi delle informative e queste notizie sono diffuse dal giornale Grandangolo che svolge il ruolo di sostanziale addetto stampa o di gazzetta ufficiale della Procura di Agrigento. La domanda è semplice: perché quelle carte della Digos che andavano dritto dritto ad incastrare il Sindaco Zambuto sono state insabbiate per 5 anni?  Ed ancora all’ufficio urbanistica avviene quello che adesso descriverò. Per tre anni vi è uno scontro durissimo tra me da un lato contro Di Francesco e il sindaco Zambuto e il puparo La Russa dall’altro. Zambuto mantiene a capo dell’urbanistica, con un rapporto fiduciario, l’ing. Di Francesco, in perfetta continuità con la precedente amministrazione berlusconiana. Io insisto perché venga rimosso in quanto dedito all’illecito. Ricevo pressioni soprattutto da La Russa per “riappacificarmi” con Di Francesco. Mando suocero e sindaco a farsi benedire e alla fine ottengo la nomina del vincitore di concorso,  ing. Calogero Morreale e la rimozione di Di Francesco. Incredibile ma vero, dopo sei mesi Zambuto licenzia l’ing. Morreale. Sostiene che non era in grado di far funzionare gli uffici. In effetti il modo di gestire gli uffici tra la persona per bene Morreale e Di Francesco, oggi sotto processo per associazione per delinquere e tangenti, è diversissimo. Ma quello che è incredibile che la Procura di Agrigento innanzi al licenziamento di Morreale sta a guardare: in un altro posto, ove la Giustizia viene amministrata con criterio, sarebbero scattate le manette per sindaco e suocero. Sulla base delle informative della Digos insabbiate e sulla base della testimonianza di Morreale. Aggiungo che vi era pure la testimonianza di un imprenditore del settore delle cooperative che affermava, a verbale, innanzi alla Digos, di aver ricevuto richieste di tangenti anche a nome del puparo La Russa. Ne vogliamo ancora? E ripeto: perché io non sono stato sentito? Malgrado le mie denunzie? Malgrado fossi il più profondo conoscitore di  questi fatti?"

Al di là del merito della contrapposizione sua con il pm Fonzo, questa vicenda è emblematica di una condizione generale della giustizia oppure è un fatto sporadico?

"Preannunzio che questo è il primo striscione. Dal mio balcone ne caleranno altri. Ne ho in mente uno bellissimo, di rilievo turistico. Lo striscione riporterà questo messaggio: “Indicazione turistica di grande rilevanza. Visitate il Palazzo di Giustizia di Agrigento, l’unico d’Italia ove non vige l’obbligatorietà dell’azione penale. Ingresso gratuito. Accesso consentito dalle ore 9.00 alle ore 12.30. Visite guidate previo appuntamento. Chiedere del dott. Ignazio Fonzo”. Un altro striscione proporrà un paragone tra il già presidente della Provincia Eugenio D’Orsi, l’imputato per cui Fonzo ha chiesto 6 anni di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici, e lo stesso indagato Ignazio Fonzo. Ricostruirò, comparandole, le azioni che Fonzo, da PM, ha contestato all’imputato D’Orsi, chiedendo appunto ben 6 anni di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici, e le azioni illecite commesse da Fonzo e da Maggioni, da me denunziate, e per cui i due magistrati sono oggi indagati a Caltanissetta, con una ordinanza che dispone fior di investigazioni emessa a loro carico, su mia richiesta, dal GIP dott. Testaquadra. Realizzerò un video, in contraddittorio con i giornalisti interessati, e la gente potrà valutare quanti anni di galera meritano Fonzo e Maggioni se D’Orsi ne merita 6. Se il criterio è questo – le accuse a D’Orsi sono bazzecole, spesso ridicole – a Fonzo dovremmo dare 60 anni di carcere, ed interdizione perpetua per 5 o 6 vite. La risposta quindi è netta. Fonzo e Di Natale hanno abrogato ad Agrigento l’obbligo dell’azione penale. Soprattutto per i potenti. L’ex vice ministro Capodicasa, per coincidenza grande amico di Anna Finocchiaro, per coincidenza a sua volta grande amica del magistrato Giuseppe Gennaro, per coincidenza a sua volta grande amico di Ignazio Fonzo ha costruito una splendida villa moltiplicando per 4 volte i volumi in modo illegale e commettendo un mare di reati. Il tutto nell’area super vincolata vicina al Teatro Greco di Eraclea Minoa, sulla fascia costiera. Ho denunziato questi fatti due anni e mezzo addietro, Capodicasa ha denunziato me per calunnia. Non abbiamo notizie. Tutto sotto una tonnellata di sabbia. Nel frattempo però hanno trovato il tempo per mandarmi a processo in una quarantina di procedimenti. Tutti per cose poco serie. Specifico che non voglio dire che Fonzo ha recepito raccomandazioni. Semplicemente che Fonzo, anzi, la Procura e Di Natale, sono molto ma molto attenti alle vicende che riguardano personaggi potentissimi, con amicizie o parentele potenti.  Non intendo, cioè, sostenere che sia intervenuta Anna Finocchiaro per raccomandare Capodicasa, mi limito ad evidenziare una serie di fatti, la cui entità merita ancor più riflessione se consideriamo ciò che dice il collega di Fonzo, PM Fornasier, in ordine ai legami fortissimi costruiti da Fonzo. E più avanti spiegherò cosa si intende. Mi soffermo su Di Natale: suggerisco a qualche docente universitario di diritto penale di disporre una tesi sull’archiviazione dell’inchiesta per associazione mafiosa a beneficio di Mirello Crisafulli. Se Di Natale avesse fatto quell’indagine, in quel modo, su Dell’Utri o su Cuffaro, i giustizialisti di sinistra lo avrebbero messo al rogo. E’ l’archiviazione più scandalosa che si sia mai vista. Di Natale e Fonzo ne hanno fatta una simile per un dirigente medico di vertice dell’ASP che assieme agli altri due massimi vertici firma la delibera di un’affidamento di un appalto che la Procura ritiene truccato. Per gli altri due la Procura chiede l’arresto dei firmatari. Per il terzo non fa nulla. Il GIP rigetta la richiesta di arresto dei due osservando che non si capisce perché si fa questa differenza di trattamento – del tutto priva di motivazione – tra i tre firmatari. Il GIP si è posto una domanda sacrosanta e ha deciso secondo legge. Adesso gli forniamo la probabile risposta. Il terzo firmatario è uno stretto congiunto, uno zio del vice premier Alfano. Conosco bene Alfano e sono disposto a giocarmi le mani che non si è mai mosso per effettuare alcuna raccomandazione alla Procura. Conoscendolo sono certo che ignora la vicenda. Ma il dato è evidentissimo. Quando la Giustizia non funziona ed è interessata a compiacere i potenti, il timore reverenziale si attiva senza che nessuno lo solleciti. Automaticamente. Ma voglio aggiungere qualcosa di clamoroso. Io dispongo di una registrazione ove il PM anziano di Agrigento, Santo Fornasier, prima mi sollecita ad accordarmi con Fonzo e a rinunziare alle denunzie contro di Fonzo, poi, di fronte alla mia risposta negativa, mi minaccia, riporto testualmente, di “brutte mazzate” attraverso gli strumenti “infidi ed invasivi” di cui dispone la Procura, quindi esalta Fonzo dicendo che è un personaggio “potentissimo, fortissimo, per i legami che ha” e conclude con una ammissione che lascia senza parole “Fonzo le ha fatto lo schieramento alle spalle, questo è successo, questo è successo”.

Cosa sarebbe questo schieramento alle spalle? Esistono fatti che possono far ritenere effettivamente realizzato lo schieramento alle spalle ai suoi danni?

"Sì è pacifico che Fonzo e Di Natale hanno posto in essere quello schieramento alle spalle ai miei danni di cui ha parlato il PM Santo Fornasier ignorando di essere audio registrato. Lo schieramento alle spalle lo sintetizzo in poche battute, andando ai fatti più rilevanti. Hanno chiesto in quattro mesi e in quattro processi 9 anni di carcere per me. Hanno preso tutti i processi. Tutti. Sempre assolto. Mi hanno intercettato per 3 mesi, mi hanno pedinato, fotografato, mi hanno mandato un plotone di Carabinieri a perquisire alle 4 di notte la mia villa, la mia abitazione invernale, il mio studio professionale. Hanno sequestrato tutti i computers di casa mia, non solo i miei, ma anche quelli professionali di mia moglie medico e di mio figlio universitario. Mi hanno fatto fare da una neurologa – si da una neurologa, concittadina di Di Natale – una perizia psichiatrica che mi ha qualificato come malato di mente, affetto da un grave disturbo paranoico. Ognuno comprende l’anomalia di far fare una perizia psichiatrica ad una neurologa – democristiana come Di Natale, nissena come Di Natale -, neurologa esperta in tossico dipendenze, invece che ad uno psichiatra. A proposito, la perquisizione alle 4 di notte e il sequestro dei computers è avvenuto sulla baase di telefonate intercettate – incredibile ma vero – ove una mia carissima amica mi chiedeva un prestito di 50 euro per portare la figlia, gravemente malata, da un otorino. Tutto questo è consacrato nelle bobine audio. Poi Fonzo e Maggioni hanno nascosto la principale delle telefonate intercettate, quella che sbriciolava le loro teorie accusatorie. Quella telefonata, di ben 15 minuti, aveva lo stesso valore della telefonate dell’esempio che illustro. Io sono indagato per aver ucciso e occultato il cadavere di mio zio Nino. Mi mettono il telefono sotto controllo e intercettano la telefonata dello zio Nino che mi chiama da Cuba per invitarmi a raggiungerlo per divertirci assieme. Sulla base di quella telefonata l’inchiesta è finita. Se nascondiamo la telefonata possiamo continuare ad intercettare. E le intercettazioni sono come una rete per la pesca a strascico. Parti per scoprire il reato di corruzione di una testimone – pagando la visita medica della figlia malata – e poi magari scopri che l’indagato fa uso di eroina, procura prostitute agli amici, commette qualche leggerezza professionale. Purtroppo per Fonzo, nei tre mesi di intercettazioni è venuto fuori che Peppe Arnone merita solo complimenti e suscita invidie. E adesso sono Fonzo e Maggioni, i magistrati che hanno gestito le intercettazioni ad essere indagati. Dico pure i numeri dei processi: Procura di Caltanissetta, procedimenti n.175 e 178 del 2014, GIP dott. Testaquadra, magistrato molto serio e perbene."

Come ha visto reagire la stampa ad Agrigento? C'è stata qualche anomalia?

"Ad Agrigento la istituzione peggiore, di gran lunga peggiore rispetto a tutte è l’informazione. Il sistema informativo presenta livelli di degrado e di condizionamento che non hanno eguali in Italia. Ed infatti nessun giornale online ha pubblicato la foto dello striscione davanti al Tribunale e tre emittenti su quattro hanno censurato la notizia. I giornali online, con l’esclusione di uno appena nato, hanno ritenuto di non informare totalmente i lettori. In questo momento ho tra le mani una nota di quello che è il maestro di questo tipo di giornalismo, Franco Castaldo. In questa nota Castaldo scrive – rispondendo ad una mia contestazione sulle loro censure – “che non è (ovvero sarà) l’Arnone a dettare i tempi e i modi dell’informazione”. In questa frase vi è tutto: cosa sarebbero i tempi dell’informazione? Il cittadino dovrebbe avere il diritto di essere informato. Non dovrebbero esistere i tempi dell’informazione. Il cittadino dovrebbe avere la notizia in tempo reale, quando il giornalista ne viene in possesso. Ad Agrigento invece le notizie si censurano, si cancellano oppure al contrario, si amplificano. Fonzo è indagato per aver preteso dal giornalista Lelio Castaldo che non andasse in onda una trasmissione di un’ora, programmata da tempo, ed annunciata con quasi un mese di spot – oltre cento spot - , trasmissione che consisteva in una mia intervista relativa ad un’inchiesta a mio carico. Il giornalista Lelio Castaldo la cancella e mi dice testualmente che lui non farà più quella trasmissione su esplicita richiesta di Fonzo. Questo avviene a febbraio del 2012. Sei mesi dopo siamo a luglio, il giornalista Lelio Castaldo – che io assistevo gratuitamente – pubblica un mio comunicato molto ironico sulla partecipazione di Fonzo ad un’udienza contro di me. Il comunicato parlava di Fonzo “descamisados”, perché era sceso dal suo ufficio in udienza in fretta e in furia, in maniche di camicia, per dare man forte al PM d’udienza. Il comunicato compare e dopo poche ore scompare, sradicato pure dall’archivio del giornale. Esattamente come avveniva con lo stalinismo, quando si modificavano le fotografie per cancellare chi era caduto in disgrazia. Come si può comprendere da queste due vicende, il condizionamento che viene operato dalla Procura di Agrigento appare essere pesantissimo. Ovviamente questi cosiddetti giornali censurano pure le notizie delle indagini a carico di Fonzo e del PM Maggioni a Caltanissetta. Questo è il livello della disinformazione ad Agrigento. Possiamo definirla mafia dei colletti bianchi questa gestione del sistema informativo che priva il cittadino di un diritto costituzionalmente garantito? E non parlo delle aggressioni che questa stampa conduce. Sempre il giornale del Franco Castaldo – i Castaldo sono due fratelli, Franco e Lelio, Lelio è quello coinvolto direttamente nei procedimenti a carico di Fonzo – riesce a violare regole deontologiche minimali con comportamenti francamente inediti: le mie collaboratrici vengono definite sul suo giornale “troie, asine e giovenche”, dedite alla monta, io vengo paragonato a Rocco Siffredi o John Holmes. Mi viene augurato di morire di AIDS. Vengo definito in continuazione come iettatore. Ogni settimana abbiamo tre o quattro articoli con firma apocrifa (Attila, Genserico e similari) grondanti di insulti contro di me. Questo è il giornalismo agrigentino. Ma è un giornalismo o qualcosa di diverso? Ecco perché Agrigento è la realtà più degradata della Sicilia e probabilmente d’Italia, quantomeno per quanto riguarda istituzioni formali."

 Lei spesso è criticato perchè secondo taluni dietro le sue clamorose azioni talora ci sarebbero aspirazioni politiche o altro, cosa risponde?

"La mia aspirazione è certamente politica, ma nel senso letterale del termine, migliorare la qualità della vita pubblica, della vita associata nella mia città. Adesso la mia vita, nel senso della mia esistenza, è raccontata da ben tre pentiti, due sono esponenti di primissimo piano di Cosa Nostra, il terzo è una sorta di pentito colletto bianco, che si è pure mosso ai margini di Cosa Nostra. E il racconto che ne viene fuori del ventennio 1990-2010, è semplicemente bellissimo. Per vent’anni Cosa Nostra ha avuto il dubbio se era meglio uccidermi o lasciarmi vivo. Si riunivano frequentemente per parlare di me e del mio omicidio. Ora chi ha questa storia ha l’ambizione di migliorare la propria terra, non ha paura né di Fonzi, né di Di Natali, né di Castaldi. I pentiti raccontano che Cosa Nostra si impegnò con ogni energia per impedire la mia elezione a sindaco nel ’93 e la mia elezione a deputato nel ’94. Persi le due elezioni per poche centinaia di voti. E il super pentito Di Gati racconta che era già stato deciso il mio omicidio, se avessi vinto le elezioni a sindaco del ’93. Il sindaco Arnone suscitava enormi preoccupazioni in Cosa Nostra. Il racconto dei pentiti – si chiamano Maurizio Di Gati, Luigi Putrone e Giuseppe Tuzzolino – riguarda il mio impegno per la legalità e contro gli appalti truccati e gli imprenditori collusi con Cosa Nostra. Adesso è chiaro che non vi è da parte mia un’aspirazione di campagna elettorale, se per politica intendiamo questo, mentre vi è un’aspirazione di altro tipo, ovvero ottenere che le regole dello Stato Italiano valgano anche ad Agrigento. E sino ad ora, con evidenza, non è stato così."

 Ad oggi chi ha risposto ai suoi numerosi appelli sulla giustizia?

"Sino ad’ora io non ho puntato ad avere risposte, cioè ad ottenere interventi. Ritengo di essere il più esperto ed autorevole “guerriero” che si muova in terra siciliana. I pentiti raccontano ciò che ho saputo fare contro Cosa Nostra. Ma vi sono poi gli armadi del Consiglio Superiore della Magistratura, che documentano le mie vittorie nelle battaglie contro magistrati molto molto molto discutibili. Sono stato io che nel ’91 ottenni l’allontanamento del Procuratore capo Giuseppe Vaiola, votato all’unanimità. Ho vinto cause contro il pretore e poi senatore Melchiorre Cirami – sì proprio lui, quello della legge Cirami per Berlusconi - , ho vinto fior di cause contro Stefano Dambruoso, sì proprio lui, l’attuale parlamentare che prende a schiaffi le deputate grilline. Ho provocato l’allontanamento con addebiti pesantissimi del PM di Agrigento Giuseppe Miceli, quello che mi voleva arrestare. Ho pure vinto la battaglia per la nomina a Procuratore capo di Catania di Giovanni Salvi: credo proprio che senza i documenti che io ho inviato al CSM, nell’imminenza della votazione, oggi il Procuratore capo di Catania sarebbe Giuseppe Gennaro. Ho fatto questa premessa perché so come si combattono le battaglie contro poteri di questo livello. Bisogna prima avere tutte le carte in regola, essere inattaccabili. Io amo le metafore storiche. Gli alleati impiegarono molto tempo a preparare lo sbarco in Normandia, ma quando sbarcarono, l’unico dubbio era se Hitler sarebbe stato fucilato o se si suicidava anticipando tutti. Così oggi la battaglia contro ciò che ha rappresentato Fonzo ad Agrigento, è una battaglia vinta. Siamo come gli alleati che sbarcati in Normandia, stanno riconquistando la Francia per arrivare a Berlino. Ed adesso possiamo attivare il sistema mediatico nazionale, certamente interessato a sentire le intercettazioni telefoniche sui prestiti per la visita medica, scambiati come fatti di corruzione che giustificavano perquisizioni alle 4 di notte, e ancor di più, l’ammissione del PM Fornasier che il suo collega Fonzo realizzava schieramenti alle mie spalle. L’Italia è una Democrazia, con tante contraddizioni, ma alla fine se hai ragione e le palle per batterti, se non ti fai intimorire, vinci. Il destino di questi è segnato."

Ci può anticipare sviluppi -se ci saranno- di queste vicende?

"Gli sviluppi sono facili da prevedersi. Penso che appena l’onda mediatica nazionale si occuperà delle cose che ho illustrato, non appena una delle trasmissioni nazionali farà sentire la voce del PM Fornasier che ammette gli schieramenti alle spalle di Fonzo, racconta come Fonzo ha strumentalizzato il suo ruolo per costruire legami fortissimi, e addirittura minaccia le brutte mazzate, interverranno di corsa ad Agrigento ispettori ministeriali e del CSM. E ancora, io voglio far sentire la voce della signora che chiede in prestito 50 euro per la visita medica della figlia o 20 euro per ordinare libri di scuola, e tutto questo viene a giustificare processi per corruzione e perquisizioni alle 4 di notte. Siccome siamo in un paese democratico e Arnone è comunque una personalità che sa farsi valere, non invidio affatto Fonzo, Di Natale, Maggioni e compagnia cantando. Tutti questi magistrati avranno per i prossimi anni problemi gravissimi. E lo ritengo una vittoria della gente per bene. Io adesso non sto punendo costoro solo per i torti che hanno fatto a me, ma soprattutto perché se quello che ho subito io lo avesse subito un cittadino comune, sarebbe stato travolto e distrutto. Fonzo e compagnia bella sono come il branco di iene che ha assalito il rinoceronte. Stavano per farlo fuori, ma il rinoceronte è una bestia molto solida, ha saputo reagire e adesso è lui che sta pestando le iene. Ma se queste iene avessero assaltato una zebra o una gazzella o un’antilope, l’avrebbero distrutta e sbranata senza pietà. Il rinoceronte oggi sta realizzando il diritto di tutti al rispetto della giustizia e delle leggi dello Stato. Gli sviluppi quindi saranno per tutti costoro pesantissimi. A Caltanissetta, per tentare di salvare Fonzo e Maggioni, vi è stata pure la sfilata di testi mendaci, ad esempio il teste Lelio Castaldo ha messo nero su bianco una serie di bugie ridicole, proprio risibili. Ha raccontato che il comunicato di Fonzo “descamisados” sia era cancellato per un guasto al sistema informatico, il Gip ha disposto una perizia su quel sistema informatico. Sempre Lelio Castaldo ha dichiarato al PM di aver cancellato la trasmissione su consiglio del suo avvocato. Peccato che la trasmissione non era stata ancora registrata e l’avvocato non aveva la materia su cui dare pareri giuridici. Se la trasmissione fosse stata già registrata, l’avvocato avrebbe potuto dire: “non la mandare in onda perché questa e quell’altra frase sono diffamatorie”. Non esistendo la trasmissione, questo avvocato su cosa doveva dare il suo parere legale? Tutto ciò viene a rappresentare ulteriormente il quadro di degrado e di inquinamento che ruota attorno a costoro nella realtà agrigentina."

MASSONERIA NELLE ISTITUZIONI. Autorità criminali e culti misterici, scrive Antonella Randazzo. Si parla spesso di “bizzarrie” che appaiono su Internet, ovvero di argomenti su cui aleggia lo spettro della bufala o del contenuto che attrae ma è irreale, singolare o stravagante. Il problema è che a volte si cerca di far rientrare in questa categoria anche argomenti molto importanti per capire il sistema in cui oggi ci troviamo. Un esempio di ciò è l’argomento “culti misterici”. Un culto misterico è un culto riservato a pochi, che prevede riti di iniziazione e di passaggio da un livello più basso ad uno più alto, il più totale segreto relativo al culto, alle cerimonie, e l’idea che il gruppo fornirà conoscenze esoteriche importanti. Non necessariamente i culti misterici sono religioni misteriche, talvolta, come nel caso delle società segrete, si tratta di gruppi che non dichiarano esplicitamente di adorare una precisa divinità. Tuttavia, l’idea che vengano svelate cose “misteriose” che sono appannaggio di pochi, suggerisce l’esistenza di “venerandi”, ovvero di una fonte da cui proverrà la conoscenza esoterica. Nonostante su Internet esistano molte fonti che parlano di sette esoteriche, di massoneria e di gruppi di potere occulti, non bisogna fare l’errore di dare per scontato questi argomenti, sottovalutandoli o scambiandoli per argomenti “sui generis”. Ci sono innumerevoli prove, talvolta date dagli stessi interessati, che gli attuali personaggi al potere si valgono di associazioni o culti misterici per alimentare il loro potere e per scongiurare il pericolo che salgano al potere personaggi non controllabili.
Dunque, studiare con serietà un tale argomento può aggiungere nuove conoscenze su come agiscono i personaggi che oggi esercitano potere sui popoli, su come essi formano il ceto dirigente e come cercano in tutti i modi di tenerlo soggiogato per potersi garantire il dominio sui popoli. Da molti elementi si inferisce che è proprio attraverso le logge, i culti segreti e la mafia che queste persone continuano a tenere sotto controllo le autorità, curandosi di formarle e di obbligarle al segreto circa aspetti del sistema evidentemente inconfessabili. L’uso di queste formazioni conferma, se ce ne fosse bisogno, la natura criminale del sistema, che ha bisogno di manipolare e controllare per continuare ad esistere. I gruppi segreti di natura massonica servirebbero a controllare mentalmente chi è destinato a ricoprire cariche di potere. E’ come se alcune persone dovessero essere “formate” in modo tale da commettere le più gravi cattiverie senza avere scrupoli di coscienza, e magari motivandole truffaldinamente per renderle “legittime”. In effetti, organizzare guerre, uccidere o torturare persone inermi significa distruggere il sentimento umano naturale di empatia con i propri simili, e dunque non sembrerebbe possibile farlo senza un’accurata “formazione”. Per questo motivo sembrerebbe necessario far praticare a chi ricoprirà ruoli importantissimi, culti che disumanizzano, che stimolano gli aspetti più negativi e distruttivi dell’uomo, o che inducono a credere che possano esistere principi, “valori” o ideologie che giustificano i crimini più terribili contro l’umanità. Esisterebbero due tipi principali di culti misterici:

1) quelli che prevedono l’affiliazione di un numero relativamente ampio di adepti, che per la maggior parte ricoprirà livelli bassi, e dunque non raggiungerà mai determinate conoscenze, appannaggio dei pochi che raggiungeranno gli alti livelli;

2) quelli che appaiono come sette vere a proprie, poiché sono destinate soltanto ai rampolli delle grandi famiglie miliardarie o a personaggi “scelti”. In tal caso il personaggio sarà chiamato ad aderirvi come fosse un “eletto”, ad esempio ricevendo una lettera da chi ha creato la setta.

In quest’ultimo caso, i riti talvolta sarebbero agghiaccianti, simili a quelli satanici. Ad esempio, nel gruppo chiamato Skull & Bones gli iniziati dovrebbero masturbarsi nudi in una bara, e successivamente subirebbero anche violenze verbali e fisiche, dovendo lottare nel fango e a subire violenze con altri adepti fino allo sfinimento. Si tratterebbe di tecniche elaborate dalla Cia al fine di indebolire il soggetto attraverso una serie di atti che lo piegheranno fisicamente e mentalmente. Agli adepti verrebbe anche inculcata l’idea di essere superiori e di avere la “missione” di dominare sugli altri. Essi subirebbero dunque umiliazioni sessuali, ma al contempo verrebbero abituati ad esaltare il proprio ego umiliato, per sopperire alla bassa autostima stimolata dalle umiliazioni. Questi rituali non sarebbero casuali, ma creati per influenzare gli adepti in un determinato modo. L’obiettivo sarebbe quello di far emergere aspetti del sé distruttivo, in modo tale che emozionalmente e mentalmente la persona possa diventare più incline a mentire, ad ingannare e a commettere azioni criminali. E’ come “programmare la mente” ai crimini che dovranno commettere quando saliranno al potere. Essi dovranno commetterli non soltanto senza alcun rimorso ma addirittura credendo che ciò sia giusto, e per poter raggiungere questo livello di mistificazione occorre una sorta di percorso “esoterico” atto a manipolare la mente a tal punto da produrre questo effetto. I riti praticati in questi gruppi misterici sono traumatizzanti e violenti, e addirittura per essere resi più agghiaccianti sarebbero utilizzate urla di sottofondo. Questi riti sarebbero collegati a simbologie di vario genere, e servirebbero anche a creare affiliazione a realtà false, per disorientare l’esistenza. Nelle società segrete massoniche viene anche creato un clima di unità e “fratellanza” molto forte, come se gli adepti fossero legati da qualcosa di importante e fondamentale per la loro esistenza. La stessa cosa avviene nella mafia. Sembrano cose talmente assurde da non poter essere vere, ma le prove e le testimonianze a sostegno di ciò sono ormai così numerose che ignorarle significherebbe agire come i personaggi di regime, che vedono soltanto quello che viene detto loro di vedere. Storici come Paolo Mieli direbbero che tutto è casuale, che è casuale che quasi tutte le più importanti autorità inglesi e statunitensi siano membri di alto grado della massoneria, o che addirittura nel 2004, entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti appartenessero alla società segreta Skull & Bones (teschio e ossa – detta anche “Fratellanza della morte”). La Skull & Bones fu fondata per “formare” l’èlite di potere statunitense, all’Università di Yale nel 1832, ad opera di William Huntinton Russell, che era colui che all’epoca si occupava della produzione e del commercio di oppio. Questa setta, a detta di molti, praticherebbe rituali simili a quelli praticati nel satanismo. La giornalista Alexandra Robbins è riuscita ad intervistare diversi adepti, ricavando un’immagine della setta a dir poco sconcertante. Gli adepti si riunirebbero in un luogo chiamato “the Tomb” (la Tomba), luogo in cui si svolgerebbero i riti. Il marchio della setta appare in molti oggetti posseduti da coloro che l’hanno creata o che vi appartenevano (o vi appartengono), come John Pierpont Morgan, David Rockefeller, Henry Stimson, Averell Harriman, i Bush, i Taft, ecc. All’interno della setta viene presentata una realtà gravemente squilibrata, eppure i suoi adepti diventano importanti industriali, dirigenti di grandi banche o altre organizzazioni importanti, o addirittura presidenti o consiglieri di presidenti. I membri della setta sono soltanto poche centinaia, reclutati fra le più importanti famiglie miliardarie statunitensi. La Robbins, nel libro “Secrets of the Tomb” descrive alcuni riti che appaiono come un incrocio fra il carnevalesco e il paradossale, che meriterebbero una grossa risata, se non ci fossero risvolti tremendamente seri. Ad esempio, il giovane Bush, nel rito di iniziazione, sarebbe stato incappucciato e condotto da 11 patriarchi della confraternita travestiti come fosse carnevale: uno da Elihu Yale (fondatore dell’Università), uno da Papa, uno da diavolo, ecc. In questo clima farsesco l’iniziato doveva raccontare la propria “storia sessuale”, dopodichè sarebbe dovuto entrare nudo in una bara per masturbarsi. Il tutto veniva abbeverato da quantità esorbitanti di alcolici. Ma secondo la Robbins tutto questo fare settario e bizzarro sarebbe “normale” negli ambienti dei miliardari statunitensi. Ella dichiara: “I più ricchi americani si comportano allo stesso modo quando partecipano a raduni esclusivi come quello che si tiene ogni anno a Sun Valley in Idaho”. Considerato che si tratta di persone che hanno nelle loro mani il destino di milioni di persone, c’è proprio da stare tranquilli…Sia Kerry che Bush, candidati alla presidenza nel 2004, appartenevano alla setta Skull & Bones, e risposero imbarazzati quando un giornalista chiese loro se appartenevano alla setta e quali fossero i principi del gruppo. Bush ammise di appartenere alla setta e alle ulteriori domande rispose: “è così segreto che non possiamo parlarne”. Kerry rispose in modo analogo, ammettendo la sua affiliazione: “non (posso dire) molto perché è un segreto”. Due persone che aspirano a ricoprire una carica politica importantissima che confessano di avere “segreti” da rispettare, che non sono cose che riguardano fatti privati, ma un’affiliazione occulta. Giurare di non rivelare qualcosa all’interno di una setta abitua ad un comportamento poco trasparente, assai pericoloso quando si tratta di ricoprire cariche di potere. La loro fedeltà alla setta avrebbe sovrastato la necessità di agire per il bene del popolo, ponendo il proprio giuramento massonico al di sopra della fedeltà alla nazione. Come diceva Joseph Pulitzer: «Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza”. Queste sette impongono il giuramento di “obbedienza totale” e segretezza, assoggettando così la persona al gruppo. Come nel caso della mafia, non si può disobbedire, svelare segreti o uscire dalla setta senza pagare un prezzo molto alto. Le persone che fuoriescono dal controllo saranno giudicate da appositi tribunali che prevedono anche la pena di morte. Oltre al gruppo Skull & Bones ci sarebbero molte altre sette di tipo analogo, come la cosiddetta “Società Boema” che si riunirebbe in California nelle ultime due settimane di luglio, praticando riti satanici che prevedono un’invocazione fatta ad una statua che rappresenta un gufo alto circa 7 metri. Parteciperebbero al rito parecchie importanti autorità, capi di Stato, industriali, ex presidenti statunitensi, ecc. Queste persone vestirebbero con una tunica con relativo cappuccio, ovvero la stessa veste indossata dagli adepti del Ku Klux Klan. Di fatto, negli Usa quasi tutti i presidenti e i vicepresidenti, molti senatori e deputati, giudici e governatori sono massoni. Questo può essere considerato come casuale da persone dotate di razionalità? E’ massone di alto livello l’ex capo di governo inglese Tony Blair, egli è membro della Loggia massonica di Studholme (Londra). La stessa regina sarebbe la “Patrona della massoneria Internazionale”, come un capo su tutti i massoni di alto livello. Di tanto in tanto riunirebbe tali personaggi a Drewery Lane (Londra). Altri membri della Corona inglese, come il Duca di Edimburgo, sono membri di alto grado della massoneria. Il deputato inglese Chris Mullins, attraverso un comitato d’inchiesta scoprì che molte autorità in seno alle forze dell’ordine e alla giustizia erano affiliate a sette segrete. L’agente dell’Fbi ora in pensione, Ted Gunderson, che si occupava di investigare su culti e sette sataniche, scoprì attraverso varie fonti che molti giudici, avvocati, attori, sportivi, medici, deputati e senatori, erano affilati a sette di tipo massonico-satanico. Anche importanti capi di governo del passato, come Winston Churchill, erano massoni di alto grado. I gradi più alti sono di solito raggiunti soltanto da persone di sangue aristocratico o da alti ufficiali delle forze armate. Le persone che appartengono alle sette destinate soltanto a persone di “alto rango” vengono incoraggiate a sposarsi fra loro, per creare maggiore coesione tra i gruppi e per evitare che queste persone entrino a contatto con altre realtà che le “risveglino” e facciano scegliere loro altri percorsi più “normali”. Tutto questo serve anche ad escludere gli “intrusi” dal potere, creando in tal modo un sistema controllato dall’alto e prevedibile. Gli ambienti settari degli stegocrati sono intrisi di un’alta valenza emotiva, che è un misto fra onnipotenza, sete di potere, avidità e paura. Si crea una rappresentazione della realtà alterata che può confondere fra ciò che è vero e ciò che è soltanto finzione. Si crea uno stato emotivo talmente alterato da non permettere alle vittime di avere una vita emotiva indipendente, o di uscire dal giro senza pagare un prezzo molto alto. Molte di queste persone vivranno per tutta la vita esistenze emotivamente alterate, passeranno fra una festa, un rito e un impegno politico ( finanziario o economico) esibendo sorrisi stereotipati o falsi entusiasmi. Racconteranno cose assurde sul “nemico terrorista”, sulla “lotta del bene sul male”, o sul fatto che gli Usa sarebbero “una grande democrazia”. Il gruppo di stegocrati sa che l’unico modo per continuare ad avere potere è quello di controllare la mente di chi avrà ruoli di potere, e un modo efficace, evidentemente, è quello di controllarli attraverso gruppi massonici e satanici. Si tratterebbe dunque di utilizzare tali gruppi come uno strumento di potere sulle menti degli adepti. I capi massonici vengono chiamati “maestri occulti” o “sovrani”. Spiega Jordan Maxwell: “Gli ordini pre-massonici europei sostenevano che ci fosse una piccola teoria, una piccola entità spirituale che forniva una conoscenza per quello che i massoni chiamavano “i nostri maestri occulti”… si riferivano a chi guidava la massoneria mondiale… loro non sanno chi siano. Nessun massone sa realmente chi realmente guida l’organizzazione mondiale. Li chiamano “i nostri maestri occulti”. Molti studiosi ritengono che i riti satanici e massonici siano molto più simili di quello che si crede. Secondo queste persone il Dio dei Massoni avrebbe un nome impronunciabile, ovvero sarebbe lo stesso Dio dei satanisti. La maggior parte dei massoni smentisce questo, ma alcuni, come Albert Pike, lo hanno ammesso. Da laici sarebbe legittimo pensare che i “demoni” da loro adorati non sono altro che aspetti del sé inquietanti, ovvero la cosiddetta “Ombra” descritta da Jung. Tali riti potrebbero dunque avere lo scopo di alimentare questi aspetti per renderli più forti o più presenti, allo scopo di far diventare le persone capaci di comportamenti che altrimenti non avrebbero. In altre parole, si tratta di rafforzare i potenziali criminali al fine di forgiare persone che si comportino in modo utile al sistema, agendo sulla loro mente e instillando convinzioni mistiche o esoteriche che condizioneranno le loro scelte e il loro comportamento. Per questo di solito i riti posseggono un certo livello di violenza, e abituano a calpestare la dignità umana. Qui non si vuole certo sottovalutare il potere del pensiero. Come i fisici più all’avanguardia ci insegnano, il pensiero è energia che può creare demoni e qualsivoglia realtà, rafforzando alcuni aspetti della psiche e indebolendone altri.

I Fratelli d’Italia chiamati a fregare l’Italia. La Massoneria propriamente detta, ovvero quella che permette anche a decine di migliaia di persone di aderire, dal punto di vista ideologico appare come un calderone in cui c’è tutto e il contrario di tutto: si propone come “tollerante” ma di fatto rappresenta un modo efficace per controllare le menti; si presenta come “umanistica” ma risulta soprattutto un modo per spogliare gli umani della loro umanità. Le logge massoniche servono, nonostante il volto rispettabile che può essere dato, non solo a controllare le persone, ma anche ad organizzare e ad attuare una serie di crimini di vario genere: corruzione di funzionari, attentati terroristici, colpi di Stato, eliminazione di personaggi scomodi, ecc.. Anche se le società segrete possono acquisire nomi diversi, esse sono controllate da un unico centro di potere, che fa capo agli stegocrati, ovvero a coloro che hanno nelle loro mani il potere finanziario, economico, politico e mediatico. Credere che queste associazioni possano avere scopi positivi sarebbe come credere che le banche operano per il bene dei popoli. Come tutte le creazioni dell’attuale gruppo di potere, la natura evidente della massoneria risulta l’opposto rispetto alla sua verità, ma la maggior parte degli adepti non se ne accorge, ignorando ciò che avviene ai livelli più elevati. Certamente esistono adepti che non sono affatto criminali, e che, anzi, sono persone per bene che credono con sincerità ad un presunto scopo positivo dell’associazione. Ma non dobbiamo dimenticare che se oggi ci troviamo nella situazione in cui siamo è per la credulità e l’ignoranza (intesa come non conoscenza del vero sistema attuale) di molte persone. Non essere capaci di riconoscere i tanti tranelli messi in atto dal gruppo dominante costa caro a tutti. La maggior parte delle persone che aderiscono alla massoneria crede che i precetti della massoneria siano quelli che vengono loro insegnati, e alcuni ignorano persino che esistano alti livelli in cui i principi propagandati si ribaltano. Quasi tutti gli adepti non vanno oltre il terzo o quarto livello. Evidentemente, c’è una doppia faccia nella massoneria: per la maggior parte è un’associazione storica con principi “liberali” e “umanistici”, ma per chi la crea e la manovra è soltanto una fonte per controllare, formare e dirigere coloro che potranno avere ruoli importanti nei settori chiave del potere. Ad oggi, la massoneria è un argomento poco trattato, che viene ammantato di mistero, come se non fosse possibile capire che molte autorità e personaggi che ricoprono ruoli finanziari, economici, mediatici e politici importanti sono quasi sempre massoni di grado elevato. Anche la mafia è stata per molto tempo ammantata da un alone di mistero, anche quando sapevano tutti che esisteva e quale ruolo avesse. Esiste un forte legame fra mafia e massoneria. I vertici mafiosi, per poter meglio coordinare alcune operazioni, sono strettamente collegati ai servizi segreti come la Cia e l’MI6, e alle logge massoniche. L’Italia è stata messa sotto il controllo della massoneria sin dall’Unità, attraverso personaggi come Garibaldi, che era un noto massone di alto livello. Garibaldi ebbe il 33° grado della massoneria, che gli inglesi concedevano ai dittatori Sud Americani o a coloro che si mettevano completamente ai loro servigi. La spedizione dei Mille fu finanziata dalla massoneria inglese con somme enormi, parecchi milioni di dollari attuali. In realtà la Corona inglese ha utilizzato la massoneria, non per unire l’Italia, come è stato detto, ma per imporre a tutti gli italiani il potere (controllato) dei “Fratelli d’Italia”. Lo storico Salvatore Lupo scrisse che “durante la cospirazione risorgimentale esisteva una rete clandestina ispirata alla massoneria”. Il pentito Antonino Calderone raccontò anche che la massoneria fungeva da canale per stabilire i contatti fra funzionari statali e mafiosi. Secondo il giudice Agostino Cordova la massoneria è da ritenere “‘il tessuto connettivo della gestione del potere”. All’interno di essa si trovano i personaggi più disonesti e corrotti. Negli anni Novanta, in Italia, c’erano 146 massoni indagati per mafia e reati politici, 83 dei quali accusati di riciclaggio di titoli rubati. Fra gli iscritti alle logge figuravano anche diversi poliziotti e carabinieri, accusati da Cordova di “impedire le indagini”. Secondo il pentito Leonardo Messina, la collaborazione fra mafiosi e massoneria non è affatto rara, al contrario, quasi tutti i capimafia frequentano assiduamente le logge massoniche, e l’intero vertice di Cosa Nostra è affiliato alla massoneria. Mutolo parlò delle logge come di “un punto d’incontro per tutti”. Ciò fa emergere la consonanza di interessi, di ruoli e di metodi. La stessa strategia di mascherare, occultare o nascondere appartiene sia alla mafia che ai servizi segreti e alle logge massoniche. Si parla di “servizi deviati” o di massoneria “deviata” per proteggere un presunto ruolo corretto di queste organizzazioni, ma in realtà esse sono per loro natura inclini al segreto e al controllo. Se operano per nascondere significa che hanno qualcosa da nascondere. Pur dovendo constatare gli stretti legami fra massoneria e mafia, occorre fare alcune distinzioni. La mafia, avendo come scopo anche quello di soggiogare la popolazione, non può essere completamente occulta, al contrario, essa deve dare chiari segnali alla popolazione della sua esistenza. Tutti sanno chi sono i mafiosi e dove abitano, e molti sono costretti a prendere atto degli omicidi commessi dalle cosche. I mafiosi continuano ad abitare nelle zone di origine, anche quando ormai sono assai noti, gli unici a non sapere chi sono e dove abitano sono le istituzioni, dato che non li fanno arrestare. Molte famiglie mafiose, come ad esempio quella dei Corleonesi, erano state identificate già negli anni Cinquanta, ma soltanto nel periodo del pool si ebbe una vera strategia per abbattere il loro potere. E’ vero che per molti anni le autorità hanno cercato di negare l’esistenza della mafia, ma nel sud le persone sapevano benissimo che c’era, e dovevano saperlo per esserne soggiogati, o perché erano costrette a pagare il pizzo. Persone come Falcone e Borsellino avevano capito i legami fra mafia e massoneria, e per questo sono state condannate a morte. Più recentemente, anche magistrati come De Magistris e Woodcock hanno scoperto stretti legami fra politici, mafiosi e massoni. Talvolta un personaggio può appartenere a tutte e tre le categorie. Esistono reti di grave corruzione scoperte da De Magistris, che per questo è stato messo nelle condizioni di non poter continuare le sue indagini. La massoneria italiana raccoglie molti personaggi del panorama finanziario, economico, mediatico e politico italiano, in totale segreto, anche se per le nostre leggi è illegale creare associazioni segrete. Come molti sanno, in Italia è stato realizzato il piano della cosiddetta Loggia Propaganda 2, per evitare che gli italiani pretendessero una maggiore apertura democratica. La Legge n.17 del 25 gennaio 1982 (detta Legge Anselmi), fu approvata in seguito allo scandalo della Loggia Propaganda Due, con lo scopo di sciogliere la P2 e rendere illegali tutte le associazioni segrete con obiettivi analoghi. La legge ribadiva un principio presente nella Costituzione Italiana, al secondo comma dell’articolo 18, che considera illegali le associazioni segrete con scopi politici e a carattere militare. Questo faceva apparire il pericolo come scampato e dava l’idea che ormai appartenesse al passato. Di fatto però non si fece nulla per impedire che salissero al potere i personaggi che agivano per realizzare il piano della P2. Il sistema agì come un prestigiatore: mostrava una realtà che non esisteva, mentre ne realizzava un’altra, proprio quella che faceva apparire come smascherata e distrutta. Sotto i nostri occhi ci è stata data la fregatura. Secondo la giornalista Concita De Gregorio, che ha intervistato Licio Gelli, la “strana” attività di questo inquietante personaggio non appartiene certo al passato. Spiega la De Gregorio: “(Gelli) è un uomo… (che) lavora a pieno ritmo, ha vari uffici in cui riceve ospiti ogni giorno… ha un’agenda fittissima e una serie di segretarie che lavorano per lui a tempo pieno. Io l’ho incontrato a villa Wanda, ad Arezzo, nella sua abitazione… è in grande attività, riceve personalità straniere, politici, imprenditori… per la gran parte italiani, ed è un uomo… che ha come un crocevia di affari internazionali… stupisce questo disinteresse che c’è attorno alla figura di Gelli, che è come se appartenesse al passato, in realtà appartiene al presente, è lì e lavora… il suo piano si è realizzato, nell’intervista… ha parlato di uomini politici attualmente in carica, fa dei nomi che sono ancora quelli, la classe politica di allora è la stessa di oggi, è difficile immaginare che anche i progetti, i programmi siano cambiati… alla fine il progetto realizzato è quello di Gelli”. Non è difficile immaginare di che “lavoro” si tratti, visti i precedenti, e nemmeno i personaggi che chiedono le sue “consulenze”. Del resto, lo stesso Gelli non nega il potere che la loggia che egli “dirigeva” ha avuto nel creare, com’era nei piani, un sistema dittatoriale dotato di parvenza democratica. Dunque, non c’è dubbio che anche in Italia i gruppi massonici hanno esercitato ed esercitano un potere antidemocratico, attraverso la creazione di una vasta rete sotterranea che riunisce i personaggi più importanti in molti settori, per “affiliarli” e controllarli. Chi è fedele all’affiliazione è colui che ha più probabilità di avere fama, soldi e potere. Chi è affiliato è una pedina (più o meno importante) controllabile, fedele e manovrabile. Il principio di segretezza della massoneria permette di agire in modo illegale e criminale senza essere perseguiti, e spesso senza far capire chi sono i responsabili e come abbiano agito. Come denunciò John Kennedy poco tempo prima di essere ucciso: “La parola ‘segretezza’ è ripugnante in una società aperta e libera, e noi come popolo ci siamo opposti, intrinsecamente e storicamente, alle società segrete, ai giuramenti segreti, e alle riunioni segrete. Siamo di fronte, in tutto il mondo, ad una cospirazione monolitica e spietata, basata soprattutto su mezzi segreti per espandere la sua sfera d’influenza”. La segretezza protegge le attività criminali delle autorità, e dunque conferisce un potere assoluto ad alcune persone, che potranno commettere qualsiasi crimine senza essere perseguite. Quando viene sollevato seriamente il problema della massoneria e della segretezza, alcune autorità intervistate ci scherzano sopra come a prendere in giro e ad additare come bizzarre tutte le persone che si accorgono di queste realtà. Deridere, etichettare come “cospirazionisti” e “paranoici” o trattare come persone strane e sospettose, sono metodi per far cadere nel vuoto le accuse di chi si accorge che c’è un gruppo di potere che utilizza metodi criminali per continuare a dominare. Cercando di screditare coloro che sollevano il problema cercano anche di evitare di fare la dovuta chiarezza. Anche le autorità vaticane si valgono di un’organizzazione che ricalca la struttura e le funzioni tipiche di un’organizzazione massonica, ovvero l’Opus Dei. Per molti autori si tratta di un centro potentissimo, che, insieme alla Curia Romana si occuperebbe di proteggere ed estendere il potere e gli affari del Vaticano, anche attraverso mezzi di arricchimento finanziario ed eliminando tutto ciò che potrebbe intralciare. L’Opus Dei è diffusa in molti paesi del mondo, e si occuperebbe anche di controllare le cariche ecclesiali di alto grado. Secondo alcuni antropologi i culti misterici contengono ideologie che mirano al potere assoggettando persone che poi saranno utilizzate per i propri scopi. Il satanismo appartiene a questa categoria, come anche le sette segrete che professano altre finalità. Ogni tanto alcuni personaggi, come l’ex Gran Maestro Giuliano di Bernardo, denunciano aspetti strani della massoneria, ma queste persone parlano di “massoneria deviata”, facendo credere che la massoneria in quanto tale sarebbe un’organizzazione accettabile. Si trascura di parlare degli aspetti perlomeno strani di questa organizzazione. Non si spiega il persistere di un’organizzazione segreta che nel passato dichiarava di avere motivazioni “cospirative” contro i regimi dittatoriali e assolutistici dell’epoca. Oggi, che ci dicono di essere in una democrazia, quali scopi avrebbe la segretezza? Quale scopo avrebbe la ritualistica, se non si tratta di una religione? Perché gli alti gradi vengono tenuti nascosti alla maggior parte degli stessi adepti? Perché aderiscono alla massoneria generali, giudici, alte cariche dell’esercito, finanzieri, imprenditori e politici fra i più importanti? Quale sarebbe lo scopo di ciò all’interno di una presunta “democrazia”? E perché la maggior parte di essi nasconde di essere massone, specie se si tratta di persone influenti? Esistono, com’è noto, segni e simboli che svelano l’appartenenza alla massoneria, alcuni dei quali sono riconosciuti soltanto dagli stessi massoni, e fungono da segnali segreti per ricondurre persone di diversa nazionalità o sconosciute fra loro ad uno stesso “territorio”. Esistono segnali scambiati mentre si porge la mano, speciali saluti, oppure piccoli oggetti (anelli, spillette, ecc.) che possono essere posseduti soltanto da massoni. La dottoressa antropologa Cecilia Gatto Trocchi scoprì come personaggi che utilizzavano diverse ideologie poi convergevano con disinvoltura nella massoneria o nei culti esoterici: “Ho scoperto tutta una lunga corrente di persone che sono passate dal marxismo all’esoterismo… nelle logge si legge l’inno a Satana di Carducci… è una visione spiritualista che si contrappone a quella cristiana”. Intervista alla Prof.ssa Cecilia Gatto Trocchi prima che venisse trovata morta “suicida”. Questo proverebbe la funzione manipolatrice delle ideologie dominanti, al pari con i culti misterici di natura massonica. Che razza di persone sono quelle che si mettono nude in una bara, che fanno pratiche sessuali davanti al gruppo o si fanno umiliare sessualmente? Che promettono segretezza e si fanno manipolare mentalmente da un presunto “maestro occulto”? Cosa penseremmo comunemente di persone che si comportano così? Come minimo che hanno qualcosa che non quadra e che dovrebbero farsi seguire da qualcuno, eppure queste persone non soltanto passano per essere “normali”, ma addirittura ricoprono cariche importantissime. Le domande sono: possiamo continuare ad accettare che questo genere di persone governi il mondo? Perché mai dovremmo accettare che persone così squilibrate esercitino un potere enorme sui popoli del mondo? Ci si augura che molte persone non cedano all’inganno di credere che queste cose non siano vere o che chi le solleva è solo un “paranoico complottista”. Non è chi denuncia tutto questo ad essere squilibrato, ma chi lo crea e lo pratica. Per quanto queste cose appaiano assurde e incredibili, purtroppo sono vere: siamo imprigionati in un sistema guidato da persone mentalmente compromesse, che si spacciano per autorevoli personaggi, e le nostre autorità, essendo loro complici, ce le presentano come tali. Chi volesse approfondire l’argomento troverà molti libri di notevole qualità, che chissà perché non vengono mai discussi nei salotti televisivi. L’unica strada percorribile è quella di divenire coscienti della vera realtà, e rigettare completamente tutti gli attuali criminali al potere. Conoscere la natura dell’attuale potere criminale è il solo modo per poter diventare consapevoli e poterlo distruggere. Come qualcuno ha detto, non c’è libertà finché si è soggetti all’inganno.

Perchè leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

SE IL NEMICO NON LO PUOI BATTERE, FATTELO AMICO!

Per non farsi stritolare dai poteri forti la soluzione migliore è entrare a farne parte.

Istruzioni per entrare nella massoneria, scrive “L’Inkiesta”. Vi siete stancati di subire le decisioni dei poteri forti? Cambiate tutto ed entrate anche voi nei poteri forti. Se volete partecipare alle macchinazioni che stabiliscono le sorti del mondo (come impoverire Paesi all’improvviso, creare scandali, simulare crisi economiche, intrecciare complotti e affari), allora dovete entrare nella massoneria. Scoprirete forse che non funziona proprio così, ma almeno vi farete un nuovo giro di amici, che non fa mai male. Come si fa a diventare massone? Non è semplice. Prima di tutto bisogna scegliere la loggia che si preferisce. Esistono Riti diversi (scozzese antico e accettato, di York, di Memphis, etc.), organizzazioni varie, Grandi Orienti. Sceglietene uno a vostro piacimento. In genere è meglio scegliere qualcosa vicino a casa, anche solo per motivi pratici. A differenza di altre organizzazioni, non ci sono tessere né moduli (ma ci sono quote, anche alte, di iscrizione), anche perché non vengono accettate tutte le persone che vorrebbero entrare. C’è una selezione all’ingresso. Come spiega il Gran Maestro del Grande Oriente Italiano, «il percorso che porta all’iniziazione può durare mesi e anni». Per cominciare, però, pare che basti mandare una mail. Poi verranno loro a controllare la vostra moralità, verificare se siete interessati davvero (e non dei perditempo), verificare la vostra tenuta morale e spirituale. Subito dopo, presentare un certificato con i carichi pendenti e il casellario giudiziale. Devono essere puliti. Il nome viene sottoposto al giudizio degli altri membri, che dovranno giudicare sull’ammissione. Una pallina bianca equivale a un sì, una pallina nera equivale al no. Chi vota no poi deve spiegare i motivi del suo rifiuto. Se ci sono più di una pallina nera, la richiesta viene sospesa o addirittura rifiutata. Come vi dicevamo, non è così semplice. La massoneria, a parte le teorie e i complottismi, avrebbe come scopo “il perfezionamento dell’uomo”. Gli incontri sarebbero finalizzati a discutere delle tematiche più importanti per l’umanità, da un punto di vista particolare. Quando arriverà il momento dell’iniziazione, ci saranno rituali diversi: di sicuro ci sarà un breve periodo di isolamento, nel quale si riflette sul passo che sta per compiersi. Poi, arriverà il momento della proclamazione. Lasciamo qui, per descriverlo, spazio a un grande autore come Lev Tolstoj, che racconta l’iniziazione di Pierre Bezuchov in Guerra e Pace: Poco dopo avanzò nella stanza buia, non più il retore di prima, ma il suo mallevadore Willarski, che Pierre riconobbe dalla voce. A nuove domande circa la fermezza del suo proposito Pierre rispose: «Sì, sì, sono d'accordo.» E con un sorriso raggiante infantile, con il grasso petto scoperto, procedendo a passi timidi e ineguali con un piede scalzo e l'altro calzato, si avvicinò alla spada di Willarski puntata contro il suo petto nudo. Dalla stanza lo condussero lungo certi corridoi, facendogli fare varie giravolte avanti e indietro, e infine lo accompagnarono alla porta della loggia. Willarski tossicchiò e gli venne risposto con i colpi massonici di martello. La porta si aprì davanti a loro. Una voce di basso (gli occhi di Pierre erano sempre bendati) gli fece varie domande: chi fosse, dove e quando fosse nato eccetera. Poi loguidarono in qualche altro posto senza levargli la benda dagli occhi e, mentre Pierre camminava, gli parlarono sotto forma allegorica delle fatiche del suo viaggio, della santa amicizia, dell'Eterno Architetto dell'universo, del coraggio col quale avrebbe dovuto sopportare fatiche e pericoli. Durante questa peregrinazione Pierre notò che a volte lo chiamavano il cercatore, a volte il sofferente, a volte il postulante, e nel far questo battevano in modo diverso con i martelli e con le spade. Mentre lo guidavano verso un punto ignoto, si accorse che fra le sue guide si era prodotto un certo turbamento, una certa confusione. Sentì che sottovoce si accendeva tra loro una discussione, e che uno di essi insisteva affinché egli venisse fatto passare su un tappeto. Dopo di che gli presero la mano destra, la posarono su qualcosa e gli ordinarono di appoggiare con la sinistra un compasso sul capezzolo sinistro; infine Pierre dovette pronunciare il giuramento di fedeltà alle leggi dell'ordine, ripetendo le parole che qualcuno leggeva. Poi le candele vennero spente, fu acceso dell'alcool - come Pierre poté indovinare dall'odore - e i massoni dissero che avrebbe visto la piccola luce. Tolsero la benda a Pierre, e questi, come in sogno, alla debole luce della fiamma dell'alcool vide alcuni uomini che, in piedi davanti a lui, indossavano grembiuli simili a quelli del retore e tenevano delle spade puntate contro il suo petto. Fra loro ce n'era uno con la camicia bianca insanguinata. Pierre, a quella vista, si protese in avanti col petto verso le spade, affinché queste lo ferissero. Ma le spade si scostarono da lui e quasi subito la benda gli venne rimessa sugli occhi. «Adesso hai visto la piccola luce,» disse una voce. Poi le candele furono di nuovo accese e i massoni dissero che ora Pierre doveva vedere la luce piena; cosicché ancora la benda gli venne levata, mentre all'improvviso più di dieci voci esclamavano: sic transit gloria mundi. A poco a poco Pierre tornava in sé. Cominciò ad osservare la stanza nella quale si trovava e le persone che gli stavano davanti. Intorno a una lunga tavola, ricoperta da qualcosa di nero, sedevano una dozzina di persone, tutte abbigliate come quelle che aveva visto poco prima. Pierre ne riconobbe alcune appartenenti alla buona società di Pietroburgo. Al posto presidenziale era seduto un giovane a lui sconosciuto, con una strana croce sul petto. Alla sua destra sedeva l'abate italiano che Pierre aveva incontrato due anni prima in casa di Anna Pavlovna. C'erano anche un altissimo dignitario e un precettore svizzero che un tempo era stato dai Kuragin. Tutti tacevano in modo solenne, ascoltando le parole del presidente che reggeva nelle mani il martello. Nel muro era incastrata una stella fiammeggiante; da una parte della tavola si vedeva un piccolo arazzo con varie figure; dall'altra, una specie di altare con un Vangelo e un teschio. Intorno alla tavola, poi, c'erano sette grandi candelabri simili a quelli delle chiese. Due fratelli condussero Pierre fino all'altare, gli disposero i piedi ad angolo retto e gli ordinarono di coricarsi, dicendo che egli doveva prosternarsi alle soglie del tempio. «Prima deve ricevere la cazzuola,» sussurrò uno dei fratelli. «Ah, basta, per piacere,» disse un altro. Senza obbedire, Pierre si guardò attorno, smarrito, con i suoi occhi da miope. A un tratto lo colse un dubbio: «Dove sono? Che cosa faccio? Mi stanno forse prendendo in giro?» Ma questo dubbio durò solo un istante. Egli si volse a guardare i volti austeri delle persone che lo circondavano, si ricordò di tutto ciò per cui era passato fino a quel momento, e comprese che non poteva fermarsi a metà strada. Spaventato dal suo stesso dubbio, cercò di risuscitare in sé il sentimento di commozione che aveva provato prima, e si prosternò alle porte del tempio. In effetti quel sentimento di commozione lo assalì con intensità più forte di prima. Quando ormai era a giacere da qualche tempo, gli fu ordinato di alzarsi e gli fecero indossare un grembiule bianco eguale a quello che portavano gli altri; poi gli posero nelle mani una cazzuola e tre paia di guanti, e a questo punto il grande maestro gli rivolse la parola. Gli disse che doveva sforzarsi di non macchiare in alcun modo il biancore di quel grembiule, simbolo della forza e dell'innocenza; poi, a proposito di quell'inspiegabile cazzuola, disse che egli doveva servirsene per purificare il proprio cuore dai vizi e per lisciare con indulgenza il cuore del suo prossimo. Indi, dei primi guanti, di foggia maschile, disse che Pierre ancora non poteva conoscerne il significato, ma doveva tuttavia conservarli; degli altri, pure maschili, dichiarò che avrebbe dovuto indossarli alle adunanze; infine, a proposito dei terzi guanti, femminili, disse: «Amato fratello, anche questi guanti femminili sono a voi destinati. Consegnateli alla donna che stimerete più di ogni altra. Con questo dono convincerete della purezza del vostro cuore colei che eleggerete a degna compagna nell'ordine dei liberi muratori.» Dopo una breve pausa il gran maestro aggiunse: «Ma procura, amato fratello, che codesti guanti non adornino mani impure.» Mentre il gran maestro pronunciava queste ultime parole, parve a Pierre che il presidente si turbasse. Pierre si turbò ancor più, si fece rosso fino al limite delle lacrime, come arrossiscono i bambini, e cominciò a guardarsi attorno con aria inquieta. Ci fu un silenzio imbarazzato, rotto alla fine da uno dei fratelli che, conducendo Pierre presso l'arazzo, cominciò a leggere da un quaderno la spiegazione delle figure che vi apparivano: il sole, la luna, il martello, l'archipendolo, la cazzuola, una pietra grezza, un'altra squadrata a cubo, una colonna, tre finestre eccetera. Poi assegnarono a Pierre il suo posto, gli mostrarono i segni della loggia, gli rivelarono la parola d'ordine per poter entrare, e finalmente gli concessero di sedersi. Il gran maestro prese a leggere lo statuto. Questo statuto era molto lungo e Pierre, per i diversi sentimenti di gioia, di emozione e di vergogna, non era in grado di capire ciò che veniva letto. Pose mente soltanto alle ultime parole dello statuto, che gli restarono impresse nella memoria. «Nei nostri templi non conosciamo altri ranghi,» leggeva il gran maestro, «se non quelli dati dalla virtù e dal vizio. Guardati dall'operare qualsiasi differenza che possa violare l'eguaglianza. Vola in aiuto del fratello, chiunque egli sia; ammaestra chi sbaglia; risolleva chi cade e non nutrire mai ira o inimicizia contro il fratello. Sii affabile e ospitale. Desta in tutti i cuori il fuoco della virtù. Condividi la felicità del prossimo tuo e mai l'invidia offuschi questa pura gioia. Perdona il tuo nemico, non vendicarti di lui se non, forse, facendogli del bene. Adempiendo in tal modo alla legge suprema, tu ritroverai le tracce della grandezza antica da te perduta,» concluse. Poi si alzò in piedi, abbracciò Pierre e lo baciò. Pierre si guardava attorno con gli occhi colmi di lacrime di gioia e non sapeva con quali parole rispondere alle congratulazioni e alle proteste di antica conoscenza di chi lo circondava. Egli non ammetteva nessuna vecchia conoscenza; in tutte quelle persone ravvisava soltanto dei fratelli coi quali ardeva dall'impazienza di mettersi all'opera. Il gran maestro batté un colpo di martello; tutti sedettero ai loro posti, e uno lesse un sermone sulla necessità di essere umili.

I massoni scendono in campo: pronto il partito dei Maestri, scrive “Libero Quotidiano”. Si prepara a scendere in campo il partito dei Massoni. L'annuncio è arrivato a Milano, in occasione della presentazione del libro Massoni, di Gioele Magaldi, Gran Maestro del movimento massonico "Grande Oriente Democratico" (God) . Una presentazione affollata, quella alla Casa della cultura del capoluogo meneghino, nel corso della quale Magaldi ha annunciato la volontà di varare una rete di "massoni progressisti" pronti a scendere in campo con quello che verrà chiamato Movimento Roosvelt. L'obiettivo programmatico è la difesa dei valori storici delle grandi rivoluzioni, francese ed americana. Si tratterà, spiega sempre Magaldi, di una rete "a difesa di un'Italia lontana dalle tecnocrazie europee e che esalterà il ruolo degli individui e della società civile e della pubblica opinione". Rispondendo al direttore di Affaritaliani.it, Magaldi ha rimarcato: "Sto fondando un movimento meta-partitico ma che è anche politico. L'obiettivo non è creare ulteriori divisioni ma riunire ciò che è sparso. E se riusciamo a migliorare i partiti esistenti bene, altrimenti se ciò non accade nel giro di 2, 3 o 4 anni non escludo di trasformare questa cosa in un vero soggetto politico". Un progetto a medio-lungo termine, dunque, al termine del quale la massoneria potrebbe scendere in campo con il suo partito. Il Gran Maestro aggiunge: "Non ho l'urgenza di fare un partito politico, ma l'orizzonte medio dei partiti attuali è quello di coltivare piccole ambizioni personali, mentre la nostra ambizione è quella collettiva di tante persone. C'è anche una certa spavalderia garibaldina che fa bene, d'altronde - sottolinea - i garibaldini sono stati tutti eroi. Il mio sogno - conclude - è quello di concorrere a declinare in modo globale i diritti universali e quello di promuovere una democrazia sostanziale in Italia, in Europa e nel mondo". Nel corso della presentazione milanese del libro, Magaldi, sollecitato dalle domande dei relatori e del pubblico, ha riletto la storia della Massoneria a partire dal '700 e dalla Rivoluzione francese. Nel suo discorso, ha snocciolato una serie di nomi definiti inaspettatamente "fratelli": tra questi Papa Giovanni e Mario Draghi, ma anche Giorgio Napolitano e Barack Obama. E ancora Vladimir Putin e Margaret Thatcher, Angela Merkel e il califfo del terrore, Abu Bakr Al-Baghdadi, Francois Hollande, Christine Lagarde e addirittura Gandhi e Martin Luther King.

Massoneria, il libro choc di Gioele Magaldi: "Società a responsabilità illimitata", scrive “Libero Quotidiano”. Sarà presentato domani a Roma il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, "Massoni società a responsabilità illimitata" a cura di Gioele Magaldi. L'opera, che ha tutte le carte in regola per figurare come il manoscritto più sconcertante, inaspettato e comunque disorientate dell'anno, esce con il seguente sottotitolo: "La scoperta delle Ur-Lodges", come recita il font bianco su copertina violacea edita da Chiarelettere Editore. Ma cosa sono le Ur-lodges? "Superlogge sovranazionali che vantano l'affiliazione di presidenti, banchieri, industriali" in cui "nessuno sfugge a questi cenacoli" a dirla con Il Fatto quotidiano di oggi che, proprio sul cartaceo di questa mattina, mercoledì 19 novembre, analizza l'opera di Magaldi, presentato dal quotidiano di Antonio Padellaro come "libero muratore di matrice progressista". Ad essere particolarmente interessante è proprio il capitolo finale del libro in cui è presente un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni di queste fantomatiche "Ur-Lodges". Uno di loro, racconta: "Per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi". Mario Draghi, governatore della Bce, sarebbe, a sentire quel che dice Magaldi "affiliato a ben cinque superlogge." Poi nella parte finale del manoscritto,  l'autore snocciola, l'elenco degli italiani inseriti nelle Ur-Lodges, in cui, oltre al già citato Mario Draghi, figurerebbero "Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago".

Massoneria, libro shock del gran maestro Magaldi: “Ecco i potenti nelle logge”. Centinaia di nomi, tra cui Napolitano, Obama, Draghi, Bin Laden e Papa Giovanni XXIII. Tutti "fratelli" secondo l'autore del volume presentato domani a Roma. Che però dice: "Le prove le esibiscono soltanto se me le chiede il giudice", scrivono Gianni Barbacetto e Fabrizio DEsposito su “Il Fatto Quotidiano”. Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Gioele Magaldi, quarantenne libero muratore di matrice progressista, ha consegnato all’editore Chiarelettere (che figura tra gli azionisti di questo giornale) un manoscritto sconcertante e che sarà presentato domani sera alle 21 a Roma, a Fandango Incontro. Il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, è intitolato Massoni società a responsabilità illimitata, ma è nel sottotitolo la chiave di tutto: La scoperta delle Ur-Lodges. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico, in polemica con il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro Paese, in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli. I documenti che mancano sono a Londra, Parigi e New York. Prima però di addentrarci nelle rivelazioni clamorose di Massoni è d’obbligo precisare, come fa Laura Maragnani, giornalista di Panorama che ha collaborato con Magaldi e ha scritto una lunga prefazione, che l’autore non inserisce alcuna prova o documento a sostegno del suo libro, frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti depositati in studi legali a Londra, Parigi e New York. Detto questo, andiamo al dunque non senza aver specificato che tra le superlogge progressiste la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha. Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges e finanche i vertici della fu Unione Sovietica, a partire da Lenin per terminare a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario. In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: “Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi. E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti”. Altri affiliati: Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie. “Il vero potere è massone”. E descritto nelle pagine di Magaldi spaventa e fa rizzare i capelli in testa. Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici, persino Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista. L’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: “Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi”. Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Ecco l’elenco degli italiani nelle Ur-Lodges: Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago. Bisognerà aspettare le “contestazioni”, per vedere le carte di Magaldi.

Ida Magli: "L'Europa è un continente inventato, è il trionfo della massoneria", scrive “Libero Quotidiano”. Nel 2015 compirà 90 anni, gli ultimi 20 passati ad attaccare l'idea e la realizzazione dell'Europa unita. Lei è Ida Magli, la celebre antropologa che 17 anni fa, con il saggio Contro L'Europa, suscitò parecchio scalpore. Ora torna a ribadire le sue accuse in una lunga intervista concessa ad Italia Oggi. C'è chi considera la Maglia una Cassandra, chi invece - per mutuare un termine renziano - una sorta di gufo. Di sicuro, lei, le idee le ha chiare. Tempo fa la Magli chiedeva a gran voce lo stop all'unificazione, ma "oggi - spiega - è difficile. A causa dell'ignoranza tecnica dei politici che, mi creda, è brutale". Secondo l'antropologa, infatti, "c'è un'indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi", ossia "il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica". E oggi, continua, "con l'euro siamo tutti più poveri". La Magli, prima ancora che contro la moneta unica, puntava il dito contro il concetto di Europa unita "perché era un progetto sbagliato. L'Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono". E ancora: "Il punto è che non esiste un'idea di Europa. Guardi, ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo". L'unificazione, insomma, è stata un errore poiché "non era possibile farla se non perdendo tutte le ricchezze europee". La Magli prosegue: "Si pensa di poter fare l'unità così. Così come si è pensato di fare lo stesso con la moneta unica, dimenticando che la moneta è lo strumento di un popolo e non la si può imporre fuori dall'economia dei singoli Stati". La Magli, quindi, nell'intervista ritorna su uno dei concetti che più le stanno a cuore, ossia l'idea che l'Europa unita altro non si che un progetto massonico. "Certo - rincara - e ora c'è un libro di un massone, Gioele Magaldi, che lo conferma. L'ho letto e riletto". L'antropologa spiega: "La tesi è la seguente: la massoneria ha vinto, tutti i suoi progetti sono stati realizzati, ora esca allo scoperto e lavori con trasparenza". Una massoneria che per la Magli passa da Romano Prodi e fino ad arrivare a Matteo Renzi e alle sue riforme, imposte dall'Europa e che si rivelano un male per l'Italia: "Le faccio un esempio, tratto dalla Legge di stabilità: la depenalizzazione di alcuni reati". Per la Magli "si vuole l'imbarbarimento degli italiani, dei belgi, degli inglesi". Nell'ultima parte della lunga intervista, dopo l'esplicita stroncatura del premier Renzi, l'antropologa anti-Europa unita dà le pagelle ai politici dell'Italia di oggi. Si parte da Silvio Berlusconi, che "vuole salvare se stesso e s'è messo a praticare le larghe intese, che sono la fine della democrazia". Quindi Beppe Grillo: "All'inizio ci contavo, e invece... Invece si barcamenta pure lui: oggi dice una cosa, domani un'altra. Ecco su di lui mi sono sbagliata". E Matteo Salvini? "Forse ha delle idee, forse. Ma ha anche una presunzione tale che realizzarle sarà difficile". Del tipo? "La conquista del Sud, l'uscita dall'euro. E poi di Salvini ho avuto la misura quando si è messo a nudo...".

Stefano Bisi: «Massoni si nasce. Esserlo è un pregio» In Italia «troppi pregiudizi» contro le logge. Che sono invece «luoghi di incontro e dialogo». Il Gran Maestro Bisi a L43: «Siamo un esempio di trasparenza», scrive Giorgio Velardi su “Lettera 43”. Si intitola Massoni. Società a responsabilità illimitata. È il libro con cui Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (God), sta scalando le classifiche di vendita in Italia. Un testo corposo, oltre 600 pagine nella quali l’autore bolla i personaggi più influenti della storia contemporanea (da Margareth Tatcher ad Angela Merkel fino a Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Osama Bin Laden e Barack Obama) come massoni. Si tratta, come ha spiegato lo stesso Magaldi, dell’inizio di una trilogia che promette altre «sconcertanti» rivelazioni. Stando alle affermazioni del Gran Maestro del God, oggi «se non sei massone non hai alcuna chance di arrivare al vero potere». Un’impostazione con cui non è d’accordo Stefano Bisi, giornalista, eletto il 2 marzo 2014 scorso Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (la più numerosa comunione massonica del nostro Paese) dopo i 15 anni di gran maestranza di Gustavo Raffi. «Quello dei massoni è un potere spirituale che permette di stare insieme ad altri fratelli favorendo la crescita interiore del singolo individuo», spiega Bisi a Lettera43.it. «Magaldi tiri fuori le prove di quanto ha scritto», incalza. «I nomi che ha citato nel libro? Sicuramente non fanno parte del Grande Oriente d’Italia».

DOMANDA. Ha letto Massoni?

RISPOSTA. No, non l’ho letto.

D. Lo farà?

R. Penso di no.

D. Dal libro emerge un quadro nel quale il governo del mondo sembra essere totalmente conteso dalle Ur-Lodges. È davvero così come scrive Magaldi?

R. Facendomi questa domanda lei hai avuto un moto di sorriso. Provo la sua stessa sensazione…

D. Ancora oggi il termine «massoneria» è legato a fatti o esperienze poco edificanti. Basta pensare alla P2, che si trasformò in un’organizzazione criminale ed eversiva.

R. Non so per quanto tempo ancora ci porteremo dietro la vicenda della P2, che nacque come loggia massonica del Grande d’Oriente d’Italia deviando poi il suo corso. Domando a chi ha questa opinione: cosa dovremmo fare per scrollarcela di dosso?

D. La colpa non deriva dal fatto che, troppo spesso, delle attività svolte dalle logge o dei nomi dei loro associati non si sa nulla?

R. Nel Grande Oriente d’Italia la trasparenza viene già attuata. Chiunque, collegandosi al nostro sito internet, può reperire informazioni sulle attività che svolgiamo quotidianamente in tutto il Paese.

D. Tutto alla luce del sole, quindi.

R. Bisogna avvicinarsi alla libera muratoria del Grande Oriente d’Italia senza pregiudizi: solo in questo modo si possono comprendere i suoi obiettivi.

D. Però i nomi degli iscritti alle logge, compresa la sua, sono segreti.

R. Come lo sono, giustamente, quelli degli aderenti a tutte le altre associazioni o ai partiti. Ognuno ha diritto alla riservatezza. C’è comunque chi, a tutti i costi, vorrebbe avere accesso ai nomi dei massoni.

D. In che modo?

R. Una legge regionale toscana obbliga gli amministratori pubblici a rendere note tutte le associazioni a cui appartengono. In passato il Friuli-Venezia Giulia imponeva a chi era dipendente o amministratore pubblico di dichiarare la non appartenenza alla Massoneria. Nonostante la condannata da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, pochi giorni fa, nella stessa Regione, ai candidati a far parte di una specifica commissione è stato domandato se appartenessero o meno a società di carattere massonico. La trovo una discriminazione notevole e palese.

D. Di cosa dibattete durante le vostre riunioni?

R. Pochi giorni fa ero a Bari, dove sono state innalzate le colonne di una nuova loggia all’interno del Grande Oriente d’Italia. Si è parlato di armonia.

D. Armonia?

R. Il lavoro all’interno di una loggia è educativo. In quelle del Grande Oriente d’Italia si parla uno alla volta, non c’è mai una sovrapposizione delle voci. Non ha ragione chi urla di più, tutti hanno un loro punto di vista e rispettano quello dell’altro. Il metodo educativo delle logge dovrebbe essere applicato a tutti i consessi civili e umani.

D. Lei che, se non sbaglio, non proviene da una famiglia di tradizioni massoniche, come e quando ha capito di voler intraprendere questa esperienza?

R. Nel 1977 lessi su l’Espresso i nomi dei Maestri venerabili delle logge italiane. C’erano anche quelli dei quattro presenti nella mia città, Siena. Persone fra le più brave che esistevano nel contesto cittadino. Questo particolare mi incuriosì e da lì iniziai a leggere testi riguardanti la massoneria.

D. Poi cos’è successo?

R. In questo percorso di lettura incontrai un massone con il quale cominciai a dialogare e il 24 settembre 1982 venni iniziato in una loggia massonica.

D. Il Grande Oriente d’Italia conta circa 22.500 iscritti. Qual è il profilo dei vostri aderenti?

R. Sono rappresentate tutte le categorie sociali: professionisti, impiegati, artigiani, commercianti… È una comunione composita.

D. Ci sono anche giovani?

R. Sì, e il loro numero è in aumento.

D. Quali sono i motivi che oggi spingono un giovane ad entrare a far parte della Massoneria?

R. Nel mondo contemporaneo c’è molta confusione. I giovani vedono nelle logge massoniche luoghi dove si può parlare avendo la sicurezza che chi ti ascolta non ti giudicherà per quello che dici ma anzi sarà disponibile al confronto. Le racconto un episodio.

D. Prego.

R. Alla nostra storica celebrazione del 20 settembre era presente Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente di Montecitorio, che non è iscritto alla Massoneria. Al termine dell’incontro l’esponente Pd è stato inseguito da una giornalista che gli ha chiesto il motivo della sua presenza in quella sede. Lui ha risposto di essere venuto perché dialoga con tutti, aggiungendo di aver sentito parlare di solidarietà e nuovi italiani. «Magari» ha concluso «i partiti discutessero di questi argomenti».

D. Come funziona, tecnicamente, l’ingresso in una loggia?

R. Partiamo da un presupposto: massoni si nasce ma si può non diventare se non si incontra lungo la strada qualcuno che, terminata la fase di osservazione da parte di alcuni fratelli che già appartengono alla loggia, ti fa presentare la domanda di ingresso.

D. Continui.

R. Una volta concluso questo passaggio l’aspirante massone incontrerà più volte i fratelli esperti, poi la loggia voterà per l’ammissione o la non ammissione. In caso di esito positivo si svolgerà la cerimonia di iniziazione, che è ampiamente spiegata nei libri che si sono occupati della massoneria. La mia tegolatura, termine tecnico che indica questo arco temporale, è durata quattro anni. Il primo grado è quello di «apprendista libero muratore».

D. Gli altri?

R. I gradi sono tre: oltre a quello esposto poc’anzi ci sono «Compagno d’arte» e «Maestro». Ogni loggia ha a capo il «Maestro venerabile». Inoltre, a livello nazionale, ci sono il «Gran Maestro» e la giunta. A livello circoscrizionale, infine, figurano i presidenti dei collegi circoscrizionali, cioè i coordinatori delle attività delle logge a livello regionale. 

D. Per i liberi muratori appartenere alla Massoneria comporta dei costi?

R. Sì, 180 euro all’anno più un contributo per l’uso della casa massonica che può variare da città a città.

D. Il suo ruolo prevede un compenso?

R. Il mio compenso è di 129 mila euro lordi.

D. «La Massoneria ha stima, rispetto e considerazione per le donne» però «non le ammette nell’Ordine». Perché?

R. Noi siamo i prosecutori dell’opera dei costruttori di cattedrali, fra i quali non figuravano donne, e ancora oggi viaggiamo lungo questa tradizione storica. Nel mondo la Massoneria considerata regolare è quella dove non sono presenti le donne. Collegati al Grande Oriente d’Italia ci sono però i cosiddetti «capitoli della stelle d’Oriente» di cui fanno parte mogli, figlie e fidanzate dei massoni che svolgono soprattutto un’opera filantropica.

D. Ha parlato di «massoneria regolare». Ne esiste anche una irregolare?

R. Non lo so, ma periodicamente si leggono strani nomi di nuove logge massoniche. Sul termine «Massoneria» non c’è un copyright, quindi ognuno può crearne di non regolari.

D. Veniamo al rapporto con la politica. Nel testo di Magaldi tutti gli uomini più importanti del pianeta, da Angela Merkel a Mario Draghi, risultano iscritti alla Massoneria. Matteo Renzi è definito un «aspirante massone»: il premier vorrebbe entrare a far parte della Three Eyes, loggia di stampo conservatrice alla quale, sempre secondo l’autore, appartengono anche il numero uno della Bce e Giorgio Napolitano. Le risulta?

R. Non ho prove a riguardo. Se Magaldi le ha le tiri fuori. Ciò che posso dire con certezza è che i nomi che mi ha citato non fanno parte del Grande Oriente d’Italia.

D. Si vocifera che l’ex sindaco di Firenze non piaccia troppo ai massoni…

R. Non so chi abbia messo in giro questa voce. Rispondo dicendo che, positiva o negativa che sia, ogni massone del Grande Oriente d’Italia è libero di avere una sua opinione sul premier e di pensare ciò che vuole.  

D. Qual è il suo giudizio sul presidente del Consiglio?

R. Il parere personale di Stefano Bisi su Matteo Renzi non interessa a nessuno, quello di Stefano Bisi su Matteo Renzi in qualità di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia verrebbe sicuramente strumentalizzato. Preferisco quindi astenermi dal dare giudizi. Noi massoni rispettiamo le istituzioni e chi le governa, abbiamo a cuore solo il bene dell’Italia.

D. Oggi essere un massone è un pregio o un difetto?

R. Personalmente lo ritengo un pregio. Però, purtroppo, nel caso del Friuli-Venezia Giulia di cui ho parlato prima l’appartenenza a una loggia diventa un difetto e crea un danno. È il segno che ancora oggi il pregiudizio è duro a morire.

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

 “La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. 

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. Descrizione: http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo  su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta. 

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

MASSONERIA: QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

Padre Amorth e la massoneria, scrive “Affari Italiani”. Continua la rubrica di Affaritaliani.it Padre Mariano, curata dal Movimento Sacerdotale Mariano. Riflessioni sulle sacre scritture. Padre Amorth afferma: "la massoneria comanda il mondo" e tra le sue varie attività di controllo, finanzia anche l'arrivo dell'Islamismo in Europa al fine della destabilizzazione. Questa affermazione oltre ad essere sostenuta da più analisti è anche carismatica. Nel caso di padre Amorth presidente degli esorcisti, è sicuramente la conclusione di ciò che Satana lascia trapelare sotto il torchio del "Nome di Gesù" quando viene costretto a rivelare la Verità. Don Gobbi, fondatore del MSM assieme ad altri carismatici su suggerimento della Madonna afferma la stessa cosa.  Questa affermazione ci permette di vedere le vicende anche attuali, con una sguardo diverso e facilitato nella loro interpretazione. Cosa si può dedurre? Da questo punto di vista capiamo che la potente massoneria mondiale riuscirà a realizzare in forma graduale anzitutto un Unico Governo Mondiale, poi una moneta unica, ed ovviamente una religione unica che metterebbe -secondo loro - tutti d'accordo rispondendo così alle esigenze di spiritualità delle persone. Da queste affermazioni dei veggenti comprendiamo tante cose ed esse ci aiutano a prendere coscienza del dovere di svegliarci e chiamare col loro nome le cose. Anzitutto ci è consentito di affermare che i vignettisti di Charlie sono tutti blasfemi. Disegnavano infatti vignette pornografiche e sacrileghe per irridere Gesù, la Madonna e La SS. ma Trinità. Non è difficile immaginare da dove Charlie Hebdo riceveva i finanziamenti, quando si sa che la massoneria ha come primo obbiettivo di porre allo stesso livello tutte le religioni, per farle apparire tutte antiquate e dogmatiche. Per chi non lo sapesse è utile ricordare pure che i massoni ai vertici (al 33° grado) dopo un cammino iniziatico di sempre maggiore obbedienza e sudditanza a qualunque ordine, sono consacrati tutti a Satana. L'obiettivo finale della massoneria internazionale - occorre tenerlo presente sempre - è quello di distruggere la Chiesa Cattolica, infondendo l'idea che tra di essa e l'Islam non vi è grande differenza. Dietro un falso ecumenismo, una falsa tolleranza e l'eresia del pauperismo per annientare la Chiesa Cattolica e il Vaticano ecco che si prepara la strada all'ONU delle religioni. Ovviamente, in quell'ottica, vi è un progetto orchestrato dalle potenti forze anti cristiche, che non sono solo di questo mondo. Tutto ciò è già stato profetizzato come dicevamo! Meno male perché ciò aiuta molto a dipanare la matassa complicata delle forze in campo. Aggiungiamo pure la vittoria enorme della massoneria - dovuta a una grandissima capacità di penetrazione nei gangli del potere - quando si trattò di rinnegare le radici cristiane dell'Europa che pure hanno prodotto quel po' po' di civiltà da sogno. Pia illusione ora pensare di poter fermare l'avanzata dell'Islam contrapponendogli una "fede laica nella dea Ragione". Impossibile comunque sarà e crudele solo pensare  di  sostituire la civiltà cristiana che in duemila anni ha reso ricca, bella e libera la nostra Europa nella multiforme peculiarità e diversità di ogni nazione. Proviamo solo a pensare l' orrore di uno Stato teocratico peggiore di tutti i regimi totalitari che hanno sconquassato l'Europa nel secolo scorso! Poiché non dimentichiamo che "Je suis nigeriano"! Ma ancora ricorriamo alle profezie, che annunziano sì questo tempo di purificazione, ma come preparazione al trionfo del Cuore Immacolato di Maria. La cosa del resto è biblica, Dio ha già permesso ai tempi dell'A.T. che si riversassero popoli infedeli sugli Ebrei per punirli delle loro infedeltà al Vero Dio. Di cosa si tratta quando si parla del trionfo del Cuore Immacolato di Maria? Quello lo vedremo un'altra volta. Intanto la profezia di un "castigo", per avere tolto dal centro dei nostri cuori  il Dio Trinitario di Gesù  che è Amore, comincia a divenirci più chiaro.

"Charlie, strage voluta dalle logge segrete. Ecco perché Obama non è andato a Parigi", scrive Lorenzo Lamperti su “Affari Italiani”. Il legame tra Massoneria e Chiesa, l'azione di Papa Francesco, l'ipotesi Jeb Bush alla Casa Bianca, gli attentati di Parigi, Napolitano, Quirinale, Renzi e il Patto del Nazareno. Sono alcuni dei temi affrontati da Gioele Magaldi, Gran Maestro del movimento massonico Grande Oriente Democratico, in un'intervista a tutto campo ad Affaritaliani.it che anticipa la presentazione del suo libro "Massoni" alla chiesa di Santa Maria in Portico a Roma.

Dopo il successo del libro Massoni e delle precedenti presentazioni, nuovo evento a Roma. Che cosa può dirci di più di questo evento? Chi ci sarà?

«Preferirei che la curiosità sua e di altri suoi colleghi giornalisti li porti a presenziare all’evento, che è a lista di invitati chiusa, ma naturalmente accessibile ai cronisti che vengano a fare il proprio mestiere e a raccontare questo epocale evento con sopralluogo diretto. Certamente ci saranno alte personalità ecclesiastiche, politiche, diplomatiche, militari, intellettuali, imprenditoriali e, in generale, rappresentanti di rilievo della società civile».

Desta stupore il luogo e la presenza di tanti ecclesiastici. Come mai una presenza così massiccia di esponenti della Chiesa? Qual è il legame con la Massoneria?

«I legami tra Chiesa Cattolica e altre chiese e ambienti massonici è sempre stato intenso e fecondo, a prescindere da formali scomuniche e ufficiali, quanto ipocrite e insincere, prese di distanza. Comunque, non sempre coloro che, in ambito ecclesiastico (e dunque essoterico sul piano spirituale) dialogano con gruppi e singoli esponenti della Libera Muratoria (che in quanto “iniziati misteriosofici” coltivano una dimensione esoterica della spiritualità, prediligendo un approccio conoscitivo ad uno fideistico sulle cose umane e divine) sono per forza di cose massoni. Molto spesso vi sono prelati ed ecclesiastici cattolici che, pur non essendo mai stati iniziati liberi muratori, si rapportano con curiosità, apertura mentale ed emotiva, persino simpatia filosofica e culturale, a determinati ambienti della Massoneria. Diverso il caso di eminenti pesi massimi illuminati e progressisti della Cattolicità, come Angelo Roncalli (alias papa Giovanni XXIII) e Carlo Maria Martini, ad esempio. Costoro, come viene raccontato nel libro “Massoni”, hanno voluto essere orgogliosamente sia dei grandi pastori cattolici che dei raffinati iniziati massoni. Cosi come è ancora diverso il caso di un eminente para-massone conservatore molto vicino alla Ur-Lodge “Three Eyes” (la stessa di Giorgio Napolitano, per intenderci), Karol Wojtyla (alias papa Giovanni Paolo II), dei cui legami cripto-latomistici con un “grande fratello” come Zbigniew Brzezinski, pure si parla nel best-seller di Chiarelettere dal sottotitolo “La scoperta delle Ur-Lodges”, e di cui si parlerà ancora meglio negli altri volumi della serie di “Massoni”».

A proposito di Chiesa, nelle scorse settimane c'è stato chi, nel Parlamento (in particolare un deputato di Scelta Civica), ha espresso timori per la vita di Papa Francesco avanzando l'ipotesi che qualcuno possa volergli male per la sua azione di rinnovamento nel Vaticano. Che cosa ne pensa? Quanto può dare fastidio Bergoglio?

«Dell’attuale pontificato di Francesco in relazione alla Massoneria si parlerà diffusamente nel secondo volume di “Massoni”. Intanto posso anticiparle che, per ora, i propositi di rinnovamento di Bergoglio sono rimasti belle intenzioni e suggestioni, ma poco di più. Intendiamoci: personalmente ho grande simpatia per questo papa, che potenzialmente potrebbe fare molto, anche se finora non ha concretizzato granché. Se Bergoglio intende davvero rinnovare la Chiesa Cattolica all’alba del XXI secolo, deve fare come il suo grande predecessore Giovanni XXIII (alias il fratello massone progressista Angelo Roncalli) e indire un Concilio Vaticano III, che perfezioni e porti a compimento migliorativo alcune intuizioni benemerite del Concilio Vaticano II (1962-1965)».

Nel suo libro Massoni afferma che il progetto delle Ur-Lodges reazionarie sia di portare un nuovo Bush alla Casa Bianca nel 2016. Quanto siamo vicini a che ciò accada?

«La partita è ancora tutta da giocare. Se si lascerà che l’Isis e gruppi collegati proseguano la propria opera interna (nei territori occupati di Iraq e Siria) ed esterna di terrorismo in salsa hollywoodiana, senza che nessuno intervenga tempestivamente, prima con intervento militare chirurgico ad estirpare tale Califfato, poi con poderoso intervento civile e politico ad implementare regimi autenticamente democratici, liberali, libertari, laici, pluralisti e socialmente equi in territorio siriano e iracheno, questi due anni che ci attendono di caos, decapitazioni e attentati sanguinari in Occidente, saranno il miglior viatico per la elezione di Jeb Bush, massone reazionario della Hathor Pentalpha, alla Casa Bianca. Questo nuovo-vecchio Bush (Jeb era già attivo ai tempi del Pnac, Project for a New American Century e ai tempi della spregevole tragedia dell’11 settembre 2001) sarà infatti presentato come il nuovo campione di una presunta riscossa american-occidentale contro gli islamici fondamentalisti e cattivoni in quanto tali, secondo lo schema pretestuoso dello scontro di civiltà teorizzato dal massone neo-aristocratico Samuel Huntington già a fine anni ’90. Ma, naturalmente, Jeb Bush e i suoi non porterebbero in Medio Oriente, in Iraq e in Siria, democrazia, libertà, pacificazione, pluralismo, laicità e giustizia sociale, quanto macroscopiche occasioni di lucro economico e politico (autoritariamente gestito) per amici e amici degli amici del consueto complesso miltar-industriale-finanziario legato alle Ur-Lodges globali più reazionarie e spregiudicate. Barack Obama, gli ambienti euro-atlantici e i leader mondiali di tendenza democratico-progressista o almeno moderata, distanti dai progetti “hathor-pentalphiani” dei sostenitori del nuovo-vecchio Bush, dovrebbero intervenire subito, senza perdere tempo, contro l’Isis e a favore delle popolazioni medio-orientali martoriate da questi masnadieri del sedicente Califfato. Ma la partita, lo ripeto e lo spiegherò meglio nel secondo volume di “Massoni”, è estremamente delicata e complessa».

Come vanno interpretati i tragici fatti di Parigi e dell'attentato a Charlie Hebdo? Quale potrebbe essere stato il ruolo di Al Qaeda e Isis?

«Lo ribadisco con molta chiarezza: lo spregevole attentato di Parigi è avvenuto con la complicità di svariate istituzioni di controllo locali, in combutta con manovalanza terroristica e mandanti che si muovono nell’area delle Ur-Lodges Hathor-Pentalpha, Geburah, Amun, Der Ring, ecc.»

C'è chi ipotizza che dietro gli attentati di Parigi ci sia una mano non islamica. Per lei è possibile?

«Gliel’ho appena confermato nella risposta alla sua domanda precedente. Ma non si tratta di ragionare secondo inconsistenti dicotomie del tipo: “si tratta di mani islamiche e medio-orientali, oppure occidentali”. Si tratta di mani sovranazionali e apolidi, che utilizzano i pretesti religiosi come instrumentum regni e armi di manipolazione di massa. Fra coloro che hanno progettato e poi fatto realizzare eventi come gli attentati di Parigi, e come altri che si cercherà di effettuare, ci sono sedicenti islamici e però anche non islamici, cosi come tra i massoni progressisti che cercheranno di prevenire e impedire tali esecrabili crimini contro l’umanità ci sono sinceri islamici e sinceri cristiani, ebrei, indù, buddhisti, ecc: persone nate indifferentemente in Occidente e in Oriente, ma che cominciano a riscoprire l’orgoglio di appartenere a una tradizione latomistica cosmopolita, universale e autenticamente democratica».

In molti hanno polemizzato sull'assenza di Obama a Parigi nell'incontro tra capi di Stato. Secondo lei come va letta questa assenza?

«Il fratello massone progressista (moderato) Barack Obama era perfettamente a conoscenza di quanta ipocrisia si celasse in quell’incontro di capi ed ex- capi di Stato, alcuni dei quali direttamente coinvolti, in modo diretto o indiretto, nei presupposti che hanno propiziato gli stessi attentati terroristici di Parigi e quelli di anni precedenti. Obama ancora non ha trovato il coraggio di fronteggiare efficacemente personaggi del genere, ma con la sua assenza almeno ha mandato un segnale inequivocabile di sdegno e presa di distanza».

Dopo le stragi alcune parti dell'Ue hanno messo in dubbio Schenghen e c'è stato chi ha chiesto a gran voce la pena di morte. A che cosa ci porteranno queste reazioni estreme?

«Sono assolutamente favorevole agli Accordi di Schenghen e al principio universale della libera circolazione delle persone, tanto più in un’Europa che si pretenderebbe unita e integrata (anche se purtroppo, al momento, non lo è su basi democratiche, bensì tecnocratiche e oligarchiche) e sono fermamente contrario al principio della pena di morte applicata da entità statuali su detenuti ormai inermi e messi in condizione di non nuocere. Il back-ground dispotico e fascistoide di Marine Le Pen e di altri è chiaramente venuto allo scoperto proprio con la loro proposta di riattivare la pena di morte. E una torsione dispotica e autoritaria (vedi, negli Usa, l’implementazione del liberticida e anti-democratico Patriot Act) è proprio ciò che i mandanti di questi attentati terroristici vogliono conseguire, anche per il tramite di personaggi alla Le Pen».

Tornando all'Italia, che cosa cambia dopo le dimissioni di Napolitano? Quali sono le forze in gioco nella designazione del successore?

«Altrove, magari nei prossimi giorni, con più calma, spazio e tempo, e con altra intervista ad hoc, mi riservo di rispondere ad Affari Italiani e ad altri operatori mediatici, anche su questo tema, che certamente troverà esaustiva analisi nel secondo volume di Massoni. Società a responsabilità illimitata, sottotitolo: “Globalizzazione e massoneria”, non necessariamente edito da Chiarelettere, e che anzi offrirò pubblicamente alla Casa Editrice (compresa Chiarelettere, certo) italiana o estera che sia in grado di assicurare le migliori garanzie a 360° su vari aspetti della pubblicazione e dell’operazione editoriale e culturale che la sottende. Intanto, posso anticipare che le forze in gioco per la designazione del successore del fratello Napolitano sono ancora e sempre terminali italiani di alcune Ur-Lodges sovranazionali».

C'è chi sostiene che ambienti massonici possano sostenere Amato e portarlo sul Quirinale. Le risulta?

«Certo che alcuni (tra cui lo stesso confratello libero muratore Napolitano) avrebbero gradito il massone fintamente progressista (e autentico tecnocratico e neo-aristocratico) Giuliano Amato al Quirinale, ma si tratta di un candidato provvidenzialmente indebolito da vari fattori. Anche se, nelle “quirinarie” in corso, anche i “cavalli azzoppati” hanno virtuali chanches di recuperare terreno…»

Renzi è riuscito a entrare nelle grazie (e nella Ur-Lodge) di Draghi oppure il suo potere non è ancora a quel livello? Quanto pesa ancora oggi il Patto del Nazareno?

«Su questo tema, la rinvio appunto al secondo volume di Massoni. Società a responsabilità illimitata, sottotitolo: “Globalizzazione e massoneria”, di futura pubblicazione, dove si parlerà, tra le moltissime altre cose, in modo attento e monografico, tanto di Matteo Renzi e delle sue aspirazioni e relazioni massoniche, quanto delle vere ragioni delle dimissioni di Giorgio Napolitano, dei nomi e cognomi dei mandanti della strage di Parigi presso Charlie Hebdo, dei costruttori del Califfato dell’Isis, e dei rapporti passati, presenti e futuri tra il pontificato di Jorge Mario Bergoglio (alias papa Francesco) e la Libera Muratoria argentina e sovranazionale».

Tutto quello che avreste voluto sapere sulla Massoneria, scrive Aldo Forbice  su “Il Giornale di Sicilia”. Un volume di 65o pagine con dati e nomi di personaggi che hanno fatto parte o avuto rapporti con le logge. Sulla massoneria esiste una letteratura sterminata ma nessuno finora aveva cercato di fare chiarezza sulle logge segrete, quelle in chiaroscuro e soprattutto quelle internazionali che nessuno conosce. Il libro appena uscito (Massoni - La scoperta delle Ur - Lodges di Gioele Magaldi, con la collaborazione di Laura Maragnani, Chiarelettere) apre scenari sconvolgenti. Si tratta di un volume di 650 pagine (cui ne seguiranno altri tre) che pubblica documenti finora ritenuti segretissimi. Magaldi è uno storico, politologo, massone da lunga data (ex Maestro Venerabile della loggia «Monte Sion» di Roma, attualmente Maestro Venerabile del Grande Oriente Democratico). C'è chi dice che abbia stipulato una polizza milionaria di assicurazione sulla vita, visto il rischio che corre. Scorrendo le pagine si rimane perplessi e sconcertati ma misteriosamente «incollati» al testo per la grande ricchezza di notizie controcorrente che si apprendono sulla storia dell'ultimo secolo. Ovviamente la «lettura» degli avvenimenti più vicini a noi colpisce particolarmente. Incuriosisce, ad esempio, che papi, presidenti, uomini di Stato e dell'economia, personaggi importanti di tutti i sistemi politici (da Giovanni XXIII ai fratelli Kennedy, a Reagan, Putin, Obama, Deng Xiao Ping, Mandela, Clinton, Blair, Margaret Thatcher, i nostri Agnelli, Napolitano, Padoan, Draghi ecc - in altre parole tutto il mondo del potere politico ed economico abbia fatto parte o avuto rapporti con le logge massoniche, e paramassoniche) del pianeta, distribuito fra quelle conservatrici-reazionarie e quelle progressiste. La «guerra» fra queste logge ha condizionato (e spesso influito pesantemente) il corso degli avvenimenti dell'ultima parte del ’900, sino ad oggi, contendendosi il governo del mondo e premiando quasi sempre il potente sistema militare-industriale. Non possiamo giurare sulla veridicità di questa grande massa di documenti, usciti dagli archivi segreti delle logge. Osserviamo solo che se, anche il dieci per cento delle notizie rese note fosse certificato come verità indiscussa, si dovrebbe riscrivere almeno la storia degli ultimi cinque decenni. Di storia veramente certificata si può parlare col saggio di Emilio Gentile In Italia ai tempi di Mussolini (Mondadori). L'autore è uno storico di fama internazionale per una serie di studi di grande originalità e autorevolezza. In questo saggio racconta un viaggio, cominciato con la Grande Guerra, proseguito con le lotte operaie e contadine del «biennio rosso, con le violenze squadriste, il fascismo e la conquista del potere da parte di Mussolini. Appare molto importante l'analisi dei testi degli osservatori stranieri sui cambiamenti economici e culturali del regime. Un saggio «globale» sull'Italia del ventennio che fa capire come certi nodi e difficoltà di ordine politico ed economico risalgano proprio all'epoca del totalitarismo. A proposito di totalitarismo, un libro di questi giorni getta nuova luce sul regime comunista dell'Urss. Lo ha scritto Svetlana Aleksievic (Tempo di seconda mano, Bompiani), giornalista e scrittrice ucraina. Svetlana ha dato voce a un racconto corale della grande utopia comunista che per 70 anni ha caratterizzato la vita dell'Urss e della Russia. Si tratta di un affresco a tinte fosche di vittime (contadini, ma anche intellettuali, studenti, operai, donne, anziani), di misconosciti eroi sovietici in tempi di pace e di guerra e di carnefici. È un terribile e sconvolgente spaccato della cosiddetta «civiltà sovietica» e di ciò che è rimasto, o meglio dello spirito di adattamento a un «tempo di seconda mano» nella Russia dopo il crollo del comunismo. Infine segnaliamo due libri importanti sugli orrori del nazismo. Il primo, Bombardare Auschwitz di Umberto Gentiloni Silveri (Mondadori) analizza la storica polemica sulla opportunità, da parte degli alleati, di bombardare i lager nazisti. Ancora oggi gli storici si chiedono: come mai quelle «fabbriche di morte» non vennero prese di mira dai bombardieri alleati, visto che gli angloamericani sapevano tutto? L'autore ricostruisce la fitta trama di incomprensioni, scoprendo molte cose inedite sulla tragedia della Shoah. L'altro saggio è di Matteo Marani, un noto giornalista sportivo che nel libro Dallo scudetto ad Auschwitz (Imprimatur editore) ricostruisce la storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo, morto nel 1944 in un lager nazista. L'autore ha lavorato ben tre anni per scoprire la tragica storia dell'allenatore del Bologna, vincitore di ben quattro scudetti tra il 1930 e il 1938. Ne è scaturito un romanzo affascinante che commuove e indigna.

Mafia e massoneria, il pentito Messina: “Almeno due boss in ogni loggia”. “Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani: c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli” ha detto il pentito deponendo al processo sulla strage del Rapido 904. Secondo la relazione del pg Scarpinato, Matteo Messina Denaro sarebbe attualmente impegnato a fondare nuove logge nel trapanese, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. Due uomini d’onore all’interno di ogni loggia: così Cosa Nostra e la massoneria hanno unito le rispettive forze nella medesima strategia criminale. A raccontarlo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, boss di San Cataldo, ex braccio destro di Piddu Madonia, già autore di alcune rivelazioni inedite. Era stato Messina il primo a raccontare dei summit nei dintorni di Enna, alla fine del 1991, per mettere a punto la strategia stragista della primavera successiva. Oggi il pentito ha deposto al processo per la strage del Rapido 904, in corso davanti alla corte d’assise di Firenze che sta processando Totò Riina, accusato di essere il mandante dell’eccidio che il 23 dicembre 1984 fece 17 vittime. Durante la sua deposizione, Messina ha descritto nel dettaglio il rapporto tra la mafia e le logge massoniche. “Cosa Nostra – ha detto il pentito – all’interno di ogni loggia massonica deve avere due uomini di onore. Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani. Bontade per esempio era sia uomo d’onore, sia massone. Dicevano che anche Madonia era massone. Nella massoneria c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli”. Un rapporto, quello tra Cosa Nostra e la massoneria, ancora attualissimo. Il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro starebbe puntando sulla creazione di nuove logge nella zona di Mazara del Vallo: un escamotage per stringere nuovamente alleanze con professionisti e imprenditori. La nuova strategia di Messina Denaro è descritta nella relazione consegnata dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato al presidente della corte d’appello in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un report, quello di Scarpinato, che s’incrocia con e indagini della procura di Palermo: Messina Denaro, stando ad un’intercettazione telefonica, “si è rifatto tutte cose”, e cioè si sarebbe sottoposto ad un intervento di chirurgia estetica per alterare i suoi connotati. Un interrogativo che da qualche mese impegna gli inquirenti. Quel che è certo, però, è che l’ultima primula rossa di Cosa Nostra sta cercando di inserire uomini a lui fidati nelle logge del trapanese. “I metodi della mafia e della massoneria – ha detto Messina – erano molto simili. La massoneria è un’amministrazione del potere intelligente: un dottore non va a sparare per strada, un avvocato, un magistrato, non lo fanno. Il mafioso invece è il vero potere, é il potere della paura, la gente ci rispettava. In Sicilia specie negli anni ’70 non c’era quasi controllo e la gente ci temeva”. Un elemento importante del rapporto tra Cosa Nostra e la massoneria era quello relativo alle inchieste della magistratura. “Serviva ad aggiustare i processi – ha spiegato il pentito – nel mio caso, per un mio processo, mi sono rivolto a un massone che ha parlato con il giudice e si é rivolto anche a un giudice popolare, qualcuno é andato a parlare con loro. Sono stato assolto. Se ero colpevole? Si, ma loro non avevano le prove”.

Nella sua rubrica, Guardie o ladri su “Il Sole “24 ore”, Roberto Galullo parla in tre parti della massoneria.

Storia/1. L’ex Gran Maestro Giuliano Di Bernardo in esclusiva su questo blog parla di P2, massoneria, legge Anselmi e deviazioni. Alla fine del 2014, sull’onda di una serie di eventi che hanno chiamato in causa, più o meno propriamente, la massoneria italiana e sulla scia di una serie di indagini della magistratura sul ruolo della stessa in passate o più vicine vicende (dalla Procura di Reggio Calabria a Palermo, da Roma a Catanzaro) ho (senza tante speranze) contattato l’ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia, dal ’90 al ‘93) e della Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri, successivamente fino al 2002), Giuliano Di Bernardo. Visto il suo profilo mi incuriosiva conoscere le sue verità e le sue esperienze su alcune vicende che, nel recente passato, hanno attraversato, incrociato o lambito la massoneria. Senza passato è impossibile conoscere il presente. E’ Di Bernardo, infatti, che, nel giro di pochi mesi, nel 2014 è stato prima chiamato dalla Procura di Reggio Calabria e poi da quella di Palermo, a rispondere alle domande dei magistrati su alcune delicatissime vicende storiche i cui contorni sono ancora nebulosi e senza la cui chiarezza è di fatto impossibile capire quanto sta accadendo oggi in Italia. Di Bernardo, ad esempio, ha attraversato il periodo delle stragi mafiose in Italia e la fase immediatamente precedente e successiva, viste da osservatori privilegiati. Con mia sorpresa, a seguito di una serie di domande inviate alla sua attenzione (non certo esaustive e di fatto limitate dalla fallibilità di un giornalista lontano anni luce dalla massoneria, come sempre rigorosamente super partes nel momento in cui scrive) pochi giorni fa ho ricevuto le risposte definitive, nel corso delle quali scoprirete anche il suo percorso massonico attuale. Ne è uscita un’intervista credo interessante, anche se ho l’impressione che alcune cose sono rimaste in punta di risposta (verosimilmente anche per il doveroso e sacrosanto rispetto delle indagini giudiziarie), altre, forse per un riflesso incondizionato, appaiono estremamente generose e assolutorie su un ruolo non sempre condivisibile avuto dalla massoneria in questi anni, in altre ancora ho la sensazione che la diplomazia abbia prevalso sull’opportunità di condividere la conoscenza. Ho cercato di seguire un filo logico nelle domande ma chiedo venia, fin da ora, se qualche involontaria e inconsapevole deviazione logica c’è stata. L’abbrivio era quasi obbligato: la P2 di Licio Gelli dietro la quale ancora troppi misteri si celano che, a mio modesto avviso, mai saranno chiariti nonostante gli straordinari sforzi di pm che, anche per questo, vengono regolarmente sottoposti al rischio di delegittimazione da quei poteri marci che costituiscono sangue e linfa dei sistemi criminali Buona lettura con questa prima puntata.

Cosa rappresentava la P2: massoneria o altro?

«La P2 è stata una loggia regolare del Grande Oriente d’Italia. I Gran Maestri Salvini e Battelli hanno firmato i tesserini che Gelli rilasciava agli affiliati. Se il Grande Oriente d’Italia è massoneria, allora lo è anche la P2».

E’ vero, come vocifera qualche autorevole personaggio politico, che la cosiddetta “legge Anselmi” fu scritta o suggerita da parlamentari e tecnici massoni che riuscirono così a guidare i propositi dell’inconsapevole onorevole Tina Anselmi? Ed è vero, in caso di risposta affermativa, che il risultato sul campo è quello dell’ inapplicabilità o della difficile applicabilità da parte di pm e giudici?

«Non è questa la sede per entrare nel merito della “legge Anselmi”. A me risulta che alla sua formulazione partecipò il professor Paolo Ungari (trovato morto a 66 anni il 6 settembre 1999 per la caduta nella tromba dell’ascensore, avvenuta nel fine settimana precedente, al terzo piano del palazzo in piazza dell’Ara Coeli a Roma in cui aveva sede una delle riviste cui collaborava; la Procura di Roma ha proposto decreto di archiviazione dopo le indagini ma questo non è servito a fugare i sospetti e i dubbi sul decesso, ndr), il quale mi confidò che tale legge tutelerebbe lo Stato dalle trame delle società segrete solo in apparenza, poiché la sua applicazione a casi reali è quasi impossibile. In quegli anni ero Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e il professor Ungari era molto vicino a me sia come collega universitario sia come massone».

Commentatori, giornalisti, politici e classe dirigente distinguono, doverosamente, tra “massoneria” e “massoneria deviata”. Esiste anche a suo avviso questa differenza e, nel caso di risposta negativa, come giustifica l’esistenza della distinzione, anche atteso il fatto che lei, ancora oggi, è un massone di rilevanza internazionale? Sarebbe, dunque, “deviato” anche lei?

«Sulla distinzione tra “massoneria” e “massoneria deviata” esiste la più grande confusione. E’ importante, perciò, definirla. “Deviare”, in tutte le possibili accezioni, significa “allontanarsi da qualcosa (un fine, un principio, una norma)”. Riferita alla massoneria, è deviata quella massoneria che si allontana dal fine da essa dichiarato. Un esempio tipico di massoneria deviata è la loggia P2, poiché, pur essendo una loggia regolare del Grande Oriente d’Italia, ha perseguito fini che si sono allontanati (hanno deviato) dai fini del Goi.  Da ciò segue che è lecito e logico parlare di “loggia deviata” se, e solo se, tale loggia appartiene a una Obbedienza massonica. Al di fuori dell’Obbedienza, non può esistere una loggia deviata. Parlare di una singola loggia come “loggia deviata” è semplicemente insensato. Per quel che mi riguarda, è vero che mantengo relazioni massoniche internazionali, ma la mia missione è quella di rifondare la massoneria originaria e autentica, al di sopra di tutte le deviazioni storiche ed esoteriche che sono state prodotte in tempi recenti».

Potrebbe chiarire che cosa si intende per massoneria ufficiale?

«Definire la “massoneria ufficiale” in Italia è impresa ardua, poiché dipende dal punto di vista che assumiamo. Una convenzione, generalmente condivisa e operante fin dalle origini moderne della massoneria, stabilisce che è regolare e “ufficiale” in un Paese quella, e soltanto quella, che è stata riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. In Italia oggi, l’unica massoneria riconosciuta dall’Inghilterra è la Gran Loggia Regolare d’Italia, da me fondata nel 1993, di cui sono stato Gran Maestro fino al 2002. Da ciò segue che tutte le altre massonerie, inclusa il Grande Oriente d’Italia, non sono regolari. Con questo punto di vista, che privilegia il riconoscimento inglese, solo la Gran Loggia Regolare d’Italia è “ufficiale”. Tutte le altre non lo sono. Preciso che l’Inghilterra, sulla base delle sue Costituzioni, può riconoscere, in Italia e negli altri paesi del mondo, una sola massoneria».

Il Goi è riconosciuto, tuttavia, dalle Gran Logge statunitensi, che non riconoscono la Gran Loggia Regolare d’Italia. Possiamo dire che anche il Goi è massoneria “ufficiale”? E cosa dire delle altre massonerie che non sono riconosciute né dall’Inghilterra né dagli Stati Uniti d’America? Sono anche loro massonerie ufficiali? Poiché ogni Obbedienza cerca di privilegiare il criterio che l’avvantaggia, la confusione regna sovrana.

«Il 3 novembre il gup di Roma, Paola Della Monica ha rinviato a giudizio il senatore di Forza Italia Denis Verdini nell’ambito della cosiddetta P3, una presunta associazione segreta caratterizzata, come hanno scritto i pm, “dalla segretezza degli scopi, dell’attività e della composizione del sodalizio e volta a condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nonché apparati della pubblica amministrazione dello Stato e degli enti locali”. Insieme a Verdini è stato rinviato a giudizio anche l’ex sottosegretario all’Economia dell’ultimo governo Berlusconi, Nicola Cosentino».

E’ ridicolo parlare di P3, P4 e via di questo passo, sono insomma invenzioni giornalistiche, oppure è ancora legittimo e reale il rischio (o la concretezza) di associazioni segrete che condizionino lo Stato? E quanto è concreto e reale il rischio?

«Ho presentato la P2 come esempio tipico di loggia deviata. Una caratteristica essenziale che la distingue è la sua appartenenza al Grande Oriente d’Italia. Quando si parla di P3 e di P4, è necessario confrontarle con la P2 e chiedersi a quale obbedienza esse appartengono. Se non si può connetterle a Obbedienze massoniche, queste lobby non hanno proprio nulla a che fare con la massoneria. Sono semplicemente un’invenzione giornalistica, accattivante ma insensata. Anche se i membri di tali presunte logge si riunissero in un tempio, indossassero grembiuli e recitassero rituali, la loro estraneità alla massoneria sarebbe ancora più evidente. L’abito non fa il monaco. Che queste lobby rappresentino un rischio e un pericolo concreto per lo Stato è chiaro ed evidente, a prescindere dalla loro collocazione, dentro o fuori la massoneria».

Può raccontare perché decise di lasciare (o lasciò) il vertice del Goi?

«La risposta presuppone alcune premesse. Io sono stato il primo e forse l’ultimo Gran Maestro filosofo. Coloro che mi hanno preceduto e seguito avevano altri interessi. Per me la massoneria significa condividere una concezione dell’uomo e della vita, come avevo scritto nel mio volume Filosofia della massoneria. Dalla mia iniziazione avvenuta nel 1961, non ho mai cercato cariche e privilegi. Dopo la mia elezione a Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1990, ho cercato di realizzare quel modello di massoneria in cui credevo. Ero al vertice della più potente massoneria italiana, ma ne ignoravo l’organizzazione e la qualità degli uomini. Convinto che il Goi dovesse essere portato fuori dalle nebbie del passato, diedi inizio all’operazione “trasparenza”, che subito mi portò le prime delusioni. Molti dei massoni alla mia obbedienza non capivano la necessità del cambiamento e restavano ancorati a ciò che credevano fossero antichi privilegi. Il confronto con la massoneria inglese, da me sempre ritenuta la più alta espressione della regolarità massonica, mi faceva avvertire l’arretratezza del Goi, almeno per quanto riguarda l’esoterismo e il fondamento iniziatico. La mia delusione cresceva a mano a mano che ne diventavo sempre più consapevole. Quando ebbe inizio l’indagine contro la massoneria del procuratore Agostino Cordova nel 1992, mi resi definitivamente conto che la massoneria che governavo era in gran parte estranea all’idea che di massoneria mi ero fatto nel corso della mia vita. Incontrai i vertici della massoneria inglese, espressi loro le mie preoccupazioni e chiesi che cosa avrei dovuto fare. La risposta fu semplice: dimettiti dal Grande Oriente d’Italia e fonda una nuova massoneria, che noi riconosceremo. Così è stato. Il resto è storia. Se io mi fossi semplicemente dimesso, la maggioranza dei massoni del Goi avrebbe salutato la mia uscita con un sospiro di sollievo. Ma non fu così perché le mie intenzioni non erano quelle di tornare a insegnare Filosofia della scienza nell’università di Trento. In realtà, io volevo introdurre in Italia, per la prima volta, il modello della massoneria inglese. Per fare questo avrei dovuto difendermi dal Goi che non voleva perdere il riconoscimento inglese. Preciso che la Gran Loggia Unita d’Inghilterra non può riconoscere, nello stesso paese, due o più massonerie. Quindi, doveva scegliere tra il Goi e la Glri. Anche questa è storia: l’8 agosto del 1993 la Gran Loggia Unita d’Inghilterra ritira il riconoscimento al Goi e lo dà, l’8 dicembre dello stesso anno, alla Gran Loggia Regolare d’Italia, la massoneria che avevo appena fondato. Il Grande Oriente d’Italia così perdeva il tanto agognato riconoscimento inglese, che aveva ottenuto nel 1972, 110 anni dopo che il Gran Maestro Costantino Nigra ne aveva fatto richiesta. Questa è la sorgente dell’odio che si scatenò contro di me e che ancora perdura».

Oltre e indipendentemente dalla sua risposta sul punto: alcuni commentatori del blog nel recente passato hanno fatto riferimento a risvolti poco chiari sulla sua uscita dal Goi. Quali furono (se ci furono) questi risvolti poco chiari sulla sua uscita dal Goi secondo la sua ricostruzione dei fatti? Ci furono anche strascichi giudiziari per la sua uscita?

«Ero diventato il “traditore” che doveva essere abbattuto con tutti i mezzi, legali e diffamatori. Sul piano legale fui querelato per diffamazione da Augusto De Megni, Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico e Accettato, e da Licio Gelli. Fui assolto, in entrambi i casi, perché il fatto non sussisteva. Le diffamazioni, che tendevano a offuscare la mia onorabilità, furono di vario genere: dall’accusa di essere un emissario dell’Opus Dei all’espulsione dall’università di Trento per condotta indegna, al ripudio da parte di mia moglie per infedeltà. Nessuna accusa per traffici vari e tangenti perché non sarebbero stati credibili. Solo il Goi dichiarò che avevo ricevuto dal suo Tesoriere una somma non dovuta. Il mio commercialista dimostrò che avrei dovuto ancora avere dal Goi sette milioni di lire. Li sto ancora aspettando. Ancora oggi capita che qualcuno, per sentito dire, mi rivolge accuse infamanti. A costoro io chiedo di accusarmi formalmente e alla luce del sole, così tutti potranno capire la verità».

In che rapporti è, oggi, con il Goi e con le altre obbedienze massoniche?

«Con il Grande Oriente d’Italia, dalle mie dimissioni a oggi, non esistono rapporti di alcun tipo. Restano i rapporti personali con quei fratelli che avevano compreso la necessità e l’urgenza della mia riforma della massoneria italiana. Continuano ancora a sognarla».

Quanti sono i massoni oggi in Italia delle varie comunioni?

«Le voci meglio informate dicono che i massoni italiani sono circa 100.000. Per fare che cosa? La massoneria è entrata in crisi quando, da comunione elitaria, si è trasformata in società di massa. Se in Italia vi fossero 300 massoni, espressione delle élite lungimiranti e carismatiche, con il loro indubitabile sostegno alle istituzioni dello Stato, la vita sociale, economica e culturale degli italiani sarebbe migliore».

Con quali risorse nacque il Goi e grazie a quali risorse, che risulterebbero essere ingentissime se non altro alla luce delle proiezioni persino extraparlamentari che  sembrerebbero aver pervaso alcuni affiliati in determinati periodi storici, vivono e prosperano oggi le logge massoniche? Chi, parlando in altri termini, ha messo i soldi per far diventare così grande il Goi e chi continua a metterli nelle obbedienze?

«Se riferita al Goi, la domanda prende in considerazione un periodo di tempo di circa 150 anni (dalle origini ai nostri giorni). Fino all’avvento del Fascismo, il Goi ha controllato la vita italiana in tutti i suoi più importanti aspetti. Il problema di chi finanziasse non aveva alcun senso, poiché esso poteva avere tutto da tutti. Durante il Fascismo (dalle leggi contro le società segrete del 1925 alla sua caduta) il Gran Maestro Domizio Torregiani ha vissuto in esilio e l’attività delle logge è stata quasi inesistente. Dopo la seconda guerra mondiale, l’intervento degli Stati Uniti d’America è stato determinante per la rinascita della massoneria in Italia. La maggior parte dei finanziamenti proveniva proprio da loro. Con la frantumazione della massoneria in diverse Obbedienze, iniziano percorsi e finanziamenti particolari, nonostante la volontà degli americani di riunire tutte le obbedienze in una sola massoneria. Per quanto riguarda la mia esperienza di Gran Maestro del Goi, dal 1990 al 1993, i finanziamenti provenivano dalle capitazioni (quote annuali) e da contributi straordinari di fratelli benestanti. Se il Goi è diventato grande, le ragioni vanno ricercate nel suo ruolo politico ed economico nella società italiana. Le risorse e i finanziamenti hanno certamente influito ma non in maniera determinante. Dalle mie dimissioni del 1993 a oggi, non ho conoscenza di come avvenga il recupero delle risorse finanziarie, né nel Grande Oriente d’Italia né nella Gran Loggia Regolare d’Italia».

Cosa è il Dignity Order il cui vertice Lei presiede? Un enigma, un mistero, una certezza massonica? Cosa è e quanto potente è la sua influenza? Quali sono le risorse con le quali esercita la sua missione e quanti e chi sono, se è lecito sapere, gli iscritti?

«Nel 2002 avviene il mio ritiro definitivo dalla massoneria. Alla base di tale decisione vi è la convinzione che la massoneria, faro luminoso dell’Occidente, stia perdendo irrimediabilmente la forza propulsiva che ha fatto di essa una guida saggia dell’umanità. Non perché i suoi principi e il fondamento iniziatico che li sorregge abbiano perso la loro rilevanza, quanto, piuttosto, per l’incapacità dei massoni a interpretarli nel senso autentico. La stessa massoneria inglese, madre di tutte le massonerie regolari del mondo, mostrava segni di una profonda crisi che preannunciava scismi e conflitti. Abbandonavo quella massoneria, cui ero stato iniziato nel lontano 1961 e che era stata una guida sicura della mia vita, per fondare l’Accademia Internazionale degli Illuminati. Il mio scopo era quello di riformare la massoneria, ritornando alle sue origini settecentesche, governata dalle élite pensanti. L’Accademia degli Illuminati si ispira, infatti, alla Royal Society inglese. L’Accademia ha successo e si diffonde anche all’estero. Intanto comincia a intravedersi una crisi mondiale non solo economica e finanziaria ma anche morale. La società reale accusa i primi colpi di questa crisi, che si annuncia lunga e dolorosa. Gli Illuminati non bastano più. E’ arrivato il tempo degli Operativi, profondi conoscitori dei livelli concreti  della società. Dal connubio tra Illuminati speculativi e Illuminati operativi, si gettano le fondamenta di un nuovo Tempio dell’umanità, per affrontare le nuove sfide che già si preannunciano all’orizzonte. Nasce così nel 2011 “Dignity. Ordine per la difesa della dignità dell’uomo”. Le principali differenze tra Dignity e la massoneria sono le seguenti.

1.   Dignity è composta da élite, la massoneria da masse.

2.   Dignity ammette le donne, la massoneria le esclude.

3.   Dignity è internazionale, la massoneria è nazionale. La sede internazionale di Dignity è a Vienna, dove si riunisce il Consiglio del Gran Maestro. Dignity nasce in Italia e si diffonde anche all’estero.

4.   Il Rituale di Dignity si ispira alla filosofia, i Rituali della massoneria si ispirano alla religione (Emulation inglese) o a fatti storici (il Goi).

5.   Dignity e la massoneria hanno in comune il riferimento alla Tradizione esoterica dell’umanità, che inizia nel VI secolo a.C. in Grecia con i Misteri orfici. Ne fanno anche parte la Confraternita dei Rosacroce e l’Ordine degli Illuminati.

L’Ordine Dignity nasce e si sviluppa nella più completa trasparenza. Le Associazioni che la governano sono state legalmente costituite e registrate secondo le leggi dei Paesi che le ospitano (Italia e Austria). Essa è, quindi, una certezza esoterica.

Le risorse con cui esercita la sua missione sono le quote annuali (ordinarie e straordinarie) e le donazioni. Gli adepti in Italia sono circa cento. Le riunioni dell’Ordine, denominate “Conventi” (locali, nazionali, internazionali), si svolgono in luoghi non riservati: il Convento internazionale di Primavera-Estate si è svolto all’Hotel Miramonti di Cortina d’Ampezzo, mentre il Convento internazionale d’Autunno ha avuto luogo all’Hotel Royal di San Remo. Ospiti e autorità sono stati invitati alla cena di gala. Nessuno si è nascosto. Tutti hanno mostrato i simboli dell’Ordine».

Bene. Ci fermiamo qui ma domani torno con la seconda puntata.

Storia/2. L’ex Gran Maestro Giuliano Di Bernardo in esclusiva sul blog parla di trasparenza, affiliazioni e decadenza della massoneria. Cari amici di blog, se mi avete seguito ieri sapete che sto pubblicando un’intervista a puntate (vista la complessità delle materie trattate) all’ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia, dal ’90 a al ‘93) e Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri, successivamente e fino al 2002) Giuliano Di Bernardo. Visto il suo profilo mi incuriosiva conoscere le sue verità e le sue esperienze su alcune vicende che, nel recente passato, hanno attraversato, incrociato o lambito la massoneria. Senza passato è impossibile conoscere il presente. E’ Di Bernardo, infatti, che, nel giro di pochi mesi, nel 2014 è stato prima chiamato dalla Procura di Reggio Calabria e poi da quella di Palermo, a rispondere alle domande dei magistrati su alcune delicatissime vicende storiche i cui contorni sono ancora nebulosi e senza la cui chiarezza è di fatto impossibile capire quanto sta accadendo oggi in Italia. Di Bernardo, ad esempio, ha attraversato il periodo delle stragi mafiose in Italia e la fase immediatamente precedente e successiva, viste da osservatori privilegiati. Nella parte dell’intervista di ieri Di Bernardo ha inquadrato il suo profilo, parlando a 360 gradi di massoneria, delle sue deviazioni, della legge Anselmi, dei suoi attuali rapporti con le obbedienze massoniche, del Dignity Order che ha fondato nel 2011 e di altre cose ancora. Premesse necessarie (ma non certo sufficienti) per affrontare questa seconda puntata in cui si entrerà ancora più nel vivo. Buona lettura.

A sua diretta conoscenza o certezza acquisita quali alti vertici dello Stato, della politica, dell’economia, della finanza vanta oggi la massoneria?

«Per capire il “peso” della massoneria, è necessario considerarlo nella dimensione temporale: ieri, oggi, domani. Dall’unità d’Italia fino all’avvento del Fascismo, la massoneria ha dominato incontrastata la politica, l’economia, la finanza, le banche, le forze armate, la cultura. Non esisteva allora l’opposizione del Vaticano e della Chiesa Cattolica. Il Fascismo ha dichiarato fuorilegge la massoneria e l’ha esiliata. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è rinata con il sostegno della massoneria statunitense, che impose alcune condizioni destinate a pesare molto sugli sviluppi successivi. Nonostante interventi autorevoli di esponenti di spicco della massoneria statunitense, le guerre tra le rinate comunioni massoniche (più o meno legittime) sono state inevitabili ed è cominciato quel gioco al massacro che ha sempre impedito di avere in Italia una massoneria autorevole e potente. Nell’immediato dopoguerra, il peso complessivo della massoneria italiana è stato quasi irrilevante. Crescerà a dismisura con l’avvento di Licio Gelli e della P2. Non è questa la sede per riconsiderare la natura e il ruolo della loggia P2. Dirò semplicemente che, grazie alla P2, la massoneria italiana è stata proiettata, almeno nell’opinione pubblica, ai vertici della massoneria mondiale. Se non vi fosse stata quell’ intervista di Gelli al Corriere della Sera che rese evidente il pericolo della P2, egli avrebbe controllato tutti i più importanti “luoghi del potere” in Italia. Con la crisi della P2, inizia l’inesorabile decadenza del “potere” massonico, non solo nel Grande Oriente d’Italia che aveva dovuto “risolvere” al proprio interno i danni della P2, ma anche nelle altre Obbedienze. Nel 1990 sono stato eletto Gran Maestro del Goi. La prima cosa che ho fatto è stata quella di “pesare” il suo potere. L’idea che mi son fatto è la seguente: prima di Gelli c’erano i “sergenti”, con Gelli arrivano i “generali”, dopo Gelli si passa ai “caporali”. La discesa è inarrestabile».

Perché allora sempre più persone vogliono iscriversi alla massoneria? Fede o convenienza?

«La massoneria ha sempre esercitato un profondo fascino fin dalle sue origini agli inizi del Settecento. Non solo per il potere che essa emanava, ma anche per le cerimonie di iniziazione, passaggio ed elevazione. Dava, inoltre, un profondo senso di appartenenza che gratificava i suoi adepti. Ma quella massoneria, nata sul modello della monarchia inglese, era costituita da élite pensanti e operanti. Aveva un grande potere che metteva a disposizione dei governanti dello Stato, come risulta nella storia dei Paesi in cui vi è stata una massoneria. Quella massoneria non esiste più. Quel che oggi si chiama massoneria non è massoneria. Dalla fine della seconda guerra mondiale è iniziata una “controiniziazione” che sta profanando e distruggendo il fondamento esoterico della massoneria. Nonostante tutto, la massoneria continua ad attrarre. Perché? Non per le sue cerimonie rituali nel tempio, che ancora vi sono anche se sono state svuotate del loro significato esoterico. La massoneria attrae per interesse materiale. Nell’Italia di oggi, essa è l’ultima spiaggia per trovare un lavoro, per uscire dalla disperazione in cui sono caduti generazioni di giovani che si son visti privare della speranza per il futuro. Non voglio dire che questa sia l’esclusiva ragione per bussare alle porte del tempio massonico, ma ne è oggi la tendenza generale. Nella massoneria italiana, vi sono ancora autentici massoni, i quali però soffrono per la “controiniziazione” che è in atto. Io offro loro una “scialuppa di salvataggio” per riunirli nell’afflato iniziatico. Un esempio tipico, che convalida quanto ho detto sopra, è proprio il boom di massoni in Calabria in tutte le Obbedienze, da quelle storiche a quelle appena nate. In città (Reggio Calabria, ndr), si ridicolizza sul “venerdì massonico”, ma esso è l’espressione più evidente che la massoneria, almeno in Italia, è morta».

Poco si parla, ma a mio modesto avviso molto di dovrebbe invece parlare, di affiliazione alla massoneria di magistrati e alti rappresentanti delle Forze dell’Ordine. Per la sua esperienza, passata e presente, quanto massiccia è la loro presenza e a quali fini?

«Magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine hanno sempre avuto accesso nelle logge massoniche. In base alle mie esperienze, direi che oggi la loro presenza è molto limitata. Vorrei riflettere, invece, sull’opportunità della loro appartenenza alla massoneria. E’ chiaro che, dal momento in cui lo Stato riconosce le associazioni massoniche, tutti i cittadini italiani hanno il diritto di farne parte: se magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine vogliono diventare massoni, hanno tutto il diritto di farlo. Il punto in discussione, tuttavia, non riguarda tanto il diritto, quanto, piuttosto, l’opportunità. Non intendo entrare nel merito del problema. Cercherò, invece, di chiarirlo con un esempio. Quando Norberto Bobbio venne a sapere che ero diventato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, tramite alcuni colleghi universitari, chiese d’incontrarmi. I miei rapporti con Bobbio risalivano agli anni Settanta, quando eravamo promotori di studi e ricerche sulla Filosofia del diritto e sulla Logica deontica. Bobbio, con la franchezza che lo caratterizzava, mi disse: “Io ho sempre ammirato e in parte condiviso i principi che ispirano la massoneria, ma non ho mai capito (e per questo l’avverso) perché si rifiuta di agire alla luce del sole. Consideriamo il caso in cui tu, io e altri tre professori ordinari siamo in una commissione per valutare alcuni candidati che aspirano a diventare professori ordinari. Di quattro commissari tutti sanno a quale concezione della vita fanno riferimento (laico, cattolico, comunista, liberale) ma di te nessuno sa nulla. Mi sono sempre chiesto a quale mondo tu appartenga. Adesso so, perché l’ho letto sui giornali, che sei massone. Io non ti nego il diritto di essere massone. Ti chiedo però di dirmelo affinchè io possa capire le tue scelte nei concorsi universitari. Se tu, nei lavori della commissione, nascondi i tuoi riferimenti valoriali, io posso anche pensare che tu stia perseguendo finalità contrarie alle istituzioni dello Stato. Posso comprendere che, durante le lotte risorgimentali, i massoni si dovessero nascondere per salvaguardare la loro vita, ma oggi viviamo in una società aperta che tutela tutti. La vostra decisione di continuare a nascondervi fa nascere inevitabilmente timori e pregiudizi che si rivolgono, in definitiva, contro di voi”. Bobbio aveva ragione. Dopo la mia elezione a Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, ho cercato di far uscire la massoneria dalle “catacombe” col progetto denominato “trasparenza”. Fui sconfitto e, con me, si sconfisse anche la massoneria. Da questa premessa, discende un’idea che è andata sempre più sviluppandosi nella mia mente. Oggi io penso che magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine non debbano essere affiliati alla massoneria. Il loro ruolo nella società è quello di tutori dello Stato, al di sopra delle parti. Questo vale non solo per la massoneria ma anche per tutte le altre istituzioni. Per la massoneria, almeno per la ragione addotta da Bobbio, la loro ammissione è ulteriormente inopportuna. Questo limite vale, purtroppo, per la massoneria italiana. Se usciamo dall’Italia e andiamo verso Paesi dove la massoneria è trasparente (non si nasconde) come l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, troviamo magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine che ostentano con simboli e atteggiamenti la loro appartenenza alla massoneria. In questi Paesi, non vi sarebbe mai un Bobbio che esprime dubbi sulla massoneria. Io ho cercato, ma inutilmente, di riformare la massoneria italiana per renderla, circa il modo di rapportarsi alla società, simile a quella anglo-americana».

A Suo giudizio qual è e quanto eventualmente grave è l’affiliazione alla massoneria degli uomini dei servizi segreti italiani e internazionali?

«Se ritengo inopportuna l’affiliazione alla massoneria di magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine, a maggior ragione ritengo grave l’affiliazione di esponenti dei servizi segreti, nazionali e internazionali. La loggia non può essere il luogo ove avvengono intrighi di ogni tipo. Tanto forte è stata per me tale convinzione che, dopo la mia elezione a Gran Maestro del Goi, ho deciso lo scioglimento della famigerata loggia “Colosseum”, ritrovo di spie di tutto il mondo. La motivazione ufficiale? Non pagavano le capitazioni».

Se davvero massoneria è sinonimo di oltre che di riservatezza, anche di trasparenza, perché mai non vengono forniti i nomi degli iscritti alle Prefetture affinché tutti possano giudicare l’opportunità o meno di certe affiliazioni secondo criteri di buon senso, oltre che di legge?

«I nominativi di massoni delle varie Obbedienze non vengono forniti ufficialmente alle autorità dello Stato (Ministero degli Interni, Prefetture, Questure) poiché si continua a privilegiare il “gioco a nascondino”, con la motivazione che solo così si evitano le “persecuzioni”. E’ semplicemente ridicolo parlare di persecuzioni in uno Stato democratico. Nella realtà, tuttavia, gli elenchi si trovano in molte Questure, ove zelanti massoni, non autorizzati ufficialmente dalle autorità massoniche, li hanno consegnati confidenzialmente, forse per accattivarsi la loro benevolenza. Proprio perché io sono convinto assertore della trasparenza, dopo aver lasciato il Goi e fondato la Gran loggia Regolare d’Italia, ho concordato col Ministro degli Interni la consegna ufficiale di tutti gli iscritti alla Glri: alla fine di gennaio di ogni anno, il Gran Segretario avrebbe consegnato, con la procedura formale, a due Prefetti nominati appositamente per tale scopo dal ministro, l’elenco completo (con le relative generalità) di tutti gli affiliati alla Gran Loggia Regolare d’Italia. L’elenco sarebbe stato preso in consegna e chiuso in una cassaforte, a disposizione delle autorità dello Stato che desiderassero visionarlo. Così è stato per tutti gli anni che ne sono stato Gran Maestro».

Pubblicherebbe dunque i nomi degli iscritti alla sua obbedienza?

«Finché sono stato Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia, ho sempre pubblicato gli elenchi dei massoni alla mia obbedienza, come ho spiegato precedentemente. L’Ordine Dignity, che ho fondato dopo il mio ritiro definitivo dalla massoneria mondiale, non è un’Obbedienza massonica, come spiegherò tra poco. Essa s’ispira ai principi che regolano il percorso esoterico dell’umanità e svolge le sue attività sotto la luce del sole, in piena trasparenza in Italia e all’estero. Se per ipotesi si dovesse rendere necessario pubblicizzare i suoi elenchi, non tarderei un solo istante a farlo».

Ci fermiamo qui ma domani torno con la terza e ultima puntata.

Storia/3. L’ex Gran Maestro massone Giuliano Di Bernardo in esclusiva sul blog parla di Cosa nostra, ‘ndrangheta e dei rischi attuali per la democrazia. Cari amici di blog, se mi avete seguito nei due giorni appena trascorsi, sapete che sto pubblicando un’intervista a puntate (vista la complessità delle materie trattate) all’ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia, dal ’90 a al ‘93) e Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri, successivamente e fino al 2002) Giuliano Di Bernardo. Visto il suo profilo mi incuriosiva conoscere le sue verità e le sue esperienze su alcune vicende che, nel recente passato, hanno attraversato, incrociato o lambito la massoneria. Senza passato è impossibile conoscere il presente. E’ Di Bernardo, infatti, che, nel giro di pochi mesi, nel 2014 è stato prima chiamato dalla Procura di Reggio Calabria e poi da quella di Palermo, a rispondere alle domande dei magistrati su alcune delicatissime vicende storiche i cui contorni sono ancora nebulosi e senza la cui chiarezza è di fatto impossibile capire quanto sta accadendo oggi in Italia. Di Bernardo, ad esempio, ha attraversato il periodo delle stragi mafiose in Italia e la fase immediatamente precedente e successiva, viste da osservatori privilegiati (rimando alla prima parte con il link a fondo pagina). Nella prima parte dell’intervista di lunedì, Di Bernardo ha inquadrato il suo profilo, parlando a 360 gradi di massoneria, delle sue deviazioni, della legge Anselmi, dei suoi attuali rapporti con le obbedienze massoniche, del Dignity Order che ha fondato nel 2011 e di altre cose ancora. Premesse necessarie (ma non certo sufficienti) per affrontare la seconda puntata in cui si è entrati nel vivo delle affiliazioni, della necessità di trasparenza e della sua visione decadente della e nella massoneria. Oggi entriamo ancora più nel vivo (ripeto: senza alcuna pretesa di esaustività o verità assoluta), con la lettura di Di Bernardo sul rischio (nella migliore delle ipotesi) di infiltrazioni mafiose nelle logge massoniche di varie obbedienze. Una lettura che corre parallela (saranno le indagini a stabilire se si incroceranno in uno o più punti) ad alcune delicatissime indagini che si stanno svolgendo da Palermo a Reggio Calabria, da Catania a Caltanissetta (solo per citare alcune procure). Buona lettura.

Collaboratori di giustizia (cito per tutti il calabro-milanese Antonino Belnome) e uomini di  ‘ndrangheta (cito tra tutti Pantaleone Mancuso) hanno detto o fatto riferimento al fatto che oltre la ‘ndrangheta c’è la massoneria. Come interpreta queste affermazioni? Cosa vogliono dire? Anche alla luce del fatto che già nell’indagine “Sistemi criminali” del ’98 dell’allora pm Roberto Scarpinato, risultava, da dichiarazioni di pentiti, che la massoneria calabrese era la più potente del Sud e tra le più potenti d’Italia.

«Direi che ‘ndrangheta e massoneria si trovano a condividere una rappresentazione verticistica del potere, con modalità esoteriche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta o l’iniziazione alla massoneria segue un rituale che, oltre le specificità storiche e contingenti, ha molte analogie. L’affiliato alla ‘ndrangheta è perciò predisposto a essere massone. Questo spiega, al di sopra degli interessi materiali, l’enorme affluenza nelle logge calabresi. Con questo non voglio dire che essi siano affiliati della ‘ndrangheta, ma che esiste la possibilità teorica che lo siano. Il maggior potere della massoneria calabrese, rispetto alle altre regioni d’Italia, mi sembra un dato acquisito che potrei confermare».

Recentemente la loggia Rocco Verduci di Gerace (Reggio Calabria) è stata dapprima “sospesa” per rischio di infiltrazioni della ‘ndrangheta e poi riammessa dallo stesso Goi nel mese di giugno. Partendo da questo dato puramente di cronaca, a suo giudizio quanto, come e perché sono infiltrate le logge massoniche (indipendentemente dall’obbedienza o comunione alla quale appartengono), della Calabria, della Sicilia, della Campania e, in genere del Sud?

«Delle vicende della loggia Rocco Verduci di Gerace so quello che hanno scritto i giornali. Non avendo una conoscenza diretta e personale non esprimo alcun giudizio. Sull’infiltrazione nelle logge massoniche, non dovrebbe ormai esistere alcun dubbio, anche se, nel concreto, è molto difficile documentarne il “peso”».

Esiste una differenza  – da questo punto di vista – tra rischio di una permeabilità criminale al Nord, al Centro e al Sud?

«Agli inizi degli anni ’90, tale permeabilità esisteva anche se sporadica e limitata. L’inchiesta del dott. Agostino Cordova, procuratore di Palmi, ha avuto inizio con la constatazione che, in molti reati avvenuti in Calabria, erano coinvolti massoni di diverse Obbedienze. A quel tempo, ero Gran Maestro del Goi. Nel 1992, ricevetti a Villa Medici del Vascello, sede nazionale del Goi, la richiesta formale e ufficiale, da parte della Procura di Palmi, di consegnare l’elenco dei massoni calabresi. Essendo impossibile non adempiere la richiesta del magistrato, autorizzai la consegna dell’elenco, sperando che tutto finisse lì. Ma non fu così. Dopo breve tempo, ricevetti un’altra richiesta che riguardava però la consegna dell’elenco di tutti i massoni italiani del GOI, con la motivazione che si voleva verificare le relazioni dei massoni calabresi con i massoni di altre ragioni. Il dott. Cordova sospettava che la massoneria fosse il tramite per favorire attività vietate dalla legge in tutte le regioni italiane. Compresi allora che si stava mettendo sotto inchiesta il Goi e le altre Obbedienze massoniche. Poiché la richiesta non era supportata da un mandato formale, mi rifiutai di consegnare gli elenchi. Come reazione, la Procura di Palmi suggellò il computer e vi mise un agente di guardia, in attesa di procurarsi il mandato per il sequestro. Si parlò dell’”imbavagliamento del computer”. Con un mandato formale di sequestro, null’altro avrei potuto fare per impedirlo. La Procura acquisì gli elenchi e iniziò una farsa all’italiana che si concluse alcuni anni dopo con l’archiviazione dell’inchiesta per decorrenza dei tempi. L’infiltrazione è continuata in quasi tutte le regioni d’Italia. Da quel che dicono i mezzi di comunicazione di massa, sembra che essa abbia raggiunto i vertici delle istituzioni dello Stato. La permeabilità oggi non è un rischio ma una realtà».

In Calabria, un procedimento penale in corso, che corre parallelamente anche a Milano (cosiddetta indagine Breakfast) ipotizza una superloggia calabrese segreta, con forti addentellamenti e radici oltrefrontiera, in grado di condizionare la vita amministrativa, organi dello Stato, economia e finanza, in strettissimo legame con la potente cosca De Stefano. E’ uno scenario possibile a suo giudizio?

«Da quanto ho detto in precedenza, lo scenario è possibile».

Può raccontare, di conseguenza, cosa accadde e quali conseguenze ebbe sul Goi e sulla sua personale vita massonica il viaggio nel Regno Unito a confronto con i vertici della massoneria, a partire dal Duca di Kent, massima autorità massonica, per segnalargli il rischio di ingerenze criminali legate a mafia e ‘ndrangheta? Un incontro, se non erro, che portò quest’ultimo a revocare il riconoscimento al Grande Oriente d’Italia?

«L’inchiesta della Procura di Palmi aveva dato l’avvio a una serie di eventi che mi convinsero a ritenere conclusa la mia esperienza massonica nel Goi. Fu una decisione sofferta dopo 42 anni di appartenenza. Il dado era tratto. Chiesi un incontro con i vertici della massoneria inglese ed esposi la situazione così come l’avevo conosciuta. Chiesi loro cosa avrei dovuto fare. Mi risposero che erano già a conoscenza di quanto contenuto nel mio rapporto (alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra non mancano le fonti d’informazioni) e mi fecero intendere la possibile soluzione: dimettermi dal Goi, fondare una nuova Gran Loggia che avrebbe avuto il loro riconoscimento, dopo averlo ritirato al Goi. Tutto si compì in otto mesi: le mie dimissioni formali dal Goi (15 aprile 1993), la fondazione della Gran Loggia Regolare d’Italia (16 aprile 1993), il ritiro del riconoscimento al Goi (8 agosto 1993), il riconoscimento della Gran Loggia Regolare d’Italia (8 dicembre 1993). Ancora oggi la Gran Loggia Regolare d’Italia, di cui sono stato Fondatore e Gran Maestro fino al 2002, detiene il riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Il Grande Oriente d’Italia, che l’aveva perso nel 1993, non l’ha più riavuto».

Veniamo all’indagine, che corre parallela a quella di Reggio Calabria, di Palermo, nella quale, nel processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra i pm sono tornati a rievocare il ruolo della massoneria deviata, della stessa P2, in quel vero o presunto disegno che voleva portare a un nuovo ordine politico, compresa l’eventuale secessione o frammentazione dell’Italia in macroregioni: cosa sa di quanto avvenne in quel periodo ad opera della massoneria deviata in quel progetto folle e allo stesso tempo ambizioso?

«I magistrati che indagano sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra hanno deciso di riascoltarmi poiché ritengono che oggi in Italia si stia ripresentando la stessa situazione del ’92, che io ho vissuto in prima linea. Chiedendomi di spiegare ulteriormente quegli eventi, essi pensano, per analogia, di comprendere meglio ciò che sta accadendo ai nostri giorni. Io condivido questa loro impostazione dell’indagine. Sulla base delle mie esperienze personali e delle conseguenze che traggo induttivamente dagli eventi, ritengo che oggi la situazione sia più grave di allora, poiché le deviazioni che in quel tempo esistevano non sono state corrette, sia in massoneria sia nelle istituzioni statali. Per quanto riguarda il presunto progetto della P2 per creare un nuovo ordine politico in Italia, vorrei dire quel che penso. Nella P2, contrariamente a quel che generalmente si pensa, non vi è stato il progetto di dare un nuovo assetto allo Stato italiano, semplicemente perché non rientrava nei suoi interessi fondamentali. Gelli, tuttavia, si era impegnato con il governo statunitense a fare tutto il possibile per impedire che in Italia si realizzasse il sorpasso dei comunisti. Per raggiungere questo scopo, esso aveva dato a Gelli aiuti di ogni tipo, che lo avevano trasformato in un uomo con un potere così grande che nessun altro aveva mai avuto prima. Si aspettavano da lui un progetto, da attuare in tempi brevi, che li facesse dormire con sogni tranquilli. Pressato dai vertici del governo statunitense, Gelli ha improvvisato quel progetto di cui ancora si parla ma sempre più a sproposito. Quando non si riesce a comprendere le ragioni che guidano il mondo in cui si vive, si scambiano di sovente le lucciole per lanterne: così Gelli appare come il Grande vecchio, che tutto vede e tutto comanda. Se si avesse la volontà e la pazienza di entrare dentro questi eventi per conoscerli nella loro realtà, si vedrebbe che essi poggiano sulla palude o sul nulla».

A quanto le risulta c’è il rischio concreto che si riproponga quella oscura stagione con la presenza, ancora una volta di ambienti deviati della massoneria?

«Il rischio c’è ed è grande, ma non solo per l’intervento della massoneria deviata (da intendere però nel senso che ho già spiegato)».

C’è il rischio concreto che la vita di pm e giudici, da Palermo a Caltanissetta, da Catania a Reggio Calabria (solo per citare alcune procure che stanno lavorando sulla stagione delle strage mafiose) sia legata alle decisioni prese da sistemi criminali nei quali le cosche e i clan di mafia sono una quota parte e il resto è composto da pezzi infedeli dello Stato e pezzi deviati della massoneria?

Il rischio che corrono i difensori della legalità dello Stato è grande, non soltanto per le decisioni prese da clan della mafia (il significato di questo termine esce sempre più dal contesto storico e tradizionale per diventare uno “stile di vita”, che ispira i balordi che stanno occupando i luoghi del potere delle nostre città), dalla massoneria deviata (nel senso da me specificato), da rappresentanti infedeli dello Stato. Ma anche per il manifestarsi di un fenomeno sociale nuovo, spesso sottovalutato ma gravido di tremende conseguenze. Lo scenario “classico” della criminalità è stato messo in crisi da una dilagante “anarchia” che si manifesta in tutti i livelli della società italiana. Ne sono coinvolti non solo gli operatori del denaro ma anche i rappresentanti della cultura. Se ci chiediamo dove sta andando il nostro paese, la risposta non può che essere una e soltanto una: verso l’anarchia. Le regole e le leggi che governano la società italiana vengono sempre più disattese. Si sta scivolando, lentamente ma inarrestabilmente, verso lo stato sociale di guerra di tutti contro tutti, descritto dal filosofo Thomas Hobbes nel suo Leviatano. E’ proprio questa dilagante anarchia che fa emergere e dà potere a un livello di criminalità “anonima” che sta devastando la nostra società. Essa sfugge a qualsiasi definizione poiché non ha né regole né un’organizzazione gerarchica del potere. E’ come una nebbia che sale verso l’alto e offusca tutto. Se lo Stato non interverrà per reprimere questa nascente anarchia, rischiamo di vivere in una società senza quei valori che hanno consentito la nascita e lo sviluppo delle civiltà millenarie. Paradossalmente, in quel tempo sempre più prossimo, le organizzazioni criminali che oggi ci preoccupano (mafia, ‘ndrangheta, camorra, massoneria deviata ecc.) potrebbero apparire come aspetti negativi di un sistema sociale tutto sommato vivibile. E forse ne avremo nostalgia. Eppure non mancano, nel nostro Paese, autorevoli personalità che preconizzano l’avvento del tiranno. Se avessero letto Aristotele e analizzato il percorso storico dell’umanità, avrebbero compreso che il tiranno (leviatano) interviene nella società quando lo stato di anarchia è al massimo della sua potenza distruttiva, per riportare l’ordine con tutti i mezzi possibili».

Quanto è alto il rischio di inquinamento delle prove  e di delegittimazione di quanti (pm, giudici, associazioni, giornalisti) sono alla ricerca della verità senza guardare in faccia nessuno?

«Coloro che ricercano la verità, anche mettendo a rischio la propria vita, sono stati da sempre considerati idealisti da non prendere in considerazione o persone pericolose da tenere sotto controllo o da eliminare. Nel tempo in cui viviamo, la seconda possibilità è quella più probabile. Se non vi fosse il loro impegno, la nebbia dell’anarchia sarebbe ancora più impenetrabile. Il loro impegno, tuttavia, dovrebbe essere sorretto dalle istituzioni statali per renderlo più sicuro ed efficace».

Non sarà che quel “Patto del Nazareno”, che secondo il mio ex direttore Ferruccio de Bortoli, puzza di massoneria stantia, è un atto (mi dica eventualmente Lei quale) di una lunga guerra tra obbedienze massoniche per assumere (o dividersi) quel (poco) potere rimasto oggi in Italia?

«La massoneria non ha nulla a che fare con il Patto del Nazareno, che è semplicemente un accordo per far sopravvivere un sistema politico ormai in decomposizione. Come italiano non posso che sperare nel successo di colui che oggi guida il paese. Come conoscitore delle arcane cose, vedo le trappole in cui cercheranno di farlo cadere».

Una domanda finale: ma se la Massoneria è Fratellanza Universale, perché siete così divisi, parcellizzati e, spesso e volentieri, l’un contro l’altro armati?

«La massoneria non è più oggi una Fratellanza Universale. Lo è stata quando in Inghilterra c’era solo la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, in Francia solo Le Grand Orient de France, in Italia solo Il Grande Oriente d’Italia. Oggi, in tutti i Paesi ove esiste la massoneria, sono numerose le Obbedienze massoniche. In Italia, si pensa che siano più di ottanta. Continuano a nascere come funghi in un’estate piovosa. In Romania, nel 1993, ho fondato la Gran Loggia Nazionale di Romania: dopo venti anni, le Obbedienze massoniche sono più di dieci, senza contare un numero imprecisato di Riti e Ordini. Tutte queste massonerie si combattono senza esclusione di colpi (legali e non). Al riguardo, è stata coniata la frase, per intendere i massoni: “Fratelli coltelli”. Ribadisco e continuo a ribadire: questa non è massoneria!!!»

La via femminile della massoneria italiana. Il tema è stato al centro di una conferenza organizzata per il 70° della Loggia Savonarola, scrive Marcello Celeghini su “Estense”. Anche la massoneria italiana scopre una sua ‘via’ femminile. Il rapporto tra il mondo massonico e quello femminile è stato al centro, venerdì pomeriggio alla Sala della Musica in San Paolo, di una conferenza dal titolo “Massoneria del Grande Oriente e Ordine della Stella d’Oriente: storia, finalità e prospettive”, organizzata dalla loggia ferrarese ‘Gerolamo Savonarola’ in occasione delle celebrazioni per il 70° anniversario dalla sua fondazione (1945-2015), a cui hanno partecipato in qualità di relatori Elda Levi, Worthy Grand Matron dell’Ordine della Stella d’Oriente, e Claudio Bonvecchio, docente all’Università dell’Insubria e Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia, moderati da Stefano Mandrioli venerabile della Loggia Savonarola. Il tema per il mondo massonico è molto spinoso poiché, secondo quanto stabilito dal padre della massoneria James Anderson nel Settecento, le donne non possono entrare nelle varie comunità massoniche anche se, negli anni, sono state diverse le associazioni massoniche femminili, più o meno riconosciute, che si sono sviluppate. Tra queste, l’unica riconosciuta dalla massoneria regolare, è l’Ordine della Stella d’Oriente che accoglie sia uomini sia donne insieme che testimoniano nella vita un impegno di ricerca iniziatica per un rinnovamento personale ed interiore. L’Ordine però, nato negli Stati Uniti d’America nel 1876, consente l’ingresso solo ai maestri massoni e a donne a loro legate da stretti vincoli di parentela. Le cinque punte della stella simbolo dell’Ordine indicano i cinque ‘ruoli’ che la donna si trova ad assumere nel corso della propria vita e che le permettono di fare parte della massoneria (figlia, sorella, moglie, madre e vedova). Un dibattito, quello sull’impossibilità per le donne di accedere al mondo massonico se non tramite strette parentele maschili, che sta facendo discutere ormai da parecchi anni le comunità massoniche europee. “Ogni giorno oltre cinquanta quotidiani italiani – rivela il Grande Oratore Claudio Bonvecchio – ci riservano attenzione sia per criticarci che per scoprirci. Per questo motivo non dobbiamo astrarci dalla nostra epoca, ma ribadire con forza i nostri valori fondativi basati sulla libertà, la tolleranza, l’uguaglianza e la fratellanza. Sull’apertura al mondo femminile, la Massoneria non deve restare indietro in un tempo in cui anche la più chiusa delle istituzioni, la Chiesa Cattolica, affronta questo tema. Il mio parere personale è quello di creare fratellanze femminili in piena comunione con le fratellanze maschili esistenti ma ben distinte da queste. La distinzione è necessaria per una diversità di genere esistente a livello psicologico e nella percezione della realtà”. “La mia esperienza all’interno dell’Ordine – racconta Elda Levi – è iniziata trent’anni fa. Di solito il percorso iniziatico dura tre anni. Una donna ha il compito, all’interno della fratellanza massonica, di studiare e indagare l’emozionalità umana in tutte le sue sfaccettature. Mi immagino il cielo notturno come un soffitto, ornato da qualche ragazzina romantica con stelle fosforescenti, e una è di sicuro la sua preferita, quella a cui rivolge lo sguardo sognante prima di addormentarsi”.

La via femminile alla massoneria. Sarà l’oggetto del prossimo incontro pubblico alla Sala della Musica con cui la Loggia Savonarola di Ferrara sta celebrando il suo 70° Anniversario, continua la redazione di “Estense”. Continuano gli appuntamenti pubblici con i quali la Loggia “Girolamo Savonarola” di Ferrara si propone di celebrare il suo 70° anniversario di fondazione (1945-2015). La loggia estense, una delle più antiche d’Italia e di gran lunga la più longeva fra quelle tuttora in attività in provincia di Ferrara, si propone con queste iniziative di sintonizzare la propria ricorrenza con la Storia e l’Attualità della società in cui opera da così tanto tempo. Così dopo aver toccato nella precedente conferenza (novembre 2014) il tema della guerra e della pace (“Massoneria e Prima Guerra Mondiale”), per il prossimo incontro, previsto Sabato 24 Gennaio alla Sala della Musica di Ferrara in via Boccaleone 19 alle ore 16.00, la Loggia Savonarola ha deciso di affrontare pubblicamente il rapporto fra la stessa Massoneria e le Donne, e più in particolare “Massoneria del Grande Oriente e Ordine della Stella d’Oriente: storia, finalità e prospettive”. Da notare che quando la Loggia Savonarola venne fondata (nel Settembre del 1945) le donna in Italia ancora non avevano diritto di voto. A quei tempi ancora poche donne avevano la patente di guida, e solo qualche decennio dopo ci sarebbe stata la prima donna sindaco (guarda caso a Ferrara, Luisa Balboni dal 1950 al ‘58), le prime donne vigilesse (ancora a Ferrara), la prima donna conduttrice di autobus (sempre a Ferrara), la prima donna magistrato (ancora una volta una ferrarese), e così via, fino alle donne soldato, alle donne astronauta, ed a tante altre donne in tutti gli altri mestieri e professioni fino ad allora praticati solo da uomini… Il tempo dunque ha prodotto grandi trasformazioni nel contesto della donna nella nostra società. Ma non nella massoneria che continua ad escludere la donna dai propri templi, con la sola eccezione delle “Stelle d’Oriente”, che anche a Ferrara sono presenti da alcuni anni con un proprio Capitolo intestato alla divinità egizia “Osiride”. L’argomento sarà introdotto dall’avvocato Giangiacomo Pezzano, presidente del Collegio dei Maestri Venerabili dell’Emilia Romagna. Interverranno: Elda Levi, Worthy Grand Matron del Gran Capitolo d’Italia, Ordine della Stella d’Oriente; ed il filosofo Claudio Bonvecchio, docente all’Università dell’Insubria e Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia. Modererà il dibattito il dottor Stefano Mandrioli, membro della Loggia Savonarola (di cui è stato anche Maestro Venerabile) e Gran Rappresentante dello stesso Grande Oriente. Come si sa le maggiori famiglie massoniche mondiali, fra queste anche il Grande Oriente d’Italia, per tradizionale secolare, forse millenaria, non ammettono le donne nelle proprie logge ed ai propri riti. L’iniziazione femminile è da sempre esclusa. Per varie ragioni: la principale motivazione per tale interdetto viene fatta risalire alle origini “di mestiere” della massoneria, intesa come fratellanza di muratori, scultori, carpentieri, ecc. (i costruttori di cattedrali) da cui appunto deriva la storica definizione di “liberi muratori” con cui si appellano ancora oggi tutti i massoni. L’altra più reiterata giustificazione consiste invece nella “Solarità” della ritualità massonica, prettamente maschile, ritualità che nulla avrebbe a che vedere con gli aspetti “Lunari” attribuiti alla sfera femminile dell’esistenza. Più approfonditamente c’è chi rileva come i riti ed i miti della massoneria maschile siano essenzialmente rivolti al concetto della Morte, ed alle modalità spirituali per vincerne la paura e “conquistarla”, la Morte, anziché farsene sopraffare. In tutto questo non affiorerebbe però alcun aspetto fondante riguardante principi e archetipi tipici della femminilità, quali la Fecondazione e la Fertilità, in altre parole il rovescio della Morte: la Vita. Questa, beninteso, è solo una delle tante controverse tesi su cui la Massoneria dibatte da secoli, su se stessa, sul ruolo della donna nei confronti della Tradizione Iniziatica, e più in generale nella società. Una questione per molti versi speculare a quella del Sacerdozio Femminile in campo Cattolico. Nonostante il perdurare di questa posizione di esclusione della donna da parte della Massoneria ufficiale (ma non di tutta la Massoneria: nel mondo infatti vi sono famiglie massoniche che accettano senza problemi le donne al proprio interno, come ad esempio la Massoneria italiana di Piazza del Gesù, ma che per questo non vengono più riconosciute dalla Loggia Madre d’Inghilterra e non possono più essere definite “massoneria regolare”), nonostante questo, dicevamo, qualche breccia si è aperta da tempo anche per l’iniziazione femminile. La più importante, e l’unica attualmente riconosciuta dai Grandi Orienti “regolari”, è quella delle “Stelle d’Oriente”, ordine iniziatico affine alla massoneria di cui fanno parte “fratelli” e “sorelle”, queste ultime legate da vincoli di parentela a massoni regolari. In pratica possono far parte delle Stelle d’Oriente solo mogli, figlie, sorelle ed altre parenti di massoni maschi. Un vincolo che qualcuno vorrebbe allargare. L’Ordine delle Stelle d’Oriente è nato il secolo scorso negli Stati Uniti, principalmente ad opera di Robert Morris, Gran Maestro della Loggia del Kentucky, raccogliendo il ricordo e la tradizione delle cosiddette “Logge d’Adozione” nate secoli prima in Europa e nella stessa America al seguito di logge militari francesi che consentivano alle consorti degli ufficiali e ad altre donne d’elezione del luogo di riunirsi in forma rituale sotto la direzione di un Maestro Massone. A introdurre le Stelle d’Oriente in Italia nell’ultimo dopoguerra è stato un altro esercito, non più quello francese, bensì quello quello americano. I primi nuclei di “Stelle” italiane si formarono infatti in località vicine a grandi basi militari statunitensi. Il resto è storia che ha portato questo movimento con un intenso cammino fino al presente. Un presente che ha visto recentemente la nascita del Gran Capitolo d’Italia, più autonomo e indipendente. Di tutto questo parlerà ovviamente, nel prossimo incontro di Ferrara, la Whorty Grand Matron, massima autorità, delle Stelle d’Oriente Italiane, Elda Levi. Accanto all’importante storia delle Stelle d’Oriente, in Italia, c’è da dire, esistono, già da prima della Rivoluzione Francese, diversi altri esempi di approccio femminile alla Massoneria: ci fu infatti l’esperienza delle “Giardiniere” (corrispettivo femminile dei Carbonari risorgimentali), seguite dalla società delle “Mopse” creata dalla Contessa Caracciolo sul finire dell’800, per giungere infine ad una vera e propria Gran Loggia Femminile d’Italia, retta a lungo da Marisa e Franca Bettoja, madre e figlia, rispettivamente suocera e moglie di Ugo Tognazzi. Prima dell’attuale Capitolo Osiride delle Stelle d’Oriente, si ha inoltre notizia, a Ferrara, dell’esistenza di una Loggia Femminile intitolata ad “Anita Garibaldi” negli anni immediatamente successivi all’Unità Nazionale, e di un tentativo (generoso, ma infruttuoso) di creare un nucleo locale di Stelle d’Oriente già fra la fine degli Anni Cinquanta ed i primi Anni Sessanta, ad opera di membri della stessa Loggia Savonarola, che oggi dedica ancora una volta alle proprie “Sorelle” un’importante momento del suo 70ennale. E lo fa con pubblicamente, con la massima trasparenza ed onestà intellettuale.

IL FENOMENO FEMEN.

Femen a Roma, atti osceni in piazza San Pietro: scandalo delle Femen, scrive “Contro Campus”. Non passano mai inosservate: sono il movimento delle Femen che continuano a far sentire la propria voce e non solo. E’ infatti difficile non venire la corrente dei gesti compiuti da questo movimento. Come è già spesso accaduto, anche stavolta la battaglia in questione è contro la Chiesa, in particolare contro la figura del Papa. Già il 19 dicembre 2013  scorso una Femen aveva provato a recarsi al Vaticano mostrandosi a seno nudo e con una sola parola dipinta in rosso sul proprio corpo: abortion. In quel caso, la protesta non andò totalmente a buon fine in quanto venne fermata dalla polizia ancor prima di riuscire a recarsi in piazza. Tuttavia, riuscì comunque a creare una certa agitazione e a far sì che i media parlassero dell’avvenimento. Il 14 novembre 2014, presso la basilica di San Pietro, il movimento delle Femen torna a manifestare al fine di ribadire il loro pensiero, ove mai non fosse risultato ancora abbastanza chiaro. Per esprimere la loro volontà di vivere in uno Stato realmente laico – dove gli abitanti siano realmente tutti uguali tra loro e dove non vi siano gerarchie o uguaglianze imposte dalla Chiesa. Tre Femen hanno deciso di recarsi in piazza San Pietro, denudarsi e mostrare innanzitutto le scritte nere dipinte sui propri corpi. Davanti, era possibile leggere la scritta Pope is not a politician – il Papa non è un politico – mentre sulla schiena Keep it inside: tienilo dentro, anteprima del gesto compiuto successivamente che ha generato ulteriore senso di indignazione e lo scandalo vero e proprio. Infatti a quel punto le Femen hanno iniziato a mimare autoerotismo e rapporti sessuali servendosi dei suddetti crocifissi. Immediato è stato l’intervento delle forze dell’ordine che hanno provveduto a portare le tre Femen in commissariato di Borgo di Roma. Ancora una volta l’opinione pubblica è divisa tra chi sostiene il pensiero delle Femen, chi contrario a priori e chi, pur condividendo le loro idee creda che siano stati superati certi limiti.

Il fenomeno Femen: non sarebbero militanti, ma ragazze pagate per fare spettacolo, scrive Renato Berio su “Il Secolo D’Italia”. Quanto vale il logo FF, il Fenomeno Femen, lo spettacolo delle attiviste dei blitz a seno nudo contro leader religiosi e capi di Stato (ultime performance italiane contro Ratzinger e contro Berlusconi)? Mediaticamente il successo è assicurato ma siamo davvero dinanzi ad un movimento che ha a cuore la condizione delle donne? Secondo il Venerdì di Repubblica le “sextremiste” di Femen sono davvero l’ultima provocante faccia del femminismo 2.0. In Italia non hanno ancora molto seguito, anzi sono tenute a distanza dalle veterane del femminismo che, del resto, non potevano prima applaudire la crociata di Lorella Zanardo contro i nudi in tv e poi benedire il topless delle Femen. Il Foglio ci informa che Femen è diventato “il club femminista più influente d’Europa, almeno sul piano dell’immagine. La loro società ha una pagina Facebook con migliaia di contatti, un account su twitter, un sito internet in tre lingue diverse: lì si trovano filmati, interviste, magliette (25 euro), colori per il corpo (un kit 70 euro), felpe, tazze e cappelli (dai 20 ai 60 euro)”. Un marchio, dunque, più che un’ideologia. Che dietro l’organizzazione girino soldi a palate, del resto, lo si sapeva. La notizia era rimbalzata anche in Italia tramite i social network italiani dopo che una giornalista ucraina si era infiltrata nel movimento e aveva rivelato che le attiviste di Femen sono pagate mille euro al giorno e che quando vanno in “missione” non si fanno mancare nulla. Chi paga? La giornalista ipotizza rapporti con due imprenditori tedeschi, Helmut Geier e Beate Schober e con un uomo d’affari americano, Jed Sunden. Secondo il quotidiano francese Le Matin a tirare i fili delle attiviste di Femen ci sarebbe ancora un uomo, Viktor Sviatski, un creativo trentenne che usa le nuove suffragette a seno nudo per diffondere e rendere più solido il marchio Femen, magari per farne un partito, o meglio per fare pressione sulla politica e sugli organi di informazione. La leader ucraina del movimento, Anna Hutsol, che vive ormai tra Kiev e Parigi dove le Femen sono trattate come star, è un’esperta dei meccanismi mediatici che amplificano un messaggio veicolato con parole-choc. Già, ma per conto di chi viene imbastita la messinscena?

Femen, giornalista infiltrata: "Finanziatori dietro al movimento, ricevono 1.000 dollari al mese a testa", scrive “Libero Quotidiano”. Una giornalista di un canale televisivo ucraino è riuscita ad infiltrarsi nel movimento femminista Femen, e ha fatto delle scoperte che, se confermate, getterebbero nello scandalo il gruppo rivoluzionario del gentil sesso. Le scoperte vengono riportate dal sito La voce della Russia. Per settimane la giornalista ucraina è stata addestrata su come avere un comportamento aggressivo e attrarre l'attenzione dei giornalisti. L'inviata sotto copertura è poi entrata a far parte dell'organizzazione nei panni di una convinta sostenitrice delle idee Femen, partecipando personalmente alle azioni di protesta in topless, registrando tutto con una telecamera nascosta.

L'inchiesta - Il debutto in topless della giornalista è avvenuto a Parigi dove Femen ha recentemente aperto un nuovo ufficio di rappresentanza. Alcune attiviste hanno organizzato una manifestazione nel loro stile mostrando il seno davanti al centro culturale islamico parigino. La giornalista era terrorizzata, respirava l’odio della gente che sentiva derisa la propria fede: "L'azione dimostrativa si sta svolgendo presso un centro culturale islamico e riteniamo che la folla sia pronta ad assalirci, ci salvano solo le telecamere dei giornalisti".

Attiviste finanziate - Durante il periodo sotto copertura, la giornalista ha scoperto che dietro gli ideali di emancipazione femminile, in realtà, ci sono finanziatori dell’Europa e degli Stati Uniti, che pagherebbero le ragazze almeno con 1000 dollari al mese, quasi tre volte il salario medio ucraino. La ragazza, per il viaggio, non ha dovuto sborsare un euro: il viaggio a Parigi è stato, infatti, interamente pagato dallo stesso movimento Femen. I biglietti d’aereo, le camere d'albergo, il taxi e i pasti erano stati quantificati in 1.000 euro al giorno; a parte, ma sempre rimborsate, anche le spese per gli estetisti e la cosmetica.

Chi è lo sponsor? - Chi finanzia questo movimento e quale sia lo sponsor che pubblicizzano le ragazze mostrando il loro seno, rimane avvolto nel mistero. Ma la giornalista ucraina suggerisce che alcune note persone si sono incontrate con le leader del movimento. Si tratta del miliardario tedesco Helmut Geier, l’imprenditrice tedesca Beate Schober e l’uomo d'affari americano Jed Sunden. L’ultimo sponsor delle Femen, ipotizza la giornalista, forse è Wikipedia.

UN APPROFONDIMENTO, ANCHE LETTERARIO, SULLA MASSONERIA.

Massoneria, il libro shock di Gioele Magaldi: "Società a responsabilità illimitata", scrive “Libero Quotidiano”. Sarà presentato domani a Roma il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, "Massoni società a responsabilità illimitata" a cura di Gioele Magaldi. L'opera, che ha tutte le carte in regola per figurare come il manoscritto più sconcertante, inaspettato e comunque disorientate dell'anno, esce con il seguente sottotitolo: "La scoperta delle Ur-Lodges", come recita il font bianco su copertina violacea edita da Chiarelettere Editore. Ma cosa sono le Ur-lodges? "Superlogge sovranazionali che vantano l'affiliazione di presidenti, banchieri, industriali" in cui "nessuno sfugge a questi cenacoli" a dirla con Il Fatto quotidiano di oggi che, proprio sul cartaceo di questa mattina, mercoledì 19 novembre, analizza l'opera di Magaldi, presentato dal quotidiano di Antonio Padellaro come "libero muratore di matrice progressista". "Italiani bambinoni deficienti" - Ad essere particolarmente interessante è proprio il capitolo finale del libro in cui è presente un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni di queste fantomatiche "Ur-Lodges". Uno di loro, racconta: "Per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi".

La lista - Mario Draghi, governatore della Bce, sarebbe, a sentire quel che dice Magaldi "affiliato a ben cinque superlogge." Poi nella parte finale del manoscritto,  l'autore snocciola, l'elenco degli italiani inseriti nelle Ur-Lodges, in cui, oltre al già citato Mario Draghi, figurerebbero "Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago".

"Massoni ambivalenti su Renzi. Il vero potere? Napolitano-Draghi" è la presentazione del libro su “Affari Italiani”.

Gioele Magaldi (14 luglio 1971), storico, politologo e filosofo, ex Maestro Venerabile della loggia "Monte Sion di Roma" (Goi), già membro della Ur-Lodge "Thomas Paine", è Gran Maestro del movimento massonico "Grande Oriente Democratico" (God). Fautore di un impegno solare e progressista della massoneria, ha dato vita anche a"Democrazia Radical Popolare" (Drp) e al Movimento Roosevelt (Mr). Tra le sue pubblicazioni: UT PHILOSOPHIA POESIS (Pericle Tangerine) e ALCHIMIA. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO ED ERMENEUTICO (Mimesis). Laura Maragnani, giornalista ("Europeo","Panorama"), ha scritto LE RAGAllE DI BENIN CITY (Melampo), ECCE OMO (Rizzoli), I RAGAZZI DEL '76 (Utet).

ANTEPRIMA/ Merkel, Putin, Obama,Xi Jimping, Lagarde, Padoan, Gandhi, Reagan, Mandela, Jfk, Papa Giovanni, Agnelli, Clinton e Blair. Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico rivela le liste delle segretissime Ur-Lodges massoniche. Sconvolgente la teoria sull'Isis: "Il leader Al-Baghdadi liberato dagli Usa dopo essere diventato massone. La jihad è eterodiretta per portare un nuovo Bush alla Casa Bianca e a infinite guerre. E sull'11/9..."


LE TEORIE SU RENZI/ Magaldi: "Il premier vuole entrare nella superloggia conservatrice Three Eyes, la stessa dei veri potenti Napolitano e Draghi. Ma i massoni verso di lui sono ambivalenti e non si fidano della sua ambizione. L'editoriale di De Bortoli? Scritto su richiesta di Draghi..."


Da D'Alema a Passera, da Arpe a Marcegaglia, ecco l'elenco degli italiani nelle Ur-Lodges.....Esce con Chiarelettere il libro "Massoni" di Gioele Magaldi (Grande Oriente Democratico). Un libro che sicuramente farà discutere. Sedetevi e fate un bel respiro: nel libro trovate storia, nomi e obiettivi dei massoni al potere in Italia e nel mondo, raccontati da autorevolissimi insider del network massonico internazionale, che per la prima volta aprono gli archivi riservati delle proprie superlogge (Ur-Lodges). Le liste che leggerete sono sconvolgenti. Una battaglia per la democrazia. Tra le Ur-Lodges neoaristocratiche, che vogliono restaurare il potere degli oligarchi, e quelle progressiste, fedeli al motto "Liberté Égalité Fraternité", è in corso una guerra feroce. L'ultimo atto è già iniziato, come rivela Magaldi con la rottura della pax massonica stilata nel 1981: il patto "United freemasons for globalization". Una rilettura esplosiva del Novecento nei suoi momenti più drammatici - la guerra fredda, gli omicidi dei fratelli Kennedy e di M. L. King, gli attentati a Reagan e a Wojtyla - arrivando fino al massacro dell'11 settembre 2001 e all'avanzata dell'Isis. "Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges" è il primo volume di una trilogia che offre un'inedita radiografia del potere.

LE LISTE - Le liste di presunti massoni fatte da Magaldi nel libro è assolutamente sconvolgente. Si parte dal massone ante litteram Giordano Bruno per arrivare a Napolitano, Draghi, Berlusconi, Hollande, Merkel, Putin, Gandhi, Papa Giovanni XXIII, Mozart, Mazzini, Garibaldi, Obama, Chaplin, Lagarde, Blair, Padoan, Roosevelt e tantissimi altri. Già, perché, afferma Magaldi, "se non sei massone non hai alcuna chance di arrivare al vero potere". Tra i nomi fatti da Magaldi c'è anche Silvio Berlusconi, descritto come "un attento cultore di astrologia, uno studioso di esoterismo egizio,  un frequentatore del milieu massonico internazionale con strette relazioni negli ambienti latomistici angloamericani più conservatori". Secondo Magaldi il pallino in mano, per quanto riguarda l'Italia, ce l'hanno in mano Napolitano e Draghi, che per Magaldi sarebbero massoni, apprezzati e influenti anche a livello internazionale. Discorso diverso per Renzi. Magaldi descrive Renzi come "un aspirante massone elitario" al quale "ancor non è stato accordato l'accesso a una almeno delle superlogge sovranazionali". L'obiettivo di Renzi, secondo Magaldi, sarebbe quello di entrare "non presso il Grande Oriente d'Italia o presso qualche altra comunione massonica ordinaria, su base nazionale italiana o estera. No, il premier italiano punta molto più in alto. Egli vorrebbe essere iniziato presso la Ur-Lodge Three Eyes, la medesima superloggia cui sin dal 1978 fu affiliato Giorgio Napolitano. La stessa superloggia cui è affiliato Mario Draghi". (---) "Il problema è che la sua domanda di affiliazione non è stata ancora accolta perché i vari Dragji, Napolitano, Merkel, Weidmann, Schauble, Trichet, Rutte, Sutherland, eccetera non si fidano di Renzi waanabe massone. Considerano Renzi un narcisista, uno spregiudicato e indisciplinato arrivista. Figuriamoci quanto poco venga apprezzato da questi ambienti l'asse Berlusconi-Renzi, siglato dal Patto del Nazareno. Perciò l'atteggiamento dell'establishment massonico neoaristocratico verso l'attuale premier e segretario Pd è ambivalente. Da un lato ne apprezzano le politiche sostanzialmente prone al paradigma dell'austerità, dall'altro ne temono l'indisciplina e i potenziali voltafaccia", considerandolo smodatamente ambizioso e capace di, persino, se gli convenisse, di passare un giorno armi e bagagli con il network massonico progressista". In quest'ottica, secondo Magaldi, va letto il celebre editoriale del direttore del Corriere della Sera De Bortoli su Renzi e i poteri massonici, scritto proprio in concomitanza della visita newyorkese di Renzi.  Secondo Magaldi l'editoriale aveva il significato di dire al premier: "Caro Renzi, riallineati ai desiderata del Venerabilissimo Maestro Mario Draghi, altrimenti comincio a sputtanarti sul versante massoneria, sia con riferimento ai tuoi inciuci con Berlusconi, sia, se servirà sparando più in alto".

LE UR-LODGES - Magaldi dedica il suo libro alle cosiddette superlogge, definite "i cenacoli massonici protagonisti della storia contemporanea, gruppi e soggetti a orientamento e vocazione strutturalmente sovranazionale e cosmopolita che hanno abbondantemente surclassato l'influenza ormai modesta della massoneria ordinaria". Insomma, coloro che avrebbero in mano il potere vero e il destino del mondo. Magaldi elenca le diverse superlogge, dalla Edmond Burke alla Joseph de Maistre alla White Eagle alla Thomas Paine. E Magaldi sostiene che presso queste Ur-Lodges siano in atto "progetti di involuzione oligarchica, tecnocratica e antidemocratica", progetti che riguarderebbero "l'Italia, l'Europa e l'Occidente intero". Tra gli italiani nelle Ur-Lodges, ecco i nomi citati da Magaldi: mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo d'Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passer,a Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio GRilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi invece avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago. Nessun paletto nella massoneria, né geografico né ideologico. Solo potere. Così Magaldi spiega come "l'ascesa di Mussolini o Hitler è avvenuta anche grazie allo spregiudicato sostegno e finanziamento del milieu massonico conservatore angloamericano". Allo stesso modo i conservatori facevano tranquillamente affari con i fratelli massoni sovietici. "Pezzi grossi come il segretario generale del Pcus Leonid Breznev e i suoi successori Andropov e Gorbacev, così come Eltsin, hanno chiesto e tranquillamente ottenuto l'affiliazione presso alcune Ur-Lodges". Secondo Magaldi c'è anche un'ala più democratica e progressista all'interno della massoneria. E il grande esperimento democratico, persino rivoluzionario, fu fatto all'inizio degli anni '60, con l'elezione del primo Papa, secondo Magaldi, massone e di Kennedy. Un progetto finito troppo presto. Un altro massone rivoluzionario sarebbe stato Luther King, anche lui ucciso pochi anni dopo. Da qui inizia quella che Magaldi definisce una "restaurazione neoaristocratica". Una restaurazione guidata dalla superloggia Three Eyes, "una creatura del ricchissimo industriale David Rockefeller, del futuro segretario di Stato Henry Kissinger e del futuro consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski che nel 1978 sarà il principale artefice dell'elezione a pontefice del polacco Wojtyla". Molti anche gli affiliati italiani, secondo Magaldi, su tutti Gianni Agnelli ma anche Enrico Cuccia e il principe Borghese. E, secondo Magaldi, persino Napolitano... Eventi come l'attentato a Reagan e a Wojtyla rientrano, secondo Magaldi, in lotte di potere tra diverse superlogge. Secondo Magaldi sono sempre le superlogge, nel 1981 a dare il via alla globalizzazione con un progetto segretissimo e sovranazionale. Che conterrebbe questi punti salienti: "Sostegno al fratello Deng Xiaoping e alla sua politica di apertura della Cina al libero mercato, destrutturazione e liquidazione dell'Urss e del Patto di Varsavia grazie all'ascesa del fratello Gorbacev e alla rottamazikone dei vecchi titani del Pcus come il segretario generale Breznev e i suoi più stretti seguaci e successori. Accelerazione del progresso di integrazione economica e politica dell'Europa. Riunificazione tedesca, riconferma della sorella Margaret Thatcher e sabotaggio del Labour Party del Regno Unito, ritorno dell'Argentina alla democrazia, smantellamento progressivo dell'apartheid ein Sudafrica e scarcerazione del fratello Nelson Mandela. Alternanza ovunque, a cominciare dagli Usa, di governi conservatori e progressisti secondo una tabelle di marcia ben precisa. Ovviamente a un patto: che tutti abbiano il rigoroso gradimenti dei grembiulini che contano. Secondo Magaldi c'è una ulteriore superloggia, quella creata da Bush Sr. e altri compagni delle altre superlogge che si sono sentiti esclusi dal progetto United Freemasons e dalla rielezione di Clinton. "La chiamano Hathor Pentalpha", sostiene Magaldi, che la definisce una "loggia della vendetta e della sete di sangue", della quale avrebbe fatto parte persino Osama Bin Laden. Una superloggia che estenderebbe la sua inquietante ombra sugli eventi degli ultimi anni, a partire dall'11 settembre 2001. La risposta progressista è la nuova superloggia "Maat", della quale secondo Magaldi farebbe parte Obama. Ma ora il disegno delle superlogge è quello di far tornare al potere l'ala più conservatrice e guerrafondaia, secondo Magaldi. E per farlo si starebbe servendo della guerra santa dell'Isis. Magaldi sostiene che colui che proclamato il Califfato islamico farebbe parte della Hathor Pentalpha, vale a dire Al-Baghdadi, "imprigionato in Iraq nel 2004 come terrorista pericoloso e che subito dopo l'affiliazione a fil di spada viene liberato". Il tutto mentre viene "ufficiosamente lanciata la candidatura del fratello Jeb Bush alla Casa Bianca". "Da qui al 2016", sostiene Magaldi, grazie all'avanzata dell'Isis, prenderà il via una formidabile campagna planetaria per portare un un nuovo Buish a Washington. L'ennesimo Bush guerrafondaio. Avremo così nuove guerre infinite in Medio Oriente". E ora, scrive Magaldi, resta da capire come pensano di controbattere a questa minaccia i fratelli massoni progressisti...

LEGGI IN ANTEPRIMA LE DEDICHE DI GIOELE MAGALDI CON LE LISTE DEI NOMI (per gentile concessione di Chiarelettere). L'intera trilogia di Massoni. Società a responsabilità illimitata, di cui questo testo rappresenta il primo volume, è dedicata principalmente a Olympe de Gouges (1748-1793) ed Eleanor Roosevelt (1884-1962), le più grandi e coraggiose fra le sorelle muratrici che abbiano mai cinto il grembiuli no lato-mistico e operato con efficacia imperitura al bene e al progresso dell'umanità. Ma come non menzionare, fra le tantissime altre donne «libere e di buoni costumi»' che ispirarono le loro vite ai più nobili e alti principi massonici (pur nell'inevitabile presenza di alcune ombre, frammiste a maggioritarie luci), anche libere muratrici dello spessore di: Mary Wollstonecraft (1759-1797), Sophie de Condorcet (1764-1822), Harriet Taylor Mill (1807-1858), Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808-1871), Marie Adélalde Deraismes (1828-1894), Jesse White Mario (1832-1906), Lucretia Coffin Mott (1793-1880), Mathilde Franziska Anneke (1817-1884), Malwida von Meysenbug (1816-1903), Susan Brownell Anthony (1820-1906), Julia Ward Howe (1819-1910), Elizabeth Cady Stanton (1815-1902), Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), Annie Besant (1847-1933), Emmeline Pankhurst (1858-1928), Marie Curie (1867-1934), Martha Beatrice Webb (1858-1943), Virginia Woolf (1882-1941), Maria Montessori (1870-1952), Golda Meir (1898-1978), Alva Myrdal (1902-1986), Indira Gandhi (1917- 1984) . Una peculiare intestazione dedicatoria va rivolta al massone ante litteram e protomartire della moderna libera muratoria, Giordano Bruno (1548-1600). Peraltro, una dedica sentita deve per forza di cose andare ai seguenti fratelli liberi muratori (anch'essi latori di moltissime luci, in mezzo ad assai più trascurabili opacità): John Locke (1632-1704), Isaac Newton (1642-1727), Jean «John» Theo¬philus Desaguliers (1683-1744), Montesquieu (1689-1755), Voltaire (1694-1778), Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), Giacomo Casa¬nova (1725-1798), Cagliostro (1743-1795), Cesare Beccaria (1738-1794), Benjamin Franklin (1706-1790), George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826), Thomas Paine (1737-1809), Nicolas de Condorcet (1743-1794), Honoré Gabriel Riqueti de Mirabeau (1749-1791), Philippe Egalité (1747-1793), Jacques Brissot (1754-1793), Camille Desmoulins (1760-1794), Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829), Gilbert du Motier de La Fayette (1757-1834), Jacques Laffitte (1767-1844), Francisco de Miranda (1750-1816), Napoleone Bonaparte (1769-1821), nella sua fase filorepubblicana, Rafael del Riego (1784-1823), George Gordon Byron (1788-1824), Alessandro Ypsilanti (1792-1828), José de San Martin (1778-1850), Simón Bolívar (1783-1830), Aleksandr Sergeevic Puskin (1799-1837), Samuel Gridley Howe (1801-1876), William Lloyd Garrison (1805-1879), Ralph Waldo Emerson (1803-1882), Thaddeus Stevens (1792-1868), Charles Sumner (1811-1874), Benjamin Wade (1800-1878), William Cullen Bryant (1794-1878), Carl Schurz (1829-1906), Aleksandr Ivanovic Herzen (1812-1870), Giuseppe Mazzini (1805-1872), John Stuart Mill (1806-1873), Giuseppe Garibaldi (1807-1882), Jules Michelet (1798¬1874), il Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) della maturità, che, pur non abdicando alle migliori istanze del socialismo, comprese l'importanza del libero mercato, della proprietà privata e della società civile come altrettanti freni libertari e pluralisti alla potenziale invadenza autoritaria del potere statuale, Louis Blanc (1811-1882), Victor Hugo (1802-1885), Lajos Kossuth (1802-1894), Charles Darwin (1809-1882), José Martí (1853-1895), Lev Nicolàevic Tolstòj (1828-1910), Giosuè Carducci (1835-1907), Max Weber (1864-1920), John Dewey (1859-1952), Leonard Hobhouse (1864-1929), Sigmund Freud (1856-1939), Theodore Roosevelt (1858-1919), Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), Eduard Bernstein (1850-1932), George Bernard Shaw (1856-1950), Mustafa Kemal Ataturk (1881-1938), Gerard Swope (1872-1957), John Maynard Keynes (1883-1946), Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), Mohandas Karamchand Gandhi detto «il Mahatma» (1869-1948), Aleksandr Fédorovic Kerenskij (1881-1970), George Orwell (1903-1950), Carl Gustav Jung (1875-1961), Albert Einstein (1879-1955), George Marshall (1880-1959), Clement Attlee (1883-1967), Harry Truman (1884-1972), William Beveridge (1879-1963), Charlie Chaplin (1889-1977), Angelo Giuseppe Roncalli divenuto Giovanni XXIII (1881-1963), Antonio de Curtis detto Totò (1898-1967), Martin Luther King (1929-1968), Meuccio Ruini (1877-1970), Federico Caffé (1914-1987), Karl Popper (1902-1994), Altiero Spinelli (1907-1986), Gunnar Myrdal (1898-1987), Paul Feyerabend (1924-1994), Harold Wilson (1916-1995), Thomas Kuhn (1922-1996), Robert William Komer (1922-2000), John Rawls (1921-2002), John Kenneth Galbraith (1908-2006), James Hillman (1926-2011), Arthur Schlesinger Jr. (1917-2007), senza dimenticare molti altri, di analoga sensibilità progressista — contestualmente al tempo in cui vissero —, che pure saranno menzionati nel corso della trilogia di Massoni. Una dedica speciale e a parte, al di là di tutte le incomprensioni, le delusioni e i litigi, al di là del tempo e dello spazio, va a Giuseppe «Pino» Abramo (1933-2014). Inoltre, una dedica importante va anche a Ivan Mosca (1915-2005), Franco Cuomo (1938-2007), Ted Kennedy (1932-2009), Antonio Giolitti (1915- 2010), Michele Raffi (1968-2013), Rosario «Rino» Morbegno (1930-2013), Carlo Maria Martini (1927-2012), Ernest Borgnine (1917-2012), Rita Levi Montalcini (1909-2012), Hugo Chavez (1954-2013), Nelson Mandela (1918-2013), Arnoldo Foà (1916-2014), Gabriel Garda Marquez (192-¬2014), Italo Libri, Enrico Simoni e a tutti quei massoni di ogni latitudine geografica passati di recente all'Oriente Eterno, i quali, con il loro pensiero e le loro azioni, hanno incarnato pregi e difetti, grandezze e miserie, fragilità e punti di forza della via iniziatica libero-muratoria.

Massoneria, libro shock del gran maestro Magaldi: “Ecco i potenti nelle logge”, scrivono Gianni Barbacetto e Fabrizio D'Esposito su Il Fatto Quotidiano. Centinaia di nomi, tra cui Napolitano, Obama, Draghi, Bin Laden e Papa Giovanni XXIII. Tutti "fratelli" secondo l'autore del volume presentato domani a Roma. Che però dice: "Le prove le esibiscono soltanto se me le chiede il giudice". Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Gioele Magaldi, quarantenne libero muratore di matrice progressista, ha consegnato all’editore Chiarelettere (che figura tra gli azionisti di questo giornale) un manoscritto sconcertante e che sarà presentato domani sera alle 21 a Roma, a Fandango Incontro. Il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, è intitolato Massoni società a responsabilità illimitata, ma è nel sottotitolo la chiave di tutto: La scoperta delle Ur-Lodges. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico, in polemica con il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro Paese, in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli. I documenti che mancano sono a Londra, Parigi e New York. Prima però di addentrarci nelle rivelazioni clamorose di Massoni è d’obbligo precisare, come fa Laura Maragnani, giornalista di Panorama che ha collaborato con Magaldi e ha scritto una lunga prefazione, che l’autore non inserisce alcuna prova o documento a sostegno del suo libro, frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti depositati in studi legali a Londra, Parigi e New York. Detto questo, andiamo al dunque non senza aver specificato che tra le superlogge progressiste la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha. Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges e finanche i vertici della fu Unione Sovietica, a partire da Lenin per terminare a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario. In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: “Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi. E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti”. Altri affiliati: Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie. “Il vero potere è massone”. E descritto nelle pagine di Magaldi spaventa e fa rizzare i capelli in testa. Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici, persino Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista. L’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: “Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi”. Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Ecco l’elenco degli italiani nelle Ur-Lodges: Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago.

Bisognerà aspettare le Massoneria, che ruolo hanno le logge sovranazionali?Scrive Alessio Liberati, Magistrato, su “Il Fatto Quotidiano”. In questo periodo si fa un gran parlare (spesso con confusione) di massoneria, Trilateral Commission, Club Bilderberg e altri sodalizi più o meno riservati, cui sono stati “ricondotti” anche alcuni notissimi volti della nostra politica ed economia attuale. La realtà, però, potrebbe essere più complessa di quanto appaia dai titoli dei giornali e dai libri di inchiesta usciti negli ultimi anni ed una giusta analisi del back office dei cosiddetti poteri forti potrebbe rappresentare la giusta chiave di lettura degli episodi più rilevanti degli ultimi decenni: dall’11 settembre all’attentato al Papa, dalla moneta unica alla crisi attuale, dalle grandi alle piccole guerre degli ultimi anni, e così via. Questa almeno è la prospettiva con cui Gioele Magaldi, il maestro venerabile e fondatore del Grande Oriente Democratico – un movimento di pensiero che si ripromette di recuperare la morale e la finalità latomistica originaria – rilegge nel suo libro gli ultimi cento anni di storia, riscrivendo episodi ed eventi che hanno in qualche modo segnato la vita di tutti noi e riconducendoli in un unico filo conduttore. Una fonte attenta e interna a quel mondo, quasi inaccessibile ai più, e per questo motivo da vagliare con grande considerazione. Il volume è peraltro il primo di una serie che si ripromette di illustrare ancor meglio alcuni punti che vengono solo accennati. Sullo sfondo si muovono i grandi personaggi dell’era moderna e contemporanea (italiani e stranieri), di cui vengono rivelate appartenenze e obiettivi perseguiti. Una descrizione sorprendente e interessantissima, che a tratti lascia senza fiato e che aiuta a leggere con occhi diversi il mondo della massoneria internazionale – almeno per chi vuole credere alla analitica visione che ne è prospettata – nei confronti della quale alcuni sodalizi che possono sembrare tanto potenti quanto influenti appaiono ben piccola cosa, aprendo al contempo gli occhi ad una impronta sovranazionale. Quali le fonti? Quali i grandi della terra coinvolti? Quali gli indicibili accordi? Non voglio dire di più, non essendo ancora uscito in libreria il volume di cui sto parlando e volendo rimettere ogni valutazione a chi leggerà quelle pagine. Per chi volesse approfondire l’argomento, intanto, l’appuntamento è per giovedì 20 novembre, a Roma (libreria Fandango, h. 21) con l’autore del libro Gioele Magaldi, Sabina Guzzanti, alcuni noti giornalisti e me, o, dal giorno dopo, nelle principali librerie con il libro Massoni: la scoperta delle UR-lodges.

Massoneria: i deliri del “fratello democratico” Magaldi, scrive Paolo Signorelli su “L’Ultima Ribattuta”. Che la Massoneria sia tuttora viva e vegeta non è un mistero. Che centinaia di logge, soprattutto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, siano attivissime nel condizionare la vita economica e finanziaria dei cinque continenti, è un altro dato di fatto. E che i “Fratelli” si diano molto da fare anche in Italia lo ammettono in molti; ne ha fatto cenno in un editoriale il direttore del “Corriere della Sera”, Ferruccio de Bortoli e lo aveva ammesso, senza mezzi termini, un banchiere per tutte le stagione come Cesare Geronzi. Ma che adesso tutto rischi di finire in una sorta di burletta, dando di massoni a ruota libera e senza fornire uno straccio di prova, non è accettabile. C’è uno strano personaggio, autonominatosi fondatore del “Grande Oriente Democratico”, che merita di essere portato via in ambulanza dal 118 e sottoporsi a un TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Si chiama Gioele Magaldi, poco più che quarantenne. Dopo aver bersagliato per mesi e mesi, attraverso il sito della sua loggia privata i presunti “massoni deviati”, ora ha dato addirittura alle stampe un volume nel quale elenca un incredibile serie di “fratelli illustri”. E dà da pensare che anche un quotidiano serio come “il Fatto Quotidiano”, pur con tutte le cautele del caso, gli stia dando credito. Perché in questo caso non si tratta di libertà di stampa, ma di frescacce a ruota libera. Nell’elenco c’è Papa Giovanni XXIII (il primo “Papa massone”), ma anche Osama Bin Laden. Poi ci sono i Kennedy, Martin Luther King e i membri dell’Isis. Presente anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il premier Matteo Renzi, i politici italiani Massimo D’Alema, Mario Draghi, Mario Monti. Enrico Letta, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalchi, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Vittorio Grilli, Federica Guidi, Matteo Arpe, Tommaso Cucchiani, Carlo Secchi e Emma Marcegaglia. Insomma, ci sono proprio tutti. Magaldi affronta poi la questione delle “logge segrete” tra le quali figurano la “Thomas Paine”, la “Edmun Burke”, la “Leviathan”, la “White Eagle” e la super loggia conservatrice la “Joseph de Maistre”, cui avrebbero fatto parte Lenin e Breznev. Un delirio di onnipotenza e di follia quello di Magaldi. Che qualcuno lo fermi.

LA MASSONERIA TRA CHIESA E 'NDRANGHETA.

La massoneria in Vaticano. La Biblioteca apostolica ha acquistato un "classico" della letteratura massonica: il "Purgatorio ragionato" di Francesco Longano, scrive Ignazio Ingrao su “Panorama”. Siamo in pieno ‘700, un giovane molisano di umili origini, Francesco Longano decide di intraprendere la carriera del sacerdozio. Come confesserà candidamente anni dopo nella sua autobiografia, lo fa unicamente per poter continuare a studiare. Appassionato di filosofia ed etica, succede al suo maestro Antonio Genovesi, alla cattedra di commercio dell’Università di Napoli ma i suoi scritti di filosofia morale, influenzati dall’atmosfera illuminista e anticlericale, gli attirano le ostilità delle gerarchie ecclesiastiche. Longano prosegue sulla sua strada e si imbatte nella massoneria. Decide di affiliarsi a ben tre logge, pur essendo sacerdote, nonostante la massoneria sia già fuori legge nel Regno delle due Sicilie e sia severamente condannata dalla Chiesa. Nel frattempo un editore austriaco gli chiede di scrivere un saggio sul Purgatorio che sarebbe dovuto essere pubblicato in tre lingue: italiano, latino e francese. Nasce così il «Purgatorio ragionato» che non riuscirà a superare i rigori della censura del tempo ma due secoli e mezzo dopo approderà nel luogo più inatteso: la Biblioteca apostolica vaticana. Uno studioso appassionato di quel periodo, Francesco Lepore ha pubblicato un approfondito ed erudito saggio su quel testo che è stato pubblicato nientemeno che nella «Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae», la pubblicazione ufficiale della «biblioteca del Papa». In occasione dell’uscita di questo studio, la Biblioteca del Grande Oriente d’Italia ha organizzato una tavola rotonda che si terrà a Roma, presso Casa Nathan, il 6 novembre con la partecipazione di storici ed esperti di quel periodo: Ruggiero di Castiglione, Antonio Trampus, Gianni Eugenio Viola e il giornalista Paolo Rodari.

Un manoscritto che si credeva perduto. «Nel 2005 un privato offrì alla Biblioteca apostolica vaticana l’acquisto del manoscritto di Longano che si credeva ormai perduto da due secoli e mezzo», racconta Lepore. «Il prezzo era molto contenuto: appena tremila euro. Perciò la Biblioteca decise di procedere all’acquisto e di inserire l’opera nel fondo “Vaticani Latini”. Si tratta del manoscritto originale con le correzioni dell’autore». Infatti, «quando nel 1779 un editore di Vienna propose a Longano di scrivere questo saggio, il sacerdote si mise subito all’opera e, come racconta nell’autobiografia, terminò la stesura in un mese. Il testo venne sottoposto al censore ecclesiastico e a quello regio per ottenere l’imprimatur. Questi chiesero di effettuare dei cambiamenti. Completate le correzioni, Longano diede via libera alla stampa. Ma quando questa non era ancora conclusa, uscì un pamphlet dell’ex gesuita Francesco Antonio Zaccaria che accusava il lavoro di Longano di essere “ereticale” e “infettato di anticlericalismo”. Il testo perciò venne ritirato e non vide più la luce». Perché era stato ritenuto tanto pericoloso? «Longano aveva voluto fare un trattato sul Purgatorio senza ricorrere a riferimenti biblici o dottrinali, ma solo alla luce della ragione. Anche riguardo alle opere di suffragio per le anime del purgatorio la posizione dell’autore è originalissima. Anziché raccomandare Messe, Rosari e indulgenze, propone azioni di impronta etica: abbattere le differenze sociali, promuovere le virtù sociali, difendere la giustizia e l’uguaglianza. Sono elementi di chiara derivazione dal catechismo massonico a cui si rifà Longano e che, naturalmente, gli procurano l’ostilità ecclesiastica». Oggi però il frutto delle sue fatiche riposa proprio nel cuore del Vaticano.

"Io, vescovo rimosso dalla Santa Sede per la mia lotta contro mafia e massoni". Il caso di Francesco Miccichè, alto prelato di Trapani, rimosso dal suo incarico nonostante per i magistrati sia "parte lesa". Mentre la curia della città siciliana è al centro di uno scandalo sulla gestione di fondi e beni ecclesiastici. In una trama che vede protagonista anche lo Ior, scrive Piero Messina “L’Espresso”. "Il Vaticano ha sentenziato la mia condanna dipingendomi come un essere immorale da tenere alla larga, mi ha rottamato come pastore indegno, mi ha classificato mafioso, truffaldino e inaffidabile, mi ha trattato peggio di un delinquente, condannato all’inazione come un minus habens, un incapace”. Le parole sgorgano come pietre dal memoriale di Francesco Miccichè, documento di oltre cento pagine, redatto del vescovo alla guida della Diocesi di Trapani dal 1998 sino al 16 maggio 2012. Quel giorno la rimozione arriva, a firma di Adriano Bernardini, Nunzio Apostolico in Italia. E’ l’obbligo alle dimissioni. La nota inviata dalla Santa Sede – e classificata con il bollo di "segretissima” – ha il sapore della minaccia: senza  l’abbandono immediato della Diocesi, la destituzione si sarebbe celebrata con la pubblicazione sull’Osservatore Romano, entro 72 ore. Per un religioso, peggio di una fucilazione. Da quel momento, Monsignor Miccichè tenterà in tutti modi di aprire un canale con la Santa Sede, prima con Papa Benedetto XVI e poi con il Santo Padre Francesco. Senza ottenere nulla, se non un brevissimo incontro, alla fine dello scorso anno con Papa Bergoglio: "Ho chiesto al Papa udienza per poter raccontare la mia storia – ammette il prelato – e il Santo Padre mi ha pregato di rivolgere la richiesta al suo segretario particolare”. Non è successo nulla: Città del Vaticano, sul caso Miccichè, ha eretto il classico muro di gomma. Ora, in quel memoriale, il vescovo messo ai margini della comunità religiosa ripercorre la sua via crucis laica. Da oltre tre anni la Curia di Trapani è l’epicentro di una serie di inchieste giudiziarie che ruotano attorno alla gestione dei fondi e dei beni ecclesiastici. Sullo sfondo di quelle carte giudiziarie si intravede la lotta per il potere e per il controllo delle Diocesi siciliane, l’inviolabilità dello Ior e l’immancabile ipotesi di inquinamento mafioso. Con in più l’ombra della massoneria deviata. Dossier anonimi, lettere false, bonifici bancari transitati sui conti dello Ior e transazioni con firme apocrife sono gli ingredienti di questo plot Vaticano in salsa siciliana, racchiuso nel dossier del vescovo. Ora che la Procura di Trapani, guidata da Marcello Viola, si avvia a chiudere le indagini, resta l’interrogativo di quella rimozione ex abrupto di Monsignor Miccichè dalla Diocesi. Perché il vescovo siciliano, secondo la ricostruzione dei magistrati, è considerato, almeno sino ad ora, "parte lesa” in quei procedimenti giudiziari. Miccichè è convinto di pagare un conto dalla genesi antica. Sin dall’arrivo nella Diocesi, il vescovo siciliano ha messo nel mirino mafia e grembiulini. Nel marzo del 2000, attacca così le logge trapanesi e la mafia: ''La massoneria ha messo radici profonde nella nostra città, condizionandone la vita e lo sviluppo. Le Diocesi della Sicilia occidentale, tra le quali quella di Trapani, vivono in un territorio che è storicamente la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia”. Scoppia un putiferio, con la massoneria italiana che accusa il monsignore di oscurantismo. Miccichè sarà minacciato: "mi venne detto – da un padre della Società religiosa di San Paolo, ndr - che se non mi fossi convertito e iscritto alla massoneria avrei fatto una brutta fine. Tragica profezia”. Il vescovo di Trapani chiederà aiuto al Vaticano: "Chiesi udienza al Cardinale Joseph Ratzinger allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e fui ricevuto dall’allora Segretario della stessa congregazione Sua Eccellenza Mons. Tarcisio Bertone al quale riferii quanto mi era successo e a lui chiesi lumi su come comportarmi… Alla mia obiezione come mai non si mettesse un freno ai preti che andavano in tutta Italia a fare conferenze in favore della massoneria, Bertone mi rispondeva candidamente: Ma cosa vuole, Eccellenza, anche in Vaticano ci sono cardinali, vescovi e prelati iscritti alla massoneria”. Schizzi di fango colpiranno l’episcopato di Miccichè a Trapani di nuovo nel 2009, quando un esposto anonimo, il primo di una lunga serie, sarà recapitato alla Procura nazionale antimafia, allora retta da Piero Grasso, al Cardinale Bertone e al Cardinale Re. In quel documento si accusa Miccichè di avere al suo fianco come "segretario vescovile” un esponente di una famiglia della mafia rurale di Alcamo. In quel documento, per la prima volta, viene citata anche la Fondazione Auxilium, struttura sanitaria guidata dalla Diocesi di Trapani e convenzionata con la Regione siciliana. Miccichè respingerà ogni accusa e dimostrerà che quel "segretario”, era in realtà solo l’autista dalla Diocesi di Trapani, assunto prima del suo arrivo. Miccichè non nega di avere subito pressioni dalla mafia: "Anch’io da subito arrivato in Diocesi fui avvicinato da persone di questo genere che mi chiesero con fare perentorio di interessarmi in loro favore presso la Procura di Trapani che aveva sequestrato i loro beni, reputandoli prestanome di potenti mafiosi di Alcamo. Il mio diniego fu secco e l’atteggiamento e le parole degli interessati suonarono come una minaccia, ma non mi pento affatto di avere agito come ho agito e di non essermi piegato ai loro dictat”. Nel mese di febbraio del 2011 la Diocesi di Trapani finisce al centro di uno scandalo finanziario. Si ipotizza un buco milionario nei conti della Curia. Sotto la lente delle Fiamme gialle finisce anche la gestione di due fondazioni della curia siciliana, la Auxilium e la Campanile, già fuse nel 2007. Auxilium è una struttura sanitaria con oltre 300 dipendenti e conta su una convenzione dal valore di 5 milioni di euro con la sanità regionale. Miccichè, nel 2009, ha nominato suo cognato come procuratore della fondazione. La giustizia italiana e quella vaticana si mettono in moto. Le indagini puntano anche al direttore degli uffici amministrativi della curia di Trapani, padre Ninni Treppiedi. Alla fine, nell’inchiesta della Procura di Trapani risulteranno 14 indagati con ipotesi di reato che vanno da diffamazione, calunnia e falso, a truffa, appropriazione e riciclaggio. Treppiedi avrebbe aperto conti correnti allo Ior: da semplice sacerdote non li avrebbe potuti tenere. Su quelle transazioni la Procura di Trapani avvia una rogatoria internazionale, ancora oggi ferma su un binario morto. Il nome di Treppiedi apparirebbe anche nel memoriale dell’ex direttore generale dello Ior, Gotti Tedeschi. Sulla base di quelle indagini "laiche” Miccichè sospende a divinis don Treppiedi. La procedura verrà confermata e rafforzata da un decreto della  Congregazione del Clero del Vaticano. Tra le spese di quella gestione anche l’acquisto di auto di lusso, donate a cardinali delle alte sfere vaticane. Alla fine, Treppiede – legato un tempo a personaggi della politica siciliana come l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì – deciderà di collaborare con la giustizia. Un contributo, affermano dalla Procura di Trapani, "di assoluto valore”. Ma intanto contro Miccichè si scatena l’inferno. Treppiedi , dopo la sospensione a divinis, sporge denuncia contro il vescovo Miccichè, accusato di avere svuotato i conti della curia. Il Vaticano invia un visitatore apostolico, Monsignor Domenico Mogavero. Miccichè non potrà mai leggere il contenuto della relazione che porterà alla sua rimozione. Accusato di aver depredato la Curia, Miccichè si difende e mostra gli estratti bancari: "altro che senza un soldo, quando ho lasciato la Diocesi di Trapani sul conto c’era più di un milione di euro, mentre la Fondazione Auxilium disponeva di oltre otto milioni di euro”. Sempre in quel periodo, il vescovo deve difendersi da una campagna denigratoria costruita ad arte. Viene diffusa una lettera su carta intestata della Diocesi di Trapani. E’ indirizzata a Luigi Bisignani, l’uomo al centro dello scandalo P4. Nella missiva che reca la firma di Miccichè, si chiede l’intercessione in Vaticano da parte di Bisignani perché  "il Papa - a quel tempo Benedetto XVI, ndr - non è in grado di decidere più nulla e il potere è demandato nelle mani dei Salesiani e in particolare del Cardinale Bertone che lo esercita in modo delinquenziale e spregiudicato”. Quella lettera – lo dimostreranno i magistrati - è un falso. Monsignor Miccichè tenta la difesa e veste i panni dell’investigatore: si mette sulle tracce dell’attività svolta da Treppiedi allo Ior. In più, aiuta i magistrati ad accedere nei luoghi di culto coinvolti nell’indagine per  transazioni immobiliari sospette. Per la Santa Sede sono peccati mortali. Nel memoriale del vescovo siciliano appiedato dal Vaticano si legge: "Io stesso mi sono recato allo Ior per conoscere se in qualche modo la stessa Diocesi di Trapani o la mia persona fossero stati coinvolti, a mia insaputa, in operazioni di riciclaggio. Allo Ior non ho ottenuto alcuna informazione. Sono stato indirizzato dal Sostituto della Segreteria di Stato, Sua Eccellenza Mons. Giovanni Angelo Becciu, il quale non ha reputato opportuno ricevermi. Dalla mia visita presso lo Ior ho potuto accertare, però, che molti presso questo istituto conoscevano don Treppiedi. Per loro era capo ufficio alla Congregazione di Propaganda Fide”.

'Ndrangheta, massoneria e il "salto di qualità": che cos'è la Santa? Scrive IBTimes Italia. Tra le mafie storiche che operano in Italia da più di un secolo la 'ndrangheta è quella meno raccontata e, di riflesso, meno capita. Il video registrato dai Carabinieri del ROS, in cui durante un rito di affiliazione si citano Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, descritto quasi fosse una novità assoluta, in effetti non lo è. Essendo le 'ndrine diventate mediaticamente famose solo negli ultimi anni, mentre sono state ignorate, catalogate sotto la voce mafia di serie b , per tanto, troppo tempo, ci si è persi qualche passaggio. In questo modo l'opinione pubblica resta all'oscuro di 'concetti' come la Santa o del motivo per cui protagonisti del Risorgimento italiano vengano inseriti nei riti della criminalità organizzata. La prima volta che fu sequestrato un codice in cui si fa riferimento ai tre risale al 1989, nel covo del latitante Giuseppe Chilà a Pellaro (Reggio Calabria). Lo ricorda Roberto Galullo sul Sole 24 Ore che, non a caso, cita la bibliografia prodotta in questi anni da Nicola Gratteri, il procuratore aggiunto della DDA reggina, e Antonio Nicaso, storico delle organizzazioni criminali e ritenuto uno dei massimi esperti mondiali della criminalità organizzata calabrese che IBTimes ebbe modo di intervistare lo scorso anno. Libri come Fratelli di sangue che ripercorrono la storia della 'ndrangheta, ma soprattutto spiegano riti e codici di quella che è da tempo la mafia più potente e ricca che opera oggi in Italia, cresciuta nel disinteresse dei media, coltivando rapporti con politica, imprenditoria e 'poteri forti' fin dagli anni Settanta. In merito al video diffuso ieri, Nicaso ha commentato su Facebook: "Sono conformi al rituale. Nessuno strappo alla regola a conferma della grande capacità della 'ndrangheta di coniugare vecchio e nuovo, tradizione e innovazione".  Garibaldi, Mazzini e Lamarmora sono riferimenti massoni, utilizzati nel codice di affiliazione alla Santa, a Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i cavalieri spagnoli che secondo la leggenda hanno fondato le tre principali organizzazioni criminali in Italia.  

LA SANTA

Il giuramento che si ascolta nel video è relativo al grado di santista. Cos'è la Santa? È dove la mafia calabrese incontra i poteri forti, citati a sproposito quando non c'entrano nulla e dimenticati se invece operano davvero sul campo. Fino agli anni Settanta la 'ndrangheta è subalterna alle altre organizzazioni criminali: opera soprattutto sul territorio calabrese, ha un raggio di azione limitato. Poi ecco il salto di qualità. "La mafia calabrese è stata spesso subalterna alla politica, utilizzata da essa per raccogliere e organizzare il voto - spiega Nicaso - Negli anni Settanta è riuscita a ribaltare questa subordinazione con l'introduzione del grado della Santa, una zona d'élite che permetteva una doppia affiliazione, quella alle 'ndrine e quella alla massoneria deviata. Con essa la 'ndrangheta ha iniziato a votare e far votare, a selezionare i candidati, a gestire consenso, ad entrare nel giro di appalti e subappalti e gestire risorse pubbliche". Gli stessi concetti sono stati espressi lo scorso aprile da Nicola Gratteri, sentito in audizione davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia: "L'evoluzione della 'ndrangheta è avvenuta nel 1969 , quando c'è stata una rivoluzione interna alla 'ndrangheta con la creazione della Santa. La Santa consiste nella possibilità per uno 'ndranghetista di essere affiliato anche alla massoneria deviata. Questo è servito alla 'ndrangheta per avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione e, quindi, con medici, ingegneri e avvocati.  Un collaboratore di giustizia ci ha spiegato che «all'orecchio del Gran Maestro» possono essere affiliati tre incappucciati. Ciò vuol dire che questi sono conosciuti solo al Gran Maestro. Lo stesso collaboratore ci ha spiegato che anche alcuni magistrati hanno partecipato a riunioni della Santa. Su questo, però, non siamo riusciti ad avere riscontri". Anche alla luce di questa svolta, si spiega il successo delle 'ndrine negli anni successivi: l'espansione in tutta Italia, compreso il ricco Nord che ha scoperto di essere stato colonizzato con 20 anni di ritardo. Mentre gli occhi dell'opinione pubblica erano puntati altrove, soprattutto su Cosa nostra che faceva saltare in aria magistrati e scorte, la 'ndrangheta prosperava in silenzio e, grazie alla sua struttura (i vincoli di sangue che rendono difficile il fenomeno del pentitismo, ma hanno favorito lo stringere rapporti con i cartelli della droga sudamericani) è diventata il punto di riferimento del traffico di stupefacenti in Europa, accumulando capitali da capogiro, poi investiti nel grande gioco degli appalti pubblici.

Durante il giuramento per il conferimento della Santa, registrato dai Carabinieri nell’operazione della Dda di Milano in Lombardia che ha portato all’arresto di 40 presunti ‘ndranghetisti, si fa riferimento a Mazzini, Garibaldi e La Marmora. Garibaldi, nella ricostruzione degli investigatori, rappresenta il capo del Locale di ‘ndrangheta (l’organizzazione locale), Mazzini il contabile e La Marmora riveste invece la carica di “236 mastro di giornata”, tra le più alte dell’associazione. Nei video i segreti del giuramento alla ‘ndrangheta, ma anche le soluzioni estreme in caso di “errori” di grande entità. Recitati parte in italiano e parte in dialetto le parole sono comunque raccapriccianti. Nel video, registrato dagli investigatori a Castello di Brianza, in provincia di Lecco, si sente e si vede:  “Buon Vespero e Santa sera ai Santisti”, iniziano a recitare, “Giustappunto questa santa sera nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo la santa catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà formo la santa società. Dite dopo di me: Giuro di rinnegare tutto fino alla settima generazione, tutta la società criminale da me fino ad oggi riconosciuta per salvaguardare l’onore dei miei saggi fratelli. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, passo la mia prima, seconda, e terza votazione su … Se prima lo conoscevo come un saggio fratello fatto e non fidelizzato, da questo momento lo conosco per un mio saggio fratello. Sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna sformo la santa catena. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà è sformata la santa società”.

MAGISTRATI MASSONI, GIU' IL CAPPUCCIO!!!!

Magistrati massoni, giù il cappuccio, scrive “Karakteria”. In Basilicata e in particolar modo nel tribunale di Matera esiste la presenza di un forte gruppo di avvocati e magistrati iscritti alla stessa loggia massonica? Non sono in pochi a rispondere affermativamente a questa domanda, altri lo negano perentoriamente.  Alcuni altri sono disposti a mettere la mano sul fuoco, mentre altri ancora semplicemente lo sospettano sulla base di ricostruzioni di fatti e documentazioni, ma non avendone certezza chiedono alle autorità competenti di soddisfare il diritto dei cittadini a sapere se esiste un gruppo di massoni nei tribunali di Basilicata. Fino ad ora questa elementare richiesta non è stata soddisfatta, nonostante le pressioni dell'Indipendente Lucano e di Nicola Piccenna in particolare.  L'unico elenco di lucani iscritti alla massoneria di cui disponiamo risale ad un'inchiesta del 1992: Elenco dei residenti in Basilicata iscritti nella "Lista dei Massoni dell'inchiesta Cordova 1992".

Magistrati italiani appartenenti alla Massoneria - Petizione al Capo dello Stato, nella sua veste di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura - chiediamo a tutti i magistrati Italiani se sono affiliati alla Massoneria: Ecc.mi Presidente e Vice-Presidente del CSM, Le domanda circa l'appartenenza alla Massoneria non può mai ottenere risposta affermativa. Il perché è ben spiegato dalle parole stesse del giuramento che gli aspiranti Massoni pronunciano durante il rito d'iniziazione: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Pertanto risulta quantomeno improbabile che un magistrato Massone si adoperi "motu proprio" nel dichiarare un'appartenenza che lo espone alle terribili conseguenze che quella dichiarazione comporta. D'altro canto, però, Come la mettiamo, con quei confratelli Massoni che sono magistrati? Basta insomma, per fare un esempio: come si comporterà il magistrato libero muratore in Tribunale se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Il Consiglio Superiore della Magistratura, ha il dovere di garantire la intangibilità della fiducia dei cittadini nell'istituzione giudiziaria e quindi di rendere disponibile un'informazione pubblica sui magistrati appartenenti alla Massoneria poiché lo stringente giuramento innanzi riportato comporta la promessa "di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra" potrebbe far dubitare dell'imparzialità del magistrato massone qualora, in un procedimento giudiziario, fra tutti i liberi muratori della terra, ve ne fosse uno coinvolto direttamente o indirettamente nei fatti soggetti al suo giudizio. Per quanto innanzi, invitiamo il Presidente ed il Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura a disporre un formale atto d'interpello da notificare a tutti i magistrati Italiani attualmente in servizio del seguente tenore: "Ill.mo Dr./Ill.ma D.ssa, Lei ha aderito alla Massoneria? Se risponde affermativamente, può indicare lo stato attuale della sua appartenenza e la documentazione che lo comprova? Per completezza si allega un estratto di sentenza del COnsiglio di Stato che esclude l'esimente della riservatezza in tema di appartenenza alla Massoneria del Pubblico Ufficiale o Pubblico Incaricato: Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 06.10.2003 n° 5881. Il Consiglio di Stato ha stabilito che è legittima una legge regionale che impone ad un soggetto l'obbligo di comunicare l'appartenenza ad una loggia massonica ai fini del conferimento di un incarico pubblico. Con la sentenza n. 5881 del 6 ottobre 2003 i giudici di Palazzo Spada affermano che tale obbligo non viola il diritto di riservatenza in quanto è correlato alla particolare posizione funzionale rivestita dal soggetto designato o nominato ad una pubblica funzione ed è giustificato da preminenti interessi pubblici e generali direttamente assistiti da garanzia costituzionale. Nella motivazione della sentenza il giudice amministrativo precisa inoltre che il diritto alla riservatezza, pur integrando un aspetto di non secondaria rilevanza della proiezione della persona, non è un valore assoluto che trova diretta tutela nella Carta costituzionale vigente come bene primario ed inviolabile ed è destinato perciò a soccombere di fronte al principio di buon andamento dell'amministrazione, postulato a livello costituzionale dell'art. 97".

Magistrati massoni: ecco 21 nomi al CSM. Giovanni Conso chiede provvedimenti disciplinari per 19 magistrati e propone trasferimenti d' ufficio per i legami con associazioni segrete e logge massoniche. la strenna: un volume coi segreti dei " fratelli ", scrive “Il Corriere della Sera”. Giudici affiliati alla massoneria: ecco i nomi. Il Guardasigilli Giovanni Conso ha inviato le carte al Consiglio Superiore della magistratura: chiede provvedimenti disciplinari per 19 magistrati. E propone tre trasferimenti d'ufficio per incompatibilità ambientale. A Palazzo dei Marescialli si precisa che per gli altri 53 nominativi contenuti negli elenchi forniti dalla procura di Palmi, il ministro di Grazia e Giustizia ha chiesto "soluzioni liberatorie": non risultano accertati nei loro confronti legami con logge massoniche. La parola passa ora al procuratore generale della Cassazione Sgroi, cui spetta attivare il "Tribunale dei giudici" del Consiglio per il gruppo dei 19. La prima commissione referente del Csm si occuperà dei tre per i quali Conso chiede il trasferimento. All'elenco dei 19 appartengono Angelo Massimo Maestri (giudice del tribunale di La Spezia), Salvatore Di Blasi (giudice del Tribunale di Milano), Riccardo Romagnoli (giudice del tribunale di Roma), Massimo Vitali (pretore di Milano), Vincenzo Tessa (procuratore della Repubblica di Sanremo), Mauro Monti (sostituto procuratore di Bologna), David Monti (sostituto procuratore circondariale di Firenze), Stefano Scarafoni (giudice del Tribunale di Tolmezzo), Vincenzo Serianni (presidente di sezione della corte d'appello di Torino), Nicolò Franciosi (consigliere della corte d'appello di Milano), Renato La Serra (pretore di Trani), Giuseppe Armani (consigliere di corte d'appello di Bologna), Alfredo Arioti (sostituto procuratore generale a Perugia), Francesco Pinello (presidente del tribunale di sorveglianza di Palermo), Antonio Spina (pretore dirigente di Sciacca), Luciano D'Agostino (sostituto procuratore di Lamezia Terme), Fabio Mondello (giudice del tribunale di Roma), Salvatore Marino (presidente di sezione del tribunale di Mistretta) e Paolo Nannarone (presidente di sezione del tribunale di Perugia). Paolo Nannarone è anche uno dei tre magistrati per i quali il ministro di Grazia e Giustizia ha chiesto l'avvio di un procedimento per il trasferimento d'ufficio in base all'articolo 2 della legge sulle guarentigie dei giudici. Gli altri due che dovrebbero essere sottoposti a tale procedimento sono Antonino Giubilaro (giudice del tribunale di Pesaro) e Nicola Restivo (procuratore della Repubblica di Perugia). Il consigliere laico del Pds Franco Coccia ha osservato che "la relazione ispettiva licenziata dal ministro fa propria interamente l'impostazione e l'analisi della delibera del Csm e su questa base è stata eseguita una complessa e laboriosa indagine sui magistrati, risultanti dagli elenchi, al fine di accertare la configurazione di concreti indizi di iscrizione di magistrati ad associazioni segrete". Sulla vicenda interviene il Grande Oriente d'Italia. Secondo il "Grande Oriente" Gustavo Raffi la relazione di Conso al Csm sui magistrati massoni "circoscrive la richiesta di provvedimenti disciplinari a quanti sono risultati iscritti a "logge coperte". Viene, pertanto, confermata l'assoluta estraneità di affiliati al Grande Oriente d' Italia, dal momento che simili strutture non solo sono bandite, ma inesistenti nell'ambito della massoneria regolare di Palazzo Giustiniani".

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA

di Rita Pennarola (pubblicato il 7 gennaio 2010).

Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. A confermare questa consapevolezza arriva, da ultimo, il sondaggio lanciato sul sito della Voce, al quale hanno partecipato 466 lettori: un piccolo ma significativo campione, secondo il quale (56,8%) sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. I 37 nomi che qui di seguito proponiamo, infatti, sono presi per buona parte dagli unici elenchi (comprensivi delle Logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ‘92 dall’allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Altri nomi li abbiamo invece ricavati dall’elenco ufficiale dei massoni pubblicato nel 2008 dalla Voce, che non include la consistente fascia di vip affiliati ad obbedienze cosiddette “non regolari”, ma assai più potenti e generalmente riconosciute da Logge estere. Sulla cima della piramide ci sarebbe in questo periodo, per fare un esempio, la “Gran Loggia Italiana Massonica”, i cui adepti, che si definiscono «un gruppo di Fratelli Massoni provenienti da varie Obbedienze, (G.O.I., Piazza del Gesù, Gran Loggia Regolare d’Italia, Gran Loggia Massonica Italiana, Logge di San Giovanni, Gran Loggia della Repubblica di San Marino)», adducono a fondamento della loro scelta la risibile motivazione di poter affiliare anche le esponenti del gentil sesso (facoltà ampiamente prevista da una delle due principali obbedienze regolari, vale a dire la Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi). Fondata ad Arezzo nel marzo 2002, la nuova compagine non poteva che essere benedetta da Licio Gelli in persona. Nessun problema, se non fosse per un piccolo particolare venuto a galla in un articolo della Nazione di fine 2006: la donazione fatta dal venerabile e dai suoi confratelli ai poveri del Sacro Cuore di Arezzo. Racconta al quotidiano il parroco, don Angelo Chiasserini: «Quello che valuto è la finalità dell’iniziativa, che è di beneficenza. È stato Tiberio Terzuoli, gran maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale, a contattarmi, spiegandomi successivamente che all’iniziativa avevano contribuito anche Gelli e Giuseppe Sabato, sovrano della Gran Loggia Massonica Italiana». Che di lì a poco si sarebbe invece ribattezzata Gran Loggia Italiana Massonica. Ma chi è Giuseppe Sabato il “sovrano”? Non sarà per caso lo stesso rampante manager di Banca Esperia, la holding finanziaria che fa capo a Silvio Berlusconi? Impossibile affermarlo con certezza, visto il segreto assoluto che vige nella neo-Loggia aretina. Di sicuro, però, oggi a dominar la scena sotto i cappucci sono i maghi dell’alta finanza. Come accade a Napoli, dove dominus incontrastato della Loggia Bovio è il commercialista Giovanni Esposito, assurto nell’olimpo supermassonico dell’Arco Reale, rito di York. «Il baricentro – dice ancora il nostro esperto – ai livelli medio-alti si sta spostando dalle Logge coperte a queste consorterie non riconosciute dalle obbedienze tradizionali, ma gemellate con compagini estere come la Loggia Montecarlo, che ha sede nel Principato di Monaco». Se questi sono ora gli assetti finanziari “globalizzati” dei confratelli, non meno interessante sarebbe definire quali e quanti magistrati vestono oggi il grembiule sotto la toga. Missione quasi impossibile, dal momento che a scoprire le carte dovrebbero essere i loro stessi colleghi, come in perfetto isolamento fece Cordova nel ‘92 e come, intorno al 2000, aveva provato a fare a Napoli un altro PM-coraggio, Luigi De Ficchy, attuale procuratore capo a Tivoli e all’epoca impegnato nell’inchiesta sulla Loggia deviata Spinello, naufragata nelle nebbie della Procura capitolina. Mentre i circa mille faldoni dell’inchiesta Cordova marciscono ancora nei sotterranei di piazzale Clodio, a Roma. Eppure, provando a scorrere le carriere delle toghe messe a nudo dal mastino di Palmi, più qualche nome venuto fuori in elenchi recenti, le sorprese non mancano. Ecco allora qui di seguito, in ordine alfabetico, alcuni esempi significativi fra i tanti magistrati che avevano giurato fedeltà alla massoneria.

ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.

ALIBRANDI Tommaso – Nato a Roma l’8 agosto del 1933, è iscritto negli elenchi ufficiali della massoneria aggiornati a tutto il 2007 con la qualifica di “Magistrato al Consiglio di Stato”. Negli anni ‘90 era stato invece attivo presso la Corte dei Conti. Nel ‘93 il suo nome è fra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla telefonia dal PM della capitale Guglielmo Muntoni (giudice Maria Cordova) insieme – fra gli altri – a Carlo De Benedetti, al costruttore Mario Lodigiani e all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. In quegli anni Alibrandi era stato capo dell’ufficio legislativo del Ministero dei Beni Culturali, presidente del TAR della Val D’Aosta nonché ex “uomo ombra” dell’allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì. Di provata fede PRI è anche Alibrandi (già senatore del partito di Giorgio La Malfa), che nel 2003 ritroviamo in pista fra i promotori della resuscitata Voce Repubblicana. Dal 2008 esercita la professione di conciliatore bancario.

ARIOTI Alfredo – Un Alfredo Arioti nato a novembre del 1941 compare con la dicitura esplicita di “magistrato” negli elenchi ufficiali degli iscritti alla massoneria di Perugia a tutto dicembre 2007. Si tratta dello stesso Alfredo Arioti Branciforti presente nell’organico della magistratura italiana come “nato a Palermo il 26 novembre 1941”. Il che risulta fra l’altro dal suo curriculum pubblicato da E-Campus, formazione universitaria a distanza, nel quale viene specificato che «dopo essere stato uditore presso la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Roma, veniva nominato pretore in Valle D’Aosta a Donnaz». Nel 1969 «si trasferiva a Perugia, dove svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale». Dal 1981 Arioti è «sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia. In tali funzioni esplicava numerose e delicatissime inchieste anche nei confronti di varie organizzazioni terroristiche quali Brigate Rosse, NAR, Prima Linea, Ordine Nuovo, talché subiva un attentato terroristico, perpetrato da una organizzazione eversiva, concretizzatosi in esplosioni di colpi di arma da fuoco nei confronti della sua abitazione». Al CSM Arioti aveva dichiarato di essersi allontanato dalla Massoneria fin dal 1992, dopo che per ben due volte l’organo di autogoverno lo aveva dichiarato non idoneo a funzioni superiori proprio a causa di quella affiliazione, che gli aveva fra l’altro fatto meritare consistenti avanzamenti all’interno del sodalizio muratorio. Ne dava notizia, nel 2004, il bollettino di Magistratura Democratica, senza peraltro precisare quali prove avesse addotto il magistrato a riprova del suo allontanamento dalla massoneria, visto che il nome compare ancora negli elenchi 2007. Di Alfredo Arioti si sono comunque più recentemente occupate le cronache locali. È accaduto nel 2008, quando il coordinatore PdL Fabrizio Cicchitto (piduista) lo voleva come candidato a sindaco di Perugia; poi il diretto interessato preferì restare in magistratura – ci informa la Nazione il 19 novembre – e non se ne fece nulla.

ARMANI Giuseppe – Classe 1937, nato a Reggio Emilia, Armani è ancora presente in quanto “Magistrato” negli elenchi degli affiliati 2007, benché abbia da tempo lasciato la toga. Il suo nome venne alla luce già col sequestro Cordova nei primi anni ‘90 insieme a quelli di una ventina fra giudici, pretori e pubblici ministeri, tutti poi sottoposti al giudizio del CSM. Dedicatosi in seguito prevalentemente agli studi giuridici, Armani è autore di libri sulla Costituzione in uso negli istituti superiori. Nel 2006 ha pubblicato a Bologna un volume nel quale vagheggia l’idea di un’Italia laica e liberale.

CASOLI Giorgio – Compare negli elenchi 2007 pure Giorgio Casoli di Perugia, nato il 12 settembre del 1928. Anche il suo nome era rimbalzato alle cronache (e al Consiglio Superiore della Magistratura) dopo i sequestri del ‘92. Intrapresa la carriera come pretore ad Assisi e a Perugia, è a Milano come giudice di Corte d’Appello negli anni del terrorismo; passa poi in Cassazione dove diventa presidente di sezione. Di qui comincia anche la carriera politica: sindaco di Perugia dall’80 all’87, lo stesso anno entra a Palazzo Madama col PSI, dove siede nella giunta delle immunità parlamentari e nella commissione giustizia; sarà poi sottosegretario alle Poste nel governo presieduto da Giuliano Amato. Casoli torna alla ribalta nel 1996, quando conferma ai PM milanesi molte delle accuse lanciate dalla superteste Stefania Ariosto, cui è legato da antica amicizia. Soprannominato dagli amici “il Pertini dell’Umbria”, è considerato oggi in area PD, dopo l’avvicinamento di qualche anno fa al Partito Popolare.

D’AGOSTINO Luciano – La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove attualmente è giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.

DI BLASI Salvatore – Attualmente giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. In questo periodo il giudice Di Blasi si sta occupando invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Nicolò – Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

LA SERRA Renato – Ecco un magistrato-confratello di cui si sono praticamente perse le tracce. Le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1998 quando, nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex procuratore generale di Roma Vittorio Mele e del ras della sanità pugliese Francesco Cavallari, vennero a galla i viaggi generosamente offerti dall’imprenditore agli amici in toga, compresa la leggendaria trasferta a Parigi cui prese parte anche l’allora pretore di Trani Renato La Serra. La sua affiliazione alle Logge, emersa negli elenchi Cordova del ‘92, gli era costata, due anni dopo, una sanzione disciplinare dinanzi al CSM.

MAESTRI Angelo Massimo – Classe 1944, originario della provincia milanese, è in servizio alla Corte d’Appello del Tribunale di Palermo. Un caso, il suo, analogo a quello di Nicolò Franciosi: dopo la scoperta dell’affiliazione attraverso il sequestro Cordova, riceve la sanzione disciplinare dal CSM, che sarà confermata anche in Cassazione. Nel 2004 la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano a risarcire Maestri con 10.000 euro. I problemi, nella carriera di Maestri, però, sono stati anche altri: il suo trasferimento da La Spezia (dove era stato per lunghi anni pretore) a Palermo, era stato infatti disposto nel 2001 dal CSM, che lo accusava di aver ricevuto fidi bancari di consistente importo senza garanzie. Situazione che, sommata alle contestazioni per la affiliazione massonica, non solo determinò il trasferimento, ma anche la destinazione dell’ex pretore “ad un organo collegiale”.

MARSILI Mario – Carriera brillantissima per il genero del Venerabile Licio Gelli, del quale aveva sposato la figlia Maria Grazia. Venuto allo scoperto come massone in sonno nella P2 dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, il dottor Marsili si è gettato alle spalle l’onta di quello scandalo, ottenendo perfino una promozione dal CSM (nell’89), fino a balzare nel ruolo apicale che riveste oggi: sostituto procuratore generale al Tribunale di Roma. Una Procura del resto, quella di piazzale Clodio, che per anni aveva visto al vertice un altro piduista di fama, il massone Carmelo Spagnuolo. Prima giudice istruttore ad Arezzo, poi alle sezioni giudicanti del Tribunale di Perugia, Marsili ebbe solo un piccolo incidente di percorso nell’84, quando fu sottoposto a procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona (per accuse relative alla sua carriera di piduista) e, per questo, gli fu sospeso lo stipendio. In seguito all’assoluzione, riprese la sua escalation nei ranghi della giustizia italiana. Tanto che furono affidate proprio a Marsili le indagini sull’eversione nera di stampo neofascista, comprese quelle a carico di Mario Tuti e l’inchiesta sulla strage dell’Italicus. Come sono andate a finire, lo sappiamo.

MEZZATESTA Michele – No, non era un’affiliazione massonica qualsiasi, quella del magistrato Michele Mezzatesta, nei primi anni ‘90 presidente del Tribunale fallimentare di Palermo. Perché alla stessa Loggia del capoluogo siciliano facevano capo anche fior di mafiosi (fra cui il “ragioniere” di Cosa Nostra Pino Mandalari e Salvatore Greco, fratello del “papa” Michele Greco), politici ed affaristi. “La pietra entra grezza ed esce levigata”, si leggeva all’ingresso di quel tempio, cui gli inquirenti erano arrivati seguendo le tracce di un narcotrafficante agrigentino. La questione si è riaperta in qualche modo nei mesi scorsi, dopo che i pubblici ministeri di Caltanissetta hanno chiesto all’AISI, attuale sancta sanctorum dei servizi segreti italiani, di visionare gli archivi sulla strage di Capaci. In compenso Mezzatesta non figura più nei ranghi della magistratura italiana.

MONDELLO Fabio – Consigliere di Corte d’Appello a Roma, dopo il clamore seguito al ritrovamento del suo nome fra i massoni del sequestro Cordova, nel ‘96 Mondello finisce nuovamente nei guai a causa di un processo che lo vede imputato insieme all’allora presidente di Cassazione Filippo Verde per aver usufruito di viaggi offerti dalla Canon ad alti esponenti del Ministero di via Arenula, dove i due magistrati avevano prestato servizio nei primi anni ‘90. Il nome di Mondello rimbalzò contemporaneamente anche nell’ambito di un altro scottante procedimento, quello che vide coinvolto il gip della capitale Renato Squillante e l’avvocato Attilio Pacifico. In seguito alla condanna in primo grado riportata a Perugia per la vicenda Canon, Mondello ha lasciato la magistratura.

MONTI David – Un caso davvero spinoso, quello di David Monti, il cui nome è legato all’inchiesta, condotta quando era PM ad Aosta, denominata Phoney Money ed incentrata su traffici internazionali che coinvolgevano massoni, alti prelati e pezzi dello Stato. Correva l’anno 1996 e nessuno si ricordava più che il nome di David Monti era negli elenchi sequestrati da Agostino Cordova. Anche Monti, all’epoca, aveva fatto ricorso alla solita scusa: «la mia iscrizione alla massoneria? Una semplice curiosità giovanile». Sarebbe interessante sapere come ha fatto il magistrato (e con lui diversi altri colleghi) a cancellare il complesso rituale dell’affiliazione ma, soprattutto, a rinnegare il giuramento di sangue fatto dinanzi ai confratelli. Una bella letterina di dimissioni, come al circolo del golf? Di sicuro Monti ha proseguito senza impedimenti la sua carriera nell’ordinamento della magistratura italiana. Ed oggi è GIP a Firenze.

MONTI Mauro – Classe 1947, riveste attualmente l’alta carica di sostituto procuratore aggiunto al Tribunale di Bologna, la città dove è nato. Dopo la scoperta del suo nome negli elenchi sequestrati da Cordova, di Mauro Monti le cronache non si erano più occupate. Tornano a farlo ad agosto 2009 quando, su richiesta dello stesso Monti, il Tribunale accoglie le istanze avanzate in appello dai difensori di Saverio Masellis e Francesco Cardamone, esponenti del clan dei casalesi accusati per aver gestito bische clandestine nel riminese. Risultato: per i due la sentenza di condanna è stata annullata e gli atti tornano al GUP.

NANNARONE Paolo – I problemi cominciano fin dall’83, perché il nome di Nannarone è già lì, negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati. A differenza dei colleghi, Nannarone viene assolto dal CSM. E benché lo si ritrovi nuovamente negli elenchi Cordova del ‘92, il magistrato continua la sua carriera senza problemi; quello stesso anno presiede al Tribunale di Perugia (dove ha svolto la gran parte della sua attività) la Corte d’Appello che proscioglie il finanziere “a un passo da Dio” Pierfrancesco Pacini Battaglia, difeso dall’attuale parlamentare di AN Giulia Bongiorno. Nel ‘96 ritroviamo Nannarone a capo della Corte d’Assise chiamata a pronunciarsi sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Ritenuto incompatibile, sarà sostituito dal collega Giancarlo Orzella. Nel 2000, sempre a Perugia, pronuncia una storica sentenza: i clienti delle prostitute non sono punibili per favoreggiamento. Classe 1939, lasciata la magistratura Nannarone è oggi nell’organigramma di vertice della Banca Popolare di Cortona.

PINELLO Francesco – Classe 1932, presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo, nel 2005 fa parlare di sé per il regime di semilibertà concesso al pluriomicida del Circeo Angelo Izzo, tanto che l’allora guardasigilli Roberto Castelli decise di inviare gli ispettori in Sicilia. In precedenza il nome di Pinello era balzato alle cronache negli elenchi massonici del ‘92, che gli costarono un procedimento disciplinare del CSM a suo carico.

PONE Domenico – In quegli elenchi del ‘92 c’era anche Domenico Pone: una cosa da poco rispetto alla scoperta, avvenuta nel lontano 1983, della sua contemporanea affiliazione alla P2, proprio mentre prestava servizio alla suprema Corte di Cassazione. Segretario, all’epoca, di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe, Pone rappresenta uno fra i pochissimi casi di magistrati rimossi dall’ordinamento giudiziario per appartenenza alla Loggia fondata da Licio Gelli.

RESTIVO Nicola – È giudice per le indagini preliminari a Perugia, Nicola Restivo. Una delle ultime operazioni che portano la sua firma risale a maggio 2009, quando convalida il sequestro di biomasse trasportate illecitamente nelle campagne umbre. Nel 2007 un altro blitz, questa volta a carico di operatori assenteisti nella locale azienda ospedaliera. Nel ‘92, quando era procuratore capo a Perugia, il suo nome rimbalzò fra quelli dei massoni nelle liste Cordova. Il che, come abbiamo visto, non ha intralciato la sua brillante carriera.

RINAUDO Antonio – Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…

ROMAGNOLI Riccardo – È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.

ROMANO Guido – È presidente del TAR della Calabria, il magistrato Guido Romano. La sua affiliazione – il nome era presente negli elenchi del ‘92 – non ha dunque turbato una carriera piena di soddisfazioni professionali. La decisione dell’allora guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi.

SALEMI Guido – Consigliere di Stato, giudice al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e componente della Commissione Tributaria Centrale. Queste le attuali qualifiche di Guido Salemi, che al Consiglio di Stato ha pronunciato nel corso degli anni numerose e rilevanti sentenze. La sua iscrizione in massoneria venne alla luce con gli elenchi del ‘92.

SCARAFONI Stefano – Fra quelle carte c’era anche il nome di Stefano Scarafoni. Romano, classe 1961, all’epoca giudice al Tribunale di Tolmezzo, Scarafoni doveva essersi iscritto giovanissimo alla massoneria. Oggi è in servizio come magistrato fra i più attivi alla sezione fallimentare del Tribunale di Tivoli.

SERGIO Ferdinando – Il suo nome – al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini – venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati, quando nel ‘77 erano stati eletti ai vertici della ANM.

SERIANNI Vincenzo – Originario di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro, fino al 2001 è stato presidente di Corte d’Appello a Milano. Presente negli elenchi del ‘92 (quando presiedeva una sezione giudicante al Tribunale di Torino), l’anziano magistrato calabrese, classe 1929, risiede da anni nella zona di Casale Monferrato, dove frequenta il locale Rotary e presiede la Giunta esecutiva alla Camera di Commercio.

SPINA Antonio – Ad aprile ‘95 il CSM gli commina la sanzione disciplinare per l’affiliazione alla massoneria, venuta alla luce con gli elenchi del ‘92, mentre Spina esercitava la funzione di pretore a Sciacca, in Sicilia. Attualmente non risulta presente nei ranghi della magistratura.

TONINI Paolo – Il nome di Tonini era compreso nella lista dei magistrati trovata nella villa sudamericana di Gelli (vedi Ferdinando Sergio). Da tempo Tonini è passato nei ranghi accademici come docente di diritto processuale penale, che insegna all’Università di Firenze. In tale veste organizza incontri patrocinati dal CSM per la formazione e il tirocinio delle nuove leve in magistratura.

TRAPANESE Mario – A lungo presidente di sezione al Tribunale di Ancona, dopo il ritrovamento del suo nome negli elenchi del ‘92 fu deferito – insieme ai colleghi-confratelli – alla sezione disciplinare del CSM dall’allora ministro Conso. Origini napoletane, l’anziano magistrato si dedica oggi, sempre ad Ancona, a sostenere le sorti di un’associazione benefica, la Lega del Filo d’Oro.

VELLA Angelo – Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALI Massimo – Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.

Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.

Premesso che appartenere alla massoneria non è sgradevole ed affermare ciò riferito ad una persona non è diffamatorio, con la presente rettifica ci accingiamo a soddisfare la pretesa dell’istante.

Correzione dalla Voce delle Voci dell’articolo su magistrati e massoneria. Dalla Voce delle Voci in edicola.

C’è un caso di omonimia nella nostra inchiesta di gennaio 2010 sui “Magistrati Massoni”. A seguito della lettera che qui di seguito pubblichiamo integralmente, precisiamo che il dottor Guido Romano, attualmente consigliere di Stato e già presidente di sezione al Tar della Calabria, NON E’ l’omonimo magistrato ordinario Guido Romano il cui nome fu ritrovato, insieme a quelli di altri magistrati, fra le carte sequestrate nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Il dottor Guido Romano consigliere di Stato, residente a Roma, non ha mai fatto parte della massoneria ne’, come ipotizzavamo nell’articolo, e’ mai passato dai ranghi della magistratura ordinaria a quelli della magistratura amministrativa, dal momento che ha prestato servizio sempre e solo nella magistratura amministrativa. Ce ne scusiamo col diretto interessato, pregando i colleghi dei siti internet che avessero ripreso il nostro articolo di apportare al più presto – come già abbiamo fatto noi – la correzione e la rettifica.

Oggetto: richiesta di smentita ai sensi e per gli effetti della legge n. 47 del 8 febbraio 1948, nel testo vigente.

Lo scrivente Guido Romano, nato ad Aversa (Caserta) l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, nominato Giudice Amministrativo nel settembre 1984, quale vincitore di pubblico concorso, ha svolto le relative funzioni nei TT.AA.RR. della Lombardia, sede di Brescia, dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, della Campania, sede di Napoli, del Lazio, sede di Roma, e della Calabria, sede di Catanzaro, nonchè dal settembre 2007 presso il Consiglio di Stato ove tuttora esercita le funzioni giurisdizionali. Esso scrivente è venuto a conoscenza che nel n,1 dell’anno 2010 della versione cartacea del mensile “La Voce delle Voci” appare, in copertina, a lettere cubitali, il titolo “Magistrati Massoni” ed all’interno e’ inserito articolo a firma del condirettore Rita Pennarola nel quale vengono elencati, in ordine alfabetico, i nomi di magistrati che, per affermazione dell’articolista, sarebbero affiliati alla massoneria. In detto articolo è inserito il nome di “Romano Guido” che, essendo immediatamente seguito dalla precisazione “… è Presidente del Tar della Calabria…”, non può che riferirsi alla persona dello scrivente, tenuto conto che in tale sede giudiziaria amministrativa lo stesso scrivente ha prestato servizio per circa due anni, esercitando la funzione di Presidente della Seconda Sezione (e non anche di Presidente dell’intero TAR, come invece è affermato nell’articolo) e che nella storia del TAR Calabro nessun altro magistrato amministrativo, avente nome e cognome identico allo scrivente, vi ha mai prestato servizio fino ad oggi. Peraltro, tale oggettivo, quanto falso, riferimento alla persona dello scrivente ha trovato conferma anche nel fatto che numerosi colleghi, amici e conoscenti, specialmente nelle Regioni Campania e Calabria, hanno immediatamente manifestato allarme, incredulità e stupore per la notizia appresa nella lettura dell’articolo in questione, pubblicato anche sul sito Internet della “Voce delle Voci” e ripreso da altri siti Internet quali, per quel che allo stato consta, “Facebook” e “Terracina Social Forum”.

Ciò premesso, lo scrivente precisa al riguardo, innanzi tutto, che:

1) non è stato mai affiliato alla massoneria (ne’ coperta ne’ scoperta) e non lo è tuttora:

2) non ha mai fatto parte della Magistratura Ordinaria, ma soltanto della (distinta e autonoma) Magistratura Amministrativa, nei cui ruoli è iscritto dal 1984 a seguito di pubblico concorso;

3) ha esercitato dal 1968 l’attività di “praticante procuratore legale”, prima di accedere, dal 16 gennaio 1972, sempre a seguito di pubblico concorso, al ruolo dei “funzionari direttivi” del Ministero della Pubblica Istruzione, dal quale è, poi, transitato nella magistratura amministrativa (TAR).

Contesta, conseguentemente, ad ogni effetto di legge, che il riferimento alla propria persona, così come operato nell’articolo in questione, quale iscritto nell’elenco dei magistrati massoni, e’ certamente falsa ed è frutto del comportamento del tutto poco accorto e non diligente dell’autore dell’articolo predetto, tenuto conto che l’autrice non si è preoccupata, evidentemente, di operare alcuna verifica degli elementi utilizzati.

Infatti sarebbe stato sufficiente verificare se il nominativo “Guido Romano” – che si afferma nello stesso articolo essere contenuto, come gli altri nominativi di magistrati, negli “… unii elenchi (comprensivi delle logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova…” – fosse l’unico esistente nei distinti ruoli delle varie Magistrature, per cui non poteva non essere quello del magistrato amministrativo individuato nell’articolo in questione come “…Presidente del TAR della Calabria…”, ovvero esistesse nel 1977 (data riportata nella lettera ritrovata nella villa uruguaiana di Licio Gelli e riferita al presunto finanziamento per l’elezione della A.N.M.) e nello stesso 1992 (data di redazione dei citati elenchi Cordova) altro magistrato ordinario con lo stesso nome e cognome; sarebbe stato sufficiente, altresì, ricorrere a nozioni di comune conoscenza quale la notoria distinzione dei magistrati amministrativi del TAR (quale lo scrivente dal 1984 e nel 1992) dai magistrati ordinari (civili e penali), amministrati da distinti organi di autogoverno (C.P.G.A. per i giudici amministrativi e C.S.M. per i magistrati ordinari). Inoltre, l’autrice dell’articolo non si è evidentemente preoccupata neppure di leggere il contenuto complessivo del proprio scritto poichè, diversamente, si sarebbe resa conto che il riferimento operato alla mia persona, attraverso lo specifico e qualificante richiamo alle funzioni di “…Presidente del TAR della Calabria…” contraddiceva, in maniera del tutto oggettiva, le altre notizie ed affermazioni contenute nello stesso articolo e cioe’, sia il successivo riferimento, operato sempre nello stesso contesto descrittivo della mia persona, al fatto che “… la decisione dell’allora Guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi…”, essendo notoriamente competente il predetto Guardasigilli soltanto per i magistrati ordinari, e non anche per quelli amministrativi, diversamente governati dal citato apposito organo di autonomia, sia l’affermazione, questa volta operata nel contesto del profilo descrittivo di altro magistrato ordinario citato dallo stesso articolista nell’elenco (Sergio Ferdinando), che quest’ultimo, “… al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini… (omissis) … venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati quando nel ’77 erano stati eletti ai vertici dell’ANM…”.

E’ evidente, in sintesi, che nel 1977 lo scrivente, in quanto funzionario direttivo dei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione, non apparteneva (come non ha mai appartenuto) alla magistratura ordinaria e, quindi, non poteva ne’ candidarsi, ne’ essere eletto nel direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati, del quale ha, invece, fatto parte l’omonimo “… magistrato ordinario Guido Romano”, citato nella lettera ritrovata nella villa di Gelli in Uruguay ed inserito negli elenchi “… sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova”.

Orbene, per tutto quanti sin qui precisato, lo scrivente chiede che venga, immediatamente, effettuata puntuale ed adeguata smentita – con le modalità prescritte dall’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nel testo vigente – della notizia contenuta nell’articolo di stampa in questione, concernente la mia persona, con la quale dovrà essere chiarito, con tutte le necessarie puntualizzazioni e senza alcuna possibilità di equivoco, che il nome del magistrato Guido Romano che appare nell’elenco riportato in detto articolo (pubblicato sia sul mensile cartaceo La Voce delle Voci n. 1 del 2010 e sia sul corrispondente sito Internet www.lavocedellevoci.it) non e’ in alcun modo riferibile al dottor Guido Romano, nato ad Aversa l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, già Presidente della Seconda Sezione del TAR Calabria ed attuale Consigliere di Stato, trattandosi all’evidenza di caso di mera omonimia con altro magistrato ordinario.

Alla rettifica, così come impone la citata norma di legge, dovrà essere dato il dovuto risalto. Attraverso collocazione, caratteri e dimensioni grafiche eguali a quelli utilizzati per la redazione dell’articolo in questione, e dovrà essere pubblicata non soltanto nel numero cartaceo del mensile La Voce delle Voci di febbraio 2010, ma anche, ed immediatamente, sul sito Internet sopra indicato, con speciale avvertenza degli effetti della citata legge, risultando esso, allo stato, certamente ripreso, come già segnalato più innanzi, da altri siti Internet quali “Facebook” e “Terracina Social Forum”. Lo scrivente, infine, resta in attesa di un pronto riscontro che assicuri l’immediata pubblicazione della rettifica richiesta, salvo e riservato ogni altro diritto ed azione a tutela della propria dignità ed onorabilità. Guido Romano.

Diffamazione, chiude “la Voce delle Voci”. Ma scatta indagine sul giudice che l’ha condannata. Nel 2008 i giornalisti del mensile campano scrivono un articolo sull'insegnante di Di Pietro Junior, poi diventata coordinatrice dell'Idv. Nel 2013 vengono condannati in primo grado a un maxi risarcimento che costringe la testata a chiudere dopo 30 anni. Inutili gli appelli al Quirinale (che salvò Sallusti). I giornalisti però nel 2014 denunciano il giudice che li ha condannati, ora indagato per abuso d'ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai loro danni. La decisione del Gip a giorni. E il caso rilancia il tema della censura dell'informazione attraverso il ricatto economico, scrive Thomas Mackinson il 14 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. In Parlamento torna una gran voglia di “legge bavaglio”, pochi però si preoccupano delle manette che bloccano le rotative della libera informazione. Brandendo come una clava l’istituto della diffamazione. A farne le spese, in ultimo, è il mensile campano “la Voce delle Voci” che è in edicola da trent’anni e si è fatto largo nel panorama delle notizie con inchieste scomode su vari fronti, dalle infiltrazioni della camorra negli uffici pubblici ai fatti di corruzione e fino al coinvolgimento di logge massoniche in affari poco chiari. La storia è ingarbugliata ma emblematica. Al cuore di tutto c’è una sentenza emessa a marzo 2013 dal Tribunale di Sulmona che ha imposto un risarcimento danni di 69 mila euro (più gli interessi) a favore dell’attuale coordinatrice dell’IdV del capoluogo abruzzese, Annita Zinni. La Zinni voleva avere soddisfazione per un articolo scritto nel 2008 e successivamente parzialmente rettificato, che riguardava il suo ruolo per la formazione del figlio di Antonio di Pietro, Cristiano. La condanna emessa cinque anni dopo ha avuto conseguenze catastrofiche per il giornale, ridotto sul lastrico: per riscuotere la somma i legali della signora Zinni hanno pignorato i conti personali dei giornalisti e anche i contributi dello Stato, pari a 21mila euro, che la cooperativa editrice doveva ancora riscuotere. Il legale della Voce, l’avvocato Michele Bonetti, si era opposto affermando che quelli sequestrati sono fondi pubblici che lo Stato eroga per garantire un bene comune prezioso: il diritto ad essere informati andando oltre ciò che diffondono le veline dei Palazzi. Niente da fare. E alla fine è stata pignorata anche la testata giornalistica, costringendo il mensile a sospendere le pubblicazioni. Ma c’è di più. I giornalisti, in attesa che si celebri l’appello all’Aquila, hanno sporto denuncia contro Massimo Marasca, il magistrato di Sulmona che il 25 marzo 2013 ha pronunciato la sentenza di morte del mensile. Alla Procura generale della Cassazione, al ministero della Giustizia, al Csm e alla Procura di Campobasso hanno denunciato l’inerzia investigativa degli uffici giudiziari che fanno capo al magistrato sul cui tavolo era finita la vicenda Zinni. Marasca è ora indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Tocca ora a un giudice del Tribunale di Campobasso, Maria Rosaria Rinaldi, il delicato compito di pronunciarsi sulla condotta di un collega e stabilire se le indagini a suo carico debbano proseguire. Al termine della camera di consiglio del 7 luglio scorso, il Gip ha rinviato la decisione ai prossimi giorni. Così l’esistenza del mensile resta appesa a un filo, nel silenzio generale. Poche infatti sono le voci che si sono levate per rilevare l’evidente “sproporzione” tra l’errore contestato ai giornalisti, le dimensioni della testata, la capacità economica dei condannati la condanna a morte della loro testata. Non ha prodotto i frutti sperati, ad esempio, il tentativo di interessare della vicenda Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della Magistratura, l’organo competente a valutare le condotte dei singoli magistrati”. Al Capo dello Stato si erano rivolti i giornalisti de la Voce delle Voci il 22 aprile 2014. Con una lettera gli chiedevano di correggere gli effetti di una sentenza abnorme che determinava la cessazione delle pubblicazioni della testata. Infondo, avranno pensato, Napolitano si era dimostrato attento al delicato rapporto tra stampa e giustizia: non erano passati due anni da ché aveva commutato il carcere in sanzione pecuniaria per Sallusti. Ma Napolitano non rispose mai direttamente. Lo fece il direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia del Quirinale, Ernesto Lupo: “Pur nella migliore comprensione, non rientra tra le attribuzioni costituzionali del Capo dello Stato l’intervento su questioni appartenenti alla competenza dell’autorità giudiziaria”. L’esposto finì sul tavolo del Csm, e lì è rimasto. A tenere viva l’attenzione sul caso, invece, è l’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare casi di censura e minaccia a danni dei giornalisti. “Attendiamo con vivo interesse la decisione del gip” ha dichiarato il direttore Alberto Spampinato. “L’iter di questo processo – aggiunge – dimostra in modo plateale che le norme vigenti in Italia in materia di diffamazione a mezzo stampa consentono punizioni e censure che vanno ben oltre la previsione della pena detentiva e che non hanno nulla a che vedere con la difesa della reputazione personale. Ci dice poi che queste norme consentono di fare sparire un giornale dalle edicole e di ridurre sul lastrico chi è ritenuto colpevole di aver sbagliato. Il nostro interesse al caso della Voce delle voci è accresciuto dall’emergere dell’ipotesi di condotta scorretta del giudice che ha pronunciato siffatta sentenza. Penso perciò che il giudice per le indagini preliminari di Campobasso abbia fatto bene a riservarsi la decisione che deve dimostrare che la magistratura è capace di indagare sulla correttezza dei suoi stessi membri e di giudicare i loro comportamenti con la stessa severità con cui giudica quelli degli altri cittadini. Egregio giudice, faccia con calma, prenda il tempo che le serve per fare la cosa giusta”. Infine il messaggio a Parlamento e Governo: “Se la magistratura deve impedire le conseguenze ultronee delle sue sentenze, Parlamento e Governo devono correggere senza ulteriori indugi le norme sulla diffamazione che tuttora prevedono il carcere per i giornalisti per evitare che esse limitino il diritto di informare e di essere informati. Se un giornalista e il suo giornale devono mettere in palio tutto ciò possiedono, e anche la possibilità di proseguire la loro attività, ogni volta che pubblicano una notizia controversa, in questo paese non c’è più spazio per l’informazione giornalistica”.

Basilicata: magistrati e avvocati massoni? Si chiede Franco Venerabile su Indipendente Lucano riportato da “Karakteria”. Non ci sarebbe nulla di male, sia beninteso. Lo stesso presidente Napolitano usa esprimere familiari auguri e sentimenti cordiali al Gran Maestro di turno. Ma sarebbe utile capire, avere qualche risposta a questioni che aleggiano da alcuni anni. Almeno dal 2007, da quando, in una telefonata intercettata tra un giornalista di cui il PM Annunziata Cazzetta ed il Gip Angelo Onorati erano all'affannosa ricerca delle fonti, qualcuno disse che Vincenzo Autera (magistrato della Corte d'Appello di Potenza) ed Emilio Nicola Buccico (avvocato materano) erano in forza ad una loggia estera. La fonte, in quel caso, era un appartenente alla Massoneria noto per questa sua legittima adesione, ma nessuno ritenne di approfondire la questione e tutto rimase in un nastro ed in qualche foglio di trascrizione. Sembra che solo a nominarla, la Massoneria crei imbarazzo. Poi, molto poi, si accertò che tutte quelle intercettazioni, Cazzetta ed Onorati le avevano disposte e tenute illecitamente e nel giugno 2012 un giudice stabilì di trasferire il procedimento a Catanzaro. Anche lì, Vincenzo Autera aveva un precedente: indagato per associazione mafiosa dal 2007 al 2009 (ma l'iscrizione originaria, a Firenze, era del 2005), procedimento archiviato. In quei quattro anni, nessuno aveva comunicato l'iscrizione di una ipotesi di reato così grave alla Procura presso la Corte di Cassazione. Il che è gravissimo, pare! Anche Cazzetta era ben nota a Catanzaro, alcune decine di procedimenti la vedevano indagata per reati anche gravissimi. Quasi tutti definiti con archiviazione, alcuni pendenti. Ma tutti senza alcuna attività d'indagine, almeno tutti quelli tenuti dal PM Paolo Petrolo: più che un magistrato inquirente si potrebbe definire un magistrato paragnosta. Tranne che per l'identità degli indagati (se magistrati), che suole iscrivere nell'imminenza della formulazione della richiesta di archiviazione, per il resto i fascicoli appaiono scevri di qualsivoglia attività ma motivati da potenti precognizioni. Significativo il caso in cui si accertò la mancanza di oltre cento faldoni che, secondo il Gip, non avrebbero potuto contenere alcun elemento utile a modificare la decisione di archiviare. Quasi che quegli atti d'indagine che nessuno aveva potuto visionare fossero carta straccia. Che a Catanzaro la preveggenza non sia una virtù, lo si scopre attraverso una recentissima inchiesta della Procura di Salerno. "La 'ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria. Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari", la frase è di un noto boss della 'ndrangheta ed è intercettata dalle microspie dei Carabinieri del ROS di Salerno. Il collante è proprio l'appartenenza alla massoneria. Massone è anche il magistrato /Gip) Giancarlo Bianchi che di favori, secondo la Procura di Salerno, ne distribuisce più d'uno. E qui ritroviamo il PM Paolo Petrolo, parte de "l'ingranaggio" a disposizione della  'ndrangheta. Un sistema di contatti, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. Per questi tre magistrati, il PM di Salerno aveva chiesto l'interdizione: negata! Se fossero stati semplici poliziotti sarebbero stati arrestati ma non tutti nascono col cappuccio. Resta un'ultima domanda, questa al Dr. Paolo Petrolo: scusi, lei è massone?

Potenza, le accuse del giudice: «Processi lenti, patti con avvocati». Indagato il procuratore generale, scrive Carlo Vulpio su “Il Corriere della Sera”. Qui non si parla di intercettazioni, o di racconti di «pentiti». Qui si parla di magistrati che davanti al Csm e poi davanti a un altro magistrato denunciano fatti che oggi riguardano la Basilicata, ma che domani (o già oggi, com' è accaduto in Umbria) potrebbero toccare gran parte della magistratura italiana e costringerla a «guardarsi dentro». Ma non allontaniamoci dalla Basilicata, dove la domanda è: c' è o no un «comitato», una «cabina di regia» che gestisce i processi e ne determina l'esito? Sì, secondo il gip di Potenza, Rocco Pavese, le cui dichiarazioni hanno contribuito a fare iscrivere nel registro degli indagati presso la procura di Catanzaro anche il procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano. Ecco come funzionerebbe il presunto «comitato». «I magistrati della Dda - dice Pavese - devono essere addetti ai procedimenti di mafia, lo dice il Csm, salvo eccezionali esigenze da motivare caso per caso. A Potenza questo invece non avveniva. Numerosi fascicoli relativi a reati di pubblica amministrazione o reati commessi da pubblici ufficiali, sono sempre stati trattati, oltre che da altri magistrati, anche da Giuseppe Galante e Felicia Genovese (capo e vicario della procura antimafia di Potenza, ndr) spesso in co-delega. Insomma, quando si tratta di fare il lavoro duro, ordinario, per esempio andare in applicazione a Lagonegro, si eccepiva questa riserva a favore della Dda. Quando invece si trattava di fare procedimenti, guarda caso sempre e sistematicamente di pubblica amministrazione, lì questa riserva non veniva fatta valere». Il procuratore generale, Vincenzo Tufano, sarebbe dovuto intervenire. Invece, «nemmeno un rilievo o un appunto». «Il pg contro i magistrati» Secondo il gip Pavese, Tufano «in consonanza con una parte dell' avvocatura, ha come bersaglio i magistrati che fanno il proprio dovere senza guardare in faccia nessuno». Un esempio è il procedimento «Iena« (il primo grosso procedimento in Basilicata che ha visto coinvolti numerosi politici, ndr), che provocò «una serie di polemiche molto virulente, anche sulla stampa locale, che si schierò pressoché unanimemente contro la magistratura e a favore della classe politica. In realtà non è che la classe politica lucana era tutta sotto accusa in quel procedimento. C'erano singole persone indagate: colletti bianchi, imprenditori, delinquenti di strada e anche Renato Martorano, forse il più importante esponente della mafia lucana, vicino alla 'ndrangheta, che ha una condanna per associazione mafiosa passata in giudicato. Emergevano insomma chiaramente collegamenti tra il Martorano e i suoi accoliti con questi colletti bianchi e imprenditori». Il club degli avvocati Gli avvocati con i quali il procuratore generale Tufano sarebbe «in consonanza», al punto da consigliarli come difensori anche a imputati di gravi reati, sono gli stessi che hanno prodotto un «libro bianco» contro i magistrati che Tufano non mancava di «rampognare». Questo «club» tra avvocati e procuratore generale, «il quale più volte, anche pubblicamente, ha preso le parti dei suoi amici avvocati contro alcuni magistrati», ha poi portato alla nascita a Potenza, caso forse unico in Italia, di una seconda Camera penale. Eppure, dice Pavese, «Tufano non ha mai avuto nulla da ridire sulla spropositata durata dei dibattimenti collegiali, com' è accaduto nel processo per mafia detto I Basilischi». Continua Pavese: «Decine di persone arrestate ad aprile 1999, cinquanta rinvii a giudizio a marzo 2000 e un dibattimento che oggi non è ancora finito! Con danni erariali gravissimi: spese di traduzione, verbalizzazione, videoconferenza, oneri per i gratuiti patrocini e così via. E poi inevitabilmente, alla fine, a prescindere dal merito processuale, ci saranno gli indennizzi per eccessiva durata del processo ai sensi della legge Pinto. E questo è un problema che è sotto gli occhi di tutti. Devo ritenere che faccia comodo. Il dottor Tufano, questo, non lo ha mai rilevato». I brogli elettorali Un caso importante di cui si è occupato il gip Rocco Pavese riguarda i brogli elettorali alle elezioni amministrative del 2005, comunali e regionali, di Scanzano Jonico. In quella vicenda, ricorda il gip, il pm era Felicia Genovese. Ci furono arresti, «ma non per quelli che avevano attivamente preso parte alla designazione dei presidenti di seggio compiacenti, nonostante le intercettazioni, che io ricordo bene, in cui era coinvolto anche un cancelliere della corte di Appello di Potenza, e in cui si diceva: "Nomina questo, nomina quell' altro", e si facevano nomi e cognomi. Insomma, non ci fu richiesta cautelare a carico di coloro che avevano avuto un ruolo importante in tutta la vicenda». E ancora: «Uno degli interlocutori era proprio l' avvocato Labriola, che notoriamente è assai vicino, a Matera e in tutta la Basilicata, all' avvocato Buccico, importante esponente di An. È chiaro che io intesi questo fatto come un atto di riguardo nei confronti di un livello politico amministrativo, del notabilato di un livello superiore che non era il caso di toccare. Questo, senza volere fare illazioni, mi pare che sia proprio in re ipsa». Non manca la massoneria deviata, che in Basilicata sembra aver messo le zampe nelle vicende più oscure. «A giudicare da come funzionano giustizia e amministrazione della politica - sostiene Pavese - sembra che chi ha degli agganci riesce a risolvere i propri problemi, chi non li ha, pur avendo ragione da vendere, non li risolve. Si potrebbe dire che la vicenda "Iena" è uno dei casi in cui questi legami, amicizie, vicinanze, si sono poi estrinsecate in condotte concrete, perché ci fu all' unisono una reazione della stampa contro la magistratura che procedeva, sia inquirente sia giudicante». Il caso di Elisa Claps. Quando in Basilicata si parla di legami massonici, si parla di ' ndrangheta e di almeno di una decina di omicidi insoluti negli ultimi vent' anni. Tra i quali, la misteriosa scomparsa, nel 1993, della studentessa sedicenne Elisa Claps. Del caso Claps si occupò anche il pm Genovese, cioè la moglie di Michele Cannizzaro. Questi, poi diventato direttore generale dell' ospedale di Potenza, era stato sospettato di aver aiutato a «coprire» Danilo Restivo, il giovane accusato di aver fatto sparire Elisa. Al di là dei tanti altri buchi neri di quella scomparsa, il gip Pavese si sofferma su un punto in particolare: l' insistenza del pm Genovese di imputare Danilo Restivo, nei cui confronti l' accusa di omicidio venne archiviata, per false dichiarazioni rese al pm. Così il presunto omicida sarebbe diventato un presunto falso testimone. Una vicenda che fa dire a Pavese: «È assolutamente non condivisibile che colui che è il principale sospettato di essere l' autore dei reati nella scomparsa della ragazza venga ad essere imputato di false dichiarazioni al pm. Questa è una cosa concettualmente incompatibile con la partecipazione, o meglio, con gli indizi di partecipazione al reato principale. Perché se io dico una persona è sospettata di aver commesso un reato, e ci sono degli indizi, va trattata quale indagato, non lo si può sentire quale informatore». Il pm Genovese sembrava anche molto attiva nell' archiviare denunce per reati contro la pubblica amministrazione. «A me sono capitate quasi tutte le richieste di archiviazione del pm Genovese - dice Pavese -. Ne ricordo una per un procedimento contro Filippo Bubbico (Ds), presidente della giunta regionale, per una questione di finanziamenti a un Comune. Una per Antonino Imbesi (FI), consigliere comunale a Potenza, in questo caso pm era anche Galante. Per Roberto Schettini, capo dell' Ufficio tecnico di Tramutola, in provincia di Potenza, ci furono varie richieste di archiviazione per abusi edilizi, che io non accolsi, e sfociarono in un' imputazione coattiva da parte mia. Il pm era ancora la Genovese. E ancora, una richiesta di archiviazione per quattro vigili urbani di Potenza accusati di falso per non aver fotografato una costruzione abusiva. Anche in questo caso, io non ho accolto la richiesta di archiviazione e ho formulato l' imputazione coattiva». Un altro esempio è il processo a carico della giunta regionale per il siluramento del direttore generale della Asl di Venosa, Giuseppe Panio, sostituito da Giancarlo Vainieri, «sponsorizzato» da Bubbico e Vito De Filippo (Margherita), cioè l' ex «governatore» e quello in carica. «Le richieste di archiviazione proposte dal tandem Galante-Genovese non sono state accolte». Le archiviazioni del procuratore Infine, il caso del «pentito» Gennaro Cappiello. «Esemplare», dice Pavese. Cappiello accusa Cannizzaro di essere il mandante del duplice omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero (avvenuto nel 1997) e poi viene arrestato (nel 2004) con l' accusa di essere lui l' omicida. Cannizzaro nel ' 99 aveva denunciato per calunnia Cappiello, che aveva da poco cominciato a collaborare con la giustizia. «Eppure questo procedimento per calunnia rimase a carico di persona non identificata - dice Pavese -. Una cosa molto strana, perché di Cappiello Gennaro che collabora con l'autorità giudiziaria, non solo a Potenza ma in tutta Italia, ce n'è uno solo. Invece Cappiello fu identificato soltanto alla fine di giugno 2004». Cioè solo quando venne arrestato. Ci sarebbe anche Galante, che dopo questo terremoto ha preferito lasciare il posto di capo della procura di Potenza. Per lui, le parole di Pavese suonano come un epitaffio. «Il suo lavoro era prevalentemente quello di archiviazione contro ignoti». La studentessa sedicenne Elisa Clapsscomparve misteriosamente a Potenza il 12 settembre del 1993. Non venne mai più ritrovata Del caso Claps, tuttora insoluto, si occupò anche il pm Felicia Genovese. Il marito della Genovese, Michele Cannizzaro, venne sospettato di aver aiutato a «coprire» Danilo Restivo, il giovane accusato di aver fatto sparire Elisa, con la quale aveva appuntamento il giorno della scomparsa. Secondo il gip Rocco Pavese sarebbe sospetta l' insistenza del pm Genovese di imputare Danilo Restivo per false dichiarazioni, trasformando così il presunto omicida in un presunto falso testimone.

Il presidente del Tar? E' un massone. L'incredibile nomina in Calabria. Il nuovo presidente del tribunale amministrativo regionale, Guido Salemi, è stato iscritto per anni a una loggia. E, nonostante la legge vieti espressamente a un magistrato di indossare il "grembiulino", la promozione è arrivata lo stesso, scrive Emiliano Fittipaldi su  “L’Espresso”. Nella Regione a maggior densità massonica d’Italia era logico che, come nuovo presidente del Tar, fosse nominato un massone. Sembra una battuta, ma non è così: a capo del Tar della Calabria c’è ora un massone “in sonno”. Guido Salemi, ex consigliere di Stato, è stato iscritto per anni alla loggia “Giustizia e Libertà” facente parte del Grande Oriente d’Italia. Nel 1996 contro di lui fu aperto pure un procedimento disciplinare, visto che - nonostante per un magistrato esista il divieto di indossare grembiuli - aveva mantenuto l’iscrizione fino al 1994. Alla fine il procedimento fu archiviato, perché la condotta di Salemi fu considerata «in buona fede». L’affiliazione del magistrato era stata scoperta nel 1992 dall’allora pm Agostino Cordova, che in un’inchiesta choc individuò una quarantina di togati iscritti a logge coperte e non. Ma il passato massonico di Salemi è stato tirato fuori anche dal giudice Alessio Liberati, che tre anni fa denunciò pubblicamente Salemi e un altro consigliere di Stato: Filoreto D’Agostino, finito in un elenco massonico. Come Salemi, anche D’Agostino ha fatto carriera: nel 2011 è diventato presidente del Tar Sicilia. Massoni in sonno, ma svegli a cogliere le occasioni.

Giudici amministrativi: ancora scandali legati alla massoneria, scrive Alessio Liberati (magistrato) su “Il Fatto Quotidiano”. Ho da poco scritto un post sulle infiltrazioni massoniche occulte nella giustizia amministrativa che mi tocca già scriverne un aggiornamento. Questa volta la notizia è che un magistrato del TAR Palermo avrebbe (il condizionale è d’obbligo) addirittura dettato i ricorsi per far vincere le cause ad alcune parti. Nicolò Marino, assessore all’Energia ed ex magistrato, avrebbe in proposito affermato che il commissario Ferdinando Buceti era troppo “scomodo” e che un magistrato del Tar di Palermo, iscritto alla massoneria avrebbe suggerito alla società ricorrente il testo “vincente” per eliminarne la nomina. Quello che avrebbe avuto maggiori chance di essere accolto. E il ricorso, effettivamente, è stato accolto, bloccando i commissariamenti. E costringendo l’assessore a produrre una nuova direttiva. Il magistrato in questione risulterebbe iscritto (almeno sino al febbraio 2013) alla massoneria, sempre Marino. Una decisione, quella del Tar, sempre secondo Marino, dagli effetti devastanti, visto che avrebbe determinato un vuoto totale nella gestione del Servizio idrico integrato in tutto il territorio siciliano. Sono state preannunciate anche le dovute segnalazioni al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa (CPGA, cioè il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa). È doveroso allora ricordare che già in passato io stesso chiesi al CPGA di accertare presunte appartenenze massoniche di alcuni magistrati del Consiglio di Stato, ricevendo per tutta risposta la proposta di un procedimento disciplinare … a mio carico! Nulla invece ai massoni (dichiaratisi in sonno) accertati effettivamente tali, uno dei quali addirittura promosso Presidente di TAR. Di certo tale decisione “disciplinare” (proposta dalla commissione allora presieduta dal prof. Nicolò Zanon, cioè lo stesso membro del CSM attuale che ha redatto il parere pro veritate contrario alla decadenza di Berlusconi e contestualmente ha chiesto l’apertura di una pratica contro il giudice Esposito, presidente del collegio che ha preso la decisione sul caso Mediaset) non è davvero un incentivo per i magistrati a denunciare appartenenze massoniche (che sono vietate per i giudici). Personalmente condivido le preoccupazioni del gran maestro del Grande Oriente Democratico, ven. Gioele Magaldi, circa il rischio di compressione della libertà di associazione (contro la massoneria), ma va anche detto che, come lo stesso GOD denuncia, le deviazioni dall’ethos massonico sembrano essere davvero troppe. Non a caso si sente parlare di massoneria, relativamente ai giudici TAR, solo con riferimento a scandali più o meno gravi. Speriamo allora che il nuovo CPGA, nel quale sono stati eletti proprio ieri i membri laici (tra cui la moglie del prof. Zanon, la prof.ssa Maria Elisa D’Amico) cambi orientamento in tema di massoneria e sanzioni duramente la violazione del divieto di appartenenza e la mancata dichiarazione di tale status di massone in sonno.

Affari sull'acqua, Marino accusa: "Un magistrato massone dettava i ricorsi", scrive Accursio Sabella su “Live Sicilia”. L'assessore all'Energia racconta una vicenda che ha dell'incredibile: "Un giudice del Tar di Palermo, iscritto alla Massoneria, ha suggerito alla Sai 8, società che gestisce il servizio idrico in provincia di Siracusa, il testo del ricorso col quale allontanare un commissario scomodo". Un magistrato massone. Che ha suggerito a una società come vincere un ricorso. L'accusa ha del clamoroso. E a lanciarla è Nicolò Marino, assessore all'Energia e sopratutto ex magistrato. Il teatro dell'incredibile scontro di poteri è l'Ato idrico di Siracusa, dove una società ha avanzato ricorso contro il commissariamento dell'Ambito territoriale deciso dalla Regione. Lì, a Siracusa, secondo Marino, il commissario Ferdinando Buceti era troppo scomodo. E un magistrato del Tar di Palermo, iscritto alla massoneria avrebbe suggerito alla società ricorrente il testo “vincente”. Quello che avrebbe avuto maggiori chance di essere accolto. E il ricorso, effettivamente, è stato accolto, bloccando i commissariamenti. E costringendo l'assessore a produrre una nuova direttiva. “Sono stato costretto – racconta Marino - lo scorso 11 settembre a reiterare la direttiva concernente la nomina dei Commissari liquidatori degli Ato idrici in Sicilia, eliminati in pochi minuti da un intervento adottato da un magistrato del Tar di Palermo che in questa sede ometto di indicare. Il magistrato in questione, - prosegue Marnio - come riscontro dalla relazione redatta dai legali dell’amministrazione Ato idrico di Siracusa, risulta avere suggerito alla parte privata, la Società Sai 8 che gestisce il servizio idrico in quella provincia, il percorso giuridico da seguire al fine di bloccare l’operatività del Commissario dell’Ato idrico aretuseo. Così, - va avanti l'incredibile racconto dell'assessore - in pochi minuti, i difensori della citata società, a penna, hanno predisposto e immediatamente presentato il ricorso secondo le indicazioni ricevute dal giudice, ricorso naturalmente accolto”. Una decisione, quella del Tar, spiega Marino, dagli effetti devastanti, visto che ha determinato “un vuoto totale nella gestione del Servizio idrico integrato in tutto il territorio siciliano”. Circa la condotta del magistrato – affonda Marino - saranno effettuate le dovute segnalazioni al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa. Il magistrato in questione risulta iscritto (almeno sino al febbraio 2013) alla massoneria; pur potendo ciascun cittadino della Repubblica autodeterminarsi liberamente, ritengo da uomo delle istituzioni che un appartenente alla magistratura non possa prestare due giuramenti, uno per la Repubblica italiana altro per diverse entità. Giova ricordare – aggiunge Marino - che le vicende della Società SAI 8 si inseriscono in un complesso contesto giudiziario e amministrativo, caratterizzato da plurime segnalazioni effettuate dal Commissario liquidatore dell’Ato idrico di Siracusa, Ferdinando Buceti, presso svariate sedi giudiziarie”. Denunce che avrebbero spinto, sempre secondo il racconto dell'assessore, la Sai 8 a trovare “un sistema” per allontanare quel commissario. “Di recente – spiega Marino - la Procura della repubblica di Siracusa ha già chiesto il rinvio a giudizio dei vertici della predetta società, penalmente responsabili, secondo le operate contestazioni, di gravissimi fatti di reato ambientali e di frode nelle pubbliche forniture, nell’ambito della gestione del servizio. Lo stesso Ufficio di Procura ed il citato commissario dell’ Ato hanno, inoltre, proposto istanza di fallimento della Società Sai 8, alla quale è stata ritirata la concessione”. Il Cga inoltre, ricorda Marino, il 30 marzo del 2011 avava già “affermato che l’affidamento del servizio in favore di Sai 8 era in palese contrasto con l’interesse pubblico e, pertanto non doveva essere stipulata la relativa convenzione”. E non finisce qua. Marino denuncia anche una “posizione di favore” nei confronti della Sai, da parte della Banca Intesa San Paolo: “Il Commissario liquidatore dell’Ato idrico di Siracusa – attacca Marino - ha chiesto alla Banca Intesa San Paolo, garante della Società Sai 8, a fronte delle innumerevoli inadempienze contrattuali di quest’ultima, la restituzione della cauzione (polizza fideiussoria) pari a tre milioni di euro, richiesta correttamente formulata. La banca, con un comportamento inqualificabile sul piano dei rapporti bancari e qualificabile sul piano giuridico – conclude Marino - come palese inadempimento, sta reiteratamente omettendo di effettuare il pagamento”.

Questa la replica dell'azienda Sai8 s.p.a in merito alle dichiarazioni dell'assessore Marino: "In merito alle dichiarazioni dell’assessore Nicolò Marino, apparse sulla testata giornalistica La Sicilia in data odierna, Sai8 vuole nuovamente ribadire quanto già precisato per l’articolo apparso sul sito web livesicilia.it e sull’edizione di Siracusa del Giornale di Sicilia del 14.9.2013. Gli atti compiuti dall’assessore Marino e le prime pronunce giurisdizionali intervenute sugli stessi hanno qualificato, sino ad ieri, l’attuale titolare dell’assessorato dell’energia e servizi di pubblica utilità come autore di una serie di provvedimenti amministrativi viziati da gravi violazioni di legge, in danno, tra l’altro, della nostra società. Le inqualificabili dichiarazioni diffuse a mezzo stampa il 13 ed il 14 settembre, ove ne fosse confermata la paternità, aggiungerebbero al quadro, già di per sé sconfortante, sinora emerso un sovrappiù di inammissibile arroganza e di insofferenza rispetto al controllo di legittimità esercitato dai Giudici amministrativi. Ci rendiamo conto che il decreto presidenziale adottato dal TAR Sicilia lo scorso 5 settembre ha avuto l’effetto – sicuramente devastante per la credibilità dell’azione di governo dell’assessore, sinora sbandierata come pretesa azione di legalità – di rendere evidenti, sia pure ancora solo in sede cautelare, le numerose e patenti violazioni di norme costituzionali e di legge, che inficiano l’azione amministrativa sinora svolta. Ci rendiamo anche conto che l’essere entrato a gamba tesa nella gestione del S.I.I., tramite gli atti del dott. Buceti e personalmente nel corso di una memorabile conferenza stampa a Siracusa, convocata al dichiarato fine di smascherare presunte illegalità di SAI8 (il cui accertamento non compete di certo all’assessore regionale), e l’essersi ritrovato – proprio nel momento in cui è in discussione la conferma del proprio incarico governativo – solo con l’accertamento di illegittimità proprie, può sortire un effetto destabilizzante. Ci rendiamo conto, ancora, che la restaurazione di un quadro di piena legittimità amministrativa non potrà che coincidere con il pressoché completo azzeramento di un discutibile sistema di gestione del Servizio Idrico Integrato in Sicilia, messo in piedi dall’assessore Marino, in ostentato spregio alle norme di legge regolanti la materia. Ma pur rendendoci conto di quanto sopra, non possiamo esimerci dal rilevare come la mistificante e distorta prospettazione offerta a mezzo stampa dall’assessore:

a) ignori il fatto che il ricorso, in relazione al quale il TAR Palermo ha interinalmente accolto la domanda cautelare avanzata da Sai8, era stato notificato e depositato, corredato da specifica domanda cautelare, quasi un mese prima della camera di consiglio del 5 settembre;

b) taccia sul fatto che, solo nell’approssimarsi della camera di consiglio, la difesa del Consorzio, all’unico plausibile fine di determinare un rinvio nella trattazione dell’istanza cautelare avanzata da Sai8, sollevava una strumentale ed infondata eccezione di incompetenza, in quanto tale poi respinta dal TAR;

c) trascuri di riferire come il decreto presidenziale rappresentasse, a quel punto, l’unico strumento processuale invocabile da parte di Sai8 per evitare che le già da tempo manifestate esigenze di tutela cautelare rimanessero del tutto disattese;

d) ometta di riferire che l’intero iter procedurale si è svolto nel contraddittorio tra le parti ed in particolare alla presenza della difesa del Consorzio ATO, in persona di idoneo sostituto processuale del procuratore costituito, la quale non ha ritenuto di nulla osservare od eccepire, salvo poi (a quanto risulterebbe dalle dichiarazioni dell’assessore Marino) prodursi in inattendibili ricostruzioni e relazioni, postume rispetto al negativo risultato professionale.

Pur nel turbamento determinato da episodi quale quello registrato, Sai8 conferma la propria piena fiducia nelle istituzioni, di cui si sente parte in quanto investita di un pubblico servizio, e segnatamente nell’operato della Magistratura, che – si confida – una volta ristabilita la verità dei fatti saprà decidere e valutare serenamente, al riparo da ogni forma di indebito condizionamento esterno e di velata intimidazione. L’unico intento della Società rimane quello di poter fornire un servizio di qualità agli utenti della provincia di Siracusa con il proposito di continuare a migliorarlo e per cui continua a lavorare proficuamente. Difatti, la concessione è tutt’ora valida, almeno fino a pronunciamenti giudiziari contrari. Sai8 ha già dato mandato ai suoi legali al fine di tutelare nelle sedi opportune sia i propri diritti che la propria immagine".

Sentenze taroccate al Tar. L'aiutino costa 50mila euro, scrive Valeria Pacelli da il Fatto quotidiano riportate da “Infonodo”. Vendita della funzione giudicante, è la definizione degli inquirenti che racconta il sistema corruttivo che nelle stanze del Tribunale amministrativo Regionale di Roma, non aveva alcun rispetto di quella giustizia che dovrebbe fare da padrona. Soldi contanti negli uffici di un giudice, sentenze decise in un ristorante chic e procedimenti manipolati. È tutto nero su bianco nell'ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di 7 persone. In cella ci sono finiti il giudice del Tar Franco Angelo Maria De Bernardi (già arrestato a maggio scorso a Palermo nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di lingotti d'oro, ma l'ordinanza è stata annullata e lui è tornato a fare il giudice), l'avvocato amministrativista Matilde De Paola e l'uomo d'affari Giorgio Cerruti, noto per i suoi legami con la massoneria e Flavio Carboni. Ai domiciliari invece ci sono finiti l'ex presidente della Banca Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, insieme ad altri tre. L’inchiesta è dei magistrati romani Nello Rossi, Stefano Pesci e Alberto Pioletti, che in un anno di indagine hanno scoperto come un giudice intervenisse nelle sentenze del Tar, in accordo con un’avvocatessa che seguiva i casi da trattare e soprattutto dietro lauto compenso. Accordi corruttivi che sono finiti nei nastri delle intercettazioni ambientali o telefoniche captate dal Noe, guidato dal colonnello Sergio de Caprio, alias Ultimo, mentre a seguire direttamente l'indagine è il capitano Pietro Rajola Pescarini. A pagare le “tangenti”, invece era chi desiderava sentenze favorevoli, tanto che molti sono finiti iscritti nel registro degli indagati. Come il costruttore Claudio Salini e due ufficiali, l'ammiraglio di squadra Marcantonio Trevisani, e il suo collega Luciano Callini, ai vertici dello stato maggiore della Difesa, nei mesi scorsi consulente del caso dei due marò indagati in India per omicidio. In questi ultimi due casi, De Bernardi avrebbe curato i ricorsi percependo un compenso di circa 10mila euro. Ma sono molteplici i casi scoperti dagli inquirenti. Uno di questi riguarda il ricorso della Spoleto Credito e Servizi, sottoposta a procedura di amministrazione straordinaria. Per vincere la causa contro il ministero dell'Economia, che aveva commissariato la banca per un buco di diversi milioni di euro, però sarebbe servita la promessa di 50 mila euro da parte dell'ex presidente della Popolare di Spoleto, Antonini. Una vittoria decisa davanti ad una cacio e pepe del ristorante romano «Il Caminetto», in zona Parioli. Il 25 febbraio scorso infatti Giorgio Cerruti, che fa da tramite, cena al ristorante con il giudice un monsignore. Si tratta di Don Manlio Sodi, presidente della Pontificia Accademia della Teologia, anche questi indagato e già coinvolto in un’altra inchiesta sul crac dei salesiani. La conversazione al ristorante viene intercettata. De Bernardi: “non è che gli devi chiedere qualche centinaio di euro perché fa ridere i polli” Cerruti: “ma non esiste..lascia perdere. Ma io te lo faccio passare tramite il monsignore” De Bernardi: “quindi semmai sentiamo quali sono le esigenze del monsignore, no?” Cerruti: “tu non ti preoccupare,(..) tu mi devi dire, guarda Giorgio qui ci vogliono 50mila euro, faccio per dire adesso. Poi se monsignore ne aggiunge 10 sopra sono cavoli suoi (..) Il monsignore che c'ha questa onlus.. ha avuto un contributo dalla fondazione non dalla banca, a livelli di beneficenza, insomma, gli hanno dato sessanta mila euro”. Tra gli indagati per aver ricorso al giudice c'è anche Claudio Salini, azionista con i fratelli e il padre Francesco Saverio della Salini Costruttori. È anche presidente e ad della Ics Grandi Lavori, la società da lui fondata nel 2005. Questa società è arrivata seconda alla gara per il Ponte della Scafa, a Roma. Per questo viene fatto ricorso al fine di annullare la gara. Anche in questo caso, sarebbe intervenuto il giudice De Bernardi e “tramite Francesco Clemente, la Ics Grandi Lavori spa avrebbe promesso il pagamento di imprecisate somme di denaro”, come è scritto nell’ordinanza. Al vaglio degli inquirenti ci sono finiti anche tre ricorsi per gli esiti del concorso notarile. Uno di questi è il ricorso “Molinari”. Stavolta le sollecitazioni, è scritto nelle carte, sarebbero arrivate da “persone legate al giudice in relazione ad un progetto politico, vale a dire la creazione di un partito che supportasse Mezzaroma Roberto (ex eurodeputato di Forza Italia, ndr) nella sua attività politica”. A fare da tramite per questo ricorso, De Santis, che si reca nell'ufficio del giudice. Nei nastri del Noe, si registra il fruscio del denaro che viene contato. “Si parla di banconote tutte da 50 -scrive il gip nell’ordinanza- e, poi, di "40": il che è compatibile sia con il conteggio di 40 banconote da 50 euro (vale a dire 2.000 euro in tutto), sia con la somma di 40.000 euro in banconote da 50 euro. La seconda opzione è quella più credibile, perché più in linea con le tariff’ generalmente praticate”.

L’occasione buona fa il giudice ingordo, scrive Chiara Paolin su il Fatto quotidiano. Il giudice De Bernardi non si sentirà solo nel ruolo dell’accusato, al Tar di Roma. Il collega presidente della terza sezione, Franco Bianchi, è finito sotto indagine pochi giorni fa con l’accusa di aver favorito un certo Adolfo Repice quando stava a Torino, nel 2010. La tesi del gup è semplice: Repice voleva star tranquillo sull’esito di un ricorso assegnato a Bianchi, il quale aveva invece bisogno di introdurre il figliolo (di mestiere regista) ad Agostino Saccà, ex dg Rai. Dato che Repice conosceva Saccà, il colloquio fu combinato, e ora la procura di Torino dovrà capire se si trattò di corruzione. Peccatucci d’amor paterno se confrontati agli affari di Pasquale De Lise, per decenni insider nei ministeri che contano (lavoro, infrastrutture, poste, sanità), poi presidente del Tar del Lazio e nel 2012 presidente del Consiglio di Stato, cioè l’organo che funge da corte d’appello per le sentenze del Tar, nonchè gestore supremo di interessi e conflitti della cosa pubblica. Ebbene, il potente De Lise si ritrovò svergognato nel 2010 per colpa della famosa cricca. I giornali riportarono le conversazioni del 2009 con Angelo Balducci, il ras delle opere pubbliche. “Uno di questi giorni... c’ho una carta che volevo farti vedere... quando ti riesce, ti volevo vedere cinque minuti” diceva amichevolmente De Lise a Balducci. Aggiungendo, su un rigetto relativo al Salaria Village: “Quella cosa non stava né in cielo né in terra... quindi insomma… e appunto… io l’ho seguita un po', quella storia là... ma non... eh... appunto... assolutamente”. Risposta di Balducci: “Grazie”. Un’inchiestaccia che sviluppò una protuberanza lombarda: il genero di De Lise, l’avvocato Patrizio Leozappa, fu beccato in conversazioni hot mentre tentava di intervenire su un giudizio incardinato al Tar di Milano. In questo caso l’obiettivo era riassegnare un appalto da 1 miliardo e 800 milioni di euro, per il quale servì anche una consulenza di Balducci. Ci andò di mezzo il presidente della corte lombarda, Piermaria Piacentini, indagato per abuso d’ufficio e corruzione, quasi tenero mentre balbetta: “Tu mi manderai a... ma io ti devo chiedere di rimandarmi via e-mail... se è possibile subito... l’appunto su... il modulo di ordinanza perché non so se me lo sono dimenticato a Roma eccetera e volevo sistemare, ci siamo capiti”. Leozappa, che sovrintende il traffico, è furibondo: non si può mandare in giro via mail roba così pericolosa, “la pulisco dai! la pulisco, così evitiamo...”. Storie complicate dai soldi che abbondano tra appalti, giudizi, ricorsi, sospensioni, pressioni, favori, tangenti, partiti, nomine, poltrone. Storie incredibili, come quella del presidente del Tar Marche, Luigi Passanisi, che continua a lavorare nonostante una condanna in primo grado per aver venduto una sentenza quand’era in Calabria (ci sono voluti 3 mesi per sospenderlo). Storie appena nate, come le indagini per abuso d’ufficio partire un mese fa sul presidente della sezione leccese del Tar Puglia, Antonio Cavallari. Storie a lieto fine: Piacentini, mai condannato, fu nominato nel 2000 presidente della Commissione consultiva per il rilascio del Soa, certificazione necessaria alle aziende che vogliano partecipare alle gare pubbliche. L’Autorità per la vigilanza sui contratti della Pa ha avuto fiducia in lui, ancora una volta.

Quegli intrecci inconfessabili tra magistrati e massoneria, scrive Alessio Liberati su Il Fatto Quotidiano. Consiglio di Stato, quanti massoni ci sono? L’ultimo di cui si è avuta notizia, in ordine di tempo, è Antonio Maccanico, fratello massone e contestualmente consigliere di Stato, oltre che segretario generale della Presidenza della Repubblica (incarico ricoperto peraltro anche da molti altri consiglieri di Stato, come Gaetano Gifuni, recentemente condannato per peculato e abuso di ufficio e l’attuale pagatissimo Donato Marra). Ma non è il solo ad aver indossato il grembiulino. La mia curiosità per i rapporti tra massoneria e Consiglio di Stato – che ha avuto inizio per caso, quando cioè tre magistrati appartenenti a tale istituzione (Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa e Raffaele Greco) presentarono un esposto disciplinare nei miei confronti, lamentando che un mio articolo scientifico, ove facevo tra l’altro affermazioni tanto generiche quanto banali sulla degenerazione dei concorso pubblici, non mancando di citare i condizionamenti da parte della massoneria e dell’Opus Dei, fosse offensivo nei confronti della giustizia amministrativa, per profili che non ho mai compreso – ha portato infatti a molti riscontri, di cui ho già parlato anche in questo blog. Rinvio, in proposito, oltre che agli elenchi della P2, ad un mio articolo più in generale sul presidente Pasquale de Lise, ad altro relativo all’ex consigliere di Stato Carlo Malinconico (oggi agli arresti domiciliari per gravi fatti corruttivi) ed anche a quanto richiesto in sede di interrogazione parlamentare dopo una mia denuncia relativa a quanto accertato nei confronti di uno degli ex presidenti dell’associazione dei consiglieri di Stato e ad altri magistrati in servizio nella giustizia amministrativa di appello. Tuttavia, ogni volta che viene fuori il nome di un ulteriore Consigliere di Stato occultamente appartenente alla massoneria, mi pongo le stesse domande, che rimangono inevitabilmente senza risposta. Quanti sono i massoni che indossano grembiulino e toga da consigliere di Stato? Quanti di questi sono ricattabili (visto che vige un divieto espresso per i magistrati amministrativi di appartenere a logge massoniche) da avvocati o terze persone che ne sono a conoscenza? Perché l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa, da me sollecitato più volte, si è rifiutato di imporre l’obbligo di una dichiarazione espressa di non appartenenza a logge massoniche, nonostante molti dei suoi componenti avessero preso un espresso impegno in tal senso (Luca Cestaro, Umberto Maiello, Antonio Plaisant, Roberto Pupilella, ecc.), poi disatteso? Non sarebbe ora di costringere i giudici amministrativi (le cui decisioni condizionano pesantemente la vita economica di questo Paese) a rendere pubbliche queste appartenenze, per evitare anche il solo rischio o sospetto che possano esservi ricatti a carico di questi magistrati? Non sarebbe l’ora di affrontare definitivamente, eventualmente in senso positivo, il tema della compatibilità tra appartenenza massonica e magistratura, al fine di evitare che si creino appartenenze occulte, con i rischi sopra descritti? Del tema, emerso nuovamente durante il periodo in cui era presidente dell’associazione dei consiglieri di Stato Filippo Patroni Griffi, non si è voluto occupare né quest’ultimo, né il suo successore Roberto Chieppa, né l’ex presidente Paolo Salvatore, né tanto meno il predetto De Lise. Speriamo che almeno il nuovo presidente, Giorgio Giovannini, voglia affrontare il tema, seppur con incomprensibile ritardo…

I segreti dei giudici amministrativi. Avevo già raccontato la vicenda relativa alla scarsa trasparenza della Giustizia Amministrativa riguardo ai comportamenti disciplinarmente rilevanti dei Consiglieri di Stato e dei magistrati del TAR, scrive ancora Alessio Liberati su Il Fatto Quotidiano. Le attenzioni mediatiche recentemente rivolte ad alcuni consiglieri di Stato ed ex consiglieri di Stato, quali Filippo Patroni Griffi, Carlo Malinconico, Pasquale De Lise, Paolo Salvatore , Franco Frattini , solo per citare i più noti, rendono opportuno un aggiornamento sulla questione. È bene anche rammentare che il Consiglio di Stato è l’organo deputato ad assicurare – nella Repubblica Italiana – la trasparenza delle pubbliche amministrazioni e l’accesso agli atti di queste ultime, in base alle norme vigenti. L’organo di autogoverno della giustizia amministrativa (il CPGA, cioè il “CSM” dei giudici TAR e del Consiglio di Stato), invece, è presieduto proprio dal Presidente del Consiglio di Stato. Orbene, ben tre presidenti di tale massimo organo giurisdizionale amministrativo (Paolo Salvatore, Pasquale De Lise e Giancarlo Coraggio) si sono sottratti, quali presidenti del CPGA all’obbligo di esibire i precedenti disciplinari a carico dei magistrati amministrativi. In particolare, il TAR del Lazio li ha prima condannati (sentenza n. 13848/2010 ) ad esibire i precedenti disciplinari , posto che il CPGA si rifiutava illegittimamente di ostenderli e poi, addirittura, è intervenuto per censurare nuovamente l’organo presieduto dal Presidente del Consiglio di Stato, perché non aveva ottemperato alla sentenza, avendola anzi elusa con una artificiosa distinzione (sconfessata dal TAR) tra procedimenti per i quali era stata esercitata l’azione disciplinare (consentendone l’accesso … una trentina in tutto in molti anni!) e procedimenti per i quali non era stata esercitata. Perché negare l’accesso a procedimenti che, teoricamente, dovrebbero essere meno gravi? Quali segreti si celeranno mai in quelle carte? E, soprattutto, cambierà qualcosa con il Governo Monti, visto che il Presidente del Consiglio dei Ministri (e non il Ministro della Giustizia, come per i magistrati ordinari, civili e penali) è il responsabile titolare dell’azione disciplinare dei magistrati amministrativi? Il prossimo appuntamento è per il 7 marzo, data in cui il TAR del Lazio dovrà addirittura decidere, in caso di perdurante inadempienza dell’organo presieduto dal Presidente del Consiglio di Stato, se “commissariare” (con la nomina di un commissario ad acta) il “CSM” dei giudici amministrativi, sostituendolo con un soggetto che garantisca il rispetto della sentenza. Non sarebbe opportuno che il presidente del CPGA e del Consiglio di Stato, cioè l’organo preposto ad assicurare la trasparenza e l’accesso agli atti di tutte le amministrazioni della Repubblica, fosse il primo ad adeguarsi (almeno!) ad una sentenza che già lo condanna per la mancata esibizione agli atti (fatto che già, di per sé, desta perplessità) e ad una successiva decisione che ne censura il comportamento per non aver ottemperanza alla pregressa sentenza di condanna?

LA MASSONERIA DEL TERZO MILLENNIO. I DELITTI MASSONICI E LE NOTE DI CRONACA.  IL MISTERO DELLA MORTE DI RINO GAETANO, DI MARCO PANTANI E DEGLI ALTRI NOMI NOTI E LO SCANDALO MOSE.

La Massoneria, nobile e bistrattata istituzione, scrive Alessandro Ruzzi su “Informarezzo”. I am a Master Mason. In italiano, sono un Maestro Massone (o un Maestro Muratore). Non sono in logge italiane: ormai da diversi anni sono solo membro di logge della UGLoE, la Gran Loggia Unita di Inghilterra, ritenuta la più importante istituzione massonica, che vanta origini certe sin dal 1717. Deriva dalla corporazione (craft) dei costruttori di cattedrali gotiche del medioevo. Non per questo mi definisco un sapiente riguardo ai temi massonici, poiché è proprio della Massoneria riconoscere che la verità definitiva è un concetto astratto. Occorre essere consapevoli che il perfezionamento cui tende il massone è una ricerca senza fine, un percorso individuale che si basa sulla cautela circa la verità, specie se imposta come il dogma, e sull'incertezza di un sentiero mutevole come la conoscenza umana. Una forma mentis che gli attuali ritmi (televisivi) non rispettano: in loggia si parla uno alla volta, senza interrompere, in rotazione. Quando non si condivide ciò che un fratello esprime non lo si infama. Essere massoni porta ad uno specifico stato mentale, in una palestra del pensiero e dell'agire correttamente ed educatamente: tolleranza alle opinioni senza lasciarsi sopraffare dalle passioni. Talvolta si sintetizza dicendo che la Massoneria rifugge le parole che iniziano con “pre”: pre-concetto, pre-giudizio, pre-varicazione etc. Una scuola per individui maturi, desiderosi di conoscenza, con disponibilità di tempo e di qualche centinaio di euro: tramite silenzio e studio, giungere ad una crescente consapevolezza. La mia vita attuale non mi porta più all'estero come prima, vivo in Italia e ne seguo gli umori sociali, linee di pensiero raccolte attraverso i vari metodi di comunicazione: mi indispone la superficialità con cui alcuni individui indicano nella massoneria -generica- la causa di molti mali, la matrice di episodi oscuri, la  nutrice del potere più infido ed infimo. Bersaglio proprio del complottismo che le si addebita. Leggo anche di bufale clamorose, illuminati o savi di sion, templari e santo graal, cui i più sprovveduti, ignoranti ed influenzabili abboccano. Altri le sfruttano ai loro fini. Nella  grande maggioranza dei casi ritengo che taluni individui parlino senza alcuna conoscenza dei fatti, giudicando dall'esterno sulla base di sentito dire, luoghi comuni o interesse personale. Oppure parlano individui che si dichiarano ex-massoni o massoni pentiti, a conferma che una loro eventuale appartenenza è viziata da  gravi errori di fondo o condizionata da ripicche personali o interessi malcelati. Tuttavia un aspetto richiede una mia netta asserzione: la Massoneria, sic et simpliciter, unica ed omogenea, non esiste in tutto il globo poiché ce ne sono vari metodi di individuazione e di pratica. Me lo confermano anche i miei rapporti massonici internazionali. Le nazioni in cui questa istituzione ha mantenuto, per cause storico- sociali- culturali, una identità coerente possono vantare una istituzione massonica largamente diffusa e univoca. Mi riferisco per esempio ad Inghilterra, Scozia, Irlanda, Svezia. Monarchie, perlopiù. Ma in quasi tre secoli essa si è sviluppata molto anche al di fuori dell'alveo originale, con la nascita di realtà parallele o distorte. Altre nazioni hanno visto crescere massonerie nel 18° e 19° secolo, principalmente sull'onda britannica: Stati Uniti, Italia e Francia, ad esempio. In questi paesi coesistono massonerie aderenti all'idea iniziale o altre situazioni (non saprei come definirle meglio) che niente hanno a che vedere col vero ed intimo significato della Massoneria. Vengono definite simil-massonerie, para-massonerie, pseudo-massonerie etc. Frequentemente vi vengono coinvolte persone in assoluta buona-fede. Come troppo spesso accade, degne persone, ma non preparate sull'argomento, vengono associate: ritengono di fare parte della massoneria universale. Questa non è semplicemente quella definita dai rapporti fra le Grandi Logge (cioè quelle strutture amministrative a cui una loggia fa riferimento), ma da una serie di precetti che permeano la vita del singolo massone e che lo pongono in sintonia con altro massone, sia esso in un diverso continente od il vicino della porta accanto. Non ho timore di ammettere che particolarmente in Italia sono fiorite innumerevoli conventicole (come le definì un papa, quando scomunicò tutti i massoni o presunti tali) che si pongono scopi estranei alla tradizione massonica degli albori. Ad Arezzo ne esistono diverse. Scimmiottano, nel nome e nelle riunioni, temi massonici, convincono gli aderenti, spesso avvicinati per motivi di convenienza, di essere parte della massoneria, ma indulgono su temi prosaici, assai terreni, di interesse economico- politico. Questa non è Massoneria, è associazionismo (senza offesa per il termine) clientelare. Da questi gruppi possono svilupparsi infezioni da cui la società civile deve guardarsi. Purtroppo in passato un focolaio di malattia seria ha interessato anche la più diffusa organizzazione massonica italiana, che ha dilapidato in pochi anni e per colpa di pochi, un capitale di serietà ed impegno, espresso nel risorgimento. Dal Canada alla Norvegia, a spiegare che la P2 non era massoneria, ma un cancro. Che non si deve ripresentare, infiltrandosi come un germe. Alcuni gruppetti italiani, che imitano la massoneria, prediligono il mutuo sostegno fra gli aderenti, senza se e senza ma, anche davanti a situazioni inconciliabili con i cardini della tradizione anglosassone che ho riportato sotto il titolo. La conoscenza dei segreti massonici (che riguardano solo i metodi di riconoscimento) non è sufficiente a rendere massoni. Tanto meno il rispetto di talune consuetudini massoniche. Li reputo anti-massoni, l'esemplare peggiore del campionario. Tuttavia, anche in gruppi non regolarmente costituiti possono trovarsi persone con cui condividere lo spirito massonico. Non giudico semplicemente per appartenenza, bensì per aderenza all'ideale massonico, per comportamento. Dove vedo clientelismo, affarismo, interesse non vedo massoneria. In Italia mi sono trovato in contrasto con queste tendenze ed ho avuto la ventura di approdare nel porto sicuro costituito dalla Gran Bretagna, dove questi scarrocciamenti non sono diffusi, dove si opera nei tre gradi tradizionali della Massoneria azzurra. Tuttavia questi non sono episodi da criminalizzare automaticamente, perché parimenti le famiglie italiane lo sarebbero per l'affetto che le porta a sostenere i loro cari. Ma davanti ad una qualsivoglia ingiustizia occorre che il diritto trionfi, senza favoritismi: ed in ciò l'impegno massonico non ammette deroghe. Esistono massoni anche al di fuori delle istituzioni massoniche, il loro comportamento li contraddistingue; esistono non-massoni dentro serie istituzioni massoniche, purtroppo hanno sbagliato posto ed arrecano danni; quindi generalizzare è un errore marchiano o doloso. L'impegno massonico prevede la indiscussa aderenza alle leggi. Richiede la credenza in una entità superiore, a seconda delle convinzioni individuali, genericamente definita Grande Architetto. Non tratta di politica o religione in loggia. Non prevede segretezza se non nei modi di riconoscimento: una società iniziatica con segreti, non una società segreta. Molte altre associazioni non danno pubblicità alla lista degli aderenti, purtroppo confondere riservatezza con segreto e malaffare è un errore doloso diffuso. La compresenza femminile nelle logge regolari è esclusa, secondo gli  antichi principi fondativi: esistono massonerie esclusivamente femminili, da secoli, ma chi fa polemica si astiene dal sottolinearlo. I massoni non sono misogini, evitano la promiscuità in loggia. Quando qualcuno blatera genericamente di massoneria tenga presente questi significativi particolari, perché diversamente offende persone che si applicano nella ricerca individuale del perfezionamento, nel perimetro dell'amore fraterno, del sollievo nelle difficoltà, della verità. Virtù privata, pubblica prosperità: secondo le parole del primo presidente statunitense, George Washington, “being persuaded that a just application of the principles, on which the Masonic Fraternity is founded, must be promote of private virtue and public prosperity, I shall always be happy to advance the interests of the Society”. Persone capaci di un mondo migliore. Siano Massoni o profani (come usiamo definirli, in quanto non iniziati) fortunatamente esistono. Umili verso gli ultimi, duri verso i prepotenti, attenti ai bisogni delle famiglie dei fratelli. Operano silenziosamente, ma sanno emergere quando occorre. E non meritano di essere confusi da improvvidi chiaccheroni.

Eppure non mancano punte di criticità. Molti scrittori sono astiosi, a torto od a ragione, contro la Massoneria. La rete riporta spesso articoli o libri che preludono a misteri dietro le più eclatanti note di cronaca. E' doveroso riportare nella storia anche l'altra faccia della cronaca.

"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”.

"Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.

Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?

«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen».

E allora?

«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli».

Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?

«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria».

Cioè?

«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia».

E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.

«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva».

Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?

«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio».

Ne faccia un altro.

«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori».

E quindi?

«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva».

Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.

«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi».

E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?

«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense».

Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?

«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica».

Perché?

«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo».

Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?

«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi».

Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.

«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento».

La tesi choc di un avvocato: "Rino Gaetano è stato ucciso dalla massoneria", scrive Fabio Frabetti su “Affari Italiani”. «Rino Gaetano fu ucciso dalla massoneria deviata». La dinamica della morte del geniale cantautore che continua a trascinare vecchie e nuove generazioni potrebbe non essere così scontata come si è pensato finora. L'avvocato Bruno Mautone, ex sindaco di Agropoli, sta per dare alle stampe un libro in cui è riuscito a decriptare nei testi delle canzoni di Gaetano tutti i misteri della sua morte. Affaritaliani.it lo ha incontrato. Si intitola “Rino Gaetano, assassinio di un cantautore” ed uscirà nelle prossime settimane per le edizioni Gli occhi di Argo.

Come è nata l'idea di scrivere un libro del genere?

«Da tanti anni per passatempo conduco programmi radiofonici e Rino Gaetano è uno dei miei autori preferiti. Ascoltando alcuni suoi brani poco conosciuti mi sono accorto che c'erano dei significati interpretabili in maniera non letterale. Non ritengo di avere il Vangelo in tasca ma penso di avere individuato, partendo dal lavoro in passato svolto da Gabriella Carlizzi e Paolo Franceschetti, una serie di canzoni in cui vengono lanciati degli importanti messaggi sulla storia italiana dal dopoguerra in poi. La morte di Rino Gaetano non è stata casuale, si trattò di una macchinazione per metterlo a tacere. In alcuni suoi testi ci sono messaggi inquietanti ed angoscianti. In altri, frasi di scherno che progressivamente vengono inseriti di disco in disco. Lui era un vero e proprio genio e la massoneria è da sempre interessata a fare entrare nuove leve di alto valore intellettivo. Così probabilmente lui fu fatto entrare molto giovane e così era venuto a conoscenze di segreti e verità apprese nell'ambito di specifiche consorterie massoniche. Nei primi dischi sembra esserci entusiasmo nei confronti di questo mondo, poi pian piano subentrò il disincanto e poi il distacco. Lo spirito di ideali e di giustizia lo spinse a rivelare con le sue canzoni alcuni di quei segreti. Messaggi che seppur criptici hanno indotto la massoneria deviata ad ucciderlo. Ha composto poco più di sessanta canzoni, nel 100% delle sue composizioni ha sempre messo qualche riferimento a fatti o situazioni collegabili alla massoneria. In altre ha individuato e rivelato segreti inquietanti della storia italiana».

«C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta». Rino Gaetano pronuncia questa criptica frase in un concerto del 1979. Sta per eseguire uno dei suoi brani più celebri Nuntereggae più. Proprio nel testo di questa canzone salta di nuovo fuori la stessa spiaggia: «il pitrentotto sulla spiaggia di Capocotta». In quella spiaggia si era consumato nel 1953 il delitto di Wilma Montesi...

«Quando avvenne quell'omicidio, Rino aveva poco più di due anni. Quello che aveva raccontato di quel tragico evento nei concerti e nelle sue canzoni lo aveva quindi sicuramente conosciuto nelle frequentazioni di tipo massonico: tramite le sue parole si può quindi ricostruire cosa avvenne esattamente in quella spiaggia. I segreti che aveva appreso riguardavano però molti aspetti della cronaca e della politica italiana. L'aspetto inedito del libro è proprio questo: aver dimostrato che nelle sue canzoni insieme ad apparenti nonsense si raccontavano i retroscena di molti scandali: i casi Sindona, banco Ambrosiano, Franklin Bank, vicenda Mattei. Addirittura Rino Gaetano era arrivato a pronosticare come sarebbe finito il processo per la bomba a Piazza Fontana a Milano e ad annunciare i reali colpevoli dello scandalo Lockheed».

Rino Gaetano morì il 2 giugno 1981 dopo un incidente stradale sulla via Nomentana a Roma. La sua auto finì addosso ad un camion: perse la vita per le gravi ferite riportate dopo che ben tre ospedali di fatto rifiutarono il suo ricovero. La cosa incredibile è che lo stesso cantautore 11 anni prima aveva raccontato la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e anche dal cimitero. Nel brano “La ballata di Renzo” si legge: Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l'accettarono forse per l'orario si pregò tutti i Santi ma s'andò al S.Giovanni e li non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l'alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c'era in alto il sole,si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c'era posto. Una somiglianza notevole con quello che sarebbe accaduto allo stesso Gaetano.

«I primi tre ospedali citati nel brano sono proprio quelli che non ebbero la capacità o la volontà di curarlo in maniera non professionale od idonea dopo l'incidente. Non abbiamo alcuna prova che il soccorso sia stato tempestivo. I telefonini non esistevano. Sarebbe interessante capire chi allertò i soccorsi, a che ora e con quale modalità. Tra le altre cose, lui non fu degente in tre ospedali diversi. Rimase al Policlinico Umberto I, con motivazioni mai veramente chiarite ed emerse. Non c'era il reparto di traumatologia cranica funzionante e gli ospedali disperatamente contattati dal medico di turno facevano quasi a gara a non prestare soccorso a Rino. Così morì agonizzante al Policlinico per il grave trauma cranico riportato. Lui aveva avuto un altro strano incidente nel 1979 a cui era miracolosamente sopravvissuto. Una jeep speronò la Volvo in cui viaggiava insieme ad un amico. La macchina si distrusse e chi aveva causato l'incidente riuscì a defilarsi e non si seppe mai chi fosse alla guida. Questo incidente avviene nello stesso anno in cui Rino Gaetano aveva fatto quelle rivelazioni su Capocotta. Nelle sue canzoni preconizzava una morte prematura, sapeva i rischi che stava correndo. Per questo probabilmente non aveva messo al corrente le persone a lui care delle frequentazioni che aveva avuto. Voleva preservarle da possibili rischi».

Un altro brano che fa pensare è “Al compleanno della zia Rosina” in cui si legge: “vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me”.

«In quella canzone c'è una emblematica citazione storica di Cleme, che sta per Clemente Rino Gaetano si voleva riferire ai tre papi (Clemente V, Clemente XII e Clemente XVI) che in momenti storici diversi emanarono provvedimenti religiosi nei confronti di movimenti legati alla massoneria. Uno di questi papi emanò il primo editto contro la massoneria, un altro aveva sciolto la Compagnia di Gesù ed il terzo sciolse i Templari. Lui in sostanza sta dicendo: me ne frego se verrò portato a spalla da gente che bestemmierà, evocando queste figure che avevano scomunicato per prime alcune diramazioni massoniche. Lui consultava enciclopedie, libri di storia e di cultura. Nel mio lavoro penso di avere colto dei significati che non era facile afferrare di primo acchito. Rino Gaetano era un generoso ed un idealista, non riusciva a trattenere nell'ambito dei propri pensieri le tante porcherie che erano state combinate in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Nelle sue canzoni parla anche di storia, di Risorgimento, di Hitler e di una miriade di cose. Anche di numerologia. C'è di tutto celato nella sua musica. Anche il mistero della sua morte».

Rino Gaetano e i messaggi in bottiglia. Qualche appunto a margine del vergognoso film della RAI su Rino Gaetano, scrivono Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti. Come abbiamo descritto molte volte nel nostro blog, il nostro è un sistema che uccide e strangola tutti coloro che ne sono al di fuori e non vogliono essere coinvolti nei giochi illeciti del potere massonico. Il sistema, però, non penalizza solo chi ne è fuori, ma anche chi ne è dentro e ne riceve i vantaggi. Perché il problema è che una volta entrati nel sistema, tutto ciò che ti viene dato ti viene chiesto in restituzione sotto altre forme. Se fai carriera grazie al sistema, ad un certo punto arriverà qualcuno che ti chiederà il conto; ti chiederanno di fare uno sgarbo ad un vecchio amico che vogliono rovinare; ti chiederanno di falsificare un documento o farlo sparire, ti chiederanno di accollarti una responsabilità penale per salvare altri, di essere condannato ad un anno con la condizionale e di spendere la tua faccia su tutti i giornali per fare da capro espiatorio. Ribellarsi al sistema è quasi impossibile per la perfezione che esso ha. Tanti, troppi, sono caduti nella trappola. Le promesse che ti fanno sono allettanti: potere, denaro, conoscenza dei meccanismi reali del potere. Ma il conto è salato, perché non si è più liberi di fare ciò che si vuole, e si è in costante stato di ricatto. Ritengo, ad esempio, che molti esponenti della sinistra attuale, a suo tempo, abbiano fatto il cosiddetto “patto col diavolo”, pensando semplicemente di accettare un compromesso in più per fare carriera; e si sono poi trovati invischiati in un gioco di potere più grande di loro, perdendo ogni capacità decisionale reale; ed ecco il motivo per cui la sinistra di questi ultimi anni ha fatto delle cose senza alcuna logica, come se volesse realmente perdere le elezioni e consegnare – come hanno fatto di recente – il paese definitivamente alla destra. In realtà alcuni provano a ribellarsi. Ribellarsi in modo esplicito, in un attacco frontale, non è possibile altrimenti si muore (la lista dei morti è lunghissima; Falcone e Borsellino, Occorsio, Pecorelli, Tobagi, Mauro De Mauro, Cosco, Pasolini, Cecilia Gatto Trocchi, Ilaria Alapi, Graziella De Palo, e tutti coloro che hanno provato a testimoniare coraggiosamente in processi importanti, morti suicidi o in incidenti stradali). Molti però provano a ribellarsi non apertamente, lanciando una serie di messaggi in bottiglia. Come delle tracce, per chi le vorrà cogliere un giorno. Ricordo un'archiviazione vergognosa che aveva a che fare con un soggetto che si era suicidato con "una coltellata sulla schiena". Il magistrato archiviò dicendo delle cose che li per li mi parvero incomprensibili; mischiava citazioni di Dante a frasi demenziali del tipo "la prova che si sia trattato di un suicidio è nel fatto che sul coltello piantato nella schiena furono trovate le impronte digitali della vittima". Dopo anni di rabbia in cui non capivo l'assurdità di quel provvedimento, ho capito che la citazione di Dante era un chiaro riferimento alla legge del contrappasso, utilizzata dalla Rosa Rossa per i suoi omicidi. Mentre con la frase in cui parlava delle impronte digitali voleva dire esattamente il contrario.... Tra l'altro fu uno dei provvedimenti il cui studio e la cui lettura approfondita mi hanno permesso di arrivare alla regola del contrappasso da noi descritta negli articoli sull'omicidio massonico. A mio parere si trovano molti messaggi in bottiglia anche in molti libri, articoli di giornale, e opere attuali, ma evitiamo di indicarli per non mettere in pericolo le persone coinvolte. Rino Gaetano era una di queste persone che si erano ribellate al sistema in modo vistoso. Non poteva denunciare il sistema direttamente, perchè non gli avrebbe dato voce nessuno, allora lasciò una serie di tracce nelle sue canzoni, che sarebbero state raccolte dalle generazioni successive. Rino Gaetano ci parla della Rosa Rossa, dei crimini commessi dai potenti, dei meccanismi segreti di questa associazione e dei loro metodi. Vediamone qualcuna.

Le canzoni. C’è un album di Rino, in particolare, che pare dedicato proprio alla Rosa Rossa. Nello stesso album, infatti troviamo ben tre canzoni: Rosita, Cogli la mia Rosa d’amore, e Al compleanno della zia Rosina. Una trilogia a nostro parere non casuale. In Rosita ci dice che la Rosa Rossa, quanto te la presentano, sembra bellissima... onori, gloria, soldi, potere... poi però un giorno scopri la verità. E allora la tua vita cambia completamente perchè sei in trappola.

Ieri ho incontrato Rosita, perciò questa vita valore non ha,

Come era bella rosita di bianco vestita più bella che mai.

Nella canzone “Al compleanno della zia Rosina” ci spiega che nel linguaggio criptato della Rosa Rossa, Santa Rita è in realtà la Rosa Rossa; e ci spiega che un giorno capiranno che sta svelando questi messaggi, e quindi lo uccideranno.

La vita la vita, e Rita s'è sposata, al compleanno della zia Rosina.

Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia e che ce l'ha con me.

Questa frase apparentemente incomprensibile vuole dire probabilmente che gli appartenenti alla massoneria rosacrociana della Rosa Rossa al suo funerale porteranno a spalla la sua bara (ai funerali delle vittime i mandanti sono sempre presenti tra i partecipanti); ma bestemmieranno, perchè in realtà una caratteristica della massoneria della Rosa Rossa è di stravolgere i simboli e i riti Cristiani per interpretarli al contrario. Infine, in “Cogli la mia rosa d’amore” lancia un messaggio molto chiaro:

cogli la mia rosa d’amore,

regala il suo profumo alla gente;

cogli la mia rosa di niente.


Non credo sia un caso anche il titolo del disco: "mio fratello è figlio unico", perché sapeva che questo scherzetto gli sarebbe costato la vita. Nella canzone “Nun Te Reggae più” parla della spiaggia di Capocotta. E, ad un concerto, disse:

"C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. E che grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Apriranno gli occhi e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta".

Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.

La spiaggia di Capocotta. OMICIDIO DI WILMA MONTESI (1953, vigilia di Pasqua). La vicenda coinvolse il musicista Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del consiglio della DC, e altri noti esponenti della nobiltà, politici e personaggi famosi... Inizialmente fu presa in considerazione l'ipotesi di un banale incidente, ipotesi che fu considerata attendibile dalla polizia, e il caso venne chiuso. I giornali, L'Espresso su tutti, invece si mostravano scettici. Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi? a firma Riccardo Giannini ebbe largo seguito. A capo di questa campagna stampa, vi erano prestigiose testate nazionali, quali Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali. Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Cesarini Sforza pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato con Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, il Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana. Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico. Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto. La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953. Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Cesarini Sforza venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe il giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento. (QUINDI ANCHE LO STESSO PCI SEMBRA VOLER COPRIRE E INSABBIARE TUTTO... CHISSA' COME MAI?). Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi". Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni. L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega e il 31 maggio, Cesarini Sforza fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa. Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di una attricetta ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana. Continuano ad essere ritrovati corpi di donne su quella spiaggia. Forse è questo che voleva dire Rino. Non si riferiva solo al caso Montesi, ma a decine di altri casi che evidentemente continuano a verificarsi a Capocotta... O forse voleva dire che è una situazione "emblematica" di tutto quello che succede in Italia. Ma sono solo nostre deduzioni. Potremmo continuare perchè ci sono altre canzoni molto più significative e piene di messaggi, come Gianna. Ma terminiamo qui perchè per capire queste canzoni occorre avere una conoscenza specifica di determinati fatti e situazioni.  Forse però non molti sanno che la canzone Nuntereggaepiù, che nomina molti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, della televisione... è stata censurata. Inizialmente infatti l'elenco conteneva, tra gli altri, i nomi del finanziere Nino Rovelli, del banchiere Ferdinando Ventriglia, di Camillo Crociani (scandalo Lockheed e loggia P2), di Amintore Fanfani, di Guido Carli... e persino di Aldo Moro e Michele Sindona. Questi nomi vennero cancellati dal testo della canzone. Evidentemente perché ancora più scomodi di quelli che furono lasciati. Un personaggio come Rino non poteva vivere a lungo, e perse infatti la vita il 2 giugno del 1981 in un incidente d'auto. Poco tempo prima, come abbiamo già raccontato altrove, aveva avuto un incidente analogo, ma si era salvato. Aveva ricomprato un’ auto identica ed ebbe un incidente dello stesso tipo; morì non tanto per l'incidente in sè, quanto per il ritardo con cui fu curato perchè negli ospedali della zona nessuno volle accoglierlo. Ben 5 ospedali si rifiutarono di curarlo, così come lui aveva scritto in una sua canzone, La ballata di Renzo. Cioè, è stata applicata ,nel suo caso la regola del contrappasso di cui ci siamo occupati in altri articoli. La ballata di Renzo è un brano inedito, di cui peraltro si scoprì l'esistenza solo qualche anno fa. Dunque, all'epoca, solo gli "addetti ai lavori" (i produttori e le persone che lavoravano insieme al cantante) erano a conoscenza di quel brano. E solo chi conosceva la canzone poteva fare in modo che si realizzasse nella pratica, e in modo così dettagliato. Quando qualche anno fa uscì la notizia della scoperta del brano inedito, i media si affrettarono subito a definirla una "profezia". I giornali scrissero che ne La ballata di Renzo "Rino aveva previsto e messo in musica, dieci anni prima, la propria morte". Ma sarebbe invece più oppurtuno affermare il contrario: la morte del cantautore è avvenuta esattamente come nella sua canzone non perché quel brano fosse una profezia, ma perché qualcuno l'ha usata per applicare la regola del contrappasso.

Il film. Di recente la RAI ha prodotto un film su Rino Gaetano. Vediamo cosa dice la presentazione ufficiale del film sul sito Rai. "Ci sono film su personaggi della musica che riescono a descrivere compiutamente lo spirito di un'epoca. È questo l'obiettivo della fiction Rino Gaetano. Ma il cielo è sempre più blu, una produzione Rai Fiction realizzata da Claudia Mori per la Ciao Ragazzi. L'interesse per Rino Gaetano e per la sua musica si è riacceso negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani, al punto di farne una figura di culto oltre la sua epoca. La fiction, che racconta in due puntate la sua biografia e la genesi delle canzoni più popolari, è uno spaccato della sua generazione, e trasmette un messaggio che può valicare i confini nazionali italiani, perché ancora oggi modernissimo". In realtà guardando il film si capisce che è stato scritto al solo scopo di infangare l’immagine del cantautore. La sorella di Rino e la ex fidanzata, intervistate, diranno che il film racconta qualcun altro rispetto al protagonista. Quello non era Rino, non era la storia d'amore tra lui e la fidanzata. Vediamo perchè. Anzitutto il film si apre con la scena di lui che sviene per aver bevuto troppo. E si chiude con le immagini di lui, ubriaco, che vaga senza meta alla ricerca di amici che oramai lo hanno abbandonato. Il messaggio è chiaro. Era un ubriacone. Altre scene salienti del film sono queste:

1) Dopo aver chiesto alla fidanzata di accompagnarlo a Stromboli per scrivere una canzone, dopo alcuni giorni in cui non combinava nulla tranne trattare male gli amici musicisti, e ubriacarsi continuamente, inveisce contro la fidanzata e la tratta male dicendo che non si sente capito

2) Geniale poi come presentano il suo rapporto con le donne. Si fidanza. Mette le corna alla ragazza (Irene) con un altra ragazza, stupenda e che lo adora, di nome Chiara. Irene li scopre a letto e lui che fa? Esce dalla stanza, parla con Irene e le dice “non preoccuparti, era solo una scopata”. Poi abbandona Chiara senza dirle una parola nè salutarla, dopo giorni di idillio romantico. Dopo qualche anno incontra nuovamente Chiara. Mette nuovamente le corna alla fidanzata e abbandona nuovamente Chiara, ancora una volta senza una spiegazione e senza una parola. Verso la fine del film, abbrutito dall’alcol e senza una meta, tenta di recuperare il rapporto con Chiara e con Irene (tutte e due in contemporanea), ma entrambe lo abbandonano. Per giunta tenta di baciare Chiara proprio un giorno che lei lo trova ubriaco già al mattino presto. Chiaro è il messaggio: Gaetano era un superficiale.

3) Altrettanto geniale poi come viene delineato il suo rapporto col padre. In una delle scene clou del film lui, all’apice del successo, mostra una casa al padre, ma il padre la rifiuta, perché non vuole la sua elemosina. E lui risponde arrabbiato “ma come, finalmente ora possiamo permetterci una casa come la gente normale e non uno schifoso sottoscala”. Il messaggio qui è molto sottile ed è duplice: la gente che vive in un sottoscala non è normale. Un sottoscala fa schifo. Ma dietro a questo messaggio ce n’è un altro, molto più sottile: Gaetano, come tutti, una volta che ha avuto un po’ di soldi e si è arricchito, non ha più rispetto per le condizioni della gente più povera che infatti viene definita “non normale”. E infatti rinfaccia al padre di essere un poveraccio: "io non volevo diventare come te e ci sono riuscito... non vi voglio più vedere in quel sottoscala schifoso.. e aggiunge: "sei orgoglioso come tutti gli ignoranti". Dopodichè al padre prende anche un infarto. Quando il padre uscirà dall'ospedale Rino ancora una volta lo tratterà malissimo e gli causerà un altro malore. In altre parole, lo descrivono come un pessimo personaggio, indelicato e ignorante che arriva a far ammalare il povero padre.

Altro aspetto curioso del film è che Rino ha una sorella, che nel film però non compare mai. Non compare mai neanche quando, nella parte finale del film, bussa alla porta di tutti gli amici, ubriaco e disperato, lasciato solo da tutti. Strano che Rino quel giorno non abbia pensato di telefonare anche alla sorella no? Come è strana un'altra circostanza. Rino morì pochi giorni prima del suo matrimonio. Doveva sposarsi. In questo indegno e vergognoso film, invece, l'ultima scena del film mostra lui disperato e abbandonato da tutti. Nessun cenno alla figura della sorella. Nessun cenno al matrimonio, ma anzi, viene presentata una fattispecie completamente opposta. Insomma, per essere un film che voleva valorizzare la figura del cantautore, la trama presenta tali e tanti inesattezze, buchi ed omissioni, che rimane una sola certezza: che il film è stato fatto unicamente per oscurare le ragioni della sua morte e il valore delle sue canzoni. Per infangarne la memoria quindi. Chi ha prodotto il film, inoltre, ha appositamente evitato di inserire la figura della sorella, forse perchè è l'unica della famiglia rimasta ancora viva, e che avrebbe potuto creare guai giudiziari agli autori del film se la sua immagine fosse apparsa troppo deformata dalla fiction. In conclusione, cosa rimane dopo la visione del film? L’idea che fosse un ubriacone, anche egoista, non troppo intelligente, che ha scritto canzoni superficiali e senza senso. Così non ci si stupisce se muore in un incidente. E se un giorno qualcuno dirà che è stato ucciso, la gente dirà: "ucciso? ma come? Era stato un incidente perchè beveva ed era ubriaco". Come succede per Pantani: "era un drogato, si è suicidato". Che poi le perizie abbiano dimostrato che il suo cuore era intatto non conta, per questo mondo dei mass media asservito ad una criminalità senza scrupoli. E che la sorella e la fidanzata di Rino dicano che quello non era Rino, che conta? L'obiettivo è riuscito. Milioni di italiani lo considerano un ubriacone che scriveva canzoni senza senso. Il film è stato confezionato ad arte probabilmente per screditare la figura di un artista, proprio in un periodo particolare, ovverosia gli anni in cui, a seguito dei delitti del mostro di Firenze, si comincia a parlare della Rosa Rossa e dei suoi delitti. D'altronde, una bella coincidenza che il film sia prodotto dalla Ciao Ragazzi, società che porta, guarda caso, l'acronimo dei RosaCroce e di Cristian Rosenkreutz (CR).  Di recente poi è uscito un dvd "Figlio unico", uscito insieme alla raccolta il 02.11.2007. Giorno dei morti e data a somma 13. Un altro bello scherzetto combinato ai danni di Rino. Tanto per mettere di nuovo una firma, se ce ne fosse bisogno. Il dvd contiene molti filmati, tra cui quello con Morandi: Rino a un certo punto dice: "Io conosco anche il profumo dei ministri". Una frase senza senso per i più. Un non sense, appunto, di quelli tipici di Rino. E invece no. Infatti Morandi si guarda intorno impaurito e cambia subito discorso, spostandosi di nuovo sull'ironia. "Qui non possiamo parlare di ministri, parliamo solo di canzoni. No, ma parliamo della tua ironia". Ma noi che conosciamo il sistema, riteniamo che il film sia l’ulteriore vittoria di Rino Gaetano. Rino era così grande e così bello, che hanno cercato di distruggerlo anche da morto. Perché indubbiamente le sue canzoni, come del resto aveva predetto anche lui, fanno più paura ora che quando era vivo. Ora infatti le possiamo capire. E a Venditti che, in questi ultimi tempi, ha affermato che la causa della morte di Rino è stata la cocaina (se ne è ricordato dopo quasi trenta anni) possiamo rispondere una cosa. Strano, Antonello, che ti ricordi dopo tanti anni della cocaina. In realtà la sai bene quale è la verità: lui ha avuto quel coraggio che pochi hanno, di andare contro il sistema fino a farsi uccidere per non rinnegare i suoi ideali. Quel coraggio che molti di quelli che oggi hanno successo certamente non hanno avuto.

La ballata di Renzo

Quel giorno Renzo uscì,

andò lungo quella strada

quando un’auto veloce lo investì

quell'uomo lo aiutò

e Renzo allora partì

verso un ospedale che lo curasse per guarìr.

Quando Renzo morì io ero al bar

La strada era buia

si andò al San Camillo

e lì non l'accettarono

forse per l'orario

si pregò tutti i Santi

ma s'andò al San Giovanni

e lì non lo vollero per lo sciopero

Quando Renzo morì

io ero al bar era ormai l'alba andarono al policlinico

ma lo si mandò via perchè mancava il vicecapo

c'era in alto il sole

si disse che Renzo era morto

ma neanche al Verano c'era posto

Quando Renzo morì

io ero al bar,

al bar con gli amici bevevo un caffè.

Anche il delitto di Marco Pantani si è tinto di giallo.

Giallo, la morte di Pantani e i misteri della Rosa Rossa. Strano suicidio, quello di Marco Pantani. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non può esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?». La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi”». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».

Strano suicidio, quello di Marco Pantani, scrive “Libreidee”. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”.

Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non poteva esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?».

La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».

Marco Pantani per Paolo Franceschetti fu ucciso da un complotto, scrive Sonia Paolin su “Delitti”. E’ la tesi di Paolo Franceschetti, esperto di massoneria ed esoterismo Marco Pantani aveva dato fastidio a molti poteri forti che si sono uniti per eliminarlo. La morte di Marco Pantani? Frutto di un complotto che pare da lontano e che mescola misteri ed esoterismo, medicina, poteri forti e massoneria. A sostenerlo è Paolo Franceschetti, noto esperto della materia che insieme a Fabio Frabetti e Stefania Nicoletti da qualche tempo ha anche aperto un blog specifico, "Indagine sulla morte di Marco Pantani". Diverse le colpe di cui si sarebbe macchiato il campione, tutte punite con la sua morte: parlava senza peli sulla lingua senza aver timore di nessuno, infangando il sistema del doping, delle case farmaceutiche e delle sponsorizzazioni; vinceva troppo, non voleva piegarsi alle regole del gioco, e non permetteva a nessuno di dirgli quando e come vincere; destabilizzava anche gli equilibri geopolitici internazionali. Ora, intervistato sul blog di Vice, la trasmissione di approfondimento e inchiesta di Sky Tg24, Franceschetti ha chiarito i suoi sospetti: “La stranezza di questo caso è sempre stata considerare la morte di Marco come un suicidio e non un omicidio. La morte di Marco è un stato un omicidio eccellente, con coperture e depistaggi eccellenti. È sempre stato chiaro, a chiunque, non solo a me. Credo proprio che in questo momento qualcuno stia tremando. Magari stanno pensando a un cambio di potere, ai vertici, qualcosa così. I gruppi di potere a cui dava fastidio Pantani. Basta vedere la sua storia per vederlo. Nella sua vita si è messo contro un sacco di gente. con battaglie, anche in tribunale. Pantani era scomodo, sosteneva verità che normalmente nel mondo dello sport non vengono portate avanti”. E cita fatti già noti, peraltro già accantonati da molti: “Il declino di Pantani iniziò quando rifiutò la sponsorizzazione della Fiat (divenne testimonial di Citroen, ndr). Quella decisione gli è costata cara. C’è la droga poi, il doping, ma anche altro. Tanto per dirtene una c’è anche la pista americana. Marco vinceva tutto, forse troppo. Gli americani tengono parecchio alla loro immagine nel mondo e in quel momento avrebbero voluto che Armstrong diventasse il loro nuovo numero uno. Pantani si era messo in mezzo”. E qui si arriva ai mandanti: “C’è la firma dell’organizzazione che ha commissionato il fatto, che è l’ordine della Rosa Rossa. E’ uno degli ordini più potenti nel mondo, e i suoi componenti di grado più elevato sono ai vertici di banche, multinazionali, istituzioni di alto livello. Non sono teppisti da quattro soldi. Sono ovunque. Pantani muore all’hotel Le Rose, di fianco al cadavere, sul comodino, la polizia trova un bigliettino su cui c’è scritta una sorta di poesia, di filastrocca. “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata.” Poi c’è la data del delitto. Marco muore il giorno di San Valentino. San Valentino è il santo dell’amore e quindi delle rose, e se fai la somma dei numeri che compongono la data, uno per uno, il numero finale è 13. Se guardi i tarocchi il tredici corrisponde alla morte, e i tarocchi sono ovviamente un’espressione dell’esoterismo”.

L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti. (Io speriamo che non mi suicido).

L’omicidio massonico - Il caso Pantani e il caso Fois, scrive ancora Paolo Franceschetti.

Premessa. In questo articolo approfondiamo alcuni degli argomenti trattati nel precedente articolo sull’omicidio massonico e chiariamo alcuni dubbi che l’articolo aveva suscitato specialmente in merito al caso Pantani. In primo luogo l’articolo precedente terminava con una domanda. Mi chiedevo cioè il motivo dell’immenso numero di persone “suicidate” (come si dice in gergo) mediante impiccagione, e facendo toccare alla maggioranza di essere le ginocchia per terra. Voglio poi rispondere alle molte domande che mi vengono spesso rivolte: come si distingue l’omicidio massonico? E perché dico che Pantani fu quasi sicuramente ucciso?

Impiccagioni e avvelenamenti, overdose. In primo luogo un lettore mi ha inviato la sua spiegazione. il "suicidio in ginocchio" rappresenta "l'omicidio consacrato" cioè la morte per "volere divino"... cosi come si viene investiti degli onori alla vita, cosi si viene investiti degli onori alla morte. Mi è pervenuto inoltre uno scritto, tratto dal libro di un esoterista che ha, appunto, trattato questo argomento che riportiamo. Il libro è di Lino Lista e si intitola: “Raimondo di Sangro. Il principe dei veli di pietra”. In forma romanzata vengono rivelati alcuni aspetti del ritualismo massonico che hanno quindi dato una risposta alla mia domanda sul motivo dei tanti impiccati. La corda e l’impiccagione sono i simboli di Giuda e del tradimento di Cristo. Ma il lavoro di Lino Lista svela anche un altro mistero. Un’altra modalità frequente di uccisione, tanto frequente da gettare più di un sospetto, ad esempio, è quella dell’avvelenamento da overdose, in cui sono incappati, per fare qualche nome, il ciclista Pantani, poi di recente un altro componente della sua squadra, il ciclista Valentino Fois, e a Viterbo il medico Manca, ovvero il medico che pare abbia curato il boss mafioso Bernardo Provenzano. Muoiono poi avvelenati anche molti testimoni di processi importanti. Morì avvelenato in carcere Sindona. E poi molti “malori” improvvisi, talvolta nell’anticamera di un giudice, in un tribunale, o nella buovette di Montecitorio come capitò al generale Giorgio Manes. Voglio citare integralmente il passo del libro di Lino Lista: La corda...(omissis)...è il segno dominante, che mai deve mancare, di una vendetta massonica. Con riferimento alla leggenda di Hiram, volendo spandere un maggior numero d’indizi, convenientemente si potrebbero lasciare accanto al cadavere del giustiziato, seppur di veleno: dell’acqua, in ricordo della fontana alla quale il Vendicatore smorzò la sete; un osso spezzato di cane, in onore dell’Incognito che si mutò in tal bestia; un abito nero, in memoria del lutto per Padre Hiram. Volendo eccedere, ma mai una società segreta dovrebbe eccedere perchè troppi indizi talvolta sono considerati alla stregua di una prova, si potrebbe collocare sulla salma del traditore un mattone, simbolo muratorio. Queste morti da overdose, quindi, non sono un caso. Anche l’avvelenamento è una modalità “massonica” perché simboleggia la morte per mano del serpente, simbolo dell’infedeltà e dell’inganno. Ecco quindi perché Pantani morirà dopo aver ingerito diverse dosi di coca. Perché sostengo che sia un omicidio? Perché ogni qualvolta l’incidente, o il malore, o il suicidio, sono provocati, e sono quindi un omicidio, immancabilmente partono, a seguito del fatto, i depistaggi e gli occultamenti che solo un potere come quello massonico è in grado di fornire: sparizione dei fascicoli dai tribunali, morte dei testimoni, la pervicace volontà degli inquirenti nell’ignorare determinate prove (per collusione, paura, o per la mancata conoscenza del problema), le irregolarità procedurali, ecc…

Il caso Pantani. Esaminiamo il caso Pantani, così come ce lo descrive un giornalista, Philippe Brunel, in un recente libro “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” su cui ci basiamo per la nostra ricostruzione. E’ noto che Pantani morirà all’hotel Le rose di Rimini per una presunta overdose da cocaina. Anche qui troviamo tutti gli elementi di un omicidio massonico, ovverosia le firme, nonchè tutte le modalità procedurali investigative che gli inquirenti seguono quando il delitto è massonico.

Ad esempio troveremo:

- testimoni che cambieranno versione;

- gli inquirenti che ignorano particolari fondamentali nell’indagine: ad esempio nel cestino dei rifiuti della stanza dell’hotel verranno rivenuti resti di una cena presa da un ristorante cinese. Ma Pantani non mangiava cibo cinese. Allora chi c’era con lui quell’ultima notte?

- Sul corpo compaiono segni di colluttazione ma nessuno accerterà mai se, ad esempio, sotto le unghie compaiano o meno dei resti di DNA altrui per verificare se Pantani fu forzato a ingerire cocaina (v. pag. 278).

- Errori e omissioni varie nelle autopsie.

- Una volante della polizia, con due agenti, interverrà sul luogo dell’incidente, ma non redigerà mai il verbale relativo. Perché questa irregolarità nelle procedure?

- Le varie perizie medico legali fanno una gran confusione sull’ora della morte che collocano tra le 11,30 (la perizia del dottor Fortuni) e le 19 (il medico Toni).

Dire esattamente quanti siano i massoni a Bologna è difficile, per quanto si parli di circa 450 affiliati. Vicino alla massoneria viene indicato il medico legale Giuseppe Fortuni, che si occupò di alcune perizie sulla morte del ciclista Marco Pantani, stroncato da un’overdose di cocaina il 14 febbraio 2001 in un residence di Rimini, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. E lo stesso accade per l’imprenditore Vittorio Casale, uomo di Massimo D’Alema e che, tra le molte opere di cui si è occupato, ha partecipato a progetti di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fides e di enti religiosi.

- Il medico legale che dopo l’autopsia si accorge di essere seguito.

- La camera fu trovata in disordine come se ci fosse stato un corpo a corpo.

Poi ci sono le domande irrisolte.

- Perché Pantani, volendosi suicidare, prende una stanza in un albergo a pochi chilometri dalla casa dove abitava?

- Perché prima di suicidarsi ci resta qualche giorno? Cosa lo fa rimanere in una stanza di albergo quando aveva la sua abitazione lì vicino?

- Uno degli inquirenti dichiara al giornalista di avere avuto pressioni dal Ministero dall’interno per concludere in fretta l’indagine. Ma il ministero non dovrebbe avere fretta di concludere; casomai dovrebbe avere la volontà di accertare la verità senza lasciare dubbi. Curioso poi che il Ministero si disinteressi del fatto che dopo decenni non sia mai venuta fuori la verità per stragi come Ustica, o per il sequestro Moro, e improvvisamente abbia fretta di concludere per un personaggio come Pantani. Difficile pensare che sotto ci sia una voglia di arrivare velocemente alla verità, dato che l’occultamento della verità è sistematico nella storia giudiziaria italiana. Mai abbiamo sentito un politico affermare che nel programma elettorale c’era la volontà di scoprire la verità sulle tante stragi impunite per dare giustizia alle migliaia di morti e alle decine di migliaia di famiglie delle vittime delle stragi. Mai. Anzi, in compenso alcuni degli autori di crimini assurdi, come l’ex terrorista D’Elia, hanno addirittura avuto incarichi istituzionali (sottosegretario alla camera nel governo Prodi). Personaggi che hanno avuto pesanti responsabilità in vicende come il sequestro Moro verranno addirittura fatti presidenti della Repubblica (Cossiga). Nessuna fretta di scoprire chi ha abbattuto l’aereo di Ustica, nessuna fretta di arrivare alla verità sul Moby Prince, nessuna fretta di scoprire chi c’è dietro ai delitti del Mostro di Firenze, dietro ai Georgofili, dietro a Piazza Fontana, dietro alla strage di Bologna. Ma una gran fretta di chiudere il caso Pantani. Curioso no? Tutte queste contraddizioni, depistaggi, ecc., sono sempre l’indizio sicuro della presenza della massoneria. In alternativa può ipotizzarsi che si tratti di incuria o superficialità nell’indagine. Ma si tratta di incuria e superficialità troppo ricorrenti per essere casuali. Poi ci sono le firme. Quelle firme che chi non si è mai occupato di massoneria non riesce a vedere. Ma immediatamente visibili per chi vive in mezzo a queste vicende. Anzitutto Pantani muore all’hotel Le Rose, il cui nome potrebbe non essere casuale ma essere la firma della Rosa Rossa. D’altronde anche i suoi amici diranno che la morte di Pantani in quell’hotel non deve essere un caso, ma forse voleva lasciare un messaggio a qualcuno perché lui era un uomo che non faceva nulla a caso (pag. 52). Forse, aggiungo io, non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso. E poi viene trovato accanto al corpo un biglietto con una frase apparentemente senza senso: Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata. Non sono in grado di capire il senso di questo biglietto; ci vorrebbe un esperto e pochi in Italia sono in grado di capire questi messaggi. Ma indubbiamente sembra un messaggio in codice. Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata. Qualcuno ipotizza che abbia un senso anche la data della sua morte: 14/02/2004, data la cui somma fa 13, che nelle carte dei tarocchi non a caso è la carta della morte. Nonostante non sia in grado di decodificare tutti i particolari è evidente però che Pantani fu in qualche modo costretto ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse firmato. Ovviamente dire che dietro un delitto c’è la Rosa Rossa significa poco. Essendo la Rosa Rossa un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra. Cioè significa affermare una cosa talmente generica da essere pressocchè inutile a fini investigativi, e tuttavia dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio. D’altronde che gli attacchi a Pantani provenissero da ambienti massonici risulta evidente dal fatto che qualche anno prima ebbe un incidente anomalo nella discesa di Superga. Un auto entrò nella zona vietata al traffico e investì Pantani e altre due persone. Un incidente casuale? Difficile, da pensarsi, perché sulla collina di Superga sorge quella cattedrale omonima, che venne costruita nel 1717, anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria. Una basilica e una collina, insomma, che hanno un particolare significato per la massoneria. Per chi sa anche solo poche cose sulla massoneria si tratta di una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente (inspiegabile ad esempio è come avesse fatto la macchina a inserirsi nella zona vietata, tanto che Pantani fece causa alla città di Torino per questo fatto).

La parola ai testimoni. Per chi conosce le vicende delle stragi italiane gli incidenti stradali per rottura dei freni o dello sterzo, non sono una novità, I testimoni di queste stragi, i personaggi scomodi, muoiono sempre così: non solo impiccati e avvelenati, ma anche in incidenti banali in cui l’auto (o la moto) escono di strada all’improvviso per un malfunzionamento. Qualcuno ogni tanto si salva. Ricordo a memoria – tra gli scampati - il carabiniere Placanica (implicato nei fatti del G8), il giudice Forleo (ma non così fu per i genitori, che morirono in un incidente analogo senza ovviamente che gli inquirenti volessero indagare). Persino il famoso Enrico Berlinguer disse di aver avuto un incidente da cui si era salvato per miracolo, durante un suo viaggio in Bulgaria nel 1973, in cui morirono però altre due persone; disse che l’incidente era voluto, ma nessuno gli credette. Di recente Fabio Piselli, scampato al rogo della sua auto, più volte nominato nei miei articoli. Ma in tanti hanno avuto “incidenti anomali” e non si sono salvati. Ne abbiamo parlato in precedenti articoli e non voglio ripetermi. Voglio invece ricordare alcuni morti del mondo dello sport e dello spettacolo. Ayrton Senna, cui fu montato male lo sterzo della sua formula 1. Per non parlare del Torino Calcio; l’aereo ebbe un guasto imprecisato e si schiantò contro – guarda tu che caso - la collina di Superga. Il cantante Rino Gaetano che ebbe due incidenti identici, con la stessa auto; nel primo incidente si salvò; nel secondo morì, anche perché 5 ospedali si rifiutarono (misteriosamente) di prenderlo in cura. Il cantante morì il 2 giugno 1981 nello stesso identico modo in cui muore il protagonista di una sua canzone, La ballata di Renzo. Statisticamente le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono…. nulle. E statisticamente, le probabilità che qualcuno svolga veramente delle indagini sono le stesse di questi incidenti: nulle.

Mass Media e delitti. Molta strana è anche la morte del ciclista Valentino Fois, della squadra di Pantani. Anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano di overdose. E già questo fa venire qualche sospetto, in quanto probabilmente muore nello stesso modo del suo ex amico. Occorre a questo punto fare una considerazione di ordine generale sui mass media in Italia. In Italia muoiono per omicidio circa 2500 persone all'anno. E altrettante ne muoiono suicide. Giornali e Tv si disinteressano di questi fatti, selezionando accuratamente solo le notizie che piacciono e sono funzionali al sistema. Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda. Perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois? E perché poi, nei pochi secondi che i TG dedicano alla notizia, occorre precisare che era implicato in un furto di portatili? Quand’anche si voglia dar risalto alla morte di un uomo, non c’è alcuna necessità di informare il pubblico che costui – forse – aveva rubato dei PC. In primo luogo perché la notizia è generica e posta in forma dubitativa. In secondo luogo perché non si capisce quale collegamento possa sussistere tra un furto di PC e una morte per overdose. Il sospetto che sia un omicidio, e che la televisione abbia volutamente voluto riportare l’immagine di una persona drogata e dedita al furto, è molto forte. Il messaggio che si vuole trasmettere è questo: è morto un ladro e per giunta drogato e depresso. Ma chi invece ha capito come funziona l’informazione in Italia capisce chiaramente un altro messaggio: probabilmente si tratta di un omicidio e c’è sotto qualcosa. E allora il pensiero corre al fatto che qualche prima avesse rilasciato un intervista alle jene. Aggiungiamo poi una cosa. Chi frequenta a livello professionistico il mondo dello sport sa che il doping è un fenomeno assolutamente diffuso, nel senso che probabilmente non è possibile partecipare a qualsiasi tipo di sport senza doparsi. Nella mia esperienza del passato, per anni ho praticato Body Building e ho seguito corsi per diventare istruttore di questa disciplina. E il doping era una materia di studio assolutamente ufficiale, nel senso che nella preparazione atletica di uno sportivo professionista non si poteva prescindere dal doping. Il problema era solo come eludere i controlli, stare attenti ai tempi di eliminazione della sostanza ecc... C’è quindi il forte sospetto che Fois sia morto in questo modo per aver “tradito”, come Pantani, e che i due abbiano pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano.

Considerazioni finali. C’è anche (non il sospetto ma) la certezza, che la verità non verrà mai a galla. Anzi, a dire queste cose, purtroppo, si rischia di passare per matti o visionari. La cosa che mi dà tristezza, in tutta questa vicenda, non è la gravità delle collusioni istituzionali a tutti i livelli, né la scarsa preparazione di molti inquirenti in materia che si traduce in una mancata tutela del cittadino. Questo ho imparato ad accettarlo, perché viviamo in una democrazia troppo giovane perché sia veramente una democrazia. Le mentalità e i costumi di secoli non possono cambiare in pochi anni. L’oligarchia mascherata in cui viviamo, in fondo, un giorno dovrà finire per dare spazio ad una nuova era. Ciò che mi dà tristezza è pensare che la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità. La maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio. Io stesso dopo il primo incidente che mi capitò pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole; potevo morire senza sapere neanche perché e pochi avrebbero sospettato qualcosa. Solo dopo qualche tempo mi spiegarono chi ce l’aveva come me e perché. Ora, perlomeno, so che mi potrebbe succedere qualcosa e so anche il perché. Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una procura come è successo al capo dei vigili testimone della Tyssen Krupp. Ma all’epoca dei primi incidenti, non avevo neanche il sospetto di essere stato “condannato a morte”. Perché non ero consapevole di quale colpa avessi commesso e di quale peccato mi fossi macchiato.
Mi domando se Senna sapeva il destino che lo aspettava, se i familiari avranno capito. I familiari del Torino Calcio cosa penseranno di quell’incidente terribile? E i genitori di Fois? E la Forleo, cui scrissi “una lettera aperta” dalle pagine di questo blog… avrà capito esattamente cosa le è successo oppure penserà che il suo incidente d’auto sia stato casuale? I familiari delle vittime di via dei Goergofili, di Ustica, del Moby Prince, hanno capito. Lì sono troppo grosse le collusioni, troppo evidenti gli omicidi e i depistaggi perché qualcuno non capisca. Ma gli altri? I familiari dei testimoni di processi apparentemente normali, come quelli della Tyssen Krupp, o del Mostro di Firenze, che apparentemente sembra un normale caso di un serial Killer? E i familiari di tutte quelle persone che parevano condurre una vita normale, perché il delitto è maturato in un luogo ove nessuno sospetterebbe l’ingerenza così pesante dei cosiddetti poteri occulti, come il mondo sportivo? Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo. Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio. Allora voglio ricordare le parole dell’onorevole Falco Accame, a proposito degli incidenti anomali (come quello capitato ai genitori del giudice Forleo) o dei suicidi dei vari testimoni di processi importanti. Parlavamo dell’incidente capitato al giudice Forleo, e mi disse “inizialmente, quando mi occupai di queste cose, credevo al caso. Non volevo credere che fosse una cosa voluta perché mi pareva fantascienza. Poi, quando mi accorsi che i testimoni morivano tutti, sistematicamente, ho capito… E’ una cosa che è difficile da accettare.” Questo articolo, come il precedente, è scritto per tutti i familiari di persone suicidate, impiccate, morte in incidenti inspiegabili che hanno sempre capito che la versione ufficiale data dagli inquirenti non quadrava, affinchè perlomeno loro sappiano la verità. Oramai sono troppe le vittime sparse per la penisola, perché non si cominci a sospettare. E sono troppi i sopravvissuti perché qualcosa prima o poi non venga fuori. Oramai parlo con tante persone esperte e mi confronto. Molti, tanti, hanno capito. Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte” mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto “si Paolo, lo sapevo. Lo sapevo perché da medico legale mi rendo conto quando ci prendono in giro in TV e sui giornali. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico legale. Analizzando alcuni dei più importanti casi dal punto di vista medico legale mi sono accorto che ci prendono in giro. E poi sono un appassionato di esoterismo, e quindi i loro simboli e messaggi io li vedo. Vedi? L’esoterismo è un linguaggio. Se non lo conosci è come camminare per strade di una nazione straniera; vedi la gente, vedi le scritte, ma non ti dicono nulla; in certi casi potrebbero sembrarti innocui disegnini. Ma se invece lo conosci allora riesci a leggere oltre la superficie e capire i messaggi profondi che vengono lanciati e gli innocui disegnino diventano frasi precise. Capisci tutto, ma con la maggior parte delle persone non puoi parlare perché ti prendono per matto. E il problema principale, quando capisci il sistema, è continuare a fare la vita di sempre senza impazzire”. Questo, signori, è il sistema in cui viviamo ma con un po’ di studio e di intuito si può imparare a capirlo. Il paradosso è che non sono mai stato un appassionato né di gialli, né di spionaggio, né di esoterismo; ma credo che neanche la più fervida fantasia di qualsiasi scrittore abbia mai immaginato un sistema del genere. La realtà, per chi la vuole vedere, supera sempre di gran lunga la fantasia. Anche quella di Stephen king, che forse non a caso ha scritto una serie di telefilm che si intitola The Red Rose, e che forse per i suoi libri non si è ispirato alla sua sola fantasia (ad es. nei “Lupi del Calla”, occorre proteggere una sola rosa rossa che sta in una Torre nera; e se la Rosa venisse distrutta per qualche motivo la Torre cadrebbe insieme alla Rosa). Ps finale. Quando facevo il quarto ginnasio rubai tre biscotti (erano dei Ringo per la precisione) al mio miglior amico, Daniele. Voglio precisare, in caso di suicidio da parte mia, che i due fatti non sono collegati, al fine di evitare che i media mi facciano lo scherzo di Fois e che riportino la notizia facendomi passare per un ladro di biscotti. Peraltro confessai il mio crimine a Daniele, il quale dopo 25 anni non manca mai di ricordarmelo.

L'omicidio massonico. L'omicidio rituale e le difficoltà di accertamento, scrive Paolo Franceschetti. Il delitto rituale e la giustizia. Cenni al delitto di Cogne e quello di Erba. 1. Premessa. 2. L’omicidio rituale: concetto. 3. Come riconoscere l’omicidio rituale. 4. Il calcolo della data 5. Due esempi pratici. I Delitti di Cogne ed Erba. 6. Problematiche di accertamento dell’omicidio rituale. 7. Ragioni storiche e culturali dell’attuale situazione. 8. Un aneddoto conclusivo.

Premessa. L’omicidio rituale è uno degli omicidi più diffusi da secoli. Tutt’oggi sono delitti rituali molti dei delitti “inspiegabili” della nostra cronaca quotidiana; tali delitti sono inspiegabili e misteriosi infatti solo perché per una serie di motivi (coperture ad alti livelli, disinformazione da parte della gente comune, ecc.) vengono trattati come delitti comuni. Da qui le contraddizioni nelle indagini, gli aspetti oscuri in vicende che sono quasi quotidianamente all’attenzione dei mass media come i delitti di Cogne, Erba, Meredith e Garlasco. Inoltre, a parlare di omicidi rituali, si finisce per essere presi per matti, quindi quei pochi che intravedono la verità spesso tacciono, mentre quelli che ne parlano apertamente come Gabriella Carlizzi, vengono considerati dei visionari.

L’omicidio rituale. Concetto. Vediamo cos’è l’omicidio rituale, per poi capire il motivo dell’apparente disinteresse degli apparati investigativi e della letteratura scientifica (sia essa psichiatrica o forense). L’omicidio rituale è quello compiuto non per motivi contingenti e variabili, ma per una finalità precisa, ulteriore al delitto stesso, e funzionale agli interessi di un gruppo organizzato (religioso, sociale, o di altro tipo) o del singolo. Per essere annoverato nella categoria degli omicidi rituali il fatto deve presentare delle caratteristiche costanti, funzionali al raggiungimento dello scopo finale. In tal senso sono omicidi rituali, oltre ai delitti di gruppi satanici, molti delitti di mafia (non tutti), i delitti di un serial killer, e i delitti massonici. Nei delitti di mafia, ad esempio, gli omicidi seguono spesso una precisa ritualistica quando si tratta di eliminare un affiliato che ha parlato troppo o ha tradito. Nel libro “Gomorra” Roberto Saviano descrive ad esempio l’uccisione da parte della camorra di un affiliato che si era pentito, che viene ritrovato in mezzo alla strada, col corpo martoriato in modo terribile e la lingua mozzata. Il traditore, in altre parole, non può morire in un modo qualsiasi, ma deve morire seguendo un preciso rituale che serva da deterrente per i delatori futuri, e serva al tempo stesso da sfoggio di potenza da parte dell’organizzazione. Sono delitti rituali quelli commessi da organizzazioni sataniche, come le cosiddette Bestie di Satana, una delle poche sette che sono incappate nella maglie della giustizia (le altre invece sono libere di agire come a loro pare, grazie alla cospicua letteratura scientifica di esperti famosi che insistono nel sostenere che il satanismo sia un fenomeno poco diffuso, in cui al massimo si sgozza qualche gallina; esperti che però non forniscono mai una risposta alla domanda “che fine fanno le centinaia di bambini italiani che spariscono nel nulla senza lasciare traccia, secondo i dati ufficiali della polizia di stato?”). Assolutamente mai trattato, nella letteratura, è l’omicidio massonico, così come noi lo abbiamo esposto in articoli precedenti. Eppure l’omicidio massonico vanta una tradizione secolare, sussurrata, ma mai analizzata a fondo. Una tradizione che vede tra le vittime illustri persone come Mozart (si pensa che venne avvelenato perché nella sua opera il Flauto magico aveva rivelato alcuni segreti massonici; e si racconta che il suo requiem è un’opera incompiuta perché lui la stava scrivendo per se stesso, sapendo che lo avrebbero ucciso), e imperatori come Ludovico II di Baviera che non a caso muore in una data ammantata di simbologia rituale massonica: 13 giugno 1886, data il cui valore numerico è – non a caso – 33 (1+3+6+1+8+8+6). La cosa che colpisce di più è che manca una trattazione degli omicidi rituali anche in opere specialistiche; ad esempio nel manuale “Crime Classification Manual”, cioè il manuale dell’FBI sulla classificazione e investigazione dei crimini violenti, manca totalmente una voce corrispondente a “omicidio rituale”. Troveremo “omicidio domestico”, “omicidio domestico spontaneo”, addirittura “omcidio a sfondo sessuale di donna anziana”, ma neanche un accenno a omicidi rituali di altro tipo. Una dimenticanza non casuale, probabilmente, dato che il rapporto tra omicidi a sfondo sessuale di donna anziana, contro gli omicidi rituali satanici nel nostro paese, è di 1:1000. Mentre digitando in Internet la voce “omicidio rituale”, oppure cercando dei libri specifici sull’argomento, troverete una marea di libri e informazioni sull’ “Omicidio rituale ebraico”, con tutte le polemiche recenti sul libro di Ariel Toaff “Pasqua di sangue”; poi migliaia di pagine sull’omicidio del Piccolo Simonino da Trento avvenuto nel 1475; ma nulla sull’omicidio rituale dei nostri giorni. Silenzio assoluto. Non c’è da meravigliarsi poi se le indagini sugli omicidi rituali, come i dodici omicidi presi in considerazione nell’articolo precedente a questo, non vengano riconosciuti come tali. Perché delle due l’una: o chi indaga appartiene all’organizzazione, quindi quando riconosce la simbologia avrà cura di non rivelarla. Oppure chi indaga non la conosce, e inevitabilmente gli parrà fantascienza l’idea di trovarsi davanti ad un’organizzazione tanto complessa da avere collegamenti e radici ovunque, in grado di bloccare ogni indagine in virtù del giuramento di segretezza che vincola gli appartenenti a queste organizzazioni in ogni grado.

Come riconoscere l’omicidio rituale. L’omicidio rituale si riconosce da alcuni indizi. Un indizio è la data. Poi un indizio importante, nei delitti della Rosa Rossa, è il mancato ritrovamento dell’arma del delitto, che viene acquisita per gli scopi esoterici dell’organizzazione. Un ulteriore indizio è dato dal ritrovamento sulla scena del delitto di oggetti simbolici, come una rosa, dei cerchi, piramidi (nei delitti del mostro di Firenze ad es.) e altro ancora. Talvolta il simbolo non è in un oggetto ritrovato, ma nel luogo del delitto, o addirittura nel nome degli assassini. Un esempio di luogo simbolico: nel delitto Pantani il ciclista viene trovato all’hotel “Le Rose”. Un esempio di delitto ove la firma è nel nome: nell’omicidio di Annalaura Pedron avvenuto nel 1988, gli indagati sono Rosalinda Bizzo e suo figlio David Rosset (quindi la madre dovrebbe chiamarsi Rosalinda Rosset, RR, cioè la firma della Rosa Rossa). Una bella coincidenza. E – ulteriore coincidenza – i due sospettati facevano parte di un’associazione esoterica denominata “Cenacolo 33”. Ce ne sarebbe a sufficienza, solo leggendo un semplice articolo con questi dati, per approfondire la pista del delitto rituale. Poi ci sono ulteriori indizi: i depistaggi, la sistematica eliminazione dei testimoni, l’appartenenza dei familiari a gruppi esoterici, ecc… Spesso in alcuni delitti, come quello di Cogne e di Erba, ad es. gli indizi che fanno concludere per la ritualità dell’omicidio sono ben più che i classici tre indizi che fanno prova.

Il calcolo della data. Ma soffermiamoci sul metodo di calcolo delle date. I numeri utilizzati negli omicidi sono in genere i seguenti:

- 7, il numero perfetto. Il numero che, secondo Oswald Wirth ha una particolarità in quanto nel sigillo di Salomone tutti i numeri opposti riconducono al sette, secondo la “legge del settenario” (Oswald Wirth, pag. 82);

- 8 (che nella cabala simboleggia la giustizia, quindi uccidere qualcuno significa fare giustizia);

- 11 (che ha assunto lo stesso significato dell’8 nella ritualistica rosacrociana della Golden Dawn; fu infatti la Golden Dawn – ai cui rituali si rifà la Rosa Rossa - che cambiò il significato di questo numero, attribuendogli quello della giustizia);

- 13 (che simboleggia la morte e la trasformazione). Il 13 ricorre in particolare, oltre che nei delitti della Rosa Rossa, anche nei delitti di gruppi satanici organizzati. Nei delitti satanici talvolta ricorre anche il 18, perché 18 non è altro che 6 per tre, cioè 666;

- infine quasi tutti i multipli di 11, in particolare il 33, che oltre ad essere il numero 11 moltiplicato per tre, è anche il numero del massimo grado dell’iniziazione massonica.

Occorre infine ricordare che, a parte i multipli dell’ 11 e il numero 13, tutti gli altri numeri vanno sempre ricondotti a un numero di una cifra (ad esempio se il valore numerico di una data è 25, occorre poi sommare nuovamente 2 e 5 e il risultato è 7). Alcune date sono poi particolarmente simboliche perché ricorrono due o tre simboli numerici in contemporanea. I numeri infatti possono essere combinati anche in modo differente dalla semplice somma aritmetica (Papus, "La scienza dei numeri"). Ad esempio nell’omicidio di Ludovico II di Baviera (13.6.1886) ricorre il 13 iniziale, numero della morte, con il 33, numero della più alta iniziazione massonica; come dire: morte massonica. La sua morte fu archiviata come suicidio per annegamento, ma in epoca contemporanea si è accertato che è stato vittima di un complotto. Oppure, facendo un esempio recente, Cecilia Gatto Trocchi (una delle maggiori esperte di esoterismo italiane, che aveva spesso parlato del satanismo dei cosiddetti “colletti bianchi” e dei potenti uomini di stato) muore il 11.7.2005. Sommando solo le ultime cifre, 2 e 5, si ottiene un sette; cosicché i simboli numerici che si leggono sono 11.77. Cioè: 11: giustizia; e 77, simbolo che troviamo spesso nei delitti satanici. Inoltre il valore numerico della data nel suo complesso è 7 (1+1+7+2+5 uguale 16 cioè 1-6 che fa 7) simbolo di perfezione ma anche numero della Rosa Rossa. In altre parole già analizzando la data, e considerando gli argomenti di cui si occupava la dottoressa, si può ipotizzare un omicidio e ci sarebbero sufficienti questi spunti per indagare ancora; ma è inutile dire che il caso è stato archiviato come un suicidio.

Due esempi pratici. Cogne e Erba. I delitti di Cogne e di Erba per chi è esperto di esoterismo sono chiaramente dei delitti rituali. Non sono però riconosciuti e trattati come tali per una serie di motivi. Vediamo come giungiamo a questa affermazione. Iniziamo dalla data. Erba: 11.12.2006. Valore numerico 13. Da notare che il giorno è l’11, altro numero altamente simbolico negli omicidi. Cogne: 30.1.2002. Valore numerico: 8. Poi abbiamo altri indizi. Le armi del delitto non vengono ritrovate; ora, se questo è un fatto teoricamente possibile nel delitto di Erba, dove gli assassini avevano una certa libertà di movimento per far scomparire l’arma, più difficile è capire come sia possibile che Anna Maria Franzoni abbia fatto sparire l’arma del delitto in pochi minuti in una località isolata come quella di Cogne. Altro indizio. La grande quantità di sangue sparsa ovunque. Al bambino addirittura viene sfondato il cranio, e da un buco fuoriesce materia cerebrale; considerando che la Rosa Rossa utilizza parti di cadavere per i suoi riti, viene il dubbio che quella violenza non derivi dalla brutalità della madre o da quella di un maniaco assassino, quanto dalla volontà di asportare un feticcio da utilizzare per i riti esoterici successivi. Notevoli poi le similitudini tra questi delitti e quelli esaminati nell’articolo precedenti, delle dodici morti romane: oltre al valore numerico delle data, l’assenza dell’arma del delitto e la grande quantità di sangue persa dalle vittime. Poi ci sono tanti altri fatti e accadimenti, tutti trascurati dagli inquirenti. Un mese prima del delitto di Cogne, Gabriella Carlizzi – l’investigatrice che più di ogni altra si è occupata di questa organizzazione - aveva avvertito alcuni inquirenti che la Rosa Rossa avrebbe colpito e ucciso un bambino di tre anni dal nome biblico, in una località che richiama il Paradiso. Questo perchè l'investigatrice, da anni ha decriptato i codici con cui gli affiliati alla Rosa Rossa si scambiano i messaggi sui giornali e sulle TV. Quindi aveva previsto con esattezza il fatto. Ma si sa - si sa - la Carlizzi è pazza, e in tempi moderni un uomo razionale e intelligente non può credere a queste idiozie da superstiziosi. Figuriamoci se questa organizzazione può davvero cominciare tramite giornali e TV!!! Pare fantascienza no????? Però guarda tu che coincidenza… Il delitto è avvenuto proprio come anticipato e previsto dalla Carlizzi e la questione è ben raccontata in alcuni articoli apparsi sulla rivista Disinformazione. Poi abbiamo un’altra coincidenza curiosa, rilevata da un criminologo, Carmelo Lavorino. Costui è uno dei criminologi più famosi in Italia, e si è occupato di molti casi importanti, dal mostro di Firenze al giallo di Arce. Egli, analizzando la scena del delitto, è giunto alla conclusione che non poteva essere stata la madre a uccidere, ma il delitto è stato compiuto da qualcuno di esterno. Inoltre la vicenda dei coniugi di Cogne (dal loro trasferimento in una località di montagna, all’uccisione del bambino) è stranamente identica a quella narrata nel racconto di un autore francese, Charles Ramuz, morto nel 1947: due coniugi si trasferiscono in una località di montagna con i due figli di sette e tre anni; il piccolo, che si chiama Celeste, muore in modo analogo a Samuele, nel momento in cui la mamma si allontana per un po’ da casa.. Curiosa coincidenza, vero? Coincidenze che avrebbero meritato ben altri approfondimenti e – a tacer d’altro – avrebbero dovuto perlomeno portare ad un’assoluzione della Franzoni per non essere raggiunta la piena prova della sua colpevolezza. Ma coincidenze sulle quali nessuno ha voluto lavorare, né lavorerà. Dati questi indizi si tratta di trovare la firma, sia essa la firma della Rosa Rossa o di un’altra organizzazione. Bene. Nel delitto di Cogne, la località presenta un particolare curioso; essa sorge nel massiccio del Gran Paradiso, a poca distanza dal Monte Rosa. Mentre nel delitto di Erba l’omicida si chiama Rosa Bazzi, coniugata con Olindo Romano. Ovverosia il suo nome è Rosa Romano. Ancora una volta ricorre RR, senza considerare gli altri riferimenti simbolici e rituali, come la città (Erba… e l’erba richiama il verde, colore per eccellenza dei Rosacroce) o il nome di una delle vittime, Valeria Cherubini: apparentemente un nome come un altro, per chi ritiene l’esoterismo un mucchio di sciocchezze per superstiziosi. Ma un nome che indica molto di più a chi conosce la disputa teologica tra Rosacroce e Chiesa Cattolica. Non siamo gli unici visionari a pensare che il delitto di Cogne sia un delitto rituale, in realtà. Lo pensa anche Giuseppe Cosco (un investigatore esperto in sette sataniche e criminali) che in un suo articolo reperibile in Internet sostiene la tesi del delitto satanico e ritiene che il significato della data consista nel fatto che il 2 febbraio è la festa della candelora, una festa importante per il calendario satanico. La tesi, pur essendo plausibile, non mi convince, a fronte di tutti gli altri indizi, ben più numerosi, che riconducono, appunto, alla Rosa Rossa, a cominciare dalla data e dal luogo, nonché scorrendo anche i nomi degli affiliati a questa organizzazione che, negli anni, si sono occupati di questa vicenda in veste di esperti. La nostra, ovviamente, è solo una tesi, suscettibile di approfondimento. Alla luce di quello che diciamo, però, si spiegherebbero bene tutte le contraddizioni apparenti di questa inchiesta. Come mai il padre, pur sapendo che la madre ha ucciso il figlio, decide di mettere al mondo un altro figlio e le sta vicino per tutto questo tempo? Come mai la madre non ha mai ceduto né confessato? Se ha commesso il fatto in un momento di follia, come mai ha retto psicologicamente senza mai cedere? E se è sana di mente, perché ha ucciso il figlio? Come mai l’arma del delitto non fu trovata? Queste e altre domande troverebbero una risposta molto semplice: il padre sa bene la verità e la conosce anche la Franzoni. Ma se la dicessero, chi crederebbe loro? E se qualcuno gli credesse, quanto resterebbero al loro posto di lavoro, o addirittura quanto potrebbero restare in vita gli inquirenti che provassero ad approfondire la questione? Ma soprattutto… quanti – anche tra coloro che leggono – sono disposti ad approfondire una simile ipotesi di lavoro, che nessun autore, neanche Dan Brown o Stephen King hanno mai ipotizzato? Sarebbe interessante poi notare le similitudini tra questi delitti, i dodici precedenti, e quello di Meredith ad esempio dove, guarda tu che coincidenza, non viene trovata l’arma del delitto e il valore numerico della data fa ancora una volta – altra coincidenza – 13. E dove la Rosa Rossa è stata deposta dal padre, come si può leggere nell' articolo on line su Repubblica. Ma ovviamente il discorso ci porterebbe troppo lontano e ai nostri fini è sufficiente fermarci qui.

Problematiche di accertamento dell’omicidio rituale. A questo punto è chiaro il motivo per cui nessuno, per molti decenni ancora, tratterà l’omicidio rituale. In primo luogo è un problema pratico. Chi arriva alla verità muore o viene trasferito. In secondo luogo c’è un problema culturale. La massoneria - lo si capisce chiaramente anche solo scorrendo l’elenco delle grandi personalità del passato e del presente appartenenti a questa istituzione - ha fatto la storia del mondo, abilmente occultando i suoi segreti più preziosi. Logico quindi che essendo la nostra cultura ufficiale una cultura massonica, ovverosia influenzata grandemente dalla sapienza massonica, è stato espunto dai documenti ufficiali tutto ciò che potesse essere ricondotto in qualche modo a tale associazione e che ne svelasse i segreti. Quindi occorre una paziente opera di studio del simbolismo massonico per poi vedere chiaramente tale simbologia non solo nelle architetture degli edifici, nell’arte, nella cultura, ma anche nei delitti. A chi obietta che la nostra visione è fantascientifica e sembra opera di un visionario che vuole scrivere un libro di fantascienza, possiamo rispondere agevolmente come segue. In primo luogo nessun romanzo ha mai rivelato queste verità perché se qualche romanziere lo facesse non farebbe in tempo a pubblicare il libro; sarebbe controproducente mettere in circolazione simili racconti dato che il lettore potrebbe domandarsi “e se fosse vero?”. Ecco perché i romanzi in genere, anche quelli di Le Carrè o Dan Brown, sono molto meno fantasiosi della realtà. Seconda obiezione. Prima di bollare queste ricostruzioni come fantasie, occorre conoscere ciò di cui si parla. Se una persona senza conoscere la mafia e senza sapere neanche cosa è Cosa Nostra andasse in Sicilia e trovasse una persona morta e incaprettata, probabilmente riterrebbe fantasia parlare di un'associazione che controlla addirittura la Sicilia intera, uccidendo i traditori in quel modo. Oppure, per fare un altro esempio, se un investigatore che non conosce il Cristianesimo trovasse in alcuni delitti seriali un riferimento a passi della Bibbia, li archivierebbe come frasi senza senso e non riuscirebbe a individuare la simbologia cattolica in essi contenuta. Quindi, magari, non utilizzerebbe quelle frasi per ricostruire la personalità dell’assassino. Bene. Coloro che si occupano di delitti rituali senza conoscere la simbologia e la storia massonica, è come se camminassero in una nazione straniera senza conoscerne la lingua; logico che poi sulla scena di un delitto non trovino il bandolo della matassa, non riescano a spiegare le apparenti contraddizioni e trascurino indizi assolutamente evidenti per i non profani. Se a questo aggiungiamo che i media sono sotto il controllo diretto o indiretto della massoneria, si spiegano le difficoltà riscontrate nell’individuazione della verità per la maggior parte – per non dire tutti - questi delitti. C’è un terzo motivo, ed è quello psicologico. La realtà, così come la raccontiamo noi, è difficile da accettare e quindi è logico che istintivamente la gente comune non voglia ammettere che possa esistere una situazione del genere. Questa realtà, la maggioranza delle persone non vuole neanche vederla, tanto è intrisa dal razionalismo e dal conformismo della cultura dominante. Spesso viene negata dagli stessi parenti delle vittime, che preferiscono pensare alla sfortuna, ad un accanimento di una sorte avversa che fa capitare loro investigatori incapaci, giornali che per fare scoop riportano notizie false, piuttosto che credere ad un meccanismo complesso come lo abbiamo descritto noi. Complesso e preciso come un orologio, perché da secoli certe realtà sono solo “sussurrate” e raramente venute fuori in modo esplicito. Infine, c’è un quarto motivo. Ammesso e non concesso che un tribunale volesse prendere in considerazione l’ipotesi dell’omicidio rituale, ammesso e non concesso che questo tribunale sia immune da contaminazioni massoniche (ipotesi praticamente fantascientifica), sorgerebbero delle difficoltà di accertamento processuale insormontabili. Se con una certa difficoltà si potrebbero individuare gli esecutori (questo, anche se raramente, talvolta è stato fatto, come è accaduto nei delitti del Mostro di Firenze e di Erba) è quasi impossibile individuare i mandanti, trattandosi di un’organizzazione che non comunica certo per lettera o telefono, ma tramite messaggi veicolati da frasi in codice, con qualsiasi mezzo di comunicazione, dalle comuni lettere, ai giornali e alle Tv, ai libri (libri talvolta diffusi in edizione limitata tramite cerchie ristretti di aderenti ad associazioni o clubs, ecc.), ma comunque sempre tramite una simbologia e un linguaggio sconosciuti ai non iniziati. Quindi l’ipotesi di un tribunale che indaghi sui delitti della Rosa Rossa, è assolutamente fantascientifica perché l’organizzazione non potrebbe mai processare se stessa essendo essa incardinata fino ai più alti vertici dello Stato.

Ragioni storiche e culturali dell’attuale situazione. So che quello che dico e le cose che scrivo in questo articolo faranno sì che la maggior parte delle persone mi considererà un visionario. E ciò è comprensibile. Quando avevo vent’anni, ritenevo assurde e deliranti le tesi del difensore di Pacciani, Fioravanti, che indicava la pista esoterica per quegli omicidi, cercando di scagionare il suo assistito. E quando, anni dopo, cominciai a capire “il sistema”, penetrando i suoi segreti più nascosti, o semplicemente intuendoli, rimasi a lungo perplesso e la mia principale domanda fu: “se non sono pazzo, e quello che ho scoperto è vero, come è possibile creare un meccanismo del genere? Come è possibile essere giunti fino a questo punto di raffinatezza criminale, da parte dei poteri occulti, e di ignoranza da parte di noi cittadini ignari? Come è possibile una così sistematica presa in giro da parte di tutti, politici, mass media, inquirenti”? Poi, lentamente, è venuta fuori la risposta. Il problema dell’omicidio rituale è prima di tutto culturale e storico. Tutti noi siamo infatti circondati dalla cultura Cattolica (che in genere conosciamo a sufficienza da saperla riconoscere nei principali fatti della vita quotidiana); ma siamo anche un popolo circondato dalla cultura massonica; con la differenza che la cultura massonica non la conosce nessuno se non gli uomini di potere e di cultura; quindi i suoi simboli e i rituali, il modus di agire, sono sconosciuti alla maggioranza. Infatti per secoli i Rosacroce, i Templari e la massoneria in genere si sono nascosti per sopravvivere alla feroce lotta che la Chiesa e i sovrani muovevano contro di loro, a causa delle ricerche e delle idee che costoro portavano avanti. Queste associazioni hanno quindi effettuato in segreto ricerche scientifiche, tecnologiche, ed esoteriche, perché altrimenti il potere ufficiale di allora non l’avrebbe permesso. La segretezza attuale dell’associazione Rosa Rossa, quindi, ma al tempo stesso la sua potenza e onnipresenza nello stato, non deve stupire, perché è la logica conseguenza storica del comportamento della Chiesa per secoli. I Rosacroce e le altre associazioni segrete erano spesso collegate tra loro, e hanno sviluppato una struttura sempre più efficiente. Nei secoli si sono rafforzate e strutturate sempre più e hanno rovesciato le monarchie. Per secoli si sono fronteggiati due poteri: la Chiesa (e gli imperatori) e la Massoneria; la prima in modo visibile, la seconda in modo quasi invisibile. E ci vorranno ancora parecchi decenni prima che la massoneria esca completamente alla luce e sia visibile a tutti. Finché non si inizierà a studiare la cultura massonica e la storia della massoneria (che poi è anche la storia del mondo occidentale degli ultimi 8 secoli), finché la cultura massonica non sarà studiata anche dalla gente comune, ma soprattutto da investigatori e giornalisti, tutti i delitti massonici rimarranno sempre irrisolti. Il mio parallelo con la cultura cattolica non è casuale. Come dice uno dei massoni più intelligenti e sottili, cioè il Gran Maestro Di Bernardo (curiosa “coincidenza” che il cognome del Maestro sia lo stesso di San Bernardo, il monaco che codificò la regola dei templari): “ci sono due Chiese oggi: La Chiesa Cattolica e la Chiesa Massonica”. La Chiesa massonica è stata per secoli, come loro giustamente rivendicano, il tempio del libero pensiero, in contrapposizione alla Chiesa Cattolica, che voleva imporre il suo credo ovunque bollando come eretico chiunque osasse mettere in dubbio le scienza ufficiale di allora; quindi si mandava al rogo chi affermava teorie innovative sulla terra e l'universo (Giordano Bruno), e si massacrava in massa chiunque, pur aderendo al messaggio Cristiano, non riconosceva la gerarchia ecclesiastica (i Catari). Oggi la massoneria rosacrociana e templare, cioè quella più potente e segreta (quella speculativa, che si rifà veramente alle sue origini e non utilizza la struttura massonica per finalità di potere), continua ad essere il tempio del libero pensiero, per quanto riguarda alcuni aspetti della nostra vita spirituale e culturale. Ma purtroppo utilizza il vincolo di segretezza massonico per proteggere se stessa e i delitti commessi dai loro associati nonché per eliminare coloro che ne rivelano i segreti. Inoltre la massoneria continua a tenere per sé molte delle sue conoscenze acquisite nei secoli, non più per crescere ed elevare spiritualmente l’uomo come invece faceva nei secoli scorsi ma esclusivamente per finalità di potere e per tenere soggiogati i cittadini, che credono alla verità dei giornali e telegiornali, all’oscuro di quel che avviene realmente nelle stanze del potere.

Un aneddoto conclusivo. A proposito delle difficoltà di accertamento dei delitti rituali mi ricordo un episodio capitatomi personalmente. Un funzionario della Digos ci stava interrogando sull’avvelenamento di Solange; alcune cose non gli quadravano; decidemmo allora di aprirci completamente e di raccontargli alcune vicende che fino a quel momento avevamo omesso.

- Perché non le avete raccontate prima? – chiese lui un po’ arrabbiato.

- Sa, perché si tratta di vicende complicate, non tutti sono preparati per affrontarle e non sapevamo se voi eravate competenti in materia.

– Di che si tratta? – domandò lui.

- Massoneria – dissi io – ma non so se siete competenti anche su questo.

- Certo che siamo competenti in fatti di massoneria – rispose lui – Siamo la Digos, noi, mica “pizza e fichi”.

- Bene. Cominciamo dall’inizio. Sa, il padre della mia collega era iniziato al Grande Oriente d’Italia….

- Cosa è il Grande Oriente? – chiese il funzionario.

A quel punto capii che l’interrogatorio si sarebbe risolto come in effetti si risolse: Solange si era avvelenata da sola, forse si drogava, e io la coprivo perché, abitando nella stessa casa, non potevamo che essere amanti e io quindi ero suo complice. Figuriamoci se avessimo spiegato al funzionario il problema della data e dei simboli. Inutile dire che quando siamo stati vittima di alcuni tentati omicidi, in epoca successiva non siamo mai più andati alla Digos. Tentati omicidi in date – guarda tu che coincidenza – dal valore numerico 8 per il primo caso (17.9.2007) e 13 nel secondo caso (2.1.2008); abbiamo denunciato il fatto ai carabinieri ove perlomeno non ci hanno trattato come matti, ma, anzi, quando abbiamo detto che avevamo subito due incidenti di moto nello stesso giorno, il commento è stato un più professionale “avvocato, avete rotto le scatole a qualche politico, vero?”. Per la precisione, la denuncia fu fatta solo per i fatti del 17, che coinvolgevano anche Solange. Quelli del 2 coinvolgevano me in prima persona, e non andai mai a denunciarli, perché si sa, da quando mi occupo di queste cose sono suggestionabile e mi allarmo per niente. E poi vedo Rose Rosse dappertutto. E avendo capito perfettamente come funziona la giustizia, preferisco affidarmi a quella divina, che mi farà morire non un minuto prima, né un minuto dopo, rispetto a quello che il destino mi ha preparato. In questo la massoneria potrebbero avere una parte di ragione: il mondo è fatto di pesi, numeri e misure, e conoscere il segreto dei numeri significa conoscere il segreto dell’universo.

L'omicidio massonico. La legge del contrappasso e le morti in auto, scrive Paolo Franceschetti. E due cosette che non sapete sulle stragi di Falcone e Borsellino. 1. Premessa. 2. Gli incidenti di auto e moto. 3. Le stragi di Capaci e di Via D'Amelio. 4 Ricapitoliamo. Il significato delle stragi e la trattativa tra stato e mafia. 5. Qualcuno telefona da Roma.

1. Premessa. Nei tre precedenti articoli sull’omicidio massonico abbiamo analizzato i caratteri comuni a tutti gli omicidi commessi dalla massoneria. Sinteticamente:

- la maggior parte degli omicidi massonici sono effettuati dai servizi segreti deviati; dal momento che tale struttura ha al suo vertice persone affiliate (o comunque dipendenti da) alla massoneria rosacrociana, e dal momento che i Rosacroce hanno come loro padre spirituale Dante Alighieri, viene utilizzata la cosiddetta tecnica del contrappasso. Ovverosia la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il peccato che questa ha commesso. Ad esempio molti dei testimoni di Ustica (vicenda che, come è noto, ha a che fare con un incidente aereo) moriranno in un incidente aereo. Fabio Piselli, testimone della tragedia del rogo del Moby Prince, viene caricato su un’auto a cui venne dato fuoco (doveva morire quindi in un rogo). Luciano Petrini, perito che stava facendo una perizia sulla morte del colonnello Ferraro (che muore impiccato all’asciugamani del bagno) morirà a colpi di portasciugamani. Oppure ricordiamo il caso dell’attore Bruce Lee e del figlio Brandon Lee: il primo (che pare morì avvelenato in una data il cui valore numerico complessivo è 11) aveva girato la scena di un film in cui moriva sul set, colpito da una pallottola che invece di essere caricata a salve spara un proiettile vero; il secondo morì proprio in questo modo, probabilmente perché cercava la verità sulla morte del padre. Ecc…

- Ogni omicidio è commesso in una data ben precisa, in cui il valore numerico è diverso a seconda dei casi (ricordiamo che il valore numerico si ottiene sommando tutti i numeri presenti nella data da calcolare): 7, come firma della Rosa Rossa, ma anche come simbolo di perfezione chiusura di un ciclo, ecc…

- 8 e 11 come simbolo di giustizia. E poi ci sono i multipli di 11 in particolare il 33, che indica anche il massimo grado (ufficiale) della massoneria.

- 13 come simbolo di morte.

Chi sale troppo in alto, chi osa troppo, viene gettato dall’alto, come Cecilia Gatto Trocchi. Come Adamo Bove, il responsabile della security della Telecom morto di recente. Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come Giuseppe Gatì, morto in un giorno rituale la cui somma è 7 (la firma della RR), perché il fulmine simboleggia il fulmine di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo. Insomma, come i dannati dell’inferno dantesco scontano una pena adeguata al peccato di cui si sono macchiati, chi si mette contro la Rosa Rossa e contro la massoneria rosacrociana, muore con una morte adeguata al tipo di peccato commesso contro questa organizzazione.

2. Gli incidenti d’auto e di moto. Per tanto tempo alcuni conti non mi tornavano. Tanti testimoni, o persone comunque da eliminare, avevano incidenti di auto o di moto. In realtà però qualcosa non mi quadrava. Anzitutto non riuscivo a capire dove fosse il contrappasso in alcuni fatti. Che ci fosse un intento di eliminare il soggetto era palese… ma i conti non mi tornavano. Vediamo alcuni dei casi di cui ci siamo occupati fin qua…Alcuni si sono salvati.

- La giudice Forleo.

- Placanica, il carabiniere implicato nei fatti del G8, accusato di aver sparato a Carlo Giuliani, la cui auto sbanda improvvisamente.

- Il mio amico Giovanni M, di Viterbo, che oltre ad avere ben 5 processi penali diversi, uno più falso dell’altro, ha anche avuto un incidente d’auto.

- La lettrice che ci ha scritto la lettera che abbiamo pubblicato (Laura Biker), scampata al sabotaggio della sua moto ai tempi del centro sociale Leoncavallo.

Poi ci sono quelli che non si sono salvati. Tanti. Una strage infinita, comprendente testimoni di processi importanti, cittadini che avevano curiosato troppo, giornalisti. Anche alcuni personaggi famosi, come Rino Gaetano, Fred Buscaglione, James Dean. La domanda è: posto che i servizi hanno mezzi immensi… posto che non c’è problema a far morire una persona con un mattone sulla testa, con una fuoriuscita di gas dalla cucina, con una caduta per terra, ecc…, perché scegliere un mezzo così insicuro? Perché l’auto o la moto? Me lo domandai per mesi dopo l’incidente di moto mio e di Solange, avvenuto lo stesso giorno. Due moto diverse sabotate nello stesso giorno. Perché volevano provocarmi una morte così assurda, con un mezzo così insicuro, e che avrebbe destato più di un sospetto? La domanda mi risuonò in mente per mesi. Con i mezzi che ci sono oggi la persona ha buone probabilità di salvarsi. Le auto sono infatti dotate di airbag e la cintura di sicurezza è obbligatoria su tutte le vetture. Per quanto riguarda la moto vale un discorso analogo. Oggi il casco è obbligatorio e spesso le giacche e i pantaloni da moto hanno delle protezioni che difendono molto in caso di caduta. Quindi la domanda che mi risuonava era: perché usare un mezzo così fallimentare dal punto di vista dell’efficacia? Un poliziotto tempo fa mi disse che ciò è dovuto al fatto che spesso i servizi adottano tecniche antiquate, e continuano ad eliminare le persone senza tenere conto dell’aggiornamento della tecnica. Lì per lì confesso che la spiegazione mi piacque tantissimo e mi dette soddisfazione. Dal momento che io mi sono salvato in due incidenti di moto, l’idea di essere scampato alla morte perché i servizi segreti sono così stupidi da usare tecniche antiquate era una cosa divertente… Per diverso tempo io e Solange scherzavamo su questo dicendo “hai visto… sono così stupidi che applicano meccanicamente a tutti le stesse tecniche e oggi tra i cittadini in circolazione abbiamo più scampati alla morte che persone normali…”. Ma la verità è che questa spiegazione non mi convinceva. Dentro di me sapevo che la massoneria rosacrociana è sofisticatissima; ai vertici ci sono persone intelligentissime che non lasciano nulla al caso. In ogni delitto nulla è lasciato al caso, né il nome della via, né il numero delle vittime. Nulla. Strano sarebbe che venga lasciato al caso proprio il mezzo per uccidere. Addirittura, una persona esperta di servizi ci disse, poco tempo fa, che i nostri servizi segreti sono considerati in assoluto i migliori al mondo per quanto riguarda proprio… la manomissione di auto e moto. Tanto che tra i servizi segreti di altri paesi gira voce che i nostri siano così bravi, che basta loro passare accanto ad un auto, farle una carezza, e questa si va schiantare dopo qualche chilometro. Purtroppo un giorno la risposta alla mia domanda (perché?) mi venne chiara. Stavo riflettendo su alcuni omicidi mettendo in fila questi dati:

Haider; ucciso in Rosenthalerstrasse, nella sua Volkswagen Phaeton, l’auto venne scelta per il mito di Fetonte che col suo carro cercò di raggiungere il sole e morì nel sole; Haider era salito troppo in alto e questo lo ha bruciato.

Mauro Brutto: indagava sulla morte di Fausto e Jaio del centro sociale Leoncavallo. Morto investito da una Simca 1100. Chiaro il significato di quell’11 nel numero dell’auto.

Aldo Moro. Trovato morto in un una Renault Rossa. RR. La firma della Rosa Rossa.

James Dean, morto in una Porsche 550, che portava il numero 130 (morto quindi per gli stessi motivi che hanno portato alla morte Rino Gaetano, De Andrè e Lucio Battisti).

Ogni auto ha una sua logica. Ovverosia anche il tipo di auto con cui uno muore ha una logica precisa, adatta alla situazione o alla persona. Leggendo un libro di esoterismo la risposta mi è stata chiara. Macchina… viene dal latino, deus ex machina. Nelle commedie greche, il Dio veniva a risolvere situazioni intrigate scendendo dal cielo, appeso ad un congegno di funi che si chiamava mechanè…La macchina quindi era il congegno da cui veniva il Dio a risolvere i problemi terreni. L’auto è quindi una punizione che viene dal cielo, dal Dio stesso. Per quanto riguarda la moto penso (ma potrei sbagliarmi… sto solo formulando ipotesi) che valga lo stesso discorso dell’auto con una particolarità. Che una moto vista dall’alto simboleggia una croce. Il soggetto che muore in moto viene quindi simbolicamente crocifisso. La cosa, che suona quasi ridicola tanto da avermi provocato non poche risate, non me la sono inventata, ma l’ho trovata su un libro dal titolo curioso: “Quel che si dice dei ciclisti rosacroce”. Vista dall’alto, infatti, la moto è una croce, ove le braccia laterali sono costituite dal manubrio. Un libro, nonostante il titolo dalla logica incomprensibile, scritto da una persona che di Rosacroce se ne intende.

3. Falcone e Borsellino. Mi sono per parecchio tempo domandato dove fosse il contrappasso per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. A parte le date rituali (31 per Falcone e 11 per Borsellino: 19.7.1992 infatti è: 1+9+7+1+9+9+2 =38=3+8=11 ) la modalità della morte doveva senz’altro essere rituale. Falcone infatti poteva essere ucciso a Roma, dove girava tranquillamente senza scorta. Quindi perché ucciderlo proprio in Sicilia e proprio con quella modalità che, dal punto di vista logico, non sta né in cielo né in terra? Riina, per quanto possa dirsi male di lui, era ed è, una persona intelligente. Una persona che ha l’intelligenza di diventare il Capo dei Capi di tutta la Sicilia, può commettere una leggerezza del genere? No. Io credo che Falcone sia stato ucciso in quel modo per vari motivi. Anzitutto doveva morire in Sicilia perché era in Sicilia che le sue indagini si erano svolte. La regola del contrappasso esigeva quindi che lui morisse nella stessa terra ove aveva "peccato". Inoltre doveva saltare in aria in modo eclatante, perché voleva far saltare il sistema. Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perchè l'esplosione con cui muore fa da contrappasso all'esplosione che lui voleva assestare al "sistema". Inoltre è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia capace, deve morire. La cosa suona terribilmente ridicola, ma prego chi legge di riflettere che stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico, finanziario, o amministrativo. La scelta del luogo, nella strage di Capaci, è dovuta probabilmente anche ad un altro motivo, che risale alle origini del paese. Si narra che il bellissimo isolotto denominato "Isola delle Femmine" fosse stato un tempo una prigione occupata solo ed esclusivamente da donne. Tredici fanciulle turche, essendosi macchiate di gravi colpe, furono dai loro congiunti imbarcate su una nave priva di nocchiero e lasciate alla deriva. Vagarono per giorni e giorni in balia dei venti e delle onde finché una tempesta scaraventò l'imbarcazione su un isolotto della baia di Carini. Qui vissero sole per sette lunghi anni fin quando i parenti, pentitisi della loro azione, le ritrovarono dopo molte ricerche. Le famiglie così riunite decisero di non fare più ritorno in patria e di stabilirsi sulla terraferma. Fondarono quindi una cittadina che in ricordo della pace fatta, chiamarono Capaci (da "CCa-paci" ovvero: quì la pace) e battezzarono l'isolotto sul quale avevano dimorato le donne "Isola delle Femmine". Non a caso, come risulta dalla sentenza sulla strage di via dei Georgofili (che riuniva in un solo processo ben sette stragi, commesse a Firenze, Milano e Roma) e dalla sentenza sul Capitano Ultimo, dopo la strage di Capaci venne avviata la famosa trattativa tra stato e mafia, di cui si fece portavoce il generale Mori, per raggiungere… la pace. Probabilmente la morte così eclatante di Falcone segna anche, simbolicamente, uno spartiacque tra il vecchio metodo di eliminazione dei magistrati (ucciderli) e quello nuovo (delegittimarli). Non più guerra quindi, ma le cosiddette "armi silenziose per una guerra tranquilla" di cui abbiamo parlato altrove. La morte di Falcone simboleggia quindi la Pace. Infatti dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio la mafia non esiste quasi più. Hanno preso Riina e Provenzano e dopo di loro quasi solo il silenzio. Addirittura il procuratore Antimafia Grasso qualche mese fa è andato al Maurizio Costanzo Show a declamare gli immensi successi dello stato sulla mafia, ridotta - secondo lui - oramai quasi al silenzio. Ricapitolando, il simbolismo della strage di Capaci è: auto, esplosione, isola delle femmine, Capaci. Il probabile significato: Falcone voleva far saltare il sistema (esplosione), quindi dal cielo (auto) arriva la punizione che lo fa saltare in aria; dopodichè dovrà scendere la pace, tra lo stato e la mafia (Capaci). Così muoiono le persone capaci di arrivare al cuore del sistema. Inoltre, a firmare la strage, ci sono due elementi: il gruppo di mafiosi si era posizionato sulla collina vicino Capaci; e la collina si chiama "Raffo rosso", ove raffo in ebraico significa "Dio che guarisce". RR, firma della Rosa rossa. Mentre la moglie di uno degli agenti di scorta, che fece il famoso discorso ai funerali, si chiama Rosaria Costa. RC quindi. Borsellino fu ucciso nello stesso modo. Anzitutto perché aveva seguito le orme dell’amico. Poi perché anche lui, col memoriale Calcara, aveva avuto notizie che erano in grado di far saltare il sistema. Credo che un aspetto della simbologia della sua morte vada trovata anche nella via dove avvenne l’esplosione: Via Mariano D’Amelio, un politico che fece leggi sulla magistratura. Chiaro il messaggio: la magistratura deve essere azzerata. Ora ricordiamo quel che successe dopo queste stragi. Inizialmente sembrò che la magistratura acquistasse più poteri, e che lo stato volesse realmente fare la guerra alla mafia. Nacque lo strumento del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi). Ci furono alcuni ritocchi al codice di procedura penale. Ma dopo poco tempo iniziarono le leggi che, di fatto, azzerarono il potere della magistratura riducendolo ad un formalismo vuoto; cosicché oggi l’80 per cento dei reati cade in prescrizione, e per reati gravissimi vengano comminate pene ridicole: a titolo di esempio (vado a memoria) la riforma del falso in bilancio, un reato che oggi praticamente non esiste più; la legge che riforma il reato di attentato agli organi costituzionali, reato punito prima con l’ergastolo, e oggi praticamente impunito; l’abolizione dell’abuso di ufficio, e tante altre. Un’opera sistematica di demolizione dei poteri dei magistrati che è in atto tuttora (ad esempio con la legge di riforma delle intercettazioni e altre genialità del genere).

4. Ricapitoliamo. Il significato delle stragi e la trattativa tra stato e mafia. Leggiamo ora la successione di leggi nel tempo, dopo le due stragi del 92, alla luce della simbologia sottesa ad esse. Con Falcone arriva il segnale della pace tra stato e mafia. Da qui nascono le apparenti leggi contro la mafia, che in realtà servono a comminare il carcere duro ai mafiosi, probabilmente per togliere di mezzo Riina e altri capi mafia, che, grazie a questa legge, non potranno più comunicare con l’esterno. La legge cioè non serve per punire i mafiosi, ma per impedirgli di continuare a comandare e togliere di mezzo la vecchia guardia, sostituendola con una nuova, che sia d’accordo con la cosiddetta linea morbida. Cioè per sostituire i mafiosi che volevano la guerra allo stato, con altri che vogliano “la pace”. Con la strage di Via D’Amelio invece si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura.

5. Qualcuno telefona da Roma. Per far capire che le stragi di Capaci e via D’Amelio sono stragi non di mafia è sufficiente un documento che Gabriella Pasquali Carlizzi ha citato in un suo libro. E’ la conversazione che si svolge tra due personaggi, uno romano e uno siciliano, un magistrato. Eccone la trascrizione.

Telefonata tra Roma e Sicilia.

- dottore c’è una telefonata da Roma

- Pronto con chi parlo?

- Oh Presidente mi dica.

- Dottore sarà lei a occuparsi della strage di Capaci naturalmente.

- Presidente lei sa bene che qui quando succedono certe cose noi diciamo è la mafia. Anche in questo caso noi diremo è la mafia.

- Bravo proprio questo volevo farle intendere caro dottore. D’ altra parte non a caso l’incidente è avvenuto lì, in quel preciso punto, altrimenti questa inchiesta poteva finire a Palermo.

- Meglio cosi presidente, è meglio così mi creda. La gente di Palermo pensa a fare giustizia ma al futuro della gente della Sicilia chi ci pensa? Piuttosto presidente bisogna togliere i sigilli da tutto quel materiale. Io lo conoscevo bene, era uno che annotava tutto e credo che sia meglio non alzare polveroni, meglio per tutti.

- Si lei ha ragione dottore. Ma qualcosa bisognerà pure trovare, quanto basta per dare all’indagine un’immagine di serietà. Lei mi capisce non è vero? L’Italia in questo momento è scossa. Non potrebbe sopportare le responsabilità di questo delitto meglio indagare su fatti avvenuti dal paese ormai sappiamo che il giudice era andato troppo oltre le sue competenze; aveva un piano da attuare. La amava troppo la sua terra. Merita di essere ricordato come un eroe.

- Sono d’accordo con lei presidente in fondo queste stragi di eroi ne hanno fatti molti in questi anni e la gloria dell’Italia aumenta.

- Domani andrò sul posto dottore. Ci incontreremo li per coordinare i lavori. Occorre molta prudenza e sintonia.

I due personaggi (facilmente riconoscibili) si incontrarono sul posto. Che le stragi di Capaci e Via D’Amelio non siano stragi di mafia lo ha detto lo stesso Riina, in un intervista ad Antimafia 2000. Non so se vi ricordate quello che scrissi nel mio articolo “La massoneria è una Harley Davidson…” infatti, Riina, alla fine, la verità te la dice. E non ho detto quelle frasi certamente per caso… Volevo dire esattamente le cose che ho detto.

L'omicidio massonico. I parenti delle vittime, scrive Paolo Franceschetti. Nei precedenti articoli sull’omicidio massonico ci eravamo occupati di alcuni aspetti della simbologia e della tecnica di tali omicidi. Ora voglio parlare di un aspetto che per lungo tempo non ho mai capito ma che, ad un certo punto, in questi anni è diventato chiaro. Mi sono sempre domandato perché i parenti delle vittime non facevano troppo chiasso. Mi spiego. Perché i parenti delle vittime del Mostro di Firenze non hanno costituito un’associazione che indagasse per conto proprio e pubblicasse magari in un sito i propri risultati in autonomia rispetto alle indagini di PG ufficiali (che notoriamente facevano acqua da tutte le parti)? Perché nessuno dei tanti parenti della famiglia Franzoni ha mai pensato di difendere Anna Maria aprendo un sito, portando prove, ecc...? Possibile che, dei tanti omicidi che insanguinano l’Italia, i parenti non hanno mai alcun sospetto e non si mettono a far casino, salvo poche eccezioni (ad esempio la famiglia Manca, la signora Gemini mamma di Niki Aprile Gatti)? Solo in alcuni casi più eclatanti (Ustica, Georgofili, ad es.) si è costituito una sorta di comitato, anche se, dal punto di vista pratico, hanno ottenuto dei risultati quasi nulli. Negli anni la risposta mi è diventata drammaticamente chiara. Per gli omicidi più eclatanti – quelli, per intenderci, che ammorbano le nostre serate televisive perché ce li propongono in tutte le salse, con le solite opinioni dei sempre soliti esperti che dicono sempre le stesse cose giungendo sempre alla conclusione del solito nulla – le vittime sono scelte all’interno dell’organizzazione, o comunque sono scelte in modo che la famiglia sia controllata o controllabile. Nel caso delle vittime del Mostro di Firenze, ad esempio, la maggior parte delle vittime erano in realtà collegate direttamente o indirettamente all’organizzazione. Innanzitutto le vittime passavano tutte dal famoso mago Salvatore Indovino. La coppia francese eliminata, ad esempio, era scesa in Italia perché aveva contattato un’organizzazione esoterica. La madre di una delle vittime era un amante del Narducci, il medico trovato morto nel lago Trasimeno e che pare facesse parte della Rosa Rossa. In un altro caso il padre della ragazza era nell’organizzazione della RR, tanto che fu definito “Giuda” da Pacciani; il curioso epiteto gli era stato rivolto non perché Pacciani straparlava, come molti hanno pensato, ma perché al contrario, sapendo quel che diceva, gli aveva rivolto “l’accusa” di aver parlato poi troppo con gli inquirenti. In un altro omicidio la vittima era la sorella di un poliziotto in servizio a Firenze. Eppure i giornali non fecero cenno alla questione, e il cadavere venne ritrovato proprio da un poliziotto; e guarda caso il legale di Mario Vanni, Filastò, sosteneva che alcuni dei delitti del Mostro di Firenze fossero compiuti anche con la complicità di poliziotti. In uno dei tanti omicidi eclatanti che ammorbano le nostre serate televisive ho potuto scoprire che non solo la famiglia coinvolta era collegata ai servizi segreti, ma che i legali dei familiari (nomi mai divulgati dai media) erano, guarda un po’, proprio gli stessi legali che avevano difeso le persone incriminate nei delitti del Mostro di Firenze. La particolarità però è che la famiglia che aveva scelto quel legale abita a centinaia di chilometri dalla città di Firenze e dunque dal legale incaricato. Ho sempre ritenuto curioso che Alberto Stasi, coinvolto nel delitto di Garlasco, fosse preso a lavorare per lo studio legale che lo difendeva. Mi sono sempre domandato, per fare un altro esempio, come mai Adriano Sofri non si sia mai interessato alle dichiarazioni di Manlio Grillo, raccolte da Solange in Nicaragua, in cui si autoaccusava dell’omicidio Calabresi, scagionando di fatto Sofri che per questo ha scontato parecchi anni di carcere. La risposta appare drammaticamente chiara solo che si capisca come funziona il nostro “sistema”. Una mia amica in polizia mi ha raccontato che, il giorno che andò a dare la notizia del decesso di una persona (uccisa a colpi di accetta) ai familiari, questi non batterono ciglio e le risposero solo “Grazie. Ora per favore dobbiamo lavorare”. Un fatto apparentemente inspiegabile, quando non si conosca come funziona “il sistema”. Una volta dissi ad una ragazza a cui probabilmente avevano ucciso il padre che forse si trattava di omicidio e non di un malore come i giornali avevano fatto credere. Lei non si mostrò interessata alla cosa e parlò d’altro. Dopo pochi mesi infatti ho scoperto che era entrata nella stessa organizzazione di cui il padre faceva parte. In un altro caso, ritenendo di avere notizie importanti riguardanti un noto magistrato coinvolto suo malgrado in fatti in cui – ritenevo – lui non c’entrava nulla, gli telefonai per fornirgli la mia versione. Da una parte lui non rimase affatto sorpreso. Dall’altra però non si mostrò interessato alla cosa. Rimanemmo d’accordo che l’avrei richiamato io, ma poi non mi feci più vivo perché in fondo, mi dissi, se la cosa non interessa lui, a me interessava ancora meno. Rimasi comunque sorpreso dal fatto che lui, che pure da anni si batte affinché si sappia la “sua verità”, non mi richiamò più. E dopo qualche tempo ho capito il perché. Lui fa semplicemente parte della fazione “perdente”, in un gioco di cui è perfettamente consapevole, ma che non viene divulgato al grande pubblico. Quando la famiglia non fa parte dell’organizzazione, per eliminare qualcuno si interviene in due modi:

1) Si cerca di comprarla o di cooptarla. Le si dà un posto in politica, in TV, le si dà un incarico importante. Le si offrono dei soldi e i familiari, rassegnati, preferiscono una vita tranquilla senza problemi economici ad una infernale in cui rischieranno anche la vita, avranno difficoltà economiche, e non otterranno giudiziariamente nulla.

2) Si procura un incidente che sembri un vero incidente. Un incidente di auto, di moto, un finto suicidio inscenato discretamente, con un biglietto in cui si chiede “perdono” ai familiari. In tal modo le famiglie possono evitare di guardare in faccia la realtà. Possono continuare a dire “è stato un incidente” e continuare a dormire sonni tranquilli. E nella malaugurata ipotesi in cui i familiari sospettino qualcosa, in genere non troveranno prove a sostegno di quanto dicono, e verranno fatti passare per pazzi o visionari.

Esemplare il caso della signora Gemini, madre di Niki Aprile Gatti, che viene spesso presentata, dai media, come una mamma che non riesce ad accettare il suicidio del figlio. In una recente intervista televisiva, ad esempio, invece di analizzare le prove a sostegno della tesi della mamma, hanno costruito la puntata in modo che il momento più incisivo della trasmissione fosse quello in cui alla domanda “come mai sostiene che suo figlio sia stato ucciso?” lei risponde “perché una madre conosce suo figlio e Niki non si sarebbe mai suicidato”. In altre parole, hanno trascurato le prove per far leva su un argomento emotivo, e quindi facilmente smontabile. Le vittime, insomma, vengono in genere scelte all’interno dell’organizzazione per vari motivi. Uno dei motivi è che solo in questo modo si riesce a programmare in anticipo e con precisione la data, il luogo e la modalità dell’omicidio, in modo che simbolicamente rispecchi la ritualità che si vuole realizzare. Ma credo che la cosa abbia anche un’altra valenza, nel senso che in tal modo ci si assicura che la vicenda non faccia scalpore, che la gente non capisca, e dunque che il silenzio regni sovrano. Uccidendo una persona i cui familiari sono dentro il sistema, infatti, ci si assicura che essi mantengano il silenzio e accettino supinamente la loro sorte, senza protestare. Pensiamo ad esempio alla rassegnazione di Stefano Lorenzi, il padre del piccolo Samuele, che ha perso il figlio ma ha continuato a rimanere in silenzio vicino alla moglie, con un atteggiamento che è a dir poco contraddittorio per chi osserva dall’esterno, ma che è perfettamente normale per chi conosce le dinamiche in seno alla (o attorno alla) Rosa Rossa. Infatti, nei pochi casi in cui la famiglia non è controllata né direttamente né indirettamente, può scoppiare un vero casino. E’ sufficiente vedere la forza con cui portano avanti la lotta Salvatore Borsellino, Ornella Gemini mamma di Niki Gatti, i familiari di Attilio Manca, per capire che in effetti, colpire qualcuno che non abbia un substrato familiare compiacente può ripercuotersi come un boomerang contro il sistema, che sarà costretto a subire un insieme di fastidi non sempre programmabili in anticipo. Prendiamo ancora come esempio Ornella Gemini. Le hanno ucciso il figlio, fatto sparire le prove, hanno cercato in modi diversi di piegarla psicologicamente, ma lei è sempre lì, a scrivere sul blog, a organizzare manifestazioni, a partecipare a manifestazioni altrui, a leggere, informarsi, urlare. E quando si ascolta Ornella viene da piangere. Commuove. Smuove le coscienze. Come commuove e smuove le coscienze Salvatore Borsellino, quando parla. Lo senti parlare e ti viene voglia di combattere, di dire “ma si ammazzateci tutti, avete rotto le palle, ma io non me ne sto zitto”. Se i parenti delle vittime di Ustica, del Mostro di Firenze, e dei molti omicidi cosiddetti “in famiglia” come quelli di Erba, Cogne, Garlasco, Meredith, ecc., urlassero anche solo la metà di quanto urlano Ornella, la famiglia Manca, e Salvatore Borsellino, l’Italia si sarebbe svegliata da un pezzo.

L'omicidio massonico. L'omicidio dei bambini. Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah, scrive Paolo Franceschetti. 1. Premessa. 2. In nome di Ishmael. I moventi dell'omicidio di minorenni. 3. Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah. 4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara.

1. Premessa. Una delle domande più frequenti che mi fanno i lettori (ed è per questo che mi decido a scrivere un articolo come questo) è questa: “Ok, passi che la massoneria uccida i testimoni di Ustica, che sequestri Moro uccidendone la scorta, ecc., ma che interesse ha ad uccidere Sarah Scazzi, o Yara Gambirasio? Che interesse ha ad uccidere una famiglia, nel delitto di Erba?” Con questo articolo rispondo anche alla domanda “perché non ti occupi di Sarah e Yara?”. La risposta non è semplice perché non esiste un’unica risposta. La massoneria è un’organizzazione complessa, e ramificata, e dunque estremamente complessi e ramificati sono i suoi fini. Faccio spesso il parallelo con la mafia. Alla domanda “che interesse ha la mafia ad uccidere?” la risposta non potrebbe essere unica. La mafia uccide per sopprimere testimoni, per uccidere poliziotti o magistrati scomodi, persone che tradiscono, pericolose, scomode, a fini estorsivi, o anche solo per lotte di potere interno. Le motivazioni degli omicidi massonici sono ancora più complesse, e per certi versi incomprensibili secondo la logica comune. Una volta che relativamente ad un delitto si trovi la simbologia massonica, e una volta quindi individuato il delitto come “massonico”, ciò non ha alcuna utilità, perché non serve per individuare esecutori, mandanti e movente. Così come capiamo che una persona è stata uccisa dalla mafia, se il delitto avviene a Palermo, in pieno centro, con una raffica di mitra al volto, oppure se troviamo una persona incaprettata, ma tale comprensione ancora nulla ci dice dell’assassino e del movente, così trovare simboli massonici sulla scena di un delitto ha una valenza pratica pari a zero. Quindi, individuare simboli e numerologia massonica nel delitto di Avetrana e Brembate non serve a nulla. Una volta spiegato ai lettori, coi precedenti articoli, la simbologia base di un delitto massonico, infatti, ciascun lettore di questo blog ha potuto capire da solo che erano delitti firmati dalla Rosa Rossa e non c’era bisogno di un mio articolo per spiegare ciò che hanno capito tutti. Impossibile, invece, capire per ora i moventi o anche solo individuare potenziali colpevoli. Un discorso generale su questi omicidi, però, possiamo farlo.

2. In nome di Ishmael. I moventi. Da poco mi è capitato di leggere un romanzo di Giuseppe Genna, dal titolo “In nome di Ishmael”, che parla proprio dell’omicidio dei bambini. L’autore nel romanzo narra di un’organizzazione internazionale, Ishmael, che è dietro agli omicidi di molti bambini, e dietro al traffico internazionale collegato al caso Dutroux, come dietro al delitto di Lady Diana o al delitto Moro. I delitti dei bambini sono compiuti per propiziarsi forze esoteriche relative a grandi eventi di portata nazionale o internazionale. In altre parole, ogni delitto è un sacrificio umano compiuto per collegarlo esotericamente e simbolicamente, a vicende come il delitto Mattei, il sequestro Moro, ecc. Leggendolo ho capito che l’autore parlava della Rosa Rossa, e parlava di fatti reali, non inventati. Il libro è scritto da una persona addentro a queste cose, essendo stato consulente della commissione P2 e della commissione stragi. Facciamo quindi parlare uno dei protagonisti del romanzo. Ne trascrivo i dialoghi più importanti. Alla domanda “perché Ishmael uccide?” il protagonista risponde: “Con Ishmael il significato si chiarisce a distanza di anni. Bisogna aspettare. Ci sono altre realtà, superiori al piano politico. Sono realtà spirituali e queste realtà guidano il piano politico occultamente. Realtà che a noi sembrano religiose. E’ chiaro uno dei meccanismi rituali di Ishmael: in vista di ogni attentato importante viene compiuto il sacrificio di un bambino”. Occorre quindi aspettare anni, spesso aspettare una serie di delitti, per capirne il significato. Ad esempio, per capire i moventi nella vicenda del Mostro di Firenze ci sono voluti decenni. Nel delitto di Cogne ci sono voluti molti anni per capire il significato completo della vicenda (anche se la Carlizzi c’era arrivata subito; nel mio caso però ho impiegato due anni perché non riuscivo a leggerne i simboli esoterici che mi sono stati chiari solo dopo molto tempo).

3. Alcune considerazioni su Yara e Sarah. Il libro di Genna riassume quindi perfettamente la logica rituale dietro all’omicidio dei bambini compiuto dalla Rosa Rossa. Per Sarah e Yara occorrerà aspettare ancora per capire a cosa sono collegati questi omcidi. Probabilmente occorrerà aspettare una terza vittima, che questa volta, per i motivi che stiamo per dire, potrebbe essere violentata. Partiamo da queste considerazioni. La ritualità di questi due omicidi è chiara. L’assonanza dei nomi Sarah e Yara, accomunate da quell’ara finale, che ricorda la parola altare. Il loro corpo è, quindi, un altare sacrificale. Il fatto che Sarah sia scomparsa il 26 agosto; il 26 novembre dopo tre mesi esatti scompare Yara, che verrà ritrovata il 26 febbraio, ancora una vola dopo te mesi dalla scomparsa. Il 26 che ritorna in questi delitti, è un numero fondamentale per la Cabala, perché rappresenta la valenza numerica del nome di Dio. Cabalisticamente la parola Yahvè (YHWH), dà come somma proprio il numero 26. Abbiamo poi il ritrovamento del corpo di Yara nel campo di proprietà della ditta Rosa & C., mentre le rose erano in bella mostra anche nel cancello che dava sul cortile di casa Misseri. Anche il parroco, ai funerali di Yara, ha fatto un’affermazione incomprensibile ai “non iniziati”, e che tutti i giornali, manco a dirlo, hanno ripreso: Yara è come Santa Maria Goretti. Non posso dire se il parroco l’abbia fatto apposta o meno; ma certo non è casuale che questa affermazione abbia fatto il giro dei mass media, in quanto Santa Maria Goretti ha come simbolo il Giglio. Abbiamo insomma un’infinità di indizi che fanno capire che si tratta di un delitto rituale. Gli indizi più importanti poi, oltre quelli simbolici, sono costituiti dal nome delle persone coinvolte, il livello degli avvocati che si interessano alla vicenda, assolutamente sproporzionato per un delitto di matrice solo sessuale, da cui desumiamo che il livello degli interessi in gioco è molto alto. Occorre considerare che spariscono in Italia oltre 1000 minorenni all’anno. 1033 nel 2009, per la precisione. Queste poi sono solo le cifre ufficiali, che non tengono conto di tutte le sparizioni dei bambini figli di Rom, quindi non registrati all’anagrafe, o entrati clandestinamente in Italia, che fanno salire la cifra almeno al doppio. La Rosa Rossa, e l’internazionale dei pedofili, è dietro a molte delle sparizioni di bambini, anche di quelle che non compaiono sui media. La differenza tra un delitto che non fa rumore e uno che assume rilevanza mediatica, è solo nel tipo di destinatario e nell’importanza del rito. Molti bambini spariscono per finire nel traffico di organi, nei riti satanici, negli snuff movies. Quando dietro alla morte di un minorenne invece si solleva un caos mediatico delle proporzioni di Yara e Sarah, vuol dire che tale evento è collegato a qualcos’altro di proporzioni nazionali o internazionali. Nel caso di Yara, per esempio, il cui significato è “primavera”, potrebbe trattarsi di un evento molto importante che avverrà in primavera (una guerra, una catastrofe, ecc…); collegando questo nome con quello di Sarah (che nella Bibbia è la sposa di Abramo e quindi colei che partorisce il popolo eletto), c’è la possibilità che l’evento avverrà nel Medio Oriente. E’ probabile anche che debba avvenire un terzo delitto e che il percorso seguito sia, simbolicamente e in codice, nella “Nascita di Venere” del Botticelli. Sulla destra del quadro infatti c’è la Primavera, coperta di fiori e piante varie (e Yara è stata trovata ricoperta da arbusti). Al centro c’è Venere, che assomiglia in modo impressionante a Sarah, ed è rappresentata nuda dentro una conchiglia, davanti al mare (e ricordiamo che Sarah stava andando al mare prima di essere uccisa). Se questa ipotesi fosse vera, mancherebbe un terzo delitto, che dovrebbe simbolicamente ricordare la figura alla sinistra del quadro. L’ipotesi del collegamento di questi delitti alla Nascita di Venere è stata formulata da una persona che conosco ed è una possibilità, non una certezza. Ma la percentuale di probabilità che l’ipotesi sia plausibile è aumentata il giorno che ho notato che nel libro di Mario Spezi “Il passo dell’orco”, che parla di due omicidi di due bambini, edito da Hobby&Work e ancora una volta collegato al Mostro di Firenze e altre vicende reali, è citato proprio quel quadro. E Mario Spezi è uno che di omicidi di bambini e Rosa Rossa se ne intende. Resterebbe poi da spiegare esattamente il significato di questo quadro, ma la spiegazioni ufficiali non mi convincono per niente, come non mi convincevano quelle relative alla Primavera del Botticelli. Mi convinsi invece della bontà delle teorie di Lino Lista (che le ricollegava al canto 28 del Purgatorio di Dante), perché erano le uniche che spiegavano ogni dettaglio fin nei minimi particolari. Quanto al simbolo esoterico trovato sulla schiena di Yara, secondo il simbolista Carpeoro questa potrebbe essere la Croce di Sant’Andrea, che è la firma di una società che si ricollega agli Illuminati. Potrebbe contemporaneamente rappresentare la firma di colui che ha compiuto il “capolavoro”, rappresentando le lettere MR secondo la simbologia alfabetica della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fine dell’800. Queste però sono solo congetture. Quello che è certo, ancora una volta, è che i mass media hanno orchestrato un immenso baraccone mediatico, chiamando sempre i soliti esperti, che sentenziano sempre le stesse cose, come ai tempi del Mostro di Firenze: un serial killer isolato (per Yara); o al massimo un contadino (ieri Pacciani, oggi Michele Misseri). Un killer abilissimo che ieri riusciva ad uccidere sedici vittime, alcune delle quali proprio sotto il naso degli inquirenti, e facendola sempre franca, mentre oggi riesce a piazzare un cadavere in un centro abitato, senza lasciare la minima traccia. Il tutto mentre gli inquirenti commettono un errore dopo l’altro in modo plateale (oggi non mettendo immediatamente sotto sequestro il garage di Misseri, ad esempio, oppure non vedendo un cadavere in bella mostra in un campo, per giunta a poche centinaia di metri da dove partivano le ricerche; ieri mettendo in galera sempre persone diverse, e tutte immancabilmente poi rivelatesi innocenti). Un’altra cosa certa è che anche qui la verità si saprà solo tra molti anni. E l’altra cosa certa è che: “Ishmael non sbaglia mai. Sul lungo periodo non sbaglia mai. Tutto quello che riusciamo a fare è ritardare i suoi risultati”. PS. Un giorno poi ci sarebbe da approfondire il motivo per cui vanno in galera sempre contadini, casalinghe, e spazzini (come Olindo Romano). Mai avvocati, notai, magistrati, medici, giornalisti, ecc. Nino Filastò nel suo libro “Storia delle merende infami” dice una cosa giusta (una delle poche, credo, di tutto il depistante libro). Che i laureati in genere non pagano mai per i loro delitti e la galera è piena di analfabeti. Uno dei pochi a farsi la galera (ma solo qualche giorno) fu proprio Mario Spezi, anni fa, per soli 23 giorni. Ma questo sarà oggetto di un altro articolo, in futuro.

4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara di Gianfranco Carpeoro. Caro Paolo ho avuto modo di vedere tanto il tuo post quanto il simbolo inciso sulla schiena della piccola Yara. Ovviamente mi sono messo subito al lavoro e il mio primo pensiero è stato quello di verificare tutte le rispondenze letterali della segnatura. La X è simbolo esoterico in quanto descrive la rotazione del mondo, in antiche lingue accadiche e mesopotamiche significa protezione, nel cristianesimo è simbolo del supplizio di Andrea, fratello di Pietro che richiese di essere crocifisso su una croce che non fosse esattamente uguale a quella del Cristo. Il simbolo = è invece presente solo in senso numerico, tra i sumeri veniva usato per indicare il numero due, ma i due simboli non viaggiavano insieme. Poi ho riflettuto sulla circostanza che il simbolo è stato inciso con una punta acuminata, credo, sulla schiena della vittima e ciò è una pratica di cui ho riconosciuto una fonte. Tra le logge di scalpellini e di muratori del Medioevo che hanno poi dato origine alla Massoneria, nella costruzione delle grandi cattedrali di quell’epoca, era d’uso che ogni “artista” firmasse la pietra, specialmente quella d’angolo o la chiave di volta, che aveva levigato e montato. Questi segni si chiama “lapicidi” e molti studi sono stati effettuati su di essi. Te ne accludo un esempio, ogni scalpellino sceglieva il suo marchio tramite una figurazione del tipo che vedi, ma a volte è riscontrabile che siano state adoperate le iniziali stilizzate. Ne ho esaminati un’infinità, non ne ho trovato alcuno che possa aiutarci, ma mi sono convinto che la modalità dell’assassino sia identica. Quindi, a mio avviso, quella è la sua firma, lui ha firmato il “capolavoro”. Questo mi induce a credere anche che si tratti di un personaggio isolato, visto che la firma in tal caso sarebbe singola, come era d’uso, ma non ne sono sicuro, ovviamente. Comunque, poiché la tradizione dei lapicidi è ben conosciuta tra i massoni, specialmente di alto grado, anzi è vissuta come tradizione da proseguire con la firma delle “tavole”, interventi scritti che si presentano in tempio durante le ritualità massoniche a questo punto mi sono messo a caccia di alfabeti massonici. Ciò anche perché la tradizione di sovrapporre due simboli separati, facendone uno è tipicamente massonico o premassonico, squadra compasso, rosa e croce, falce e martello (simbolo creato da un massone tedesco) ecc. Ne possiedo tanti e c’è voluto del tempo. Ne ho trovato uno solo, uno solo dove ci sono tanto la X che il = ed è l’Alfabeto della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fin dell’Ottocento. Di seguito te lo pubblico intero ma le righe dell’alfabeto che riportano i simboli che ci interessano sono due e la colonna che ci interessa è quella dell’alfabeto nuovo. In tale codificazione infatti il simbolo = risulta corrispondere alla lettera M e il simbolo X risulta corrispondere alla lettera R. Ma non finisce qui. Nella mia ricerca, secondo le mie reminiscenze, ho verificato anche la Società Romantica ovvero il 34° grado della Massoneria. Si tratta degli Illuminati Romantici, associazione che risulta costituita anche in Italia da un manoscritto, conservato presso l’archivio Storico di Firenze. Riguardo a tale associazione segreta risulta che i suoi atti sarebbero stati anche pubblicati molti anni fa ad opera di una non meglio precisata loggia massonica, guarda caso di Firenze (!) la Concordia. Il testo del manoscritto, pubblicato un Italia da una casa editrice che non esiste più, Convivium, nel testo “Rituali e Società Segrete” te lo accludo integralmente segnalandoti le righe che ti ho evidenziato in rosso e cioè queste: Allorché uno di essi si trova in un pubblico albergo, incide sopra una tavola, o forma in un altro luogo visibile, una Croce di Sant'Andrea; doppia X se il trattamento è stato cattivo; tripla se è stato ben servito. E successivamente Hanno un segno per riconoscersi e questo consiste nel fare col dito indice della mano sinistra una Croce di S. Andrea, cioè un X. sopra una tavola, o in qualunque modo che loro fa comodo, ovvero descriverla in aria. Interessante vero? La Croce di Sant’Andrea è il simbolo e la firma di questa associazione che evoca gli Illuminati… Questo è quanto è emerso finora, caro Paolo, nei prossimi giorni cercherò di andare avanti per vedere se salta ancora fuori qualcosa d’altro. Tieni presente che la Croce di Sant’Andrea fa parte anche del simbolo di un grado del Rito Scozzese, ma questi la incidono e poi fanno parte per definizione della famiglia degli Illuminati… Se vuoi pubblica pure questa ricerca nelle forme che meglio credi, a mio nome o a tuo, o magari fanne la base per tue ulteriori ricerche, a me sembra un strada interessante. Un Abbraccio Carpeoro.

L'omicidio massonico. Come si occulta la verità, scrive Paolo Franceschetti. E cenni sull’omicidio di Carmela Rea. 1. Premessa. 2. L'omicidio di Carmela Rea. 3. Le tecniche di depistaggio. 4. I periti. 5. Gli avvocati. 6. I magistrati. 7. Polizia e Carabinieri. 8. I criminologi. 9. I mass media. 10. Conclusioni.

1. Premessa. E’ ormai qualche anno che cerco di studiare i delitti rituali della Rosa Rossa e una delle cose che ho cercato di capire di più era come facessero a depistare sistematicamente tutte le indagini. Che la Rosa Rossa abbia in mano tutta la stampa, la magistratura e gli organi di polizia è evidente; ma è altrettanto evidente che il controllo di questi organi avviene non per cooptazione diretta, ma indiretta e inconsapevole. Non è possibile, infatti, che tutti gli avvocati, gli investigatori, e i giornalisti che se ne occupano siano dentro alla Rosa Rossa, anche perché nella stragrande maggioranza dei casi non hanno né l'intelligenza né la cultura per far parte di un'organizzazione del genere. In altre parole, la maggior parte degli inquirenti, dei giornalisti e dei magistrati ignora cosa sia la Rosa Rossa e in genere non ne sospetta neanche l'esistenza. Dopo qualche anno, dopo colloqui con carabinieri, poliziotti, periti, magistrati, giornalisti, cameramen, la risposta mi è chiara e può tracciarsi una sorta di schema, seguito ogni volta per ogni delitto. Partiamo dall’esempio di Carmela Rea, morta di recente. Le dichiarazioni dei criminologi intervenuti sono talmente demenziali che mi hanno ispirato questo articolo per spiegare i meccanismi di un’indagine, a grandi linee.

2. L’omicidio di Carmela Rea. In quest’omicidio risultano chiaramente rituali sia la data della morte, sia il nome della donna, sia i riferimenti e le immagini mandate in TV. Per i lettori di questo blog tutto ciò è cosa nota quindi mi soffermo su altri particolari. La cosa che colpisce sono le idiozie dette dai criminologi nei vari programmi TV. E la domanda è: come è possibile che nessuno ci arrivi? Che nessuno colleghi? Che nessuno sospetti qualcosa di più? E come è possibile dire una quantità di idiozie, come quelle che normalmente dicono i criminologi, puntualmente sempre gli stessi invitati a queste trasmissioni? La donna è scomparsa nel pomeriggio e il cadavere è stato ritrovato solo in seguito, mentre la data della morte è quella probabilmente del giorno successivo, tra la mezzanotte e le due. Il cadavere è stato ritrovato privo del sangue (cosa tipica di tutti i delitti rituali) il che significa che l’omicidio è avvenuto in zona diversa dal ritrovamento. La donna ha subito 35 coltellate e sul corpo ci sono anche dei segni esoterici incisi. A fronte di queste evidenze, c’è da domandarsi come si fa a sostenere la tesi del serial killer o del delitto passionale. Carmela infatti stava facendo una gita col marito e si è allontanata per un solo momento; dovremmo supporre che il presunto amante l’abbia stordita e portata in un altro luogo, oppure – ipotesi ancora più inverosimile – l’abbia convinto a seguirla. Lì l’abbia uccisa dopo poche ore e poi abbia portato il cadavere in un altro luogo, rischiando di essere scoperto, o fermato. Inoltre resterebbe da capire perché questo presunto amante l’abbia uccisa con 35 coltellate, alcune sferrate anche dopo la morte. In realtà analizzando i pochi dati che ci hanno evidenziato i giornali (dati che spesso sono falsi, questo occorre dirlo, ma qui partiamo dal presupposto abbastanza improbabile che siano veri) risulta chiaro che la persona è stata uccisa con premeditazione, e probabilmente l’uccisione in un posto per poi trasportare il cadavere in un altro ha un significato ben preciso, ben diverso da quello che ha in un delitto seriale o passionale. Peraltro, ad escludere il delitto passionale dovrebbe bastare la svastica nazista che - sempre stando a quel che dicono i giornali - sarebbe stata incisa sul corpo della donna; e sarebbe da prendere in considerazione il fatto che il corpo è stato ritrovato il 20 aprile, proprio il giorno del compleanno di Hitler. Ma è ovvio che la verità anche questa volta non verrà mai a galla. Cercherò di spiegare allora come funziona il meccanismo investigativo in questi casi, e come sia possibile arrivare a simili livelli di demenzialità nelle trasmissioni che si occupano della vicenda.

3. Le tecniche di depistaggio. Per capire come si depistano le indagini in un delitto qualsiasi occorre tenere presente che l’analisi della scena di un delitto avviene in più fasi. In un primo momento interviene generalmente la squadra volante della polizia, che fa un primo sopralluogo, con o senza il magistrato di turno. La volante fa un primo rapporto (talvolta a seconda delle zone possono intervenire i carabinieri). Dopodiché il caso passa a chi se ne occuperà realmente; in polizia la squadra mobile. Oppure se è intervenuta per prima la caserma x dei carabinieri, il caso può passare ad una stazione diversa. Le indagini poi sono dirette dal magistrato, e a condurre le indagini non sempre sarà quello di turno. E poi abbiamo i periti. Ecco quindi che l’analisi della vicenda può essere fatta da tanti soggetti diversi, con competenze diverse, e idee diverse. Spesso è sufficiente che un solo elemento di questa vicenda sia nelle mani dell’organizzazione perché tutta l’inchiesta ne risulti inquinata e sia nell’impossibilità di proseguire correttamente. In altre parole, non c'è bisogno di tenere sotto controllo tutti coloro che partecipano a vario titolo alle indagini, ma è sufficiente assicurarsi una complicità in uno o due punti chiave di tutta l'operazione.

4. I periti. Il perito ha un ruolo chiave in tutta la vicenda. Il burattinaio di questi delitti infatti si assicura sempre che la perizia sia svolta o da un incompetente o da una persona interna all’organizzazione. Se il perito stabilisce, ad esempio, che è perfettamente normale che un avvocato di 40 anni si suicidi con una calza da donna al termosifone, come l’avvocato Silvia Guerra di Macerata, il caso è chiuso. Se il perito stabilisce, come è capitato, che è perfettamente normale che una donna si infili un coltello nel torace e non esca una goccia di sangue, il caso è chiuso. Suicidio. Se il perito stabilisce – come nel caso di Niki Aprile Gatti – che è possibile suicidarsi con un laccio da scarpe, allora il caso è chiuso. Suicidio. Se il perito stabilisce che ci si può suicidare con una balestra, come nel caso di Stefano Anelli, il caso è chiuso. Se il perito stabilisce che ci si può suicidare in una doccia, come l’avvocato Antonio Colelli, il caso è chiuso. A formare dei periti incompetenti concorre una letteratura che spesso è fuorviante; in un manuale di medicina legale, scritto da un magistrato (e non da un medico legale) e con prefazione di Pier Luigi Vigna, ad esempio, si trova scritto che è perfettamente normale che una persona si suicidi con le ginocchia che toccano terra; se poi sul corpo si troveranno dei lividi, contusioni, botte, ecc., ciò è dovuto al fatto che spesso il suicida si agita e sbatte ripetutamente contro il muro. In altre parole, i periti che si berranno acriticamente queste idiozie, se sono poco intelligenti ripeteranno queste formulette. I periti più bravi verranno comprati. E quelli che non si adegueranno verranno uccisi (come Luciano Petrini, che stava facendo la perizia sulla morte del colonnello Ferraro, che si sarebbe impiccato ad un portasciugamani, a colpi di portasciugamani). Credo ad esempio che almeno la metà dei periti che quotidianamente ci ammorbano in TV con la loro teorie assurde siano in buona fede. Molti di essi infatti appena parlano dimostrano di essere talmente incompetenti che è assai probabile che credano davvero alle idiozie che dicono. Alcuni, invece, sono dotati di grande intelligenza, come Francesco Bruno, e sono menti raffinatissime (per usare un termine di falconiana memoria). Difficile pensare che costoro caschino dal pero e non sappiano come funziona il sistema. Anzi, probabilmente è tra alcuni di loro che si devono cercare i mandanti di certe operazioni.

5. Gli avvocati. L’altro elemento importante per il depistaggio sono gli avvocati. Mi sono sempre domandato dove prendessero i soldi le famiglie delle vittime per farsi difendere da avvocati del calibro di Taormina, o, come nel caso di Avetrana, dall’avvocato Coppi, che è uno dei penalisti più affermati d’Italia, una cui consulenza può costare come un appartamento. Il punto è questo. Se l’avvocato è bravo dopo un po’ capisce il sistema e può anche arrivare alla verità. Non a caso nella categoria degli avvocati c’è un’elevata mortalità e un alto tasso di suicidi. Tra il 2009 e il 2010 ricordo i nomi di Silvia Guerra, Giuseppe Porfidia, Antonio Colelli, Monica Anelli, Giacomo Cerqua, Massimo Buffoni, l'onorevole Fragalà, e molti altri, tutti morti in circostanze talmente assurde che nessuno crede al suicidio o all’omicidio (nel caso di Monica Anelli sarebbe stata uccisa dallo zio con una balestra). Negli anni passati invece ricordiamo l'avvocato Masi, ucciso a Teramo a colpi di mannaia insieme alla moglie, o l'avvocato Cipolla, ucciso a Palermo a colpi di Roncola. Nella maggior parte dei casi gli avvocati non riescono a capire il meccanismo in cui sono inseriti. Quando iniziano ad intuire qualcosa vengono fatti fuori. Non a caso gli incidenti a me e Solange, e i primi tentativi di eliminarci, sono avvenuti quando iniziavamo ad avvicinarci alla verità. E i primi tentati omicidi ai nostri danni sono stati compiuti ad opera probabilmente delle stesse persone che ci facevano il servizio di protezione, gli agenti della Digos. Se non da loro direttamente, comunque certamente con il loro aiuto e con la loro complicità, consistita nella sparizione di documenti, nel voluto depistaggio, nelle omissioni, ecc. Attualmente nel mio studio legale siamo in 5, e da poco a Solange si è aggiunta un’altra persona che è scampata alla morte per un pelo sol per aver capito troppo. Gli avvocati direttamente coinvolti nel sistema e direttamente aderenti alla Rosa Rossa o organizzazioni simili non sono molti e in genere intervengono solo in processi di rilevanza nazionale o internazionale. Quei pochi però si spartiscono la maggior parte dei processi importanti di rilevanza mediatica e spesso contattano la vittima offrendosi gratuitamente; in genere la vittima e i familiari non rifiutano, ritenendo in tal modo di essere tutelati e anzi ritenendosi pure fortunati. In conclusione, gli avvocati in genere non hanno la preparazione per capire il fenomeno davanti a cui si trovano, il che avviene nel 90 per cento dei casi. Se cominciano a capire vengono uccisi o estromessi dal processo. E in genere i processi più importanti sono appannaggio di avvocati interni all'organizzazione.

6. I magistrati. Quanto ai magistrati il problema è simile a quello degli avvocati; spesso (anzi, quasi sempre) non hanno alcuna competenza specifica, quindi in genere si fidano degli ufficiali di PG addetti al loro ufficio. Un magistrato diventa tale solo perché ha superato un concorso in cui studia tre materie (diritto civile, penale e amministrativo), senza alcuna attinenza con la realtà, senza aver fatto alcun corso di investigazione, e senza sapere nulla di ritualità, organizzazioni esoteriche, ecc. Dopodiché, dopo anni passati a occuparsi di traffico di droga, furtarelli e altri reati minori, incappa nel delitto rituale. Ecco come possono prodursi aberrazioni come quelle capitate all’epoca del serial killer Minghella, uccisore di prostitute, che scriveva la parola “Rose” sulla schiena delle vittime. La parola fu attribuita ad un maldestro tentativo di attribuire i suoi delitti alle Brigate Rosse, e gli indizi di carattere rituale, in tal caso evidenti come un elefante in giardino, non sono stati visti da nessuno. In linea di massima il 50 per cento dei magistrati non conosce neanche la differenza tra Massoneria e P2 e fa di tutta l’erba un fascio. Il restante 40 per cento è in massoneria, quindi conosce la massoneria in sé, ma aderisce alle obbedienze regolari ed ufficiali, Grande Oriente d’Italia, Gran Loggia Regolare, Cavalieri di Malta, non conosce la differenza tra Massoneria e organizzazioni esoteriche, massoniche o paramassoniche; solo un 10 per cento (in genere i magistrati che rivestono le funzioni più importanti e che si occupano dei casi più importanti all’interno di un tribunale) conoscono perfettamente il sistema. Ma quelli, per ovvi motivi, non lo combatteranno mai e sono posti a dirigere procure e tribunali al fine di assicurare il corretto funzionamento (non della giustizia ma) del sistema. I pochi magistrati che lavorano davvero per arrivare alla verità vengono destituiti, trasferiti, o uccisi. Ma si tratta di eccezioni. In linea di massima è l'ignoranza del magistrato che garantirà la totale impunità all'organizzazione.

7. Polizia e Carabinieri. La maggior parte degli ufficiali di Polizia e Carabinieri hanno un grado di scolarità bassissimo. Mal pagati e mal addestrati, e mal aggiornati, non sanno nulla di simbolismo, sette segrete ecc. Basti pensare che a Firenze la sezione antisette ha un organico, se non ricordo male, di due persone o tre. Due persone che dovrebbero quindi indagare su tutto ciò che ruota attorno all’Ordo Templi Orientis, Golden Dawn, Rosa Rossa, ecc… Più o meno come combattere la CIA con una fionda. In alcune città, come Viterbo, non esiste neanche un settore antisette perché, si sa, le sette non esistono, e se esistono sono innocue, come garantisce il famoso esoterista Massimo Introvigne (il quale ha la biblioteca esoterica più grande del mondo, 50.000 volumi; quindi, in sostanza, è uno che si occupa di un fenomeno che non esiste). Ma l’ignoranza abissale in cui versano poliziotti e carabinieri è il miglior modo per renderli servi docili del sistema. I pochi che svolgono indagini serie dopo un po’ vengono allontanati, uccisi, o mobbizzati. Ricordiamo ad esempio che i poliziotti che avevano indagato sulla banda della Uno Bianca, individuando i fratelli Savi, furono trasferiti per punizione. A Viterbo un’ispettrice di polizia troppo ligia al dovere prima è stata trasferita varie volte; a Natale del 2007 spararono contro la vetrina del negozio del marito e poi ebbe un incidente in auto (malfunzionamento improvviso e inspiegabile dei freni) che le causò un forte stress e che l’ha messa definitivamente fuori gioco. Inutile dire che, anche tra i suoi colleghi, quelli che vedono la coincidenza tra i vari eventi sono pochissimi; molti, più che altro per ignoranza, non mettono in collegamento i fatti e ritengono il tutto frutto di una cattiva manutenzione dell’auto. Il commissario Giuttari, che era andato un po’ troppo avanti nell’individuazione del livello ulteriore oltre a Pacciani, nei delitti del Mostro di Firenze, fu messo ad ammuffire al servizio ispettivo del ministero e anche condannato penalmente. E così via. Infatti, anche se dopo qualche mese io e Solange ci accorgemmo che i tentati omicidi ai nostri danni erano effettuati con la complicità delle persone che dovevano in teoria garantire a Solange un servizio di “protezione”, abbiamo sempre pensato che abbiano fatto tutto ciò senza sapere assolutamente cosa facevano e perché. Il funzionario Digos che dopo l’avvelenamento di Solange interrogò me e Solange cercando di costringerla a confessare che si era avvelenata o drogata da sola con la mia complicità per farsi pubblicità, era infatti talmente ignorante che non poteva certamente sapere cosa stava facendo. Ricordo che durante il colloquio, mentre spiegavo al funzionario che il padre di Solange era affiliato al Grande Oriente d’Italia, mi chiese “ma cos’è il Grande Oriente d’Italia?”. Era ovvio cioè che lui stava facendo il suo lavoro, su mandato di altri, ma era totalmente inconsapevole dell’ingranaggio in cui era inserito. E non riusciva neanche a capire di cosa parlassi. Forse, chissà, pensava pure di fare una cosa utile alla nazione, cercando di smascherare due rompicoglioni come me e Solange, con manie di protagonismo. Tempo fa ho parlato con un ufficiale dei carabinieri che mi spiegava come spesso ricevono ordini dall’alto per effettuare questo o quell’arresto anche in mancanza di prove concrete; e lo hanno allontanato dal servizio perché in genere cercava di opporsi. Un altro funzionario di polizia, oggi in pensione, mi disse che gli era stato ordinato di fare una cosa illegale, per la quale poi fu addirittura additato su vari giornali come un depistatore. Da quel giorno è andato in pensione e si è ritirato a vita privata. In altre parole, per polizia e carabinieri vale lo stesso meccanismo dei magistrati e degli avvocati. L'ignoranza totale sarà l'alleata più fedele dell'organizzazione. Nell'eventualità che il poliziotto inizi a capire qualcosa, verrà trasferito o, in casi estremi, ucciso, facendo passare l'omicidio per un suicidio, ovviamente. La stupidità, la paura, l'ignoranza dei colleghi attorno a lui, farà sì che nell'ambiente non si avrà il minimo sospetto, e quelli che sospetteranno staranno zitti perché, in fondo, loro devono sempre mantenere la famiglia.

8. I criminologi. I criminologi svolgono un ruolo chiave in tutta la vicenda. La letteratura criminologica di base, ad esempio, non considera mai il problema delle sette. Le sette, se ci sono, sono composte da sbandati disorganizzati. Le organizzazione esoteriche più diffuse non sono neanche menzionate. In molti manuali di criminologia ho addirittura trovato scritto che veri e propri delitti satanici, nel mondo, non se ne sono mai registrati (ignorando quindi a bella posta anche casi famosi e ufficiali come quelli di Sharon Tate o delle Bestie di Satana). Il delitto esoterico e/o rituale, invece, non è neanche menzionato. Come abbiamo già evidenziato in passato, il più diffuso manuale di classificazione dei crimini, ovverosia il manuale ufficiale di studio alla FBI, non conosce la voce “delitto rituale” (cioè non conosce il delitto più frequente nella nostra società) ma in compenso conosce quello dell’ “omicidio sessuale di donna anziana” (che è statisticamente rarissimo). Basti pensare che nei delitti del Mostro di Firenze molti “esperti” continuano a proporre il profilo steso a suo tempo dall’FBI, che indicava in un serial killer isolato l’assassino, e ignorano invece il rapporto che stese Francesco Bruno (che parlava di delitti esoterici). Se poi qualcuno fa cenno ad elementi esoterici, si prendono in considerazione falsi elementi; nei delitti del Mostro di Firenze si presero come indici di un delitto esoterico le famose piramidi tronche trovate sul luogo di alcuni delitti, e non tutti gli altri indizi più importanti (nomi delle vittime, date, posizione dei pianeti, nomi dei luoghi, ecc.). Ad esempio nel delitto di Carmela Rea, se non vado errato, la zona dell'omicidio è vicina al Monte di Rosara e al Dito del Diavolo, mentre il luogo del ritrovamento credo si chiami "Montagna dei Fiori". Nella vicenda Rea, uno dei soliti esperti intervistati, Massimo Picozzi, che finora è l'unico ad aver parlato di un delitto rituale, si è affrettato ad aggiungere "delitto rituale sì... ma di una sola persona". Una sola persona così forte da poter rapire da sola Carmela, e poi riportarla da morta in un luogo distante 18 km da quello del ritrovamento. Un superman insomma. In conclusione, tra i criminologi le persone davvero ignoranti sono poche, perché, dopo qualche anno, a meno che il soggetto non sia poco intelligente, comincia a capire che qualcosa non quadra nelle teorie criminologiche più diffuse, e inizia a farsi qualche domanda in più. Ho parlato con un medico legale che reputo molto in gamba, il quale mi ha detto: "vedi Paolo, quando i giornali parlano di un suicidio con una busta di plastica in testa, è al 100 per cento un omicidio. Quando parlano di un suicidio e la persona tocca con le ginocchia per terra, è al 90 per cento un omicidio. Ma la maggior parte dei miei colleghi ha paura, oppure è stupida, e crede davvero alle stronzate che gli dicono di dire".

9. I mass media. Il ruolo dei mass media è ovviamente il più delicato. Anche qui però la maggior parte dei giornalisti o cronisti sono inconsapevoli del reale sistema che c’è alla base. La maggior parte dei giornali si limita a riportare pedissequamente le veline che le questure selezionano personalmente. I pochi giornalisti che fanno realmente un’inchiesta dopo un po’ vengono minacciati, esclusi, allontanati. La maggior parte dei giornalisti, quindi, scrive solo quel che i padroni impongono e non rischia più di tanto. La prima volta che un giornalista si avvicina ad un delitto rituale, poi, non è mai in grado di riconoscerlo, e neanche le successive. Per farlo dovrebbe essere un esperto di esoterismo, cosa che la maggior parte dei giornalisti non è. A meno che, ovviamente, non faccia parte del sistema, nel qual caso non c’è pericolo che scriva davvero la verità. Le persone coinvolte a pieno titolo nell’organizzazione sono solo i giornalisti che si occupano in modo sistematico di tali delitti perché, a meno che non siano poco intelligenti, diventa impossibile dopo anni di giornalismo investigativo non fiutare una pista diversa e unitaria a fronte di una serie così incredibile di coincidenze in delitti troppo diversi da loro. Quelle sono spesso le menti dell’organizzazione stessa o comunque sono tra le persone con gli incarichi più importanti all’interno della Rosa Rossa. Il risultato finale di questa combinazione tra ignoranza, paura e complicità, è che i mass media svolgono l'importantissimo ruolo di depistare l'opinione pubblica, focalizzando tutte le discussioni su punti secondari, inutili e depistanti delle vicende, e allontanarla dalle domande reali. Nel caso di Carmela Rea, ad esempio, tra giornali e telegiornali ho ascoltato le seguenti bestialità:

- pista camorristica.

- pista del serial killer o del movente passionale, entrambe basate sul nulla più assoluto quanto a indizi.

Inoltre i giornali hanno dato i seguenti particolari:

- Carmela Rea aveva sofferto di depressione post partum (particolare assolutamente ininfluente per capire il movente di un omicidio);

- era una donna bellissima; particolare in teoria importante, ma solo dopo che si sia stabilito che effettivamente abbiamo a che fare con un serial killer, altrimenti il particolare è rilevante quanto il numero delle scarpe;

- in paese tutti la stimavano, si giravano a guardarla, e la coppia si voleva molto bene.

In compenso si trascurano i seguenti particolari:

- i numerosi indizi di ritualità;

- il fatto che il marito sia un militare e che il cadavere sia stato ritrovato in una zona militare; coincidenza non da poco, su cui si è soffermato solo il criminologo Francesco Bruno, sia pure con una teoria abbastanza inconsistente, all'acqua di rose (e il doppio senso non è casuale ma voluto);

- il fatto che il cadavere sia stato trovato in una zona militare; nessuno si domanda se non sia possibile, ad esempio, acquisire le riprese effettuate dai satelliti militari che monitorizzano continuamente le zone militari, per vedere se sia possibile individuare l'assassino (più probabilmente gli assassini) nel momento in cui ha lasciato il cadavere o addirittura nel momento in cui ha rapito la donna;

- il fatto che il rapimento sia avvenuto di giorno, e che il cadavere sia stato ritrovato a diversi km di distanza dal luogo del rapimento, indica la possibilità che l'operazione sia stata effettuata da un gruppo addestrato e organizzato, essendo quasi impossibile, e troppo rischioso, compiere tutto ad opera di una sola persona.

Ma questa ipotesi non è formulata da nessuno. Perché una simile ipotesi, se fosse formulata ufficialmente, porterebbe la gente a farsi delle domande troppo scomode e terribili. Quale gruppo ha un potere del genere, di poter uccidere impunemente facendola in barba alle autorità? E se questo gruppo fosse dietro anche ad altri omicidi? Domande che nessuno si deve porre. E a rincintrullire completamente lo spettatore, oltre alle cazzate dei soliti criminologi e alla musica da film (come se stessimo assistendo all'ultimo film di Dario Argento, e non ad una storia vera), oltre agli scenari da grande spettacolo tipico della TV, alle facce tristemente assorte dei conduttori che in realtà non vedono l'ora che l'organizzazione dalla quale dipendono, consapevolmente o no, regali loro un altro omicidio possibilmente più efferato possibile, contribuiscono le pubblicità e le demenzialità che intervallano questi programmi; Chi l'ha visto, Quarto Grado, Blu Notte, intervallano demenzialità criminologiche ad anteprime del prossimo Grande Fratello, pubblicità di prodotti di soia transgenici, dentifrici rigorosamente al fluoro, e magari anche un mutuo, rigorosamente Compass, ovviamente. E lo spettatore, completamente rincoglionito, non si accorge che spesso i mandanti sono quelli che compaiono in TV e che il pubblico televisivo talvolta adora.

10. Conclusioni. In conclusione, il sistema della Rosa Rossa e degli omicidi rituali si regge in piedi non perché la maggior parte dei poliziotti, giornalisti, magistrati, avvocati, sia effettivamente nella Rosa Rossa. Ma si regge per l'ignoranza, la stupidità, la paura, i soldi. Ciascuna delle persone chiamate a vario titolo in un'indagine, spesso conosce solo una minima parte della verità e non ha la minima idea del sistema in cui è inserito: qualcuno si limita ad insabbiare un particolare, qualcuno a taroccare una perizia, qualcun altro a seguire una pista anziché un'altra, senza però avere un quadro complessivo della vicenda. L'ignoranza e la paura sono le due componenti più importanti del sistema in cui viviamo.

L'omicidio massonico. Lo schema generale dei vari delitti, scrive Paolo Franceschetti.

1) Premessa. Delitti mediatici e delitti non mediatici. Occupandomi da anni di delitti vari, mi sono reso conto che spesso sono rituali non solo gli omicidi mediatici, cioè quelli di cui si occupano quotidianamente i mass media, ma moltissimi omicidi secondari di cui non parla nessuno. La domanda che mi sono posto è: con quale criterio vengono scelti e selezionati i delitti che poi saranno dati in pasto ai media? Ogni delitto rituale ha un suo movente specifico di natura esoterica e umana, ha poi come è ovvio degli esecutori, e spesso dei mandanti ben precisi. Sono molte le madri che hanno ucciso i figli, ma nessun altro ha avuto il rilievo del delitto di Cogne; molti i delitti satanici, ma solo quelli delle Bestie di Satana sono stati presi in considerazione; molti i genitori uccisi dai figli, ma solo Erika e Omar e Pietro Maso hanno ammorbato le cronache per anni; molti i bambini che scompaiono, ma solo Yara Gambirasio e Sarah Scazzi di recente hanno avuto un tale interesse. Moltissime anche le donne uccise da mariti, fidanzati e amanti. Solo nel 2008 sono state 113 le vittime, e alcune sono state uccise con modalità (tagliate a pezzi, uccise a colpi di machete, ecc...) da meritare molta più attenzione rispetto ai delitti cui i media ci hanno abituato. Ad esempio pochi anni fa a Nereto venne ucciso a colpi di ascia un noto avvocato insieme a sua moglie, in casa sua; dal punto di vista oggettivo, per gli appassionati di gialli, sarebbe molto più interessante indagare su questo caso piuttosto che sorbirsi continuamente nuove rivelazioni di Michele Misseri, o ascoltare le ultime news sugli amori di Salvatore Parolisi. A Lodi, ad aprile del 2011, è stato ritrovato un cadavere a pezzi, completamente mutilato, ed era l’ennesimo di una lunga serie. Chi uccide queste persone in questo modo e perché? In Abruzzo, due anni fa circa, ricordo l’omicidio di una ragazza di nome Rosa De Rosa, trovata sulla riva di un lago. Nessun accenno di interesse da parte dei media. Nulla di nulla anche sul caso della donna trovata decapitata e priva degli organi interni di recente, a Roma. La domanda allora è: come vengono scelti i delitti che poi faranno spettacolo? E perché? Tra l’altro è facile notare che quando un evento è destinato a catturare l’interesse dei media per anni, giornali e TV ci si gettano a capofitto in anticipo, ancora prima di sapere se dietro ad esso ci sia un delitto o meno. Per Yara Gambirasio e Sarah Scazzi, ad esempio, i media si sono buttati a pesce sulla vicenda quando le due minorenni erano solo scomparse e in teoria avrebbero potuto anche tornare con un fidanzato dopo una fuga d’amore; per il delitto di Cogne, quando ancora la madre non era sospettata e si pensava ad un incidente, già tutti i media nazionali se ne occupavano; idem per il delitto di Novi Ligure e tutti gli altri. In altre parole, i media sanno già in anticipo quali sono gli eventi di cui dovranno occuparsi e tralasciano volutamente gli altri. La domanda è: con quali criteri vengono scelti i delitti? Osservando lo schema generale dei delitti mediatici se ne trae un quadro complessivo particolare e si può avere la risposta.

2) Lo schema generale. Gli assassini. Osservando i delitti mediatici di questi anni si può notare che lo schema è quello che stiamo per esporre. In primo luogo, gli assassini appartengono sempre a categorie uniche. Ovvero abbiamo:

- una madre che uccide il figlio (delitto di Cogne; saranno molte altre le madri ad uccidere i figli, ma nessuna arriverà agli onori della cronaca con tanta veemenza);

- una figlia che uccide i genitori (Erika);

- un figlio che uccide i genitori (Pietro Maso);

- i vicini di casa (delitto di Erba);

- una setta satanica (Bestie di Satana);

- uno zio e una cugina (Michele Misseri e Sabrina Misseri);

- compagni di unversità (delitto Meredith);

- un fidanzato (Alberto Stasi nel delitto di Garlasco);

- un marito (Salvatore Parolisi);

- poliziotti (delitti della Uno Bianca);

- un serial killer (Pacciani e i compagni di merende).

Non ricorre mai due volte la stessa tipologia di assassino, ancorché le cronache minori e locali siano piene di delitti satanici, di omicidi tra parenti, ecc. Anche i delitti commessi da appartenenti delle forze dell’ordine sono diversi; si va dal generale dei carabinieri Ganzer, condannato per traffico di droga, a vicende mai definite, come quella di Milica Cupic, la cui figlioletta di sei anni è stata uccisa a botte dal marito, generale dell’esercito. Eppure nulla di nulla compare nelle cronache (la vicenda di Milica Cupic è stata oggetto di una interrogazione parlamentare e solo questa settimana ha deciso di occuparsene il settimanale Cronaca Vera, uno dei pochi giornali ad occuparsi anche di delitti secondari). Un mio amico ex poliziotto mi ha raccontato di una volta in cui un’intera caserma della polizia fece irruzione in un’altra caserma, dove stanziavano decine di poliziotti dediti a traffici di droga e altri delitti; i poliziotti furono tutti arrestati ma non se ne seppe più nulla e sui giornali non trapelò alcuna notizia. Occasionalmente arrivano alla cronaca anche delitti come quello di Via Poma, o di Emanuela Orlandi, o delitti clamorosi come la strage in Vaticano del 1993; qui però l’importanza dell’evento è data più che altro dalla valenza politica dell’evento e infatti in questi delitti non esiste un colpevole definito fin dall’inizio. Al contrario, nei delitti che abbiamo elencato c’è un colpevole definito sin dalle prime battute dell’inchiesta, e la vicenda segue sempre la stessa sequenza: iniziale incertezza; individuazione del colpevole; spesso il colpevole confessa ma poi ritratta; dubbi, contraddizioni, colpi di scena; sentenza finale.

3) Il perché della scelta. La valenza sociologica dei delitti. Il messaggio positivo. A questo punto, riflettendo, si può capire il criterio con cui vengono scelti i delitti. Dal momento che il bombardamento mediatico è talmente eccessivo che qualsiasi cittadino non può sfuggire al recepimento della notizia, tali delitti servono per inoculare inconsciamente la paura. La TV è infatti un enorme mezzo di manipolazione delle masse, perché manipola la mente. Anche le persone più evolute, infatti, sotto sotto pensano che i personaggi famosi sono quelli televisivi; e se una cosa viene veicolata in TV è senz’altro un evento di rilievo. Va da sé che, al contrario, le notizie che non vengono passate in TV non sono importanti; ma la mente non si accorge di queste manipolazioni. Il rilievo dato a queste notizie si instilla nel subconscio, e qui nasce la paura. Paura del vicino di casa, paura di mandare i figli all’università, paura dei parenti. Anche tra le persone non interessati a delitti, sangue e gialli vari, circolano comunque battute standard sui vicini di Erba, quando il coinquilino del pianerottolo fa troppo casino, o sul delitto di Cogne, se il figlio rompe troppo le scatole. La paura è sottile, quasi impercettibile; ma essa si aggiunge a tutte le altre paure che, grazie al sistema in cui viviamo, ci vengono inculcate fin da piccoli; paura di perdere il posto di lavoro, paura della tasse, dei controlli della finanza, paura della malattia, ecc. Mi resi conto di quanto sia potente il condizionamento mediatico a seguito di un evento capitatomi questa primavera; in quel periodo un lettore mi telefonava dandomi in anticipo notizia che poi si sarebbero rivelate esatte (come l’uccisione di una persona di nome Angelo, cosa che poi successe due giorni dopo, quando fu ucciso con un colpo di fucile al cuore un certo Angelo Lolli; ma anche altre e più precise furono le notizie che costui mi anticipò). Dopo avermi dato alcune notizie esatte mi disse che il giovedì successivo avrebbero ucciso anche a me; quando gli chiesi come e chi, mi disse “saranno degli extracomunitari, che fingeranno una lite e ti accoltelleranno”. La notte successiva – mi pare fosse il martedì – i miei vicini di casa (africani) alle tre di notte facevano un casino inimmaginabile recitando delle formule strane in modo rituale, tanto che quella notte Stefania non riuscì a dormire. La mattina andai a chiedere ad altre persone del vicinato chi erano e cosa facessero e rimasi abbastanza stupito di scoprire che la mia vicina si chiama proprio Rose (sottolineo che nello stabile dove abito ci sono solo due appartamenti, il mio e il loro). Raccontando la curiosa coincidenza ai miei amici, il primo commento di tutti fu: “Beh, meglio che giovedì dormi da un’altra parte; ricordati il caso dei coniugi di Erba”. In questa occasione, come ho detto, ho preso consapevolezza della potenza della manipolazione mediatica, perché credo che senza il precedente della strage di Erba nessuno si sarebbe preoccupato di questa cosa, e io probabilmente avrei dormito a casa mia in tutta tranquillità, mentre invece scelsi di andare a dormire da Solange per essere più tranquillo, pur sapendo che la telefonata era una bufala architettata solo per impressionarmi (essendo già la terza volta che mi facevano uno scherzo simile). Inutile aggiungere che mi guardai bene dall’andare a protestare dai vicini per il casino, e ho optato per dei più pratici tappi alle orecchie. Questi omicidi, insomma, hanno varie valenze e vari moventi. Ma la ragione per cui la TV è infestata ad ogni ora del giorno con i particolari più idioti e inutili di alcuni delitti, è che veicolano nell’inconscio la paura.

4) La valenza sociologica. Il messaggio negativo. A questo obiettivo (veicolare la paura) se ne aggiunge un altro. Risulta abbastanza evidente come la tipologia dell’omicida sia sempre quella di un analfabeta, grezzo e ignorante, salvo i casi in cui vengano coinvolte persone in giovane età e senza una collocazione lavorativa particolare. Infatti:

Pacciani era un contadino ignorante e i suoi compagni di merende erano pure peggio;

Anna Maria Franzoni una casalinga;

Rosa Bazzi e Olindo Romano sono rispettivamente una casalinga e un netturbino;

Michele Misseri non riesce a spiccicare due parole in croce;

Salvatore Parolisi è un sottufficiale abbastanza ignorante, a giudicare dal modo di parlare;

i ragazzi coinvolti nella vicenda delle Bestie di Satana erano rockettari senza arte né parte, coi capelli lunghi e ai margini della società (così ce li hanno presentati).

Le persone un po’ più istruite, quindi Alberto Stasi, Pietro Maso, ecc., sono tutti privi di un lavoro e in età scolare. In altre parole, tra gli omicidi non compaiono architetti, ingegneri, avvocati, magistrati, professori universitari, medici, ecc. Eppure di delitti commessi dai cosiddetti “colletti bianchi” ne abbiamo diversi; c’è il caso del professore universitario di Pisa che ha ucciso la moglie (professoressa universitaria) a martellate, ha confessato, non ha fatto un giorno di galera, e per giunta, quando è finito il processo che l’ha assolto, ha chiesto anche la pensione come vedovo (per fortuna il parlamento, ad agosto, ha approvato la legge 125 2011 che nega la pensione di reversibilità al coniuge omicida). Non un cenno a questo caso su giornali e TV, e il professore in questione continua ad insegnare all’università. Così come nessun cenno hanno fatto i TG e i giornali all’emanazione di questa legge, forse per il timore di dover spiegare, poi, che oltre ai delitti di Sarah Scazzi e Yara Gambirasio, ci sono in Italia situazioni altrettanto gravi e che meriterebbero molta più attenzione. Ci fu a suo tempo il caso del PM Pier Luigi Vigna, indagato per essere tra gli esecutori dei delitti del Mostro di Firenze, ma il cui individuamento portò allo smantellamento della SAM, e alla promozione del procuratore a capo della DIA, la direzione investigativa antimafia. Ma per i media queste categoria di persone non commettono omicidi. Chi uccide sono solo casalinghe, operai, disoccupati, e al massimo qualche studente, preferibilmente con la passione dell’hard rock e meglio ancora se iscritto a Forza Nuova o a qualche gruppo di estrema destra e/o sinistra. Come abbiamo detto, infatti, la manipolazione mentale effettuata dai media agisce anche in negativo, nel senso che non ci fa percepire ciò che la TV e i giornali non dicono. Quindi non abbiamo paura dei magistrati, degli avvocati, dei medici, ecc. Perché quelli – è il messaggio impresso nel subconscio – non delinquono. Nella mia attività quotidiana mi capita spesso di sentir dire “ma come fai a dire questo di Tizio o Caio? E’ un professionista stimato...”, come se professionista fosse sinonimo di persona perbene. All’opera di manipolazione mentale effettuata dai media e dai film, contribuiscono anche il cinema e la fiction in generale, ove regolarmente in telefilm come RIS, La Squadra, Carabinieri, ecc... vengono presentate forze dell’ordine eccezionali ed efficientissime, avvocati onesti, medici quasi sempre per bene, ecc. Se fino agli anni ’80 il cinema era ancora, talvolta, occasione di denuncia (vedi ad esempio i film di Pasolini, o il famoso “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, o anche “Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica”), attualmente il cinema si è rammollito attorno stereotipi convenzionali e, anzi, in alcuni casi presenta delle versioni dei fatti totalmente edulcorate e depistanti (scandalosi ad esempio, sono i film prodotti dalla Taodue, come quelli sulla Uno Bianca, su Riina, ecc., dove la realtà è sempre artefatta ed edulcorata). Questa immensa opera di manipolazione di massa ha dei risultati a dir poco comici. Qualche giorno fa in una nota trasmissione TV venivano ipotizzate nuove piste su una serie di delitti di diversi anni fa e uno degli esperti era proprio uno degli assassini; sempre recentemente, a proposito del delitto della donna decapitata a Roma, la Rai ha intervistato in qualità di esperto una delle persone che è al vertice delle sette sataniche italiane ed europee, considerato una delle persone più pericolose in Italia, il quale ovviamente ha escluso la pista satanica, dicendo che il satanismo è un fenomeno marginale e quasi inesistente in Italia. Senza arrivare al paradosso di un giudice Vigna che indaga sui delitti commessi da lui stesso e dai suoi compagni, o dei fratelli Savi che intervengono sulla scena degli omicidi commessi da loro stessi poche ore prima, il vero colpo di genio è quello di far intervenire gli assassini in qualità di esperti e consulenti; perché, dal momento che nessun romanziere è mai arrivato a tanto, e in TV una realtà del genere non è mai stata ipotizzata, la mente di chi guarda la TV non è pronta ad una cosa così grave.

5) Conclusioni sul potere dei mass media. Normalmente, infatti, quando dico queste cose, l’ascoltatore medio trasale e pensa che sia una realtà troppo assurda per poter essere vera. Inaudito pensare che i colpevoli di certi delitti siano i politici, i giornalisti, i magistrati famosi. Inaudito, sì. A rifletterci bene, però, non ci rendiamo conto di una cosa. Molti di noi sono pronti ad accettare che l’11 settembre se lo siano confezionato gli Americani da soli per poi avere il pretesto di scatenare diverse guerre inutili. In altre parole, sappiamo che alcune persone ai posti di comando hanno dapprima ucciso deliberatamente migliaia di persone, per poi ucciderne altri milioni, senza alcun motivo reale. Sappiamo che le stragi di Stato, da Portella Delle Ginestre ad Ustica, passando per la strage di Bologna e altre, sono state tutte preparate, commissionate ed eseguite dai nostri servizi segreti, e quindi da uomini dello Stato, che poi indagavano sui delitti da loro stessi commessi. Molti di coloro che hanno commissionato quei delitti, da Andreotti a Cossiga, impunemente hanno poi governato l’Italia, sono andati ai funerali delle vittime uccise per loro volontà, hanno rimosso poliziotti e magistrati che indagavano troppo seriamente. E questo lo sappiamo bene oramai. Sappiamo che degli ex avvocati di mafia siedono in parlamento e fanno leggi sulla quella stessa mafia che loro hanno difeso in precedenza per decenni. Pur sapendo tutto questo, ci stupiamo se lo Stato decide di uccidere Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Carmela Rea, o le vittime di Firenze, per poi indagare su di loro e non scoprire nulla. Eppure dovrebbe in realtà essere meno grave il delitto di una singola persona rispetto allo sterminio sistematico di intere popolazioni. Ciò si deve al lavaggio del cervello cui siamo sottoposti, che ci fa accettare di buon grado una guerra ma fa si che non siamo disposti ad accettare la verità sui delitti rituali. Come diceva Pasolini: “Niente di più feroce della banalissima televisione”. Umberto Eco scrive nel suo “Il nome della rosa”: “I libri si parlano tra loro, e una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi”. Quello che vuole dire Eco, a mio parere, è che i colpevoli sono loro, gli esperti TV, gli uomini famosi, i romanzieri. Ma questo non verrà mai provato. Perché la vita che viviamo non è un romanzo ma la realtà.

Massoneria e Rosa Rossa dietro l'omicidio di Marco Pantani: ipotesi shock nel libro di Franceschetti, scrive “L’Infiltrato”. Cosa c’è realmente dietro i delitti più importanti della storia giudiziaria italiana e internazionale? Dal mostro di Firenze alle Bestie di Satana per passare da Erba, Cogne e Garlasco. Fino a quello di cui si parla in questi giorni: l'omicidio, perchè di omicidio si tratta, di Marco Pantani. Paolo Franceschetti in questo libro offre un quadro della società in cui viviamo, molto diverso da quello che ci appare attraverso le fonti ufficiali di informazione. In particolare si parla di come i media condizionino e falsifichino vicende giudiziarie importanti, di omicidi eccellenti, da Pantani a Rino Gaetano, o Pier Paolo Pasolini, per toccare anche il caso Moro e altri casi importanti della storia Italiana, al fine di delineare un quadro sconvolgente della realtà effettiva, di cui non si parla. Tra le pagine di questo saggio si sviluppa un’analisi impeccabile e reale in materia di massoneria, Chiesa cattolica, e sistema in cui viviamo. Una particolare attenzione è dedicata alla potente organizzazione magica fondata ufficialmente da A. E. Waite: L’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’Oro, vero responsabile dei casi  più illustri della nostra storia.  Si dipana così una matassa intricata ma affascinante, che ci porta a conoscere una realtà che pare fantascientifica ai più, ma purtroppo molto più reale e concreta di quella, falsa, edulcorata e manipolatoria, che ci offrono i giornali, i libri, la Tv e la cultura ufficiale.  L’autore Paolo Franceschetti, avvocato, docente di materie giuridiche, ha pubblicato libri e articoli in materia giuridica (diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo), per poi specializzarsi come legale nel settore dei delitti esoterici e approfondire l’influenza della massoneria e della Chiesa Cattolica nella storia contemporanea e passata. Occupatosi per ragioni personali dei delitti del Mostro di Firenze, per poi divenire legale di Paolo Leoni, indicato dai media come il capo delle cosiddette Bestie di Satana, insieme a costui (e grazie a costui) ha intrapreso uno studio approfondito delle dinamiche pratiche, sociali, ed esoteriche di alcuni delitti di matrice massonica o cattolica.

Il libro è Massoneria e Ordine della Rosa Rossa: il sistema di controllo in cui viviamo e le connessioni con il Vaticano.

E non finisce qui. Massoni nell’inchiesta Mose? Interrogazione M5s su Galan. Richiesta di chiarimenti ad Alfano: «Chi sono i “fratelli” magistrati e poliziotti» Ieri la moglie ha visitato in carcere a Opera l’ex ministro e governatore veneto, scrive Daniele Ferrazza su “Il Mattino di Padova”. Un abbraccio, un lungo silenzio, molte domande sulla piccola Margherita, la figlia di sette anni per la quale papà «è in viaggio per lavoro». Sandra Persegato, la moglie di Giancarlo Galan, ha incontrato in carcere il marito, detenuto nel carcere di Opera, alle porte di Milano. Si è trattato del primo incontro tra Galan e la moglie dalla sera del suo traumatico arresto, il 22 luglio scorso, a poche ore dall’autorizzazione votata dalla Camera. Sandra Persegato si è recata a Opera accompagnata dalla cognata, Valentina Galan: i magistrati infatti hanno autorizzato alle visite, oltre alla moglie, solo la sorella e l’anziana madre dell’ex ministro. Per il politico, dopo lo stop del Tribunale del Riesame alla scarcerazione, si tratta di attendere l’esito del ricorso in Cassazione che i suoi legali stanno predisponendo. Ma appare evidente che per l’ex ministro ed ex governatore, che si muove in stampelle in una stanza della clinica del penitenziario di Opera, le porte del carcere si riapriranno non prima del prossimo ottobre. Una lunga carcerazione preventiva, dunque, che rischia di mettere a dura prova lo stato d’animo dell’ex ministro. L’incontro tra Galan e la moglie si trova in carcere, è durato poco più di un’ora. Saltano sul caso di Galan iscritto alla massoneria, invece, i deputati veneti del Movimento 5 stelle Arianna Spessotto, Emanuele Cozzolino, Francesca Businarolo, Marco Brugnerotto, Federico D’Incà, Diego De Lorenzis, Marco Da Villa e Silvia Benedetti. In una interrogazione rivolta al ministro dell’Interno Angelino Alfano, i parlamentari grillini sottolineano come l’appartenza di Galan alla loggia Florence Nightingale di Padova, sia circostanza alquanto «curiosa»: «l'inchiesta penale veneziana sul Mose sta delineando un quadro fosco e preoccupante di intrecci tra funzionari pubblici corrotti e concussi, politici e imprese corruttrici, uomini di assoluto rilievo dei servizi segreti e delle forze di polizia, quasi una sorta di polizia parallela, infedele che ostacolava le indagini dei pubblici ministeri veneziani; non si può escludere l'esistenza di una rete pervasiva e devastante operante in Veneto, per la copertura e il depistaggio sulle gravi violazioni penali seriali condotte per l’affaire Mose; l'appartenenza del Galan alla massoneria non può non destare molta preoccupazione in relazione all'eventuale appartenenza alle logge di funzionari pubblici e in particolare appartenenti alle Forze armate, Guardia di finanza e Arma dei carabinieri, con funzioni di polizia e di polizia giudiziaria, e inoltre alla magistratura; in effetti l'affiliazione alla massoneria di un magistrato o di ufficiale di polizia giudiziaria preclude di per sé l'imparzialità (secondo la Cassazione, «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi ad interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia»). I deputati del Movimento 5 stelle, pertanto, chiedono al ministro «se non ritenga opportuno acquisire elementi presso le prefetture per verificare, presso gli appositi elenchi, se risulti la presenza di affiliati alle logge massoniche di magistrati e appartenenti alle Forze armate con compiti di polizia». I grillini sollecitano «iniziative disciplinari urgenti, ove ne sussistano i presupposti, nei confronti di magistrati e appartenenti alle Forze armate per i quali si verifichi l'eventuale sovrapposizione di appartenenza a logge massoniche e di sottoposizione ad avviso di garanzia per reati attinenti allo scandalo Mose».

Governatore e massone. «Nessun favore ai fratelli. Ora lo giudichino i veneti». Parla con Giovanni Viafora su “Il Corriere della Sera”il Gran Maestro Stefano Bisi, 56 anni, toscano, eletto al vertice della fratellanza lo scorso marzo: «Lui si è autosospeso». Giancarlo Galan è stato per 15 anni un «governatore- massone» (ma poi, se vogliamo, anche un «ministro-massone). Da una parte governatore del Veneto (e membro del governo), dall’altra «libero muratore », affiliato a una delle logge padovane del Grande Oriente di Italia (Goi), l’ordine iniziatico più antico e più importante del Paese. Solo lo scorso 6 giugno, proprio all’indomani degli arresti del Mose, ha chiesto ai suoi fratelli di «entrare in sonno», cioè di allontanarsi dall‘«obbedienza ». Oggi, alla luce di quanto si è appreso, gli interrogativi e i dubbi ovviamente non mancano. Abbiamo voluto interpellare direttamente la più alta autorità del Goi, il Gran maestro Stefano Bisi, 56 anni, toscano, eletto al vertice della fratellanza lo scorso marzo. Che ha concesso di farsi intervistare.

Galan è stato governatore e allo stesso tempo massone: un cittadino veneto, oggi, cosa dovrebbe pensare?

«Galan doveva fare esclusivamente il bene della sua Regione. Se poi l’abbia fatto o meno questo lo devono giudicare i veneti, non il Gran maestro».

La prima cosa che si può ritenere, tuttavia, è che nel suo ruolo politico l’ex governatore potesse favorire uno dei suoi «fratelli». Dalle nomine in sanità agli appalti...

«Favorire l’uno o l’altro vorrebbe dire violare le leggi e il massone quando viene ammesso promette fedeltà alla Costituzione. Deve sempre essere premiato colui che ha le caratteristiche migliori, che sia un primario o un ingegnere. Non dev’essere favorito quello della tua stessa appartenenza; ma questo discorso dovrebbe avvenire per tutte le associazioni».

A scanso di equivoci, non sarebbe meglio che un politico rendesse nota la sua affiliazione alla massoneria?

«In Toscana c’è già una legge che va in questo senso. Ma noi riteniamo che sia una legge liberticida ».

Si dice che la massoneria sia in grado di gestire ancora ampie aree di potere. È così?

«Cosa vuol dire gestire il potere? Quando un fratello entra non gli si chiede se sia un parlamentare o un ministro; ma gli si domanda solo di essere libero e di buon costume, di avere sensibilità. E deve dichiarare di credere ad un essere supremo».

Ma quindi cosa significa essere massoni?

«Prima di tutto ascoltare gli altri, nelle nostre logge si impara a parlare uno alla volta. Può sembrare una banalità, ma nel giorno d’oggi vedere un gruppo di persone che fanno i lavori più disparati, dal professore all’imbianchino, trovarsi a parlare uno per volta è una cosa rivoluzionaria. La massoneria è un metodo».

Ma di cosa parlate?

«Gli argomenti sono i più disparati, ma soprattutto si studiano i simboli. La finalità è quella di lavorare per la crescita interiore e per il bene dell’umanità».

Ma perché gli incontri sono segreti?

«Alle riunioni rituali partecipano solo i fratelli massoni, ma come fa qualsiasi associazione di uomini. Per altro, se un profano partecipasse a queste riunioni probabilmente non capirebbe, gli sembrerebbe di essere in un mondo non suo. Negli ultimi tempi, comunque, abbiamo deciso di fare incontri anche pubblici: ne ricordo uno importante per esempio a Padova nel 2011, eravamo al caffè Pedrocchi (in prima fila quella volta c’era l’ex rettore del Bo Vincenzo Milanesi, ndr)».

Anche Galan partecipava ai rituali?

«Sono obbligatori, la nostra fratellanza si basa sui riti». E cosa si fa durante i rituali? «Bisogna indossare i guanti bianchi, ma poi è difficile spiegarlo. Un attore potrebbe mimare un rituale perfetto, ma senza che ci sia comprensione il suo gesto non significa nulla».

L’ex governatore aveva un grado particolare all’interno dell’«obbedienza»?

«Da noi ci sono tre gradi di appartenenza: apprendista, compagno d’arte e maestro. Vista l’anzianità di affiliazione Galan sarà stato maestro. Ma di maestri ce ne sono 14mila su 22mila fratelli...».

In Veneto quanti siete?

«Ci sono 18 logge, 5 solo a Padova e due ad Abano. In tutto circa 500 fratelli».

E ci sono altri politici?

«Non chiedo a un mio fratello a quale partito appartiene».

Cosa succederà ora a Galan all’interno della massoneria?

«Lui ha deciso di entrare in sonno, cioè di allontanarsi. Il suo caso verrà esaminato, ma la questione è già risolta. In un certo senso si è già autosospeso».

La Massoneria del terzo millennio. Archiviato il ventennio berlusconiano, gli affiliati alle obbedienze italiane cercano nuovi referenti politici. Simboli esoterici e vecchi riti rimangono, ma ci si apre al web, con Twitter e Facebook, guardando con speranza a Papa Francesco affinché faccia cadere la scomunica sancita nel 1738 da Clemente XII. Ma a fronte del tentato rinnovamento, restano le ombre sollevate dalle inchieste della magistratura sul peso avuto dalle logge in alcuni passaggi cruciali della storia recente d'Italia. Macchie talmente pesanti che stanno spingendo a rimuovere la memoria del passato massone di un'icona come Giuseppe Garibaldi. Una inchiesta di Alberto Custadero su “La Repubblica”.

La svolta social delle Obbedienze. Anche la Massoneria diventa social. I Fratelli han deciso di uscire dal segreto delle logge e presentarsi nel mondo condiviso del Web. È il caso, ad esempio, del Grand'Oriente d'Italia, principale "obbedienza" con ventimila affiliati (riferimento al mondo inglese, porte delle logge aperte per soli uomini). L'Istituzione ha un sito ufficiale online. Ed è presente su Twitter con l'account @grandeoriente. Mentre il suo gran maestro, Stefano Bisi, twitta in prima persona firmandosi @bisisiena. Anche i "cugini" della Gran Loggia d'Italia degli Alam (riferimento al mondo francese, 520 Officine, 10mila iniziati sia uomini che donne), non sono meno social. Il sito è granloggia.it, hanno da un anno una omonima pagina Facebook che ha incassato un migliaio di "mi piace" e 26 visite (non molte, ma sono solo all'inizio). Mentre il gran maestro uscente, il massonologo e scrittore Luigi Pruneti, è presente personalmente su Facebook: la sua foto campeggia su uno sfondo (non casuale) di uno dei 22 arcani dei Tarocchi: il Sole, simbolo della luminosità. Ma anche della massoneria. La Gran Loggia è presente anche su Twitter, con un migliaio di follower. Oggi molti profani che vogliono essere iniziati, contattano questa "obbedienza" attraverso il sito, inviando alla mail gldi@granloggia.it la richiesta di essere invitati in loggia. Una autentica rivoluzione, rispetto ai tradizionali riti di "cooptazione" riservatissimi, fatti quasi di nascosto. Ma sotto le "volte stellate" delle logge italiane, si sta vivendo un momento di gran fermento politico e sociale. I temi in gioco, dal punto di vista massonico, sono molti. E delicati. Dal riposizionamento politico dopo la fine del ventennio berlusconiano all'arrivo al soglio pontificio di un papa gesuita e "rivoluzionario" che fa sperare i massoni che venga tolto il divieto secolare, per loro, di ricevere la comunione. Dall'aumento dei giovani che chiedono di entrare in loggia alla riflessione da parte delle "obbedienze" di matrice anglosassone se sia ancora attuale, oggi, in una società che si tinge sempre più di rosa, l'esclusione delle donne. 

Alla ricerca di un referente politico. All'inizio del 1900 i massoni in Parlamento erano cento e prendevano pubblicamente posizione sui temi politici, come avvenne, nel 1908, sull'ora di religione obbligatoria nelle scuole. Dopo le persecuzioni fasciste, nel Dopoguerra, tuttavia, la massoneria si mosse a livello politico in modo più riservato. Se non segreto. Il caso più clamoroso di condizionamento occulto delle istituzioni da parte dei fratelli fu la loggia di Licio Gelli, "propaganda due". Gelli di recente si è attribuito addirittura il merito dell'elezione del presidente della Repubblica Giovanni Leone e la stesura del famoso Piano Rinascita. In seguito allo scandalo della P2, e passato lo tsunami di Tangentopoli, nel '94 il riferimento per la massoneria divenne Forza Italia (tra l'altro con lo stesso Berlusconi iscritto alla P2; con Fabrizio Cicchitto che aveva presentato la domanda per iscriversi alla P2 come dimostra il documento che abbiamo ritrovato negli archivi della Commissione Anselmi; e con il plenipotenziario di Berlusconi, Denis Verdini, che, però, ha sempre smentito la sua appartenenza ai "Figli della Vedova"). Forza Italia era infatti l'unico partito che, allora, non vietava l'iscrizione ai fratelli. Qualche fratello, a onor del vero, figurava anche tre le file del Carroccio: nel 1994 a Palazzo Madama erano stati eletti tre senatori leghisti col grembiulino, e una senatrice "sorella". Bossi, poi, quando nei comizi imprecava contro i massoni, si girava per incrociare lo sguardo del parlamentare Matteo Brigandì, suo avvocato personale. E fratello del Goi.

Gelli stronca Renzi. Ma oggi, concluso il ventennio del berlusconismo, e in pieno terremoto Renzi-Grillo, tutto il mondo dei partiti è cambiato. Non è facile, per la massoneria, trovare una nuova collocazione nel momento in cui l'attuale scenario politico è in pieno assestamento. Dopo il governo dei tecnici di Monti accusato di "collusione" coi poteri forti, con le banche, e anche con la massoneria, Renzi, con una squadra di giovanissimi, sembra aver rotto gli schemi di un potere vecchio, ma con consolidati rapporti con le logge. Il dubbio che il premier abbia un padre massone, del resto, è troppo poco per giustificare un link col mondo dei grembiulini. Su questo fronte è lo stesso Gelli a stroncarlo: "Matteo Renzi - ha detto il Venerabile in una recente intervista - non è un massone, ma solo un bambinone". Né può essere un riferimento, per i fratelli (perché difficilmente governabile dallo stesso Beppe Grillo), il M5S, nonostante le insistenti voci - smentite dal diretto interessato - dell'appartenenza alla massoneria di uno dei due leader del Movimento, Gianroberto Casaleggio. E così, in attesa che il potere nuovo di Renzi prenda forma, i massoni vagano alla ricerca di nuovi interlocutori. "Noi siamo molto attenti ai partiti che vietano ai massoni l'iscrizione - svela uno dei maestri di grado 33 più influenti della Gran Loggia d'Italia, Luigi Danesin - è vero che a sinistra, senza tanto clamore, hanno recentemente tolto l'incompatibilità con l'essere massoni. Di certo, però, i partiti del centrodestra restano i più amici. Ma i tempi sono cambiati. In Parlamento non ci appoggiamo tanto a nostri 'fratelli', quanto piuttosto a deputati o senatori profani 'disponibili'. Con loro, cerchiamo il dialogo".

La battuta di Andreotti sui presidenti Usa. Cosa sia stata la massoneria nella storia d'Italia lo spiegava bene, a modo suo, Andreotti: "Non ho mai capito bene cosa sia - chiosava - ma quando sono andato in America, ho appreso che solo due presidenti non erano massoni, Nixon e Kennedy". Nella storia del nostro Paese, ovunque ci sia stato un intrigo, un mistero, uno scandalo, spesso e volentieri spuntava lo zampino di qualche fratello. Fa strano perciò che non si sia intravisto neppure un grembiulino nelle numerose inchieste giudiziarie che hanno scandito le cronache della fine della Seconda Repubblica, dai rimborsi spese dei consiglieri regionali al caso "Malagrotta-monnezza a Roma", dall'Ilva di Taranto all'Expo di Milano, dal Monte dei Paschi di Siena alla Carige di Genova, dal Mose di Venezia alla vicenda Scajola tra Beirut e Montecarlo. Che i massoni non contino più niente? O che siano diventati buoni? Pare più probabile, invece, che le "obbedienze" nostrane abbiano deciso di soprassedere sul fronte interno (magmatico, in evoluzione, liquido), per dedicarsi alla politica estera, avendo intuito che il potere politico vero, oggi, è gestito non più a Roma, ma a Bruxelles. "Attualmente - conferma Luigi Danesin - sono in corso 'lavori' massonici a livello internazionale per tentare di costituire un Supremo consiglio europeo. L'obiettivo è istituire un osservatorio permanente al Consiglio d'Europa, senza diritto di voto o di parola. Ma con la possibilità di accedere in diretta ai lavori europarlamentari. E di vigilare sugli interessi della fratellanza europea". Che dopo i francs maçons, stia per nascere sotto le volte stellate l'euromassone?

La Chiesa e la scomunica. Ad appena sei anni dalla fondazione della prima loggia (detta "Degli inglesi") su suolo italico, a Firenze, nel 1731, la Chiesa cattolica sparò la prima scomunica contro i massoni. Clemente XII, nella sua lettera apostolica del 24 aprile 1738, denunciò i "gravissimi danni che tali conventicole" arrecavano "alla salute spirituale delle anime". Condannò e proibì le "associazioni dei Liberi Muratori o des Francs Maçons". E ordinò che "gli Inquisitori dell'eretica malvagità facessero inquisizione contro quei sospetti di eresia". Il primo a farne le spese fu uno dei fondatori della loggia fiorentina, Tommaso Crudeli: torturato dal Sant'Uffizio di Firenze, morì per i postumi del carcere. E per questo è considerato il primo martire della massoneria universale. Ancora oggi, a 283 anni dalla bolla di Clemente XII, la disputa tra fede rivelata (dei cattolici, che credono nei dogmi) e fede ragionata (dei massoni, che credono in un principio trascendente senza peraltro specificarlo) arroventa i rapporti tra massoni e prelati. E la Chiesa non ha cambiato idea. Anzi, ritiene che "il clima di segretezza" della massoneria comporti per "gli iscritti il rischio di divenire strumento di strategie ad essi ignote".

La delusione del 1983. Nel 1983, con l'approvazione del "nuovo Codice di Diritto Canonico", i massoni sperarono che la Chiesa avesse tolto quella antica scomunica. Ma si illusero. Fu solo un equivoco, nulla più. Ecco cosa successe: quel nuovo codice, al canone 1374, prevedeva la punizione per "chi dà il nome ad una associazione che complotta contro la Chiesa". Il fatto che non fosse menzionata direttamente la massoneria, fu interpretato sotto le volte stellate come un'abolizione della scomunica. Ma i massoni si sbagliarono. Arrivò lo stesso anno una precisazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (allora presieduta dal cardinal Ratzinger) a fugare ogni dubbio: il giudizio della Chiesa sulle associazioni massoniche era rimasto immutato. E, dunque, "l'iscrizione alle Obbedienze proibita sotto pena di esclusione dai sacramenti". Ma da sempre i massoni, soprattutto quelli cattolici (la maggioranza, in Italia) tentano di convincere la Chiesa a ritirare questo anatema. Tentativi di confronto tra fratelli e monsignori ce ne sono stati, seppure senza grandi risultati.

La comunione dell'affiliato. Ma se al vertice scomunicano, a livello periferico sacerdoti e prelati, va detto, non sempre ubbidiscono agli ordini superiori. E a volte capita che qualche religioso indossi i paramenti profani della massoneria. I casi di affiliazione di uomini della Chiesa in loggia sono stati confermati dallo stesso Luigi Danesin, per sei anni gran maestro della Gran Loggia d'Italia. "Nelle nostre file - ha confessato - abbiamo qualche sacerdote e qualche prelato. Non molti, ma ci sono". "Qualche anno fa - ha aggiunto - abbiamo conferito a un sacerdote, padre Rosario Esposito, il titolo di maestro libero muratore. Un frate, inoltre, partecipò ai nostri lavori il giorno di Natale indossando sopra il saio le insegne di maestro. Il mio parroco, infine, sa che sono massone, eppure io mi accosto alla comunione". Analoga la posizione del Grand'Oriente. "Siamo eretici nel campo delle idee - ammette il gran maestro Stefano Bisi - in fondo siamo dei rivoluzionari. Però con la chiesa cattolica i rapporti nel corso degli anni sono cambiati a livello periferico. L'arciprete di Piombino, ad esempio, tempo fa ad un convegno si alzò in piedi e, pubblicamente, ci disse: 'Se vi sentite in pace con la coscienza, se venite in chiesa e volete ricevere la comunione, io non ho nulla in contrario'". "Il Goi - rivela ancora Bisi - spera oggi in papa Francesco. S'è dimostrato in certe occasioni come uomo del dubbio, come quando ha detto 'chi sono io per giudicare un gay?'. È stata una risposta rivoluzionaria, quella. Ebbene, visto che ha dimostrato questo tipo di apertura, perché non dialogare anche con la massoneria?".

Ma trame, intrighi e cospirazioni continuano. Massoneria, trame, intrighi, cospirazioni. La storia della Repubblica è farcita di gialli nei quali i massoni sono sempre presenti, quasi a fare da collante tra Stato, mafie, eversione, terrorismo, e servizi segreti deviati o stranieri. E' il caso, ad esempio, del processo in corso di dibattimento a Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia. Il gup Piergiorgio Morosini, nel suo decreto che dispone il giudizio contro gli imputati (tra gli altri i mafiosi Bagarella, Brusca e Riina, il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, l'ex politico di Forza Italia Marcello Dell'Utri, l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, l'ex capo dei Ros Mario Mori), ne parla in modo esplicito.

Trattativa Stato-mafia e P2. E non lesina particolari e inquietanti dettagli. Siamo nei primi anni Novanta, anni della cosiddetta (presunta) trattativa tra Stato e mafia per far cessare omicidi di personalità politiche della allora Dc, come Salvo Lima, e le stragi mafiose a colpi di tritolo. "Il primo obiettivo, più ambizioso e di 'lungo termine' di quell'associazione  -  annota il gup Morosini nel suo decreto - consisterebbe nel convergere verso un 'sistema criminale' più ampio capace di includere in sé altre consorterie di diversa estrazione (massoneria 'deviata'-P2, frange della destra eversiva, gruppi indipendentisti, mafia calabrese) interessate a sfruttare la crisi politico-istituzionale italiana e ad acuirla con azioni destabilizzanti ('strategia della tensione') in vista dei nuovi equilibri". Nonostante il caso P2 sia del 1981, ancora oggi si parla di quella loggia - e di quelle presunte deviazioni istituzionali - in un processo tutt'ora in corso sui misteri d'Italia.

Dalle carte Moro spunta un dossier sul gran maestro di Piazza del Gesù. Nell'archivio delle carte di Aldo Moro presso l'Archivio centrale dello Stato di Roma, è conservato un appunto riservato del Viminale che dimostra due cose. La prima, l'attenzione che lo statista ucciso dalle Br aveva nel tenere sotto osservazione la massoneria. La seconda, che il ministero dell'Interno vigilava con estrema attenzione le obbedienze. Al punto da redigere un documentato dossier nei confronti del più noto dei gran maestri della massoneria italiana, Giovanni Ghinazzi. Il questore di Bologna ne fa un ritratto inedito, che noi pubblichiamo integrale, dal quale emerge una personalità forse poco conosciuta di quello che è stato per anni il riferimento della massoneria francese al punto che ancora oggi i frateli di piazza del Gesù vengono soprannominati "ghinazziani".  Da allora altre inchieste hanno coinvolto in qualche modo la massoneria, o i fratelli, al punto da indurre i magistrati a battezzare le loro inchieste evocando la loggia di Licio Gelli. Dopo il 2010, ci sono state in particolare le indagini P3 e P4 che hanno in qualche modo chiamato in causa ancora il ruolo delle "obbedienze". Nella vicenda P3 erano stati coinvolti anche il parlamentare del Pdl, Denis Verdini e l'ex senatore Marcello Dell'Utri. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Rodolfo Sabelli ipotizzarono che avevano costituito una "super loggia segreta" divenuta punto di riferimento di imprenditori e politici per "influenzare decisioni politiche, a pilotare processi e a decidere le nomine dei componenti di organi dello Stato di rilievo costituzionale".

Il figlioccio di Licio Gelli. Il termine P4 è utilizzato per riferirsi ad una inchiesta giudiziaria su una presunta associazione a delinquere che avrebbe operato nell'ambito della pubblica amministrazione e della giustizia. Indagati in tale procedimento giudiziario furono, tra gli altri, il faccendiere Luigi Bisignani e il deputato Alfonso Papa (Pdl). La cosiddetta P4 invece avrebbe avuto l'obiettivo di gestire e manipolare informazioni segrete o coperte da segreto istruttorio, oltre che di controllare e influenzare l'assegnazione di appalti e nomine, interferendo anche nelle funzioni di organi costituzionali. L'origine della sigla P4 non fu solo frutto di immaginazione giornalistica, ma si deve anche al fatto che il nome di Luigi Bisignani comparisse negli elenchi della loggia Propaganda Due (detta P2) di Licio Gelli (il quale lo ha recentemente definito "il mio figlioccio"), benché Bisignani si sia sempre dichiarato estraneo a tale loggia.

"Lobby di potere più che logge".

Luigi Pruneti, massonologo ed ex gran maestro della Gran Loggia d'Italia, è dunque lecito chiedersi: esiste ancora la massoneria deviata tipo la P2?

«Quando scoppiarono i casi P3 e P4 fu interpellato anche lo studioso Massimo Introvigne, un curriculum al di sopra del sospetto di essere filomassone. Ebbene, fu proprio lui a dire che P3 e P4 non c'entravano nulla con la massoneria. Erano sicuramente lobby di potere più o meno segrete ma non avevano le caratteristiche minime di base per essere definite massoneria. Se non che uno di quei personaggi (o più d'uno) erano stati esponenti della P2 o di qualche obbedienza».

Ma cosa ci vuole allora affinché una lobby segreta sia definibile loggia massonica?

«Perché si parli oggi di massoneria ci deve essere un minimo di ritualità, di tradizione massonica, di modo di ritrovarsi massonicamente. Altrimenti anche le 'ndrine calabresi, che sono società segrete con fini delinquenziali, potrebbero essere definite logge massoniche».

Ci sono logge segrete, o deviate?

«Logge riservate sicuramente sì, ce n'erano diverse prima della P2. Poi, però, dopo la legge Spadolini-Anselmi, sparirono tutte per paura di incorrere nel reato di associazione segreta. Gli iscritti segreti, cosiddetti all'orecchio del gran maestro, o sul fil della spada, sono ancora antecedenti a quel periodo».

Oggi però, fatta la legge Anselmi, si può aggirare l'ostacolo iscrivendosi ad una loggia all'estero di una obbedienza italiana, non è così?

«Le nostre logge all'estero, come quelle di Varsavia, Berlino o Beirut, hanno i loro piè di lista a Roma. Qualunque magistrato, come peraltro già avvenuto, può avere gli elenchi».

Ma se un italiano si iscrive all'estero in una massoneria straniera, che succede: il suo nome figura in Italia?

«No, è impossibile saperlo. Questa è l'unica forma possibile di copertura».

"Quelle deviate restano legate alla mafia". "Credo che al Sud ci siano talora logge veramente deviate che trovano comodo chiamarsi massonerie, ma che in realtà nascondono organizzazioni mafiose. Oggi rimangono aspetti rituali in organizzazioni criminali soprattutto in quelle cinesi". Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Centro Studi sulle Nuove Religioni che ha censito 700 religioni in Italia, è un profondo conoscitore del misterioso mondo dell'esoterismo, dell'occultismo, del satanismo. E dei collegamenti tra società segrete e organizzazioni criminali.

Quante sono le massonerie cosiddette di frangia, o spurie?

«Secondo le nostre stime, tutta l'area esoterica fuori dalla massoneria "ufficiale" conta 15mila affiliati. Di questa area fanno parte ad esempio templari, rosacroce, illuminati, gnostici, e poi c'è la massoneria egizia di Cagliostro, e quella dell'antico rito noachita ispirato a Noè. C'è poi anche la gran loggia femminile d'Italia costituita solo di donne, che gode di riconoscimenti in Francia».

Ma qual è il rapporto tra obbedienze ufficiali e quelle farlocche?

«Direi che c'è un contiunuum tra obbedienze massoniche piccole, nate da scismi di quelle più grandi, e massonerie farlocche che vendono titoli esoterici a ingenui, e che addirittura coprono organizzazioni mafiose».

Cos'è una loggia deviata?

«Credo che nella testa dei nostri giudici la massoneria deviata voglia dire un'organizzazione massonica che può essere sia all'interno di grandi organizzazioni, come ad esempio la P2 che fu interna al Grand'Oriente. Sia nei piccoli e piccolissimi gruppi di persone che utilzzano la comune appartenenza massonica per commettere reati. In sintesi, per la magistratura la massoneria deviata è un gruppo di persone che si dicono massoni, a torto o a ragione, e infrangono le leggi».

C'è un rapporto tra la P2 e poi la P3, e la P4?

«La P3 e la P4 sono invenzioni giornalistiche, gruppi di persone (alcune delle quali affiliate, altre no) costituiti in comitati di affari. E il legame con la massoneria regolare o non regolare è tenue. Ma non dobbiamo confondere la massoneria deviata, termine coniato dalla magistratura italiana, con quella che gli storici chiamano massoneria irregolare».

Cos'è la massoneria irregolare?

«La massoneria nacque a Londra. Là c'è quella che viene definita la gran loggia madre che riconosce le fratellanze nel mondo, definendole regolari sulla base del rispetto delle Costituzioni di Anderson. Per gli inglesi, ad esempio, in Italia esiste solo una obbedienza regolare, la gran loggia regolare d'Italia che conta 3 mila affiliati contro i 20 mila del Goi. Per gli inglesi, le altre, Goi e Gran Loggia comprese, sono irregolari».

La Chiesa considera i massoni alla stregua di eretici e gli vieta i sacramenti. Secondo lei papa Francesco cambierà atteggiamento, come sperano oggi i "fratelli"?

Per ora le autorità romane mantengono ferme la dichiarazione di condanna del 1983 anche se è stata tolta la parola scomunica per non offendere tanti capi di Stato massoni. Non credo, però, che con questo Papa ci saranno novità. Bergoglio viene da una tradizione politica sudamericana peronista che ha sempre visto nella massoneria la longa manus dei poteri forti statunitensi. Per questo non credo che ce l'abbia in gran simpatia».

E Caprera censura il fratello Garibaldi. Dei suoi quasi 40 anni di vita massonica, non c'è traccia alcuna né nel "compendio garibaldino", museo nazionale ricavato nella sua dimora privata dove morì il 2 giugno 1882. Né nel "Memoriale" voluto dalla Presidenza del consiglio (e inaugurato un anno e mezzo fa) per far rivivere la sua intera esistenza, dalla nascita a Nizza agli anni che lo videro protagonista delle lotte per la libertà in Sud America, dal ritorno in Italia per combattere nella prima Guerra d'Indipendenza alla difesa della Repubblica Romana. "Il ritratto che ne esce dalla visita del Compendio  -  spiega lo studioso di Garibaldi Mario Birardi, ex parlamentare Pci, ex sindaco de la Maddalena  -  è quello di un soldato un po' rozzo, un appassionato di agricoltura, un disabile, viste le numerose carrozzine esposte sulle quali il Generale, colpito in tarda età da una grave forma di artrosi, si muoveva. Troppo poco, rispetto a quello che è stato". Qui, nella casa-museo, solo da quest'anno è stata esposta, in un angolo poco visibile del parco, una corona funebre che la "massoneria sarda" espose ai funerali di Stato. Ma, da quel che si capisce vista la "reticenza" dei responsabili, s'è trattato di un piacere ai massoni insulani più che di un omaggio storico al trascorso massonico del Cavaliere dell'Umanità. Altre due corone funebri dedicate al "suo Gran Maestro", quella della Massoneria Milanese e quella della Massoneria Italiana, non sono esposte al pubblico, ma giacciono nascoste nella ex cisterna, un locale chiuso a chiave. "Oscurato" il passato massonico di Garibaldi anche al Memoriale, che si trova a qualche chilometro dal Compendio, nei locali del Forte Arbuticci. Qui il processo, diciamo così, di de-massonificazione del Primo Massone d'Italia (titolo onorifico che gli fu tributato dalla fratellanza italiana) salta di più all'occhio in quanto l'estesa esposizione è dedicata all'intera vita di Garibaldi. Possibile che in una area così vasta non sia stato dedicato neppure un angolo alla vita di loggia di Garibaldi? Manifestando alla reception il proprio stupore per questa inaspettata "dimenticanza", si viene informati dell'esistenza di un solo "documento che richiama la vita massonica dell'Eroe del Risorgimento". Ma, in mezzo a centinaia di documenti esposti con tecniche multimediali, è praticamente introvabile. Occorre farsi accompagnare da un custode per individuarlo, privo di qualsiasi didascalia di spiegazione. Solo un foglietto con scritto "fondo Mario Birardi". Si tratta di una lettera (che porta in calce la data del calendario massonico "il 20 del primo mese dell'anno della Vera Luce 5862"), con la quale i fratelli della loggia Dante Alighieri della Valle di Torino chiedevano a Garibaldi, in un'ottica di unificazione della massoneria italiana, di accoglierli nella sua loggia all'Oriente di Palermo della quale era Gran Maestro. "Trovai quell'eccezionale documento  -  spiega Birardi  -  da un antiquario di Bologna. Lo acquistai, e ora l'ho dato in comodato d'uso al Memoriale. Mi spiace però che sia stato esposto senza alcun richiamo. E' come se non ci fosse". Garibaldi acquistò per 35mila lire metà isola di Caprera (l'altra metà gliela regalarono gli inglesi), costruendo là, in quella macchia mediterranea spazzata dal vento, il suo quartier generale stile fazenda sudamericana. Fu uno dei più importanti massoni dell'Ottocento. Si affiliò tra i "Figli della Vedova" nel 1814, all'età di 37 anni, in America, nella loggia irregolare "L'asilo della virtù". Si regolarizzò poi il 24 agosto del 1844 a Montevideo, nell'Obbedienza "Gli amici della Patria", ispirata al Grand'Oriente di Francia. La vita massonica di Garibaldi è ben tratteggiata in un recente saggio di Carlo Patrucco ("Documenti su Garibaldi e la Massoneria", Gherardo Casini editore), che mette a fuoco, documenti alla mano, la partecipazione a vario titolo delle massonerie ottocentesche alle guerre per l'indipendenza della Penisola. "Al momento della preparazione dei Mille  -  scrive Patrucco  -  la loggia di Genova ebbe certamente larga parte in favore della più azzardata delle imprese, e a quella loggia appartenne appunto quel G. B. Fauché, allora direttore generale della Società di navigazione Raffaele Rubattino, che, d'accordo con Garibaldi, permise che gli portassero via i due vapori, destinati alla Sicilia, la notte del 4 maggio 1860". Fu proprio la Loggia Madre di Palermo a offrire al "Liberatore dell'isola il terzo grado regolare, salvo più tardi, nel marzo del 1862, il conferimento di tutti i gradi della gerarchia, compreso il 33esimo, e l'ufficio del Gran Maestro a vita dell'ordine massonico del Rito scozzese antico e accettato". Da allora Garibaldi, fino alla morte, divenne il punto di riferimento di tutte le varie massonerie sparse sulla Penisola, spesso in conflitto una con l'altra. Fu lui a volere l'unificazione di tutte le logge sotto la volta stellata di un'unica obbedienza. Ma fallì. E da allora, ancora oggi le massonerie italiane sono lacerate da continue scissioni, e  -  a dispetto dei valori di tolleranza che propugnano  -  da faide fratricide. Se l'appartenenza di Garibaldi alla massoneria è più che nota, resta un mistero perché sia stata nascosta nel Compendio e nel Memoriale a lui dedicato. Forse è ancora oggi in auge la vecchia formula ottocentesca dell'ex ministro Farini secondo la quale "l'Italia deve essere stata fatta dagli italiani, e non dalle sette"? (a.c.).

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO?

Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “Tarastv”. A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triasi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo poitico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazarano nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nle corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?) Ora - guarda un pò - anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Notizia dell'ultima ora: il dott. Sebastio e la dott.sa Todisco stanno litigando fra loro per chi dovrà essere il prossimo candidato del P.D. a sindaco di Taranto dopo le prossime dimissioni dell'attuale sindaco Ippazio Stefano. Si sta studiando però una mediazione: Todisco sindaco e Sebastio parlamentare. E dovere morale di ogni cittadino di Taranto impedire che si verifichi sia una cosa che l'altra. In quanto entrambe le cose per come si sono maturate FANNO SCIHFO!!!!!!!!!!!!!!!!!

Voglio raccontare ai lettori de “La Notte” uno strano caso giudiziario verificatosi qualche giorno fa presso il Tribunale di Potenza che doveva giudicare un Magistrato di Taranto, l’ex sostituto Procuratore della Repubblica Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “La notte on line”. Una storia travagliata quella di Di Giorgio cominciata nell’ottobre 2010 con la richiesta di un mandato di cattura in carcere mitigata dal g.i.p. di Potenza in arresti domiciliari eseguito dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con accuse infamanti che vanno dalla concussione alla corruzione all’abuso di ufficio alla minaccia al termine di un’inchiesta avviata circa due anni prima (2008) e coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Taranto. Se tutte le accuse fossero vere c’è da chiedersi dove stava in quegli anni (2001 – 2008) il suo Procuratore Capo e come mai Di Giorgio avrebbe subito una strana trasformazione simile a quella descritta nel celebre romanzo di Robert Louis Stevenson fra Mister Jekill il buono che si tramutava, grazie all’assunzione di un unguento speciale, nel suo alter ego cattivo mister Hyde. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Poi, del tutto improvvisamente, il cambiamento! Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008 ma – secondo l’accusa – coltivata fin dal 2001 (questa è la data del primo reato per il quale la stessa Procura di Potenza esclude che abbia preso denaro, mirando egli già da allora cioè dal 2001, soltanto ai voti, 2001-2008) sarà stato l’antagonismo con il parlamentare del P.D. del suo paese, Rocco Loreto, fatto sta che da migliore sostituto procuratore della Repubblica della Procura di Taranto, Di Giorgio si è trasformato di botto in un incallito concussore e corruttore tanto da essere arrestato, processato e poi condannato il 30 aprile scorso a ben 15 anni di reclusione! Quindici anni di reclusione! Avete capito bene! Il Tribunale ha ritenuto a suo carico tutti i sette capi di imputazione anche quelli annullati dalla Cassazione, tra cui due concussioni, nemmeno unite dal beneficio della continuazione (che si da anche ai mafiosi) una in danno di un imprenditore, Di Battista, il quale sarebbe fallito per causa sua (ma l’imprenditore nega), vari reati di corruzione e infine anche reati di abuso d’ufficio e di minacce inseriti in questo castelletto di ben sette capi di imputazioni. Pensate! Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non poso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente cirtici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Mai sia che si offendesse il nostro equivalente della vacca sacra della religione Indù: il giudice santificato, che emana sempre condanne e non somministra mai assoluzioni. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Ma la cosa non finisce qui! Perché al caso, sicuramente clamoroso del giudice Matteo Di Giorgio, si è aggiunto nello stesso processo un altro caso altrettanto clamoroso, che riguarda un altro Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il Procuratore Aggiunto dott. Pietro Argentino. Questi ha avuto la sventura di essere chiamato come testimone dal dott. Matteo Di Giorgio. E in base a un dovere civico, abbastanza elementare, si è presentato per deporre. Ebbene non ci crederete! La sua deposizione insieme a quella di altri venti testimoni (fra cui cinque eccellenti un vicequestore in forza alla Questura di Taranto e quattro marescialli!) è stata inviata dal Tribunale di Potenza ai P.M. di quella Procura affinchè procedano contro il dott. Argentino e gli altri venti malcapitati per il reato di falsa testimonianza! Pensate! Venti più uno! L’avv. Giandomenico Caiazza presidente del Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei” ha giustamente sottolineato l’assurdità di un Procuratore Aggiunto (Argentino) che fra pochi giorni dovrà sostenere una delicatissima requisitoria nel noto processo a carico dei dirigenti dell’Ilva di Taranto e nello stesso tempo deve apparire al grande pubblico come gravato del sospetto di una falsa testimonianza che gli proviene da un altro Tribunale della Repubblica. Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correenti9 democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato, la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro assassinato e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella anche lui assassinato, la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ebbene quest’ultimo segmento politico della Sinistra Democristiana nel tempo dapprima ha annichilìto e assorbito la Sinistra Morotea grazie ai delitti che prima richiamavamo e cioè la strage di via Fani, il delitto Mattarella, il falso suicidio del figlio dell’on.le Carlo Donat Cattin e poi ha tentato di egemonizzare tutta la Democrazia Cristiana con le stragi del 1992 e con i noti processi Andreotti e di Tangentopoli. Scalfaro è morto per cui diciamo pace all’anima sua (che ne ha tanto bisogno;) ma uno dei protagonisti di quell’epopea il senatore Nicola Mancino oggi risponde di falsa testimonianza nel noto processo della trattativa perché secondo i valorosi Magistrati di Palermo nasconderebbe qualcosa ma più di qualcuno pensa che la sua imputazione subirà nel tempo un aggravio, tecnicamente chiamato contestazione suppletiva. Forse per strage. Nello schieramento politico italiano hanno sempre operato almeno tre segmenti ultra atlantisti e quindi alla bisogna stragisti quando qualche altro segmento politico non si adeguava ai comandi americani. I tre segmenti politici cavalier serventi erano un piccolo segmento politico interno al Partito Socialista, un piccolo segmento politico interno al Movimento Sociale poi divenuto Alleanza Nazionale (in pratica la Destra Neofascista finiana) e infine un terzo segmento politico costituito dalla cosiddetta Sinistra Politica Democristiana. Sta di fatto che mentre il segmento atlantista socialista è stato soppresso, quello finiano si è ridoto all’1%, il segmento politico della Sinistra Politica Democristiana nel tempo si è espanso sempre di più e adesso attraverso il renzismo sta cercando di fagocitare anche la vecchia nomenclatura dell’ex Partito Comunista confluita nel P.D. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Potrete trovare maggiori dettagli su questa vicenda cliccando su Internet “OK Notizie Virgilio Magistrati milanesi e magistrati di Puglia 7a. puntata. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.) un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città perché corre voce che due Magistrati uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà. Alcuni dicono che io parlo male dei Magistrati. E invece ne parlo bene quando se ne deve parlare bene. Ne parlo male quando se ne deve parlare male. Il Procuratore Aggiunto Pietro Argentino è un Magistrato molto valoroso, noto alle cronache per aver risolto brillantemente molti casi di cui si è occupato tra i quali quello di Sara Scazzi la ragazzina uccisa per gelosia dalla cugina Sabrina Misseri, nell’ambito di un delitto cosiddetto familiare. Il delitto familiare è sempre molto difficile da dipanare per assenza di testimoni diretti (vedi per esempio i casi di Chiara Poggi e di Yara Gambirasio dove gli inquirenti in alktre Procure da anni brancolano nel buio o prendono granchi). Ma evidentemente nella Magistratura italiana il merito ed il valore non contano più. Non ti assicura nopiù nemmeno un minimo di rispetto e di considerazione. Ciò che conta è soltanto l’appartenenza politica, in vista di future promozioni, incarichi apicali, passaggi in politica e vari. Singolare è poi la tempistica della incriminazione per falsa testimonianza subita dal dott. Pietro Argentino, il quale dopo essere stato per anni in predicato di diventare Procuratore Capo proprio della Procura della Repubblica di Potenza, da pochi giorni assegnata ad altro Magistrato, sicuramente ora sarebbe un temibile concorrente per il Magistrato a cui la Procura di Taranto è stata già predestinata, un o di destra, posto che il dott. Franco Sebastio attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto fra poco meno di un anno, dovrà lasciare l’incarico per raggiunti limiti di età. Anche sulla Procura di Potenza quindi aleggia il dubbio che, per lo meno per il periodo in cui non è stata diretta dal dott. Giovanni Colangelo, Magistrato eccellentissimo, ora Procuratore Capo della Repubblica di Napoli, sia e sia stata politicamente orientata. Su questo ci potrei scrivere pure un libro. La Sinistra politica democristiana pugliese quindi, supportata da altri organismi giudiziari, tende ormai a espellere da tutto il terriotrio della Puglia sia gli esponenti politici che i Magistrati, eventualmente anche di Sinistra, che non sono congeniali al suo progetto politico o che comunque ne possano impedire la piena attuazione. E’ ormai fatto acclarato che per conseguire l’obiettivo ormai certa Magistratura non incrimina più e non condanna più il soggetto mirato in base alla sussistenza di una responsabilità penale bensì lo incrimina e eventualmente lo condanna in base alla convenienza politica del momento. Lo strumento maggiormente adoperato per spingere il pollice verso è la cosiddetta concussione presunta. Cioè io giudice presumo dalle intercettazioni, dalle mie deduzioni dalle mie elucubrazioni mentali che tu imputato abbia concusso qualcuno e quindi ti imputo di concussione. Il Tribunale sulle stesse basi ti condanna anche se la parte asseritamente concussa nega che vi sia stata mai una concussione. E così per tornare ai casi concreti della Puglia l’imprenditore Di Battista nel processo Di Giorgio sarebbe stato concusso – secondo i giudici di Potenza – dal Magistrato Mateo Di Giorgio, il Di Battista nega di essere mai stato concusso ma Di Giorgio viene ugualmente condannato, il prof. Giorgio Assennato nel processo Ilva di Taranto sarebbe stato concusso dal governatore della Puglia Niky Vendola, il prof. Giorgio Assennato nega di essere mai stato concusso, Niky Vendola viene ugualmente rinviato a giudizio, il funzionare della provincia di Taranto dott. Luigi Romandini sarebbe stato concusso dall’ex presidente della provincia di Taranto dott. Gianni Florido (arrestato per questo motivo), il dott. Luigi Romandini nega di essere mai stato concusso, Gianni Florido viene ugualmente rinviato a giudizio per concussione. Cioè la concussione viene utilizzata come strumento per l’eliminazione dell’uomo politico o del Magistrato scomodo da maciullare. Quando poi qualcuno depone come tetimone in senso contrario al teorema e quindi potrebbe minare – come si dice in gergo – l’impianto accusatorio, allora scatta un secondo strumento distruttivo, la falsa testimonianza anch’essa trasformata in mezzo politico-giudiziario per conseguire l’obiettivo politico di eliminazione del’avversario politico. E’ quindi con questo strumento,ossia con la falsa testimonianza che è stato colpito a affondato come fosse una pedina del gioco della battaglia navale, il Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Taranto, Pietro Argentino, incauto teste a discarico del dott. Matteo Di Giorgio. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso Ma come! Non lo sapevano il dott. Pietro Argentino e gli altri 24 testimoni che il destinatario della loro testimonianza Matteo Di Giorgio era stato investito da una specie di fatwa da parte del Tribunale di Potenza e da parte della Sinistra politica democristiana? Cristo – cari amici – si è fermato a Eboli e questo lo sapevamo. Ma siamo sicuri che Komeini non stia salendo dalla Sicilia?

Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, continua Michele Imperio. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. Perché la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità. La cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo”. Questo diceva Giovanni Falcone, esasperato, quando altri colleghi e altri uomini politici (segnatamente Libero Mancuso e Leoluca Orlando Cascio, ormai è passato tantissimo tempo e dunque possiamo fare anche i nomi) lo volevano coinvolgere nell’accusa di mafia contro il senatore Giulio Andreotti. E Giovanni Falcone con quel suo inattaccabile senso del dovere e del giusto, rispose smontando il falso pentito Pellegriti, che Leoluca Orlando (politico) e Libero Mancuso (Magistrato) gli avevano propinato e smontò quindi le sue false accuse contro Salvo Lima (andreottiano) accusato di essere il mandante occulto dell’omicidio Dalla Chiesa. Non solo! Ma per ulteriore sfregio dei komeinisti Giovanni Falcone si fece nominare direttore degli affari generali penali del Ministero di Grazia e Giustizia nell’ultimo governo Andreotti. Si sa come finì. I komeinisti gli fecero pagare con la vita questo affronto. Però quello era ancora un komeinismo spietato ma romantico. Perchè quel komeinismo giudiziario era ispirato da convinzioni ideologiche determinate dai pennivendoli di “Repubblica” i quali avevano riempito la testa a tutti noi (chissà per quali recondite ragioni) che Giulio Andreotti e tutti gli andreottiani erano collusi con Cosa Nostra, convinzioni però poi rientrate. Lo ricordo ancora Leoluca Orlando Cascio che tuonava in tutti i teatri d’Italia: “Andreotti non è semplicemente connivente con la mafia! Andreotti è egli stesso mafioso! Lui ha fatto assassinare Piersanti Mattarela” (l’amico suo) Adesso – dicono – Leoluca Orlando Cascio non si parla più con Antonio Di Pietro. E le ragioni sono evidenti. Lo ricordo ancora il komeinista Luciano Violante, grande ispiratore e suggeritore del processo Andreotti. Al termine del processo lo stesso Luciano Violante ammise: “E’ vero: il suggeritore sono stato io! Ma se tornassi indietro nel tempo non lo rifarei più!” Oggi Luciano Violante potrebbe anche essere un buon presidente della repubblica. Ma nessuno lo candida e i nuovi komeinisti lo snobbano. Lo ricordo ancora Giancarlo Caselli Procuratore di Palermo dopo che ignoti gli ammazzarono sotto il naso nella stanza del piano di sopra Luigi Lombardini, il Magistrato sardo che la cultura komeinista del sospetto indicava essere il regista di tutti i sequestri di persona in Sardegna. Mentre invece la verità era che altri Magistrati (non lui, anzi lui li voleva denunciare) vi avevano lucrato. Nella vicenda Lombardini – disse uno sconsolato Giancarlo Caselli – sono stato strumentalizzato. Ma da chi e per che cosa? Ma oggi il komeinismo ideologico-giudiziario dei Caselli dei Violante dei Mancuso, degli Orlando-Cascio non c’è più, è stato sostituito da un altro komeinismo giudiziario tutto proteso a costruire e a distruggere carriere di magistrati e di uomini politici, secondo l’andazzo momentaneo della giostra. Ma voglio tornare al caso specifico dei magistrati tarantini Matteo Di Giorgio e Pietro Argentino. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto, Castellaneta, di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) si attiva presso l’amministrazione Comunale perché un poveraccio, suo conoscente, possa gestire un bar pur non disponendo della relativa licenza, ecco che questo è chiaramente un gesto di umanità di Di Giorgio nei confornti del viandante con contenuti – diciamolo pure – non proprio legittimi. Ma è pur sempre un gesto di umanità e quindi non è un reato. Senonchè che ti fa la cultura del sospetto? Ti fa pensare che il Magistrato Matteo Di Giorgio nutre già dal 2001 una grande passione politica e che quindi compia quel gesto non per un senso di umanità ma per sperare nel futuro voto del viandante e quindi per costituirsi già da allora (2001) una clientela politica, uno zoccolo duro di consensi per conseguire e rendere vincente nel 2009 la sua candidatura alla presidenza della provincia di Taranto. Ecco un caso in cui la cultura del sospetto applicata al diritto trasforma un fatto giuridicamente irrilevante in una possibile condotta delittuosa (abuso innominato in atti di ufficio ove il vantaggio patrimoniale richiesto dalla norma viene – con astrazioni metafisiche – equiparato al vantaggio politico che si trae dal voto del viandante). Questo è un caso. Ma esaminiamone anche un altro. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale – lo ripetiamo – risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto Castellaneta di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) scopre in un suo processo a lui assegnato che il genero di un altolocato del paese spaccia droga in discoteca e quindi sta per andare incontro a otto anni di galera, mosso da senso di pietà e questa volta anche da quel senso tutto paesano di rispetto della reciproca conoscenza, ne copre la responsabilità ma tuttavia chiede all’altolocato per decenza di dimettersi quanto meno dal consiglio comunale di cui è membro, tutto questo chiaramente viene fatto per pietà, per solidarietà paesana, per rispetto, per reciproca conoscenza, per quello che volete voi. Ma anche qui interviene la cultura komeinista del sospetto che fa insinuare che in realtà Matteo Di Giorgio approfitti della situazione per puntare con quelle dimissioni a indebolire la maggioranza e quindi a far cadere il piccolo consiglio comunale di Castellaneta per far si che la sua parte politica prenda il sopravvento e quindi lo supporti da posizioni di forza nella sua successiva ascesa al potere (dopo alcuni anni) alla presidenza della provincia di Taranto. Già, ma a parte il fatto che quindici anni di galera per queste cose fanno ridere, il problema è: dov’è la prova di questi retropensieri del dott. Matteo Di Giorgio? Quale norma equipara la speranza anche minima di un vantaggio politico al vantaggio patrimoniale? Il sospetto se volete ci può anche stare ma la prova, intendo dire la prova in senso tecnico, l’elemento che appaga la coscienza del Magistrato che deve affermare una responsabilità penale e che quindi deve sentenziare la distruzione di un uomo, quella prova – dico – dove sta? Volete voi lettori la riprova che sia così? Queste sette denunce a carico del dott. Matteo Di Giorgio, che sarebbero state redatte su ispirazione di un uomo politico suo antagonista, il senatore Rocco Loreto, sono state diversamente valutate nel tempo venendo considerate in certi periodi storici del tutto irrilevanti (perché parliamo del 2001 mica di ieri), in altri periodi storici accuse addirittura calunniose in altri periodi storici ancora accuse riferite a fatti di reato gravissimi punibili con una pena al carcere di quindici anni e passa di reclusione. Che il dott. Matteo De Giorgio abbia manifestato nel 2009 una forte propensione a candidarsi presidente della provincia di Taranto questo è vero, che l’inchiesta sia partita anzi ripartita in funzione di questa candidatura questo pure è vero, che Di Giorgio abbia mai concusso qualcuno o abbia mai strumentalizzato la funzione giudiziaria questo è falso. E’ completamente falso! O meglio è il frutto della cultura del sospetto su qualcosa che non è provato. Inoltre la cultura giudiziaria del sospetto ha completamente mutato nel tempo i contenuti del reato più grave fra quelli contestati a Di Giorgio, ossia la concussione. Una volta per aversi la concussione il pubblico ufficiale doveva terrorizzare il concusso fino al punto che quello, compulsato dal pubblico ufficiale violento e malfattore si faceva piccolo piccolo e, ob torto collo, cedeva alle sue perverse pressioni intimorito dal cosiddetto metus pubblicae potestatis ossia dal terrore che quello gli incuteva. Oggi invece basta un “ti cambio di posto” che la concussione è bella che consumata. Conosco personalmente sia il dott. Matteo Di Giorgio che il dott. Pietro Argentino e posso dire che sono due ottimi Magistrati, grandi lavoratori, buoni investigatori, discreti oratori ma soprattutto sono due Magistrati indipendenti, non agganciati ad alcun segmento del Potere Politico. Argentino aveva un lontano parente parlamentare di Forza Italia che è morto, Di Giorgio nemmeno quello. Ma proprio qui sta il problema: proprio perché questi soggetti sono personaggi valorosi Di Giorgio sicuramente avrebbe fatto una brillante carriera politica, Argentino sarebbe avanzato ulteriormente in Magistratura: da Procuratore Aggiunto sarebbe diventato Procuratore Capo. Ma allora che ne sarebbe stato delle carriere che il Potere Politico aveva già riservato ai predestinati, gente mediocre e di mala fede? Infatti l’incriminazione per falsa testimonianza di Argentino cade giusto pochi giorno dopo l’assegnazione a un altro Magistrato della carica di Procuratore Capo della Repubblica di Potenza, incarico per il quale anche il dott. Argentino aveva fatto domanda al CSM. Quindi a questo punto non rimane ad Argentino che ripiegare sulla carica di Procuratore Capo della Repubblica di Taranto, da affidarsi fra breve e per la quale certamente Argentino è il Magistrato che ha più titoli. Ma qui parliamo di Taranto! Cioè di un letamaio istituzionale! Dove i problemi non sono certamente il bar aperto senza licenza o le false testimonianze di Argentino o le inesistenti concussioni di Di Giorgio. Un letamaio che invece deve essere gestito da chi necessariamente ha la capacità e la volontà di adeguarsi al letamaio. Ma per spiegarvi tutto questo mi serve un altro capitolo.

Dopo tanti anni di attività professionale ho ormai maturato la convinzione che due segmenti politici dello intero schieramento politico nazionale e precisamente la destra neofascista oggi di Mario Monti e di Gianfranco Fini ma ieri anche di altri soggetti politici e la Sinistra politica democristiana, da non confondersi con la Sinistra sociale democristiana (Cisl e vecchia corrente di Forze Nuove) e nemmeno con la sinistra morotea democristiana (Aldo Moro e Piersanti Mattarella ieri, Dario Franceschini e Giuseppe Gargani oggi) che erano e sono un’altra cosa, la Sinistra politica democristiana – dicevo – (Prodi Romano, Scalfaro Oscar Luigi, Mancino Nicola e De Mita Ciriaco ieri Renzi Matteo oggi e il loro regista di sempre De Benedetti Carlo, questi due segmenti politici – dicevo – non svolgono semplicemente un’attività politica ma esercitano anche una funzione di intelligence di tipo deviato, continua Michele Imperio. Forse dispiacerò qualcuno ma voglio ricordare a me stesso che in seguito alle indagini sulla strage di Peteano il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra - reo confesso per la strage – rivelò che nell’ormai lontano 1982 il segretario del MSI di allora Giorgio Almirante aveva fatto pervenire la somma di 35.000 dollari a tal Carlo Cicuttini, dirigente del MSI friulano e coautore della strage, affinché egli modificasse la sua voce durante la sua latitanza in Spagna mediante un apposito intervento alle corde vocali. Tale intervento si rendeva necessario perché Cicuttini, oltre ad aver collocato materialmente la bomba assieme a Vinciguerra, si era reso autore della telefonata che aveva attirato in trappola i poveri carabinieri, poi trucidati. La sua voce era stata identificata mediante successivo confronto con la registrazione di un comizio del MSI da lui tenuto. Che cosa avevano scoperto quei poveri carabinieri se è vero come è vero che nel giugno del 1986, a seguito dell’emersione di documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao ed il Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti? Ed è emblematico anche come andò la cosa. Enzo Pascoli venne condannato; Giorgio Almirante invece, dopo un’iniziale condanna, si fece più volte scudo dell’immunità parlamentare, all’epoca ancora riconosciuta a deputati e senatori, si sottrasse perfino agli interrogatori e infine si avvalse di un’amnistia grazie alla quale uscì definitivamente dal processo. nonostante la legge ne prevedesse la rinunciabilità. Cicuttini, dirigente del MSI friulano – mai disconosciuto da Giorgio Almirante ripeto – fuggito in Spagna, venne catturato a ventisei anni dalla strage, nell’aprile del 1998, quando fu vittima egli stesso di una trappola: la procura di Venezia gli fece offrire un lavoro a Tolosa dove, recatosi convinto di intraprendere le trattative contrattuali, venne arrestato dalla polizia ed estradato dalla Francia. Questi agenti deviati neofascisti ci sono ancora, probabilmente essi si riconoscono ora nella corrente politica di Mario Monti (che non a caso fa la guerra al partito di Gianni Alemanno, Giorgia Meloni, La Russa, Giorgio Crosetto, Adriana Poli Bortone) e sono infiltrati ovunque, nella classe politica, nei Servizi, nella Polizia, nei Carabinieri, Ovunque. Ma sono infiltrati anche e sopratutto in alcuni segmenti della Magistratura associata (Magistratura indipendente). Analogamente avviene per la Sinistra Politica Democristiana. Ricordo anche qui che quando nel 1978 la polizia stava per scoprire la prigione di Aldo Moro in via Gradoli sulla Cassia a Roma, il giovane Romano Prodi si presentò personalmente alla Polizia di Roma per depistare quelle indagini e spostare le stesse da via Gradoli in Roma in Gradoli città dell’Abruzzo, e ciò perché Aldo Moro non fosse salvato ma fosse assassinato. Dopo che qualcuno (Riccardo Misasi Sinistra D.C.?) aveva mobilitato quindici picciotti della 'nrdina calabrese dei Nirta inducendoli a portarsi il 16 maggio 1978 in via Fani il giorno del rapimento Moro pronti ad intervenire nel caso le cose non si fossero messe nel verso giusto degli stragisti. La storia di Vittorio Mangano stalliere di Silvio Berlusconi (finanza laica) negli anni 70 non viene mai raccontata mai nella sua completezza. Prima del’assunzione di Mangano come stalliere Silvio Berlusconi fece tenere negli uffici della Edilnord una riunione cui parteciparono dopo essere appositamente venuti da Palermo, Stefano Bontade e Mimmo Teresi, all’epoca numeri 1 e n. 2 di Cosa Nostra Siciliana. Costoro decisero di ingaggiare il Mangano per dare un segnale alla Ndrangheta calabrese allora eterodiretta da soggetti della Sinistra poltica democristiana (Nicola Mancino, Riccardo Misasi e company.?) affinchè si comprendesse che Berlusconi fosse sotto la protezione di Cosa Nostra e quindi che i figli di Berlusconi (finanza laica) non potevano essere rapiti e sequestrati. Questo particolare però non viene mai rimarcato. Perché? Perchè altrimenti si porrebbe in modo naturale il quesito: Perché mai analoghe attenzioni non furono mai rivolte dalla Ndrangheta nei confronti dei figli di Carlo De Benedetti o dei figli o dei nipoti di Giovanni Agnelli (finanza ebrea e finanza cattolica?) Magistrati e politici dell’uno e del’altro segmento politico (Destra neofascista e Sinistra politica democristiana) hanno sempre provveduto a clamorose coperture e depistaggi. Ma per farlo essi devono poter accelerare le proprie carriere. E come accelerare le carriere di questi? Stroncando le carriere dei loro rivali! Così come certamente è stata accelerata la carriera di Marco Dinapoli, Magistratura Indipendente, attuale Procuratore Capo della Repubblica di Brindisi. Chi di noi non si è sentito inorridito dai rapporti di amorosi sensi emersi dalle indagini fra questo Procuratore della Repubblica di Brindisi e il terrorista neofascista autore dell’odiosa strage di Brindisi Giovanni Vantaggiato rapporti di amorosi sensi intesi a far si che Vantaggiato non fosse imputato dell’aggravante del gesto a scopo terroristico e si scappottasse quindi la pena dell’ergastolo? Procura della Repubblica di Potenza e CSM si erano già messi meritoriamente all’opera quando anche i lampioni hanno compreso che un alto vertice istituzionale (probabilmente proprio il Presidente della Repubblica) ha bloccato tutto. Ebbene quell’attentato è servito. E’ servito a mandare un messaggio ad alcuni valorosi Magistrati per cui chiunque si fosse avvicinato troppo alla vera verità sulla strage di Capaci (simboleggiata dalla scuola brindisina Falcone e Morvillo) era un uomo morto. E proprio in quei giorni il valoroso Procuratore Capo della Repubblica di Caltanisetta stava scoprendo interessanti novità in ordine alla strage di Capaci. Dalle indagini stavano infatti emergendo responsabilità di altri soggetti neofascisti che avevano materialmente partecipato alla strage e il cui nominativo non era mai emerso prima di allora nelle indagini stesse. Ebbene anche il valoroso Procuratore di Caltanisetta Sergio Lari si è fermato e di quelle indagini non si ha più notizia. Questo caso dimostra che cellule stragiste e criminali sia della Destra neofascista diciamo così finiana e montiana che anche della Sinistra Politica Democristiana (oggi renziana) sono presenti anche all’intero della Magistratura e anzi i Magistrati che vi aderiscono godono di carriere accelerate. Il caso Di Giorgio (il Magistrato di Taranto condannato a quindici anni di reclusione) (ma da chiamarsi ora il caso Argentino-Di Giorgio) è stato finora prospettato come una sorta di lunghissimo qui pro quo fra un Magistrato della città di Castellaneta (piccolo paese in provincia di Taranto) e un parlamentare della stessa cittadina pugliese, il senatore del P.D. Rocco Loreto (nella foto), mentre invece questo caso trascende e di molto questo singolo aspetto del problema, perché esso è conseguenza del fatto che nella provincia di Taranto opera da moltissimo tempo una cellula stragista e criminale istituzionale della Sinistra politica democristiana con presenze attiva ancora oggi anche all’interno delle Istituzioni e segnatamente nella Magistratura e il caso Di Giorgio-Argentino è un singolo capitolo di una guerra in corso fra Magistratura laica e Magistratura cattolica, analogo al conflitto in essere, da sempre, fra finanza laica e finanza cattolica, se volete anche fra criminalità laica e criminalità cattolica (laddove il termine cattolico è adoperato ovviamente in senso lato, molto lato), delle cui prove dirò fra poco.

“Il sospetto non è l’anticamera della verità, il sospetto è l’anticamera del khomeinismo”. Così diceva Giovanni Falcone, davanti al CSM che l’accusava. Ma che cosa aveva voluto dire con quella espressione Giovanni Falcone? Si chiede e continua Michele Imperio. Quando nel 1978 la rivolta popolare in Iran era ormai esplosa contro lo scia Reza Pahlavi, costringendolo a fuggire dal paese, l’ayatollah, Khomeyni, tornato dall’esilio in Iran il 1º febbraio 1979, instaurava nel paese una sorta di dittatura teocratica il komeinismo appunto ossia una “repubblica islamica”, basta sulla persecuzione dell’avversario politico e sul terrore. Il komeinismo dette vita a una durissima repressione contro i collaboratori del deposto scià: migliaia di essi furono arrestati e fucilati dopo processi sommari; altri furono mandati in esilio o imprigionati e i rimanenti fuggirono dal paese. In pochi mesi si considera siano state fucilate circa 5.000 persone e mandate in esilio altre 10.000. Dunque Giovanni Falcone accusava esplicitamente alcuni suoi colleghi Magistrati di voler strumentalizzare la funzione giudiziaria per instaurare un nuovo regime politico simile a quello dell’ayatollah Komeyni. Mi chiedo: Questo disegno politico sta ora subendo un’accelerazione? I magistrati tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio fanno parte di un’epurazione da parte di loro colleghi simile a quella che ci è stata in Iran? Un fatto è certo: il nuovo strumento della falsa testimonianza di massa non è stato adoperato solo a Potenza nel corso del processo Di Giorgio ma anche a Trapani dal Tribunale che ha giudicato il caso Rostagno e che ha mandato sotto processo per falsa testimonianza dieci testimoni che lì avevano deposto. Il testimone che non corrobora la tesi dell’accusa è incriminato. Ma il Tribunale di Trapani ci teneva a far sapere a noi italiani la verità su quel delitto? Perché Mauro Rostagno il quale era di Torino si trovava a Trapani? Chi ce lo aveva mandato? E per fare che cosa? Mauro Rostagno aveva a che fare o no con l’omicidio del commissario Luigi Calabresi? Era stato incriminato per questo motivo oppure no? Voleva per caso uscirsene dal caso Calabresi ricattando lo Stato e denunciando i traffici d’armi internazionali che avvenivano tramite l’aeroporto in disuso di Trapani, di cui lui era uno dei custodi? Perché il suo socio coofondatore della comunità per il recupero dei tossicodipendenti Saman Francesco Cardella è vissuto per lungo tempo a Managua in Nicaragua, protetto dai nostri Servizi Segreti? Chi gli ha fatto avere l’incarico di ambasciatore di alcuni paesi arabi in Nicaragua? Come faceva Cardella a possedere addirittura un aereo personale gestendo semplicemente e a distanza una serie di comunità per tossicodipendenti? Perché all’inizio degli anni ’90, si erano allungati su Cardella i sospetti che potesse c’entrare con l’omicidio di Mauro Rostagno? Come mai Fausto Cardella è stato testimone di nozze di quel Claudio Martelli, suocero del n. 2 del Sisde Michele Finocchi gran gestore di traffici d’armi colossali che costarono la vita a Giovanni Falcone, giacchè siamo in tema e in date di anniversari di stragi di stato (23 maggio)? Ed allora domandiamo: Rispondono a questi interrogativi i magistrati siciliani che hanno giudicato il caso Rostagno? Ma assolutamente no! Loro concentrano la attenzione solo sugli esecutori materiali del delitto: Cosa Nostra, quasi in una sorta di ritorsione per aver rivelato Cosa Nostra i depistaggi sulle stragi dei vari Tinebra la Barbera Bo Ricciardi e quindi Vincenzo Parisi, il lacchè di Scalfaro e di Mancino, Michele Finocchi, il suocero di Claudio Martelli e di chi c’era dietro di loro. E spediscono dieci testimoni (dicasi dieci) sotto processo per falsa testimonianza! Come a Potenza! Tale e quale! E allora questa falsa testimonianza di massa è la nuova frontiera del komeynismo giudiziario? Ed è un caso che essa coinvolga a Potenza non già Ciccio Lapizza ma Il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, Magistrato ripudiato dal regime per aver prestato la sua testimonianza all’appestato Matteo Di Giorgio? Ormai non v’è più un Magistrato nell’Italia Meridionale che non cerca di distinguersi per usare le sentenze come le scimitarre, per incriminare decine di testimoni, per mandare il messaggio alla gente che sono tutti delinquenti tutti mafiosi, tutti falsi testimoni quelli che la pensano diversamente da Matteo Renzi, tranne loro i magistrati i soli a essere buoni bravi e belli in questo paese di corrotti e di uomini del malaffare. Ma le cose stanno proprio così? Le presunte false testimonianze di Argentino o i bar aperti senza licenza di Di Giorgio sono i veri casi scandalosi di una Magistratura tarantina per il resto illibata e integerrima? Un Magistrato che è stato per lungo tempo presidente di collegio nel Tribunale di Taranto mi raccontava questo episodio capitatogli una decina di anni fa. Un giorno si presenta a lui il caso di un pluripregiudicato tarantino trasferitosi nel casertano, gravato da quattro pagine di precedenti penali (comprensive di quasi tutti i reati), il quale aveva ricettato assegni per l’importo di 700 milioni delle vecchie lire provenienti da varie rapine e furti a Roma come nel casertano e colto con le mani nel sacco (cioè con i soldi in tasca) al valico di Ventimiglia. Ebbene si presentano a questo presidente del collegio l’avvocato difensore del ricettatore e il sostituto procuratore d d’udienza. Entrambi chiedono per questo pluripregiudicato il minimo della pena con tutti i benefici compresa la sospensione della pena e la diminuzione della pena stessa per il patteggiamento. Il presidente del collegio allora li prende tutti e due (avvocato e sostituto procuratore) e li sbatte fuori dalla sua stanza a mali parole. Qualche giorno dopo il presidente del collegio incontra il sostituto procuratore e questi gli fa: “Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva a quella persona!” Il Procuratore in questione si chiamava Giovanni Massagli (Sinistra politica democristiana grande amico di Nicola Mancino) deceduto qualche mese fa. Personaggio controverso questo Massagli, secondo alcuni un sant’uomo, secondo altri un demone, autore di un libro sui simboli della Massoneria (che c’entrava lui con la Massoneria?), noto persecutore di nemici politici, depistatore nel 1991 di una strage importante, la strage della barberia (1° ottobre 1991) nel corso della quale fu ucciso (non casualmente come fu detto) tal Giuseppe Ierone, un parente di alcuni agenti segreti belgi coinvolti nel grande traffico d’armi internazionale e nell’omicidio di un ex ministro belga. Il pluripregiudicato cui il Procuratore ci teneva si chiamava invece A. F., esponente del del clan casertano dei Piccolo-Quaqquaroni, ex assessore dc a Taranto, arrestato per associazione mafiosa e accusato di reati gravissimi. A. F. avrebbe non solo truccato appalti, ma sarebbe stato anche il mandante dell’attentato dinamitardo del ‘ 92 contro la televisione locale «AT6». Secondo il rapporto redatto alla fine degli anni 80 dall’alto comissario anti-mafia Domenico Sica, A. F., terzo degli eletti nella lista D.C. del Consiglio Comunale di Taranto, era diventato componente della Commissione elettorale del comune di Taranto e punto di riferimento per un gruppo, all’interno della Sinistra Politica democristiana, i cui esponenti ricoprivano incarichi di rilievo. Dalla relazione Antimafia del 1991 risultava che uno di questi tal Alessio Magistro, era stato denunciato dalla locale sezione del Coreco all’autorità giudiziaria, in quanto avrebbe falsamente attestato di non avere mai avuto precedenti penali, al fine di conseguire la nomina a Presidente della azienda dei rifiuti di Taranto”. Il 3 aprile 1994 A. F. veniva fermato dalla Guardia di Finanza al valico autostradale di Ventimiglia e accusato di esportazione di valuta: in realtà era riciclaggio ma quel reato allora ancora non esisteva. F. aveva con se ben 700 milioni di vecchie lire tra contanti ed assegni. Alcuni di quei titoli erano assegni circolari della Banca Nazionale del Lavoro per un ammontare di 135 milioni di lire, che erano stati indebitamente sottratti all’INPS di Roma, altri erano assegni circolari dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane, rapinati il 4 novembre 1987 a un furgone portavalori sull’autostrada Caserta – Salerno, per un valore di 305 milioni. Camorra pura quindi! E servizi segreti deviati! Infatti arrestato A. F.veniva stranamente subito rilasciato. Il fatto più eclatante che lo riguardava si verificava però nel 1998. Il 2 settembre di quell’anno vengono assassinati a Brescia due uomini a lui molto vicini originari di Taranto, che però F. aveva trasferito nel casertano, il già nominato Alessio Magistro e l’avvocato Stefano Punzi. Per volontà di A. F., Alessio Magistro era stato alcuni anni prima presidente dell’Azienda municipalizzata dei rifiuti di Taranto e Stefano Punzi era un avvocato che aveva chiuso il suo studio legale a Taranto per aprirne un altro a Caserta senza accorsamento! A. F. li aveva infiltrati in una cosca camorristica casertana quella dei Belforte-Mazzacane in lotta in quel tempo per il predominio sul territorio con il clan rivale dei Piccolo-Quaqquaroni. Però poi sia Magistro che Punzi furono assassinati. Secondo la ricostruzione dell’accusa che fu fatta a processo, Magistro e Punzi avevano ricevuto il compito di preparare il terreno per assassinare Domenico Belforte, uno dei capi di questo clan Belforte-Mazzacane, il quale in quel momento si trovava al soggiorno obbligato nel Bresciano. Belforte avrebbe però giocato d’anticipo eliminando l’ex direttore dell’AMIU di Taranto e l’avvocato Punzi, uomini del F. Alessio Magistro venne ucciso a colpi d’arma da fuoco nel piazzale dell’ipermercato Rondinelle di Roncadelle (Brescia) mentre Stefano Punzi venne trovato carbonizzato all’interno della sua auto a Brandico, nella Bassa Bresciana. Resta da capire per quale motivo il Sisde o questa particolare fazione del Sisde nel 1998 aveva così clamorosamente preso le parti del clan dei Piccolo Quaqquaroni contro quelle dei Belmonte Mazzacane. C’è anche da dire che una volta tre esponenti del clan dei Piccolo-Quaqquaroni erano stati arrestati e nel corso dell’operazione la polizia aveva rinvenuto, in un capannone nella loro disponibilità, un mitragliatore Uzi in uso all’esercito israeliano. Questo spiega molto per non dire che spiega tutto. Anche l’amicizia del F. con il Procuratore di Taranto Giovanni Massagli. il quale si curava che sul piano giudiziario non gli accadesse mai niente. Infatti non gli succede mai niente. Anzi dai processi risultava che F. veniva sistematicamente avvertito delle indagini che c’erano su di lui da un altro agente del Sisde tal Nicola Curia. E recentemente la manina misteriosa di un Magistrato aveva infiltrato in un processo a suo carico in Corte di Appello un falso conteggio della prescrizione per fargli prescrivere i reati. Ancora all’anno 2000 A. F. nonostante l’attentato dinamitardo ad Antenna Taranto 6, (1992) il riciclaggio dei 700 milioni (1994), il mancato omicidio di Domenico Belforte (1998), A. F. non è stato mai ancora giudicato da nessun Tribunale (chissà perchè ……….mha…………..lentezze della giustizia ………………….). Mi chiedo: ha senso in questo contesto andare dietro i bar aperti senza licenza da Di Giorgio o le presunte false testimonianze di Argentino? Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva molto a quella persona!. Mi chiedo: dove siamo? a Cristo che si è fermato a Eboli? Oppure a Komeini che sta salendo dalla Sicilia?

GUERRA DI TOGHE.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

Parla la pm Digeronimo con Lorenzo Lamberti su “Affari Italiani”: "Io isolata, in magistratura comandano le correnti". Desirèe Digeronimo, 48 anni, è stata a lungo sostituto procuratore della Dda di Bari, la sua città. Numerose le sue inchieste sulla camorra barese, alla quale ha inferto duri colpi. Indagando sui rapporti tra politica locale e criminalità organizzata scoperchia il sistema ruotante intorno all’assessore regionale della Puglia alla Sanità, l’ex senatore Pd Alberto Tedesco. Digeronimo e il collega Francesco Bretone, informati dei rapporti di amicizia dei rapporti di amicizia tra la sorella di Nichi Vendola e il gup Susanna De Felice, si rivolgono agli organi competenti ma la loro lettera spedita in via riservata ai capi degli uffici della Procura di Bari e della Procura generale presso la Corte d’appello finisce sui giornali. De Felice ha poi prosciolto Vendola (a pochi giorni dalle elezioni dello scorso febbraio Panorama ha pubblicato la foto dove i due pranzavano insieme ad altre persone). Il Csm ha aperto un procedimento (per fatto incolpevole) per valutare il trasferimento di Digeronimo per incompatibilità ambientale. Procedimento poi chiuso dopo che il 26 luglio 2013 il Csm ha deliberato il trasferimento a Roma, come da Digeronimo richiesto.

"Comandano gli apparati. Per fare carriera sai che devi far parte di una corrente e questo ha creato quella che chiamo un'oligarchia di magistrati". Desirèe Digeronimo, il pm della Sanitopoli pugliese appena trasferita da Bari a Roma, racconta la sua vicenda e propone una riforma del sistema giudiziario in una lunga intervista ad Affaritaliani.it. “Il trasferimento è stato solo l’ultimo atto di un progressivo isolamento all’interno della procura di Bari”. Il tutto dopo l’inchiesta sull’ex senatore Pd Tedesco e la segnalazione dei rapporti tra Vendola e Susanna De Felice, il gup che doveva decidere sul rinvio a giudizio del governatore della Puglia. “Persone legate a un gruppo di potere mi hanno delegittimata. Non dovevo essere credibile così non sarebbero state credibili le mie indagini”. Nel 2009 Vendola la attaccò con una dura lettera pubblica: “Chi di dovere avrebbe dovuto dare uno stop e tutelarmi, ma non è successo”. Sui pm in politica: “Il problema non è chi fa politica spogliandosi della toga ma chi la fa indossandola. Candidarmi a sindaco di Bari? Per la mia città io ci sarò sempre".

Come mai ha deciso di chiedere il trasferimento da Bari a Roma?

«Il trasferimento è stato solo l’ultimo atto di un cammino progressivo di isolamento all’interno del mio ufficio che io imputo all’azione di personaggi collegati a un gruppo di potere finalizzata alla mia delegittimazione professionale e personale. Non dovevo essere credibile così non sarebbero state credibili le indagini che conducevo. Quando la calunnia si è trasferita dai corridoi alle sedi istituzionali e da là alla diffusione mediatica non ho potuto più limitarmi a resistere ma ho dovuto agire a mia tutela. Il trasferimento è stato un atto consequenziale di rispetto nei confronti dell’istituzione Procura, non potevo trascinare l’ufficio in una strumentale campagna giornalistica di veleni e corvi così come è stata definita. Ho preferito pormi il problema del prestigio di una istituzione assumendomene la responsabilità. Certo, con rammarico devo constatare che chi in tale vicenda aveva il dovere di porsi a tutela di tale prestigio già da molti anni ha mancato, ma io faccio il magistrato. Non potevo non tenerne conto, nemmeno di fronte alle omissioni».

Nell’inchiesta sulla sanità pugliese il nome dell’ex senatore Tedesco fu inizialmente depennato da alcuni suoi colleghi dalle utenze da intercettare. Com’è possibile che sia accaduto?

«Sono questioni di cui non intendo parlare, ci sono sedi competenti in cui è giusto e spero siano affrontate. Certo, se quelle erano le carte nel 2007 la mia indagine iniziata nel 2008 non avrebbe dovuto stupire».

Nell’agosto del 2009 lei ha subìto un duro attacco da parte di Vendola, che scrisse una lettera pubblica contro di lei. Crede che la vicenda sia stata poco sottolineata?

«Credo che la vicenda avrebbe dovuto comportare immediate conseguenze a tutela della giurisdizione da parte di chi era tenuto a farlo. Uno stop duro e fermo a quella deriva avrebbe cambiato il corso delle cose e non avrebbe consentito quello che io penso sia avvenuto in questi anni, ovvero una costante e dannosa perdita di prestigio dell’ufficio di procura di Bari. Ma del senno di poi, come si dice, sono piene le fosse».

Si è data una spiegazione su come sia avvenuta la pubblicazione della sua nota riservata sulla vicenda Vendola-De Felice?

«Ho fatto una denuncia, qualsiasi spiegazione possa dare sarebbe solo un’opinione personale indimostrabile visto che il relativo procedimento è stato archiviato. Certo chi l’ha data in mano a un giornalista non aveva a cuore le istituzioni, la giustizia e l’equilibrio delicatissimo che è alla base del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Il mito narra che aperto il vaso di Pandora uscì tutto tranne la speranza ma alla fine fuggì anche quella. Io vivo anche di speranza, spero che un giorno arrivi la verità, la risposta a tante domande e soprattutto la giustizia».

Ilda Boccassini ha detto che alcuni pm svolgono certe inchieste “per altri scopi” rispetto alla giustizia usando magari la magistratura come trampolino di lancio. E’ d’accordo?

«La magistratura ormai è un mondo variegato: non siamo tutti uguali, non siamo tutti idealmente motivati nello stesso modo. Credo che le storie siano personali e che vadano giudicate dai fatti, dalle circostanze concrete in cui accade che si arrivi a certe scelte. In genere le indagini serie, fatta salva l’alea del giudizio che prevede un contraddittorio tra accusa e difesa, approdano a processi e condanne… già questo esclude un pregiudizio di strumentalità. Il problema vero non è chi fa politica spogliandosi della toga ma chi la fa indossando la toga. La magistratura non è scevra da simili fenomeni anche se non la immagino come attività organizzata e sistemica di supporto politico a questa o quella parte».

Pensa che il sistema delle correnti interne alla magistratura andrebbe rivisto? Non rende troppo simile la magistratura alla politica?

«Il nostro sistema giudiziario necessita di una radicale riforma. Una riforma che restituisca efficienza e credibilità alla giustizia e questo passa non solo da cambiamenti strutturali e innesti di risorse nel servizio giustizia ma anche da una rivoluzione in termini culturali del sistema di rappresentatività dei magistrati all’interno del suo organo di autogoverno. Il nostro sistema giudiziario è specchio del Paese, siamo affetti dalla stessa patologia che affligge l’intera struttura burocratica amministrativa. Il meccanismo dello spoil system ormai è regola: nel bene e nel male comandano gli apparati, vince chi si pone all’interno e a tutela degli apparati. Vince cioè la logica dell’appartenenza. Il tutto avviene all’interno delle correnti. In una situazione come questa avere agganciato al merito e non all’anzianità il criterio per l’attribuzione di incarichi e direttivi, che pure in astratto è cosa sacrosanta, aumenta la discrezionalità di chi decide e diventa facile strumento di derive patologiche del sistema. Oggi sai che per fare carriera, per essere tutelato, per non subire ingiustizie, ma anche per difenderti dalla giusta assunzione di responsabilità nell’esercizio delle tue funzioni, devi fare parte di una corrente, ovviamente una corrente forte capace di sedersi al tavolo della “trattativa” con le altre correnti. In questo meccanismo diventa difficile sottrarsi alla logica dell’appartenenza. Questo sistema ha portato alla nascita di quella che io chiamo un’oligarchia di magistrati che percorrono come cursus honorum i vari steps all’interno dell’Anm e del Csm per fare carriera. La deriva patologica di questo sistema non fa bene all’autonomia e all’indipendenza della magistratura perché aumenta il rischio di una “politicizzazione” di certi meccanismi di autogoverno ma soprattutto non fa bene al servizio giustizia che noi abbiamo il dovere di assicurare ai cittadini. Le correnti da luoghi di discussione e crescita culturale e giuridica si sono trasformati in luoghi di potere».

Serve una riforma della giustizia?

«Questo sistema va immediatamente bloccato, occorre ridare ossigeno alla magistratura esattamente come occorre ridare ossigeno al sistema politico e partitico di questo paese. Questo non può essere rimesso a una sorta di presa di autocoscienza del singolo, serve una classe dirigente politica capace di fare le giuste riforme con onestà intellettuale e per il bene della comunità dei cittadini. Io non voglio rinunciare al criterio del merito per la valutazione dei magistrati perché il criterio dell’anzianità ha forti limiti in termini di efficienza del sistema. Un buon criterio per l’individuazione dei magistrati da delegare all’autogoverno potrebbe essere il sorteggio dei rappresentati togati del Csm: un sorteggio temperato, per esempio all’interno di una rosa di persone candidabili scelte secondo criteri oggettivi predeterminati. Questo indebolirebbe molto il sistema di potere delle correnti. Alla facile obiezione che abbiamo diritto di sceglierci i nostri rappresentanti perché non siamo tutti uguali rispondo che il cittadino non ha diritto di scegliersi il suo giudice: esiste il principio del giudice naturale. Ecco, bisognerebbe studiare una forma di consigliere togato del Csm scelto secondo gli stessi valori che sono alla base del principio del giudice naturale. Tuttavia di fronte all’incapacità di tutta la politica di procedere a una seria riforma della giustizia mi domando se la nostra classe dirigente abbia veramente a cuore la salvaguardia dell’autonomia e della indipendenza della magistratura. Una magistratura controllabile è tranquillizzante, ma chi non ha la lungimiranza di capire che è giunto il momento delle giuste riforme deve sapere che una magistratura controllata ha anche un forte potere di ricatto».

La sua vicenda sembra suggerire che fare il magistrato sia come agire un po’ in un campo minato. Possibile che chi tocca alcune inchieste venga isolato e messo da parte anche dai suoi stessi colleghi?

«Oggi chi tocca alcuni fili muore. Fa parte della degenerazione del sistema di cui ho parlato. Un simile sistema può trasformarsi in una maionese impazzita e non è affatto detto che a “morire” siano sempre gli stessi. Occorre fermare questa deriva ancorata solo a forme di esercizio del potere, la giustizia deve tornare a essere sempre e in tutte le sue forme un servizio a tutela del cittadino, libero da qualsiasi tipo di condizionamento. La vera democrazia di un Paese nasce da questo fondamentale presupposto».

Da Berlusconi all’Ilva, si sprecano i casi di scontro più o meno aperto tra politica e giustizia. Come si può sanare questa “guerra”?

«Il conflitto tra politica e giustizia si può risolvere solo intraprendendo il cammino, difficile ma necessario, che ho descritto prima. Un cammino che può essere intrapreso però solo da chi ha le mani libere per decidere: per cambiare abbiamo bisogno di una classe dirigente non ricattabile né ricattatoria».

Che cosa ne pensa dei referendum sulla giustizia?

«Ho firmato i referendum, ciò non significa che approvi tutto quello che viene proposto. Ho sempre sostenuto, per esempio, che il miglior pm è quello che ha fatto il giudice, ma di fronte all’immobilismo stagnante che ha consentito questa deriva patologica è necessario uno choc, una scossa che provenga dalla base. Non abbiamo più tempo da perdere: per il nostro bene di cittadini occorre rimuovere l’immobilismo della politica con proposte forti. Del resto, con le necessarie garanzie a salvaguardia dell’esercizio imparziale delle funzioni requirenti, siamo pronti anche alla separazione delle carriere. Ricostruire in termini di autonomia e indipendenza reciproca il rapporto tra pubblici ministeri e giudici non può che fare bene alla giustizia intesa come servizio».

Da pugliese pensa che sull’Ilva politica e magistratura abbiano la coscienza pulita?

«Il caso dell’Ilva è emblematico del ruolo di supplenza assunto dalla giustizia rispetto al silenzio e all’inerzia delle istituzioni deputate a decidere e a controllare che ci sia la giusta coniugazione tra interesse pubblico e privato. Quando si giunge a questo punto è già troppo tardi: qualsiasi azione si intraprenda non sarà mai possibile che nel conflitto tra diritti, in questo caso tra lavoro e salute, ci sia un contemperamento che garantisca il giusto equilibrio. Ci sarà sempre un diritto soccombente. Nella vicenda Ilva si è arrivati al punto di non ritorno e le responsabilità sono diffuse, ma le maggiori responsabilità sono quelle politiche perché la magistratura una volta imboccata la strada ha un percorso obbligato».

Da Ingroia a De Magistris ci sono stati alcuni casi “sfortunati” di pm in politica. Pensa che questo passaggio di ruolo sia legittimo?

«Candidarsi è un diritto, ci sono motivazioni complesse che portano un magistrato a farlo, solo che spesso rimangono confinate all’interno della propria coscienza. Nella gamma dei magistrati candidati in politica a mio avviso ci sono motivazioni nobili e meno nobili, dai crediti acquisiti che vengono saldati dagli apparati di potere alla mera ambizione personale. Ma la motivazione può essere più profonda, può derivare dalla presa di consapevolezza dei limiti del sistema giudiziario, della sua patologia. Tale presa di coscienza nasce spesso da un’esperienza personale che mette in crisi il proprio sistema valoriale e innesca un processo di allontanamento. E’ come un grande amore tradito, quello che fa più male, ma anche quello che per autodifesa vuoi rimuovere dal cuore. In questo caso scegliere di candidarsi unisce la voglia di cambiare il nostro sistema paese alla necessità di continuare a credere in quegli stessi ideali che ti hanno fatto amare la toga e alla consapevolezza che per affermarli occorre andare all’esterno. Giustizia ed equità passano dal cambiamento delle regole e le regole le cambia la politica. In fondo in questi casi ti candidi perché credi ancora in qualche cosa e pensi di poterla realizzare, perché non ti vuoi rassegnare alla logica che il mondo deve andare per forza così. Tuttavia, credo he se è un diritto candidarsi e poterlo fare senza perdere un posto di lavoro, è anche un dovere del magistrato e un diritto dei cittadini avere la garanzia sostanziale e formale di una magistratura terza e imparziale. Occorrerebbe quindi regolamentare la materia facendo sì che un magistrato che affronti un impegno politico possa tornare a svolgere le sue funzioni in altri settori della pubblica amministrazione, in ruoli diversi da quelli giurisdizionali. Ci sono tanti posti riservati ai magistrati nella pubblica amministrazione… non sarebbe difficile farlo».

Gira la voce che lei si candiderà a sindaco di Bari. È una voce che corrisponde a realtà?

«Ho lavorato 15 anni al servizio della mia città producendo risultati importanti e tangibili. Risultati che sono e saranno alla base della prosecuzione di questo lavoro da parte dei colleghi che dopo di me prenderanno in mano la situazione del controllo di legalità e della repressione del fenomeno criminale mafioso nella città di Bari. Quando hai svolto con tale intensità il tuo ruolo è difficile non pensare in termini di appartenenza alla tua comunità, è difficile rinunciare a occuparsi delle persone che hai cercato di proteggere, di difendere rendendo giustizia. È come una relazione d’amore, in questo caso per di più interrotta per mano di altri. Ecco, non smetterò mai di amare la mia comunità e di nutrire lo stesso sentimento di protezione, di ricerca della giustizia e dell’equità, della costruzione di un tessuto sociale fondato su valori positivi di comunione e solidarietà. Quando ti misuri con un sentimento e non con le parole tutto il resto viene da sé. Per la mia città io ci sarò sempre con la stessa determinazione di fare qualcosa di buono per il bene di tutti. Il resto chissà, io credo nel destino delle cose che accadono…»

LE CARICHE PUBBLICHE E LA MASSONERIA. FATTI AMICO UN MASSONE DI SINISTRA.

Ottoemezzo del 7 aprile 2014 su La7. Le cariche pubbliche e la massoneria. Parte il punto di Paolo Pagliaro, nel quale si sostiene che la massoneria è molto radicata negli incarichi pubblici e che conti molto più di quanto si immagini. Bisi sostiene che «non mi risulta che ci siano massoni nel governo Renzi» e che in caso contrario «non ci sarebbe nulla di male». Per D’agostino vi sono dei movimenti che operano al di là di quello che vediamo. Bisi invece dice che alla base delle preoccupazioni vi siano il rispetto della persona, della cultura, della scuola pubblica. Nega che il Grande Oriente si occupi minimamente delle nomine pubbliche. Sostiene che durante le riunioni massoniche uno parla e gli altri ascoltano, cosa che non succede nei partiti. Bisi conclude invitando di conoscere meglio la massoneria, anche visitando il loro Bisi per essere Gran Maestro guadagna 129 mila euro lordi all’anno e ogni anno ogi fratello deve versare circa 400 euro. Bisi pensa che un’esperienza come la P2 non si possa ripetere perché i controlli da parte del Grande Oriente si sono infittiti. D’Agostino sostiene che Gelli «uno che vende materassi a Frosinone» fosse una testa di legno e che non potesse essere davvero lui a «comandare l’Italia» Bisi sostiene che se dovesse scegliere tra due giornalisti e uno dei due è massone, sceglierebbe quello più bravo, anche se l’altro è massone. Sostiene che non vi sono donne nella massoneria per motivi storici «siamo radicati alle tradizioni». Crede che per cambiare una tradizione ci sono dei percorsi da intraprendere, in questo caso molto lunghi. Bisi sostiene che tra massoni ci si sostiene «nei limiti del lecito», raccontando di aver fatto 30 chilometri per anni per accompagnare un fratello cieco per cui la massoneria era una ragione di vita. Bisi racconta che nel 77 decise di aderire perché un giornale pubblicò i nomi dei maestri venerabili. Si incuriosì e dopo aver incontrato un massonE chiedendo di entrare. Dopo quattro anni venne ammesso. La Gruber chiede come deve chiamare il gran Maestro, che chiede di essere chiamato “Stefano”, D’Agostino fa dell’umorismo e interviene con «bellicapelli». Bisi spiega che gli affiliati della massoneria sono segreti come quelli di altre associazioni. Dice che i responsabili sono noti, così coem le sedi. Ha detto che Rimini avrebbero potuto partecipare all’incontro con tutti i fratelli associati alla massoneria. D’Agostino ha detto che intorno al 2000 aveva deciso di diventare massone, ma la sua domanda non venne presa in considerazione. Crede che a parte lo scandalo della P2, la massoneria ha portato all’unità d’Italia. Bisi sostiene che la massoneria non distribuisce poltrone «il potere della massoneria è quello di far emozionare». Norberto Bobbio disse che la democrazia non è compatibile con un potere come la massoneria. Per Bisi la massoneria è una palestra per la laicità che serve a «migliorare noi stessi e migliorando noi stessi possiamo migliorare l’umanità». Per D’Agostino la massoneria è qualcosa di più concreto, ma non deve essere criminalizzata, anche se poi fa un parallelismo con la mafia. D’Agostino sostiene che al governo si sono susseguite massonerie di destra e sinistra, mentre per Bisi sta semplificando. Oltre alle grandi riforme Renzi deve risolvere la nomina dei nuovi vertici della aziende pubbliche. Si dice sempre che i poteri forti in questi casi si mettono in azione. La Gruber si chiede se in questo caso «la massoneria è in azione?». La presentatrice ne parlerà insieme al Gran Maestro del Grande Oriente Stefano Bisi e Roberto D’Agostino, che si è autodefinito “Gran Bidello”.

Massoneria non significa affarismo e nepotismo, scrive Alessandro Calabrese su “Italians-Corriere della Sera”. Caro Severgnini, l’eccezione conferma la regola, dice un vecchio adagio. Quindi devo sperare che la tua concessione allo scontato luogo comune massoneria = affarismo e nepotismo sia, appunto, un’eccezione che conferma la tua originalità nei giudizi, mai banali. Pensi davvero che la libera muratoria italiana (quella che ha contribuito in maniera decisiva a realizzare quel poco di stato laico che c’è nel nostro paese, solo per citarne il merito più evidente) possa essere ridotta solo a sinonimo di affarismo e di ileciti intrallazzi? La massoneria mi ha insegnato, tra tante altre cose, a non essere né ingenuo né partigiano. Sarei quindi uno sciocco se negassi che anche in massoneria, come in ogni aggregazione umana (partiti, aziende, associazioni, chiese, ordini e caste professionali, club, bocconiani e chi più ne ha, ne metta) ci sono persone che cercano di trarre benefici dalle relazioni attivate. Tuttavia sono convinto che, specialmente oggi, la massoneria non sia affatto caratterizzata da queste attività e sicuramente lo sia infinitamente meno della maggior parte delle altre forme associative, fermo restando che, purtroppo, è umanamente impossibile impedire alle persone di cercare vantaggi ingiusti o illegittimi. Quello vissuto dalla massoneria italiana negli ultimi decenni, specie dopo lo scandalo P2,la vera antitesi della massoneria, è un percorso di trasparenza e responsabilità, che ne ha evidenziato il ruolo di agenzia di valori e principi. Ma è più comodo continuare ad agitare il luogo comune. In fondo siamo anche scomunicati. Con immutata stima, Alessandro Calabrese.

Massoneria:il dopo P2, scrive Gian Giacomo William Faillace. Gli anni successivi al falso scandalo che ha coinvolto la Rispettabile Loggia Propaganda 2, hanno segnato profondamente la Massoneria italiana: azioni diffamatorie, creazione, da parte di alcuni giornalisti di pseudo logge definite P3 e P4 che con la Massoneria nulla avevano o hanno a che fare, azioni antimassoniche clericali o di stampo comunista volte al tentativo di distruggere l’istituzione massonica, hanno colpito nel segno ferendo la Massoneria ma il tentativo di cancellarla è mal riuscito. Tanto concentrati  in questo vano tentativo, queste due forze (Chiesa e Comunismo), che da sempre hanno rappresentato il totalitarismo, il dogmatismo, la demagogia, hanno perso di vista i problemi, nonché le lotte interne, che le attanagliavano perdendo talvolta fedeli talvolta “compagni”. Successivamente, mentre la Chiesa ha avuto timidi atteggiamenti di apertura, la sinistra italiana ha cercato, talvolta con successo, di infiltrare all’interno delle obbedienze, persone ad essa vicine seguendo così la regola che se non si può abbattere un nemico dall’esterno allora si deve colpire dall’interno. Il pregio, ed al contempo il difetto, della Massoneria è che tutti possono “bussare” ed essere iniziati, a prescindere dal credo politico o religioso, e proprio questa regola, alla base della tolleranza, rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Purtroppo, le infiltrazioni della sinistra italiana, hanno contribuito a trasformare alcune logge in vere e proprie sezioni di partito. La Massoneria, però, non è politica, non è un club in cui discorrere di  affari, ideologie e tantomeno un luogo in cui “educare” i neofiti all’avversione verso una dottrina politica o religiosa, eppure, in alcune logge, seppur isolate, avviene. Ecco il motivo che ha spinto molti massoni ad entrare in sonno, ossia ad uscire dalle logge volontariamente e scegliere quindi di non partecipare a tempo indeterminato ai lavori rituali. Ora, la Massoneria italiana, dovrà impegnarsi e riuscire ad epurare le sue logge da tutti coloro che hanno intenzione di sostituire la squadra ed il compasso con la falce ed il martello. Non solo apertura e trasparenza verso il mondo profano, ma anche scelte coraggiose che vedranno la perdita di numerosi iscritti, spettano ai Gran Maestri delle Obbedienze massoniche italiane. Solo seguendo la “Vera Luce” i Gran Maestri potranno riportare la Massoneria in quel “solco naturale” che vuole che essa sia una strada per un perfezionamento etico personale: il massone deve imparare, essere sgrossato come una pietra grezza per divenire una pietra angolare e quindi “esportare” al mondo esterno il suo perfezionamento etico al fine di rendere migliore tutto ciò che lo circonda. Guai se avvenisse il contrario! Ma si sa, la Massoneria è composta da uomini, e gli uomini sono imperfetti, quindi è ovvio che in seno all’Arte Reale si verifichino”importazioni profane” ma è compito dei Venerabili Maestri vigilare con perseveranza  affinchè fattori esterni non inquinino i lavori delle logge. Quindi, solo con scelte coraggiose e non dettate da inquinamenti esterni, la Massoneria italiana potrà essere guida verso la libertà, la laicità e tornare ad essere quella radiosa luce in fondo al tunnel della superstizione, del totalitarismo e dei dogmatismi demagogici e tornare ad essere portatrice di quella modernità che la società tutta richiede. C’era una volta una sinistra seria. Inattaccabile. Affidabile. “Comunista, ma perbene.” Il paradigma è saltato ed è ora di guardare in faccia la realtà per quella che è veramente. Anche la sinistra ruba, inquina, specula, anche la sinistra fa affari sporchi e attacca la magistratura. Banche, sanità, cooperative, fondazioni, amministrazioni locali e regionali: scandali e inchieste hanno travolto la classe dirigente che avrebbe dovuto trasformare l’Italia in un paese “normale”, persino roccaforti rosse come l’Emilia sono crollate, investite da accuse di connivenza con mafia e ’ndrangheta. Al posto dell’ideologia il denaro, l’interesse individuale, il puro potere. Ecco gli scandali del Monte dei Paschi, la scalata alla Bnl, la Bicamerale, la legge del comunista Sposetti che ha arricchito i partiti, la metamorfosi di Violante, i soldi dell’Ilva, le accuse di tangenti a Penati, le convergenze con la destra in materia di giustizia... Non serve vincere le elezioni se la gestione del potere e le ricette economiche rimangono uguali a quelle degli avversari berlusconiani. Fatti, non solo parole, dal Nord al Sud, città per città, regione per regione. Il quadro è inquietante, più che sufficiente a fotografare una malattia per la quale non sembra esserci una terapia efficace. E che come un virus inarrestabile non risparmia nemmeno il nostro capo dello Stato, ultimo difensore di questo sistema, del quale qui si svela per la prima volta la complessa storia politica, ricca di retroscena inediti.

Ferruccio Pinotti è autore di molti libri-inchiesta che hanno smascherato le trame e gli interessi dei poteri forti. Lavora al “Corriere della Sera” e ha scritto per “MicroMega”, “l’Espresso”, “Il Sole 24 Ore”, “la Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano”. Tra i suoi libri più importanti vanno ricordati POTERI FORTI (Bur 2005), OPUS DEI SEGRETA (Bur 2006), FRATELLI D’ITALIA (Bur 2007), COLLETTI SPORCHI (Con Luca Tescaroli, Bur 2008), L’UNTO DEL SIGNORE (con Udo Gümpel, Bur 2009), FINANZA CATTOLICA (Ponte alle Grazie 2011), VATICANO MASSONE (con Giacomo Galeazzi, Piemme, 2013). Con Chiarelettere ha pubblicato LA LOBBY DI DIO (2010) e WOJTYLA SEGRETO (con Giacomo Galeazzi, 2011). Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta, dal 2009 è corrispondente de “il Fatto Quotidiano”, dalle cui colonne ha svelato il primo caso accertato di rapporti tra ’ndrangheta e Pd al Nord, nel comune appenninico di Serramazzoni, una vicenda poi ripresa da REPORT.

Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D'Alema, dalle innovazioni ambigue di Renzi alle ombre dell'Ilva su Vendola. Fino al "nuovo compromesso storico" di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano, scrive Lorenzo Lamperti su “Affari Italiani”. Non risparmia nessuno "I panni sporchi della sinistra", il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere") che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro importante e "lungo due anni", come ha spiegato Santachiara intervistato da Affaritaliani.it, nel quale i due autori raccolgono e analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia Bersani di Penati, Pronzato e Veronesi alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D'Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo, che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Pinotti e Santachiara ricostruiscono con dovizia di particolari tutta una serie di vicende, grandi e piccole, note e sconosciute, che offrono un ritratto impietoso di una sinistra che ha subìto "una mutazione genetica". Il libro si apre con un esplosivo capitolo su Giorgio Napolitano, del quale vengono indicati i rapporti (o presunti tali) con Berlusconi, la massoneria, la Cia e i poteri atlantici. Un capitolo del quale Affari pubblica un estratto e che certamente farà molto discutere.

Stefano Santachiara, com’è nato il libro “I panni sporchi della sinistra”?

«Mi sono occupato a lungo di cronaca giudiziaria per L’Informazione, un giornale emiliano, e tuttora come corrispondente del Fatto Quotidiano. E' così che mi sono imbattuto in casi di malaffare, speculazioni edilizie, tangenti mascherate da reti di favori incrociati, rapporti con la criminalità organizzata. Spesso in queste vicende era coinvolto il centrosinistra. A Serramazzoni, in provincia di Modena, ho raccontato le prime contiguità acclarate tra ‘ndrangheta e Pd al nord, proprio nell’Emilia “rossa”. Quando L’Informazione ha chiuso i battenti nel febbraio 2012 ho sentito Ferruccio Pinotti e insieme abbiamo deciso di realizzare un libro-inchiesta: oltre ai casi giudiziari che riteniamo cruciali, abbiamo scavato sui centri nevralgici del “Potere democratico”, studiato documenti impolverati e inediti, raccolto nuove testimonianze. Man mano che si componeva il mosaico abbiamo effettuato collegamenti che ci consentono di analizzare la mutazione antropologica, etica e culturale, del partito erede del Pci di Berlinguer.»

Il libro si apre con una serie di frasi di leader del Pd. Frasi che fino ad alcuni anni fa sembravano possibili da attribuire solo a politici del centrodestra. In che modo si è venuta a creare questa mutazione da voi definita “genetica”?

«Questa mutazione è evidente, la si evince da molti aspetti a partire dalle politiche economiche. Ormai il Pd, sia nella classe dirigente che si perpetua da un ventennio sia nel nuovismo di Renzi, ha la stella polare più vicino al mondo della finanza che non a quello dei lavoratori. La sinistra moderna, non soltanto per la fusione con gli ex democristiani, ha cambiato visione di società mettendo in soffitta le prospettive del socialismo europeo e anche quelle keynesiane: per sommi capi possiamo ricordare che ha privatizzato reti strategiche nazionali, aperto al precariato con la legge Treu, ha appoggiato guerre della Nato, non si è prodigata per estendere i diritti civili, ha finanziato le scuole private invece di rilanciare l'istruzione pubblica e riportare la cultura (senza scomodare l'egemonia di gramsciana memoria) al centro dell'azione politica, infine si è allineata alla “dottrina” dell' austerity imposta dall'Europa dei tecnocrati. In questo contesto ha sdoganato comportamenti come i conflitti d'interesse – anche propri, non soltanto quello noto di Berlusconi - e le opache relazioni con il potere economico e bancario tradendo i principi morali e di giustizia sociale che avevano animato la sinistra del passato.»

La cosiddetta superiorità morale della sinistra non esiste più?

«Sulla base delle inchieste giornalistiche condotte in questi anni e del quadro organico che abbiamo assemblato ci siamo persuasi che, nei fatti, questa diversità non esiste più.»

La struttura del vostro libro sembra suggerire che il padre di questa mutazione della sinistra sia Giorgio Napolitano. È così?

«Napolitano è un garante dei poteri forti. È il comunista borghese collaterale al Psi di Craxi e favorevole, già negli anni Ottanta, ai rapporti con Berlusconi. Trovo significativa una sua frase, pronunciata quando si insediò al ministro degli Interni nel primo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, nel 1996. “Non sono venuto qui per aprire gli armadi del Viminale”, disse Napolitano facendo intendere di non voler indagare sui tanti segreti italiani irrisolti. Una dichiarazione che è tutta un programma.»

Nel libro viene citata tra l’altro una fonte anonima che sostiene l’appartenenza di Napolitano alla massoneria…

«L’appartenenza di Napolitano alla massoneria non è provata. E’ l’opinione della nostra fonte, noto avvocato figlio di un esponente del Pci, il quale riconduce le famiglie Amendola e Napolitano, interpreti della corrente di pensiero partenopea “comunista e liberale”, alla massoneria atlantica. Anche l'ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, ipotizza per il presidente della Repubblica l'affiliazione ad ambienti massonici atlantici. Ma siamo nell’ambito delle opinioni. E' invece emerso da un documento datato 1974, l'Executive Intelligence Review, che Giorgio Amendola, il mentore di Napolitano, era legato alla Cia. Napolitano fu il primo dirigente comunista ad essere invitato negli Stati Uniti. Andò in visita negli Usa al posto di Berlinguer, a tenere conferenze nelle università più prestigiose: proprio nei giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Un episodio che chiarisce quanto Napolitano fosse, sino da allora, il più affidabile per i poteri atlantici e che spiega almeno in parte la sua ascesa.»

Insomma, Napolitano grimaldello degli Usa per portare il Pci a posizioni più allineate al potere atlantico?

«Napolitano ha saputo muoversi perfettamente. A livello pubblico e ufficiale è sempre stato fedele al partito, sostenendo la causa di Togliatti persino nella difesa dell'invasione sovietica di Budapest nel 1956, poi come “ministro degli Esteri” del Pci. In maniera sommersa ha coltivato relazioni dall'altra parte della barricata, accreditandosi a più livelli di potere, italiani e internazionali.»

Alla luce di quello che scrivete nel libro sui rapporti tra Napolitano e Berlusconi ritieni credibile che tra i due ci fosse stato un accordo su un qualche tipo di salvacondotto giudiziario per il leader del centrodestra?

«I rapporti tra Berlusconi e Napolitano vengono da lontano,dai tempi della Milano da bere, quando la corrente migliorista del Pci spingeva per lo spostamento del baricentro dalle posizioni di Berlinguer a quelle di Craxi. Il rampante Berlusconi finanziava il settimanale della corrente migliorista, Il Moderno. Negli anni Napolitano si è confermato uomo del dialogo nei confronti di Berlusconi, contro il quale non ha mai espresso posizioni fortemente critiche. Ha promulgato senza rinvio lodi e leggi ad personam che sono stati poi bocciati dalla Corte Costituzionale, in queste settimane ha parlato di amnistia proprio dopo la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset.»

Nel libro parlate anche delle magagne di tutti gli altri attuali leader della sinistra. In particolare delle amicizie sbagliate, o quantomeno pericolose, di Bersani e D’Alema. Per quanto riguarda i rapporti di forza sembra venir fuori che D’Alema è la serie A e Bersani è la serie B. E' così?

«La frase su serie A e serie B è riferita a una fase del Penati gate. A un certo punto Di Caterina, prima finanziatore del partito e poi teste d’accusa nel processo a Penati, fa riferimento a un affare immobiliare senza rilievo penale. Un affare che vorrebbe Di Caterina ma che si sblocca solo quando palesa il proprio interessamento la società Milano Pace del salentino Roberto De Santis, imprenditore che si autodefinisce “fratello minore di D’Alema”. La galassia dei dalemiani è molto composita e ben presente anche nel campo degli affari. Nel libro parliamo anche della vicenda di Flavio Fasano, dimenticata dai quotidiani nazionali. Fasano era il referente di D’Alema nel quartier generale di Gallipoli: da sindaco gli ha organizzato regate e incontri decisivi come il pranzo con l'allora segretario del Ppi Rocco Buttiglione che nel 1994 creò le condizioni per il ribaltone del governo Berlusconi poi affossato dalla Lega di Bossi. Un uomo di fiducia, insomma. Ecco, nel 2008 si è scoperto che Fasano aveva rapporti con Rosario Padovano, un boss della Sacra Corona Unita di cui era stato avvocato anni addietro. Da una telefonata intercettata emerge che Fasano gli dispensava consigli pochi giorni dopo che Padovano aveva fatto uccidere il fratello. Non bisogna esagerare definendo Fasano come il “Dell'Utri di D’Alema” però la vicinanza di un suo fedelissimo ad un capomafia è un fatto poco noto...»

Nel libro raccontate le vicende di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo. Entrambe, dopo aver lambito D’Alema e Vendola con le loro inchieste su Unipol e sulla Sanitopoli pugliese, sono state trasferite per “incompatibilità ambientale”. Questo significa che in alcune procure chi indaga su leader politici di sinistra viene isolato e punito?

«Di certo vi è stata una degenerazione, mi riferisco al peso improprio che le correnti della magistratura hanno assunto in seno ad Anm e Csm, che in alcuni casi hanno trasferito, punito e isolato i magistrati non allineati. Se da un lato si è manifestato un atteggiamento demeritocratico e doppiopesista dall'altro però non si può affermare come fa Berlusconi che siano tutte toghe rosse o che la magistratura sia eterodiretta dalla politica. Preferisco restare ai due casi specifici. Quando il Tar ha annullato il provvedimento di trasferimento della Forleo a Cremona deciso dal Csm, l’Anm ha criticato la sentenza. Eppure il sindacato delle toghe, ogni volta che Berlusconi attacca i giudici, ribadisce giustamente che le sentenze vanno rispettate. Nel procedimento sulla scalata di Unipol a Bnl D’Alema e Latorre potevano essere indagati per concorso in aggiotaggio, ma nonostante le indicazioni del gip Forleo sulla base delle loro scottanti telefonate con Consorte i pm di Milano non lo hanno fatto... Quanto al secondo caso, il sostituto procuratore di Bari Digeronimo – che ha scoperto il marcio di un sistema sanitario regionale piegato a interessi partitici e affaristici - è stata attaccata da Vendola pubblicamente, in stile berlusconiano, senza ricevere appoggio alcuno. Pochi mesi fa è finita nel mirino del Csm per aver segnalato insieme al collega Francesco Bretone i rapporti di amicizia tra la sorella di Vendola e Susanna De Felice, cioè il gup che ha assolto il governatore della Puglia nel processo relativo alla nomina di un direttore sanitario grazie alla riapertura dei termini del concorso. Il Csm ha ottenuto il trasferimento della Digeronimo accusandola di conflittualità con i colleghi, la stessa accusa mossa a suo tempo alla Forleo: condizioni fisiologiche in ogni ufficio e slegate dall'attività giurisdizionale.»

Al di là del caso di Serramazzoni, sembra che l’interesse del Pd riguardo i temi dell’antimafia sia piuttosto basso. È così?

«È così e la prova la si è avuta nella scelta dei candidati per le elezioni del 2013. In Calabria sono state escluse sindache antimafia come Caterina Girasole, Elisabetta Tripodi e Maria Carmela Lanzetta. In Emilia è stato dimenticato Roberto Adani, ripetutamente minacciato per aver denunciato presenze mafiose e colletti sporchi. Nando Dalla Chiesa non è stato più ricandidato dal 2006. Malgrado i proclami elettorali c’è scarsa attenzione su questi temi. In questi giorni si parla tanto dei “signori delle tessere” e sembra quasi che ci sia una guerra tra loro e i maggiorenti del Pd. Ma non è così: i “signori delle tessere” sono stati candidati dai leader nei listini bloccati per una precisa strategia che ha invece escluso chi ha rischiato la pelle combattendo le cosche.»

Una volta si pensava che le mafie fossero politicamente orientate a destra. Oggi guardano anche a sinistra?

«Anche se la maggioranza di casi riguarda ancora il centrodestra, come abbiamo visto si registrano le prime collusioni mafiose dei democratici.»

Sinistra e massoni, i parenti segreti. Un percorso comune da Garibaldi ad Arturo Labriola. Poi la grande rimozione, scrive Dario Fertilio su “Il Corriere della Sera”. Un grembiale di «compagno», il secondo grado gerarchico della massoneria, e una bandiera operaia della «lega tessile»: stessa cazzuola e uguale compasso, analoga la pala con l'immancabile livella. E poi due donne guerriere che marciano insieme verso il bel sol dell'avvenire: la prima, a impersonare i liberi muratori del Grande Oriente, l'altra nei panni della Comune parigina. Modi diversi, all'italiana o in stile francese, per dire la stessa cosa: la sinistra, compresa quella di oggi, è figlia della massoneria. O almeno nipote, benché abbia preferito potare i rami più antichi dell'albero genealogico, rimuovere le memorie di famiglia e in qualche caso demonizzare l'appartenenza stessa dei suoi membri alla mitica associazione vincolata dal segreto. Ma oggi quella legittima discendenza viene riportata alla luce in uno studio imponente curato per la Einaudi dal filosofo Gian Mario Cazzaniga: il ventunesimo volume degli Annali della Storia d'Italia è dedicato interamente al mondo - sconosciuto ai più - delle logge e dei grembiulini, dei cappucci e dei grandi orienti. Sono quasi novecento le pagine in cui una trentina di studiosi ritraggono il pianeta oscuro dalle più svariate angolazioni: riti e musica, religione e giardinaggio, politica e letteratura, mitologia e antiquariato. La stessa classificazione del soggetto di studio - la massoneria appunto - non è definibile una volta per tutte: ci sono buone ragioni per inserirla tra le «scienze occulte» ma anche per considerarla una «religione», senza dimenticare la definizione anglosassone di «associazione fraterna» né respingere del tutto la collocazione nello scaffale della spiritualità teosofica, imparentata con la New Age. Poliedrici, dunque, i saggi contenuti nell'Annale, quanto sfuggente si conferma la materia. Ma certo la sorpresa viene soprattutto dalla discendenza, individuata e dichiarata, fra ordine massonico e sinistra politica. Lo riconosce il curatore Gian Mario Cazzaniga, anche se precisa che «l'affermazione di per sé è parziale. Possiamo dire che le logge massoniche del Settecento costituirono il laboratorio in cui si formarono le grandi correnti del pensiero politico contemporaneo: liberalismo, repubblicanesimo, democrazia cristiana e socialismo». Anche il partito cattolico? «Certo, perché il momento forse più importante, quello dei vescovi che presero parte alla Rivoluzione francese, li vide formarsi durante gli anni precedenti all'interno delle logge massoniche». Ma per quanto riguarda la sinistra... «Bisogna distinguere i suoi due filoni anarco-repubblicano e socialista-marxista. Il primo, nel secondo Ottocento, vide la maggior parte dei suoi esponenti affiliati alle logge; nel secondo ci fu una presenza massonica importante, a cominciare dai due generi di Marx: Lafargue e Longuet». Gli esempi italiani non si contano: da Garibaldi ad Arturo Labriola, passando per Andrea Costa - accostatosi poi al filone socialista di Turati - ma non si possono trascurare i celebri esponenti anarco-repubblicani Bakunin e Proudhon. «Nel campo socialista-marxista - osserva Cazzaniga - il settore riformista e la direzione del movimento sindacale rimasero massonici fino alla prima guerra mondiale, e anche oggi lo sono molti dirigenti dell'Internazionale socialista, soprattutto belgi e francesi». Resta da spiegare il perché della grande rimozione, quasi un ripudio delle radici. «C'è una spiegazione culturale: la sinistra, nella sua fase più anticlericale, interpretò l'aspetto spirituale del rito massonico come un vero e proprio cedimento alla religione. Ma ne esiste anche una politica: la massoneria è sempre stata un momento associativo della classe dirigente, in tutto l'arco politico. L'accusa del movimento operaio ai socialisti massoni si concentrò dunque sulla "collusione con il nemico sociale". Sarà proprio questo l'oggetto della battaglia di Mussolini al congresso socialista di Ancona del 1914». La parola d' ordine della sinistra, dunque, fu «nascondere» il proprio passato? O addirittura «reciderlo?». «Nel mondo socialista sarà soprattutto la parte radicale a prendere le distanze; in quello comunista a partire dal 1922 ci sarà la dichiarazione di incompatibilità, il veto alla doppia appartenenza, per le ragioni politiche già dette. Ma anche per una considerazione di fondo: l'idea totalizzante di un'organizzazione che non ammette nient'altro al proprio interno». In parte deve avere influito anche l'alone misterioso dell'associazione segreta, il sospetto verso altre obbedienze... «Questo è un punto ambiguo. Nel testo della nostra Costituzione, e nel dibattito che lo precedette, il divieto di associazione segreta è stato mantenuto volutamente nel vago. Si vollero colpire naturalmente le finalità militari eversive, ma non si chiarì fino a che punto il diritto associativo potesse comportare la tutela della privacy degli iscritti. Negli statuti dei partiti della sinistra, compresi quelli attuali, ci si attiene in maniera analoga alla lettera della Costituzione, senza precisare a quali associazioni si applichi il divieto di appartenenza (benché il suo significato implicito sia antimassonico)». Un problema, riconosce Cazzaniga, che si ripercuote nella stessa politica culturale della sinistra di oggi: «Il recupero voluto e attuato di filoni repubblicani e socialisti all'interno del nuovo partito, i Ds, complica alquanto le cose, dal momento che si tratta di filoni ricchi di apporti massonici». Insomma, questa sinistra ha ripudiato la madre... «O almeno una delle sue madri, dal momento che esiste anche quella del socialismo cristiano». E se dovesse «riabilitare» qualcuno dei «dimenticati», la sinistra di oggi a chi potrebbe pensare? «C'è una figura emblematica, quella di Sylvain Maréchal. Fu il comunista utopista e massone che nella congiura di Babeuf del 1796 scrisse il primo manifesto del comunismo mondiale, come ricordò lo stesso Marx». È l'Italia, dunque, il Paese in cui la sinistra ha messo in atto la «rimozione» più pesante? «Certo l' accusa non vale per la Gran Bretagna o il Nord America. Da noi invece si basa su aspetti molteplici. Il fascismo, obbedendo al suo totalitarismo organizzativo, perseguitò le logge e impose ai suoi dirigenti di scegliere fra partito e massoneria. Tra l'altro, un terzo dei membri del Gran Consiglio era di origini massoniche. Ma anche nel dopoguerra le due grandi chiese, Dc e Pci, avevano ragioni comuni per diffidare della massoneria e non volersi misurare con essa. Né i dirigenti delle logge sono riusciti a trovare una identità culturale adeguata alla società di massa, anche se mi sembra che il gruppo dirigente attuale si comporti correttamente. Lo testimonia il fatto che, negli studi umanistici degli ultimi due secoli, il fenomeno sia stato poco studiato, quasi per un tacito accordo di esclusione. Non parliamo poi della P2: fu molto peggio che un incidente di percorso, perché un'organizzazione segreta con finalità politiche è contraria ai principi della massoneria, che sono di rispetto per le leggi e di non interferenza. E perché un'organizzazione interna alla massoneria si è imposta ai suoi organi di governo legittimi». Quanto ai legami internazionali della P2, non sono stati studiati abbastanza e Gian Mario Cazzaniga ha una sua teoria: «Credo che le chiavi di spiegazione non si trovino a Washington, ma in gruppi economici latino-americani figli della rete Odessa (l'organizzazione neonazista che favoriva l'espatrio dei gerarchi). E questo spiegherebbe certi strani rapporti con reti arabe e tedesche». Nell'Annale si toccano altri filoni di pensiero, legati all' idea della politica come «religione moderna». È giusto definire la massoneria del Settecento «madre delle idee politiche?». E ci fu la Carboneria ottocentesca all' origine dei partiti di massa? «Certo, e la prima uscita pubblica di questa religione - conferma Cazzaniga - è stata la rivoluzione americana, diretta da massoni come Washington e Franklin». Oltre Atlantico nessuno ha mai considerato il segreto incompatibile con la democrazia... «La massoneria americana è tuttora la più grande del mondo. In generale, non esistono società in cui il segreto non venga praticato come legame sociale, cominciando da quelle cattoliche. Anche i club privé, dopotutto, non possono essere considerati luoghi semi-segreti? E che dire delle riunioni degli organi dirigenti di partito o dei consigli di amministrazione delle imprese?». Il curatore Filosofo e militante Gian Mario Cazzaniga, docente di Filosofia morale all' Università di Pisa e curatore dell'Annale della «Storia d'Italia» Einaudi su «La massoneria» (pagine XXXII-850, 85), ha una lunga storia di militanza a sinistra Dirigente studentesco e poi della Cgil-Scuola, ha fatto parte della sinistra extraparlamentare tra gli anni Sessanta e Settanta. Iscrittosi al Pci nel 1975, è passato poi al Pds, della cui direzione nazionale è stato membro fino al 1997, anno in cui si è ritirato dalla politica attiva. Con il Papa Il difficile confronto Il curatore dell' Annale Einaudi afferma sui rapporti tra Chiesa e massoneria: «Dopo il Concilio Vaticano II il dialogo ha avuto applicazioni diverse all' interno dei vari cleri nazionali: più aperto in Italia e Francia, meno in Germania. La posizione attuale dipende dal fatto che l'episcopato tedesco attribuisce alla massoneria una coerenza filosofica che non ha». E sulla posizione di Joseph Ratzinger: «Non cerca uno scontro, ma la riaffermazione di una identità teologica che ritiene incompatibile con il pluralismo filosofico della massoneria».

SILVIO E GIORGIO: AFFINITA’ E FRATELLANZA.

Silvio e Giorgio, affinità e "fratellanza"? Estratto dal libro "I panni sporchi della sinistra" di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (pubblicato per gentile concessione di Chiarelettere). Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico. Di Berlusconi è nota l’appartenenza massonica, che non si manifesta solo nella documentata affiliazione alla loggia P2 di Licio Gelli, ma anche nel sistema di simboli che costellano il cosiddetto mausoleo di Arcore, la tomba che il Cavaliere ha fatto realizzare per sé e per i propri cari dallo scultore Pietro Cascella. Ma c’è dell’altro. Il discusso leader del Grande Oriente democratico Gioele Magaldi, noto per le sue dichiarazioni forti, ha affermato in un’intervista: «Il fratello Silvio Berlusconi, iniziato apprendista “libero muratore” nel 1978 presso la loggia P2, e diventato successivamente “maestro” in questa stessa officina, ha proseguito il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990. Successivamente, ha ritenuto di farsi una loggia segreta e sopranazionale autonoma. Uno dei nomi utilizzati per questa officina era “loggia del Drago”». Magaldi rivela: «L’attività massonica di Berlusconi e Marcello Dell’Utri è stata essenziale per costruire il consenso sociale e politico che ha condotto alla vittoria elettorale del 1994. Dell’Utri e altri fratelli della cerchia massonica di Villa San Martino hanno girato la penisola in lungo e in largo, come proconsoli massonici di Berlusconi, intessendo accordi con la maggioranza delle logge del Belpaese in favore della neonata Forza Italia. In anni successivi, le relazioni massoniche dell’autoproclamatosi Maestro venerabile di Arcore gli hanno consentito di risollevarsi in momenti di particolare difficoltà». Dalla conversazione con Magaldi emergono altri dettagli degni di nota: «Più in generale, Berlusconi coltiva interessi esoterico-iniziatici da molti decenni. La qual cosa da un lato ha spinto lui e la sua seconda moglie Veronica Lario a iscrivere i propri figli a scuole di orientamento pedagogico antroposofico (cioè ispirate agli insegnamenti spirituali esoterizzanti di Rudolf Steiner), dall’altro ha determinato la sua ferma volontà di percorrere un sentiero massonico, ancorché riservato e dissimulato pubblicamente. Ma riservato fino a un certo punto: nella cerchia intima del padrone di Mediaset sono in molti ad aver praticato e a praticare officine liberomuratorie o a frequentare circuiti di spiritualità esoterica». Tra questi, secondo Licio Gelli, l’ex governatore del Veneto ed ex ministro Giancarlo Galan, ex dipendente di Publitalia e poi tra i fondatori di Forza Italia, che il capo della P2 ha qualificato come massone. Sul «fratello» Berlusconi, Magaldi ha aggiunto: «Certamente, la sociabilità massonica è servita – a lui come ad altri – anche a facilitare obiettivi di potere e lucrosi affari, ma esiste nel “fratello Silvio” una vocazione autentica e genuina verso discipline esoteriche come l’astrologia, l’ermetismo egizianeggiante e la magia sessuale». Un’indicazione, quest’ultima, che richiama alcuni «rituali» delle notti del bunga bunga. È la massoneria che orienta Berlusconi o Berlusconi che orienta la massoneria? Secondo Magaldi, «nessuna delle due ipotesi. Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che Magaldi non ha avuto timore di fare assumendosene la responsabilità. Torniamo a Berlusconi, che ha rinnegato l’esperienza della P2: una volta affiliati si rimane massoni per tutta la vita? O essere in sonno significa interrompere ogni rapporto con l’Obbedienza? Secondo Magaldi, «l’iniziazione massonica è indelebile come quella sacerdotale: essa presuppone, secondo la Weltanschauung massonica, una trasmutazione esistenziale e spirituale non reversibile. Mettersi in sonno non significa cessare di far parte della catena iniziatica libero-muratoria, la quale va persino oltre le singole “comunioni” o “obbedienze” territoriali, afferendo a una dimensione planetaria e universale. Spesso, il cosiddetto “assonnamento” equivale soprattutto a una presa di distanza da una determinata obbedienza, ma può significare l’avvicinamento ad altri cenacoli massonici più o meno ufficiali». Molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano. È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un «fratello». Dichiarazioni certamente insufficienti. Abbiamo perciò voluto approfondire questa pista. E abbiamo incontrato un’autorevole fonte, che ha chiesto di rimanere anonima: un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd. La prima indicazione che ci offre è interessante: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la «fratellanza». A rafforzare la connotazione «muratoria» dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica. Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste. Il fatto indiscutibile, però, è che il legame massonico rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce e che è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale. La nostra fonte ha conosciuto bene e conosce Napolitano, cui si considera molto vicino. «Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese. Per molti aspetti Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone. Si può stabilire un parallelismo tra i due: la visione della république è la stessa, laica ma anche simbolica. L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi. Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto.» La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso il presidente della Repubblica. Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza. Il 10 maggio 2006, dopo l’elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Giorgio Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese. A nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia e mio personale desidero manifestare pubblicamente le nostre vivissime felicitazioni». Nel marzo del 2010 Raffi esprimeva nuovamente a Napolitano «gratitudine per la sua diuturna, appassionata e tenace difesa dei valori fondanti la nostra Nazione». E il 13 giugno 2010 si spingeva sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata, nella sua trasmissione Rai In mezz’ora: «Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?» chiedeva Annunziata. Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’unità d’Italia si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».

CHI NON E’ MASSONE DEVIATO, SCAGLI LA PRIMA PIETRA: MAGISTRATI, POLITICI, MAFIOSI.

NUOVO ORDINE MASSONICO E CONTROLLO DELLA MAGISTRATURA. Scrive “La Voce di Robin Hood”. Insieme a noi, lo aveva già inascoltatamente denunciato l'ex Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova, nel 1992, prima di venire messo a tacere dal Governo di centro-sinistra di D'Alema, quando gli impedirono militarmente di sequestrare gli elenchi degli iscritti alla massoneria, presso la sede del Grande Oriente d'Italia, a Villa Medici del Vascello, a Roma, in cui avremmo forse trovato i nomi di illustri ministri, alte cariche dello Stato, alte gerarchie delle Forze di Polizia e dell'Arma dei Carabinieri, alti magistrati, industriali, oltre ai soliti avvocati, professori universitari, giornalisti, faccendieri e malavitosi. L'esistenza di questo "nuovo" ordine massonico (che tanto nuovo non è), capace di controllare la magistratura e l'alternarsi dei governi di centro-destra e centro-sinistra, viene oggi autorevolmente riproposta dall'ex P.M. Luigi De Magistris che, negli ultimi giorni, abbiamo appreso essersi candidato, da indipendente, nell'Italia dei Valori, dopo le dimissioni dalla magistratura. In molti avrebbero forse preferito che De Magistris continuasse la sua battaglia all'interno della magistratura. Altri che fondasse un movimento completamente nuovo, fatto da persone pulite, fuori dai giochi e dagli schemi tradizionali della politica. Comunque sia, al di là della scelta  personale  di lasciare  la magistratura e degli schieramenti  politici, come abbiamo sempre sostenuto, noi riponiamo fiducia nelle singole persone e il nostro giudizio è commisurato sulla base di ciò che fanno e non di quello che dicono.  A nostro avviso, nel triste palcoscenico della politica, Luigi De Magistris è una persona nuova degna di tutta la nostra stima, in quanto ha dimostrato grande integrità morale  e determinazione, pagando di persona un alto prezzo per il suo amore verso la Vera Giustizia. Qui di seguito  proponiamo quindi, oltre all'intervista di Klaus Davi, un intervento firmato di pugno dall'ex P.M. Luigi De Magistris, rilasciata a Beppe Grillo,  riservandoci di proporre nei prossimi giorni un'esclusiva intervista sui grandi temi dei poteri forti e delle deviazioni del sistema, rilasciata  alla Voce di Robin Hood (N.d.R.). «Per il 60% - 70% il Piano di Rinascita democratica è stato già applicato, anzi lo stanno migliorando nella loro ottica, lo stanno rendendo contemporaneo». Queste le testuali parole di Luigi De Magistris a Klaus Davi per il programma web Klauscondicio visibile su YouTube. Il magistrato che avviò l'inchiesta "Why not" aggiunge con tono pacato e non senza preoccupazione: «Ho sempre pensato che la mia vita fosse in pericolo. Gli altri hanno sempre sottovalutato questo aspetto ma da anni sono convinto di essere in pericolo». De Magistris confida poi: «Tengo da sempre un diario, un'abitudine che ho consolidato negli ultimi anni». Una bozza di appunti per un lavoro che un giorno avrà altra forma: «Penso che scriverò un libro sul mio diario. Assolutamente». La mente corre all'agenda di Paolo Borsellino, a quell'annotare con precisione ogni spesa avuta. Questo per l'agenda blu; della rossa, dopo la strage, non se ne seppe più niente. «Tenere un diario è un'abitudine sacrosanta per un magistrato. Io continuo a farlo. Il diario principale ce l'ho in testa, nel mio cervello. Quelli più importanti li ho consegnati alla procura di Salerno, quindi la Procura di Salerno è depositaria degli aspetti d'interesse per la magistratura penale, tutto ciò che interessa la magistratura penale io l'ho consegnato all'autorità giudiziaria. Per il resto, ho diari che riguardano riflessioni sulla vita quotidiana di ogni giorno. I miei diari hanno ad oggetto soprattutto fatti penalmente rilevanti. Poi, all'interno di fatti penalmente rilevanti, ho descritto anche riflessioni che riguardano comunque aspetti di gestione illegale della cosa pubblica». Una riflessione non scevra di considerazioni morali: «Credo che siamo in piena P2 sotto il profilo di alcuni passaggi, come il controllo della Magistratura. «Constato che chi ha negli ultimi tempi, non solo io ma anche altri, fatto investigazioni delicate sul tema delle collusioni interne alle istituzioni e, soprattutto, dove il collante è stato quello dei poteri occulti, non credo che abbia avuto un grosso ausilio da parte di chi dovrebbe istituzionalmente stare vicino». Nemmeno la magistratura, come istituzione democratica è esule da rapporti con la massoneria. «Il Consiglio Superiore della Magistratura nel passato, se pur in casi simbolici ed isolati, è intervenuto su magistrati iscritti alla P2. Però non entrava con il bisturi nel sistema». Licio Gelli, fondatore e capo della loggia P2 in una recente intervista spiegava che «in Calabria la massoneria è forte e può darsi che sia infiltrata un pò da tutte le parti, anche nella magistratura», De Magistris replica: «Se lo certifica Licio Gelli, allora...». "Insieme ai miei più stretti collaboratori attraverso la ricostruzione dei finanziamenti pubblici in Calabria, avevamo scoperto, in modo esattamente preciso, quella che con gergo giornalistico si potrebbe anche definire la nuova P2". Il riferimento alla loggia massonica di Licio Gelli si spiega perche' l'indagine Why Not, che gli e' stata tolta un anno fa dalla procura di Catanzaro, riguardava "la gestione del denaro pubblico e di alcuni pezzi delle istituzioni attraverso il tramite dei poteri occulti". "Questo - scandisce il magistrato - è il cuore del problema e non voglio dire altro. Perchè fatti, nomi, documenti, li ho consegnati".  "Non ho fatto un uso mai particolarmente impegnativo delle intercettazioni telefoniche", assicura De Magistris che ricorda: "nell'inchiesta Why Not io non ho fatto nemmeno una intercettazione telefonica. Nell'inchiesta Poseidone ne ho fatte pochissime. Nell'inchiesta toghe lucane, se non vado errato anche lì non ho fatto nessuna intercettazione telefonica. Ho utilizzato strumenti investigativi che hanno dato molto fastidio agli indagati di questi procedimenti. Che si tratta in particolare degli accertamenti bancari, accertamenti patrimoniali. Traffico dei flussi telematici e delle tracce, degli incroci telefonici, le sommarie informazioni testimoniali, l'esame dei documenti. Le indagini tradizionali".  L'ex pm di Catanzaro definisce infine "curiosa" la vicenda dell'archivio Genchi anche per il fatto che se ne parla proprio a ridosso della riforma delle intercettazioni. "Sto vedendo - dice - una serie di coincidenze un po' strane". Alla domanda: che fine faranno le sue indagini De Magistris risponde che va chiesto alla Procura di Catanzaro e conclude: "La mia testimonianza, i miei documenti, il mio sapere doveroso l'ho consegnato all'Autorità giudiziaria di Salerno. Prendo atto che sono stati fermati i magistrati che stavano conducendo questa indagine".

Consiglio di Stato, quanti massoni ci sono? Si chiede Alessio Liberati (magistrato) su “Il Fatto Quotidiano". L’ultimo di cui si è avuta notizia, in ordine di tempo, è Antonio Maccanico, fratello massone e contestualmente consigliere di Stato, oltre che segretario generale della Presidenza della Repubblica (incarico ricoperto peraltro anche da molti altri consiglieri di Stato, come Gaetano Gifuni, recentemente condannato per peculato e abuso di ufficio e l’attuale pagatissimo Donato Marra). Ma non è il solo ad aver indossato il grembiulino. La mia curiosità per i rapporti tra massoneria e Consiglio di Stato – che ha avuto inizio per caso, quando cioè tre magistrati appartenenti a tale istituzione (Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa e Raffaele Greco) presentarono un esposto disciplinare nei miei confronti, lamentando che un mio articolo scientifico, ove facevo tra l’altro affermazioni tanto generiche quanto banali sulla degenerazione dei concorso pubblici, non mancando di citare i condizionamenti da parte della massoneria e dell’Opus Dei, fosse offensivo nei confronti della giustizia amministrativa, per profili che non ho mai compreso – ha portato infatti a molti riscontri, di cui ho già parlato anche in questo blog. Rinvio, in proposito, oltre che agli elenchi della P2, ad un mio articolo più in generale sul presidente Pasquale de Lise, ad altro relativo all’ex consigliere di Stato Carlo Malinconico (oggi agli arresti domiciliari per gravi fatti corruttivi) ed anche a quanto richiesto in sede di interrogazione parlamentare dopo una mia denuncia relativa a quanto accertato nei confronti di uno degli ex presidenti dell’associazione dei consiglieri di Stato e ad altri magistrati in servizio nella giustizia amministrativa di appello. Tuttavia, ogni volta che viene fuori il nome di un ulteriore Consigliere di Stato occultamente appartenente alla massoneria, mi pongo le stesse domande, che rimangono inevitabilmente senza risposta. Quanti sono i massoni che indossano grembiulino e toga da consigliere di Stato? Quanti di questi sono ricattabili (visto che vige un divieto espresso per i magistrati amministrativi di appartenere a logge massoniche) da avvocati o terze persone che ne sono a conoscenza? Perché l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa, da me sollecitato più volte, si è rifiutato di imporre l’obbligo di una dichiarazione espressa di non appartenenza a logge massoniche, nonostante molti dei suoi componenti avessero preso un espresso impegno in tal senso (Luca Cestaro, Umberto Maiello, Antonio Plaisant, Roberto Pupilella, ecc.), poi disatteso? Non sarebbe ora di costringere i giudici amministrativi (le cui decisioni condizionano pesantemente la vita economica di questo Paese) a rendere pubbliche queste appartenenze, per evitare anche il solo rischio o sospetto che possano esservi ricatti a carico di questi magistrati? Non sarebbe l’ora di affrontare definitivamente, eventualmente in senso positivo, il tema della compatibilità tra appartenenza massonica e magistratura, al fine di evitare che si creino appartenenze occulte, con i rischi sopra descritti? Del tema, emerso nuovamente durante il periodo in cui era presidente dell’associazione dei consiglieri di Stato Filippo Patroni Griffi, non si è voluto occupare né quest’ultimo, né il suo successore Roberto Chieppa, né l’ex presidente Paolo Salvatore, né tanto meno il predetto De Lise. Speriamo che almeno il nuovo presidente, Giorgio Giovannini, voglia affrontare il tema, seppur con incomprensibile ritardo…

Massoneria e magistratura. Tratto dal libro “La massoneria smascherata” di G. Butindaro. Innanzi tutto va detto che affiliarsi alla Massoneria non è reato, in quanto la Massoneria non è tra le associazioni segrete proibite dalla Costituzione italiana con l’articolo 18 (Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare); tuttavia il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato con chiarezza l’incompatibilità fra affiliazione massonica e l’esercizio delle funzioni di magistrato, perchè le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezioni a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell’immagine e del prestigio del magistrato e dell’intero ordine giudiziario» (I magistrati non possono essere massoni, Corriere della Sera, 17 gennaio 1995, pag. 1); e secondo la Cassazione, il giudice massone può essere ricusato dall’imputato, in quanto l’appartenenza a logge preclude «di per sè l’imparzialità» del magistrato (La Cassazione, 5a sezione penale n° 1563 / 98), in altre parole, perchè – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l’unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi ad interessi individuali nell’emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia. Esistono allora magistrati che sono massoni? Sì. Per esempio ecco cosa si legge nell’articolo dal titolo E sui magistrati massoni indagherà anche Conso a firma di Franco Coppola e apparso su La Repubblica il 15 luglio 1993: Smentiscono, querelano, minacciano fuoco e fiamme. Ma i loro nomi sono lì, negli atti giudiziari raccolti dalle procure di Palmi e di Torino. Sono le toghe incappucciate, i magistrati sparsi per il territorio nazionale che hanno giurato fedeltà alla Costituzione e al credo massonico, qualcuno addirittura aderendo alle logge segrete, quelle espressamente vietate anche a chi non fa parte dell’ordine giudiziario. Per ora sono usciti fuori 36 nomi, due o tre dei quali appartenenti a personaggi ormai in pensione che hanno appeso nell’armadio dei ricordi le toghe da magistrati ma forse non i grembiulini e i cappucci da massoni. E così ora di loro si occupano non più soltanto il Consiglio superiore della magistratura, che può trasferirli d’ufficio ad altra sede o ad altra funzione, ma anche il ministro della Giustizia Giovanni Conso e il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi che, come titolari dell’azione disciplinare, possono avviare un procedimento disciplinare, le cui conseguenze potranno essere, a seconda dei casi, blande o particolarmente severe. Ma nella magistratura esistono anche avvocati, cancellieri, docenti di materie giuridiche, ufficiali giudiziari, e così via, che sono affiliati alla massoneria. Ed ovviamente tutti costoro, in virtù del loro giuramento massonico (che recita tra le altre cose: …. prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Libera Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato; prometto e giuro di prestare aiuto ed assistenza a tutti i Fratelli Liberi Muratori sparsi su tutta la superficie della Terra….), devono anche loro aiutare i loro fratelli massoni, per cui è ovvio che quando un massone si troverà indagato o imputato in un processo, egli al momento giusto riceverà una qualche forma di aiuto dai suoi fratelli che sono nella magistratura (o nella politica) che si muoveranno come sanno fare loro in questi casi. Un esempio di inchiesta giudiziaria contro dei massoni affossata è quello dell’inchiesta del procuratore di Palmi Agostino Cordova da lui avviata nel 1992, a cui abbiamo accennato prima, che dopo che Agostino Cordova fu trasferito-promosso alla Procura di Napoli nel 1993 e che le indagini vennero trasferite (per «incompetenza tecnica» della Procura di Palmi a occuparsi della materia) alla Procura di Roma nel giugno del 1994, rimase pressoché ferma per quasi sei anni, e poi nel dicembre 2000, il giudice per le indagini preliminari dispose l’archiviazione dell’inchiesta, nonostante fossero stati raccolti centinaia di faldoni e tantissime fonti di prova sulle attività illecite di logge italiane con decine di indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano i proventi derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale. Per capire la portata dell’inchiesta di questo coraggioso magistrato consiglio di leggere Oltre la cupola: massoneria, mafia, politica, scritto da Francesco Forgione e Paolo Mondani, pubblicato da Rizzoli Editore nel 1994. Un esempio invece di processo in cui erano imputati dei massoni con evidenti prove di colpevolezza contro di essi, e che si è concluso con la loro assoluzione, è quello del golpe Borghese. Il golpe Borghese fu un colpo di Stato tentato in Italia durante la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 e organizzato e guidato da Junio Valerio Borghese (ex comandante della X Mas nella repubblica sociale italiana, e leader dell’organizzazione neofascista Fronte nazionale), allo scopo di impedire l’accesso del Partito Comunista al governo. Il nome del colpo di stato aveva come nome in codice Operazione Tora Tora, in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Tra i golpisti c’erano oltre che uomini dei servizi segreti e fascisti, anche massoni e mafiosi. In vista del golpe Borghese infatti, la Massoneria aveva chiesto l’aiuto di Cosa nostra e della criminalità organizzata calabrese per averne un appoggio armato. La sera del 7 dicembre 1970, i congiurati – in gran parte armati, e provenienti da varie regioni d’Italia – si concentrarono nei vari punti prestabiliti della Capitale. Il piano eversivo prevedeva tra le altre cose, l’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, e l’irruzione al Quirinale di una squadra di congiurati armati comandati da Licio Gelli (capo della loggia massonica segreta P2) per sequestrare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Ma ecco che poco dopo la mezzanotte ai congiurati arriva improvviso il contrordine: l’azione golpista è sospesa e rinviata. L’inchiesta giudiziaria che ne seguì non riuscirà a chiarire le circostanze dell’improvviso contrordine impartito ai congiurati. Secondo alcuni, la sospensione del golpe è da attribuire alla defezione di un importante personaggio che avrebbe reso impossibile l’attuazione dell’aspetto strategico del golpe. Secondo altri, il golpe non fu attuato, benchè avallato dagli USA, a causa dell’imprevista presenza della flotta russa nel Mediterraneo la notte tra il 7 e l’8 dicembre. Comunque il tentato golpe ci fu. In merito al procedimento giudiziario e il processo che si tenne contro coloro che furono coinvolti nel Golpe Borghese, ecco cosa dice il senatore Sergio Flamigni, che ha fatto parte della Commissione Parlamentare sulla Loggia P2: ‘Nel procedimento giudiziario scaturito dal «golpe Borghese» risulteranno coinvolti piduisti di primo piano: il generale Vito Miceli, promosso capo del Sid per intervento di Licio Gelli presso il ministro della Difesa Mario Tanassi (il cui segretario particolare, Bruno Palmiotti, e il cui fratello, Vittorio Tanassi, sono affiliati alla Loggia segreta); Giuseppe Lo Vecchio, colonnello dell’Aeronautica; Giuseppe Casero, ufficiale dell’Aeronautica; Giovanni Torrisi, ufficiale di Marina; Giovambattista Palumbo, Franco Picchiotti e Antonio Calabrese, ufficiali dei Carabinieri; Giuseppe Santovito, ufficiale dell’Esercito; il banchiere Michele Sindona; l’alto magistrato Carmelo Spagnuolo; il consigliere regionale andreottiano Filippo De Jorio (consigliere di Andreotti a Palazzo Chigi anche dopo il suo coinvolgimento nel tentato golpe). Tutti costoro risulteranno affiliati alla Loggia P2 nel gruppo Centrale, cioè in diretto collegamento con Gelli. Nella «Operazione Tora Tora» risulteranno coinvolti anche altri massoni, tra i quali: Duilio Fanali (capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che nel tentato golpe aveva il compito di insediarsi nel ministero della Difesa e impartire ordini a tutto l’apparato militare); il costruttore romano Remo Orlandini; Sandro Saccucci (deputato nelle liste del Msi, nel 1972, per avvalersi dell’immunità parlamentare); Salvatore Drago (ufficiale medico della Polizia, fedelissimo del piduista Federico Umberto D’Amato); Gavino Matta e Tommaso Rook Adami (massoni appartenenti alla Comunione di Piazza del Gesù); Giacomo Micalizio. [....] Benchè nella «Operazione Tora Tora» abbia avuto un ruolo centrale, Licio Gelli non viene coinvolto nel processo seguito al «golpe Borghese». Il Venerabile gode infatti di particolari coperture e di ferree protezioni. Nel luglio 1974, nello studio privato del ministro della Difesa Giulio Andreotti, si tiene una riunione alla quale partecipano, oltre al ministro: il nuovo capo del Sid ammiraglio Mario Casardi il comandante dei Carabinieri generale Enrico Mino, il capo dell’ufficio D del Sid generale Gianadelio Maletti (piduista), e gli ufficiali del Sid colonnello Sandro Romagnoli e capitano Antonio Labruna (piduista). Oggetto della riunione è un dossier compilato dai Servizi sul «golpe Borghese», da inviare alla magistratura. Il dossier giunto al ministro Andreotti è già stato sottoposto a numerosi tagli; infatti il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Eugenio Henke, ha disposto la cancellazione di ogni riferimento ad alcuni collaboratori del Sid. Ma a questo punto è Andreotti che suggerisce a Maletti di «sfrondare il malloppo e di eliminare i dati non riscontrabili». Così dal rapporto scompare il nome di Gelli [....]. Il processo per il «golpe Borghese», celebrato presso il Tribunale di Roma, consentirà di accertare una serie di gravissimi fatti. Ma tutti gli imputati piduisti, anche grazie al sotterraneo attivismo di Licio Gelli, verranno assolti. [....]. I gravissimi fatti culminati nel tentato golpe della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 subiranno in fasi processuale un inopinato ridimensionamento. Benchè si sia trattato di un preciso piano eversivo sostenuto da ampi settori dei vertici militari in collegamento con gruppi armati di civili ramificati in tutto il Paese, a conoscenza dei comandi Nato e con la partecipazione di Cosa nostra e della ‘ndrangheta calabrese, nel corso dei vari gradi di giudizio il processo si risolverà in un progressivo insabbiamento, tra proscioglimenti e archiviazioni, fino alla generale assoluzione degli imputati superstiti da parte della Corte di Cassazione. [....] Le sentenze della Corte di assise di Roma del 14 novembre 1978 e della Corte di assise d’appello del 27 novembre 1984, affermando l’insussistenza del delitto di insurrezione armata, predisporranno la Corte di cassazione a trasformare il tentato golpe in un semplice «complotto di pensionati», e ad assolvere tutti gli imputati. Molti anni dopo, il giudice istruttore del Tribunale di Milano Guido Salvini scriverà infatti che «una vasta e continuativa trama golpista, corroborata sul piano probatorio anche da numerosi elementi documentati, [è stata] così ridotta ai progetti velleitari di qualche anziano Ufficiale nostalgico e di poche Guardie forestali. Certamente non è stato così». Il giudice citerà una serie di documenti e testimonianze, prove di un’ampia articolazione eversiva di forze: alti ufficiali delle Forze armate e Massoneria, P2 e servizi segreti, mafia siciliana e ‘ndrangheta calabrese, strutture clandestine di militari e civili e gruppi della destra eversiva e neofascista, con sullo sfondo i comandi della Nato (Sergio Flamigni, Trame Atlantiche, Kaos Edizioni, Seconda Edizione 2005, pag. 45-46, 48, 50, 53,54). A conferma che anche nella magistratura si muove la mano della Massoneria vi propongo una parte di un interessante scritto dal titolo «Fratellanza giuridica». I magistrati e la massoneria a cura di Solange Manfredi, pubblicato sul blog di Paolo Franceschetti il 20 luglio 2010, che credo renda bene l’idea di questo intreccio, che spiega il perchè certe indagini che coinvolgono massoni vengono ostacolate o affossate, e dei processi contro esponenti della massoneria finiscono con l’assoluzione degli imputati. [....]. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina: “Fratellanza Giuridica” Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolta, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L’esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazione” avvocati – cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico.
Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un’indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all’interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro… avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l’occasione fa l’uomo ladro. La frequentazione, l’amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste “logge” possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l’occasione fa l’uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l’affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere “Fratellanze” costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui “deviazioni” potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

"FRATELLANZA GIURIDICA. I magistrati e la massoneria. Di Solange Manfredi.

1. Premessa. Da qualche giorno i giornali riportano la notizia di una inchiesta romana su una associazione a delinquere, denominata nuova loggia P3, che vedrebbe coinvolti politici, faccendieri, criminalità organizzata, e magistrati. I magistrati coinvolti sono persone ai vertici della magistratura, ex Presidenti dell’A.N.M., ex Consiglieri del C.S.M. , avvocati generali della Cassazione, ovvero:

- il dr Arcibaldo Miller, Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia e membro dell’A.N.M;

- il dr Antonio Martone, ex Presidente dell’A.N.M., ex Avvocato Generale della Corte Suprema di Cassazione ed oggi capo di una Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche;

- il Sottosegretario di Stato Giacomo Caliendo, ex Consigliere del C.S.M ed ex Presidente dell’A.N.M;

- il Presidente della Corte di Appello di Salerno Umberto Marconi, consigliere del CSM ed ex membro dell’ANM;

- il Presidente della Corte di Appello di Milano Alfonso Marra;

- il Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione Vincenzo Carbone.

Niente di nuovo, l’intreccio in odor di massoneria tra magistratura e potere c’è sempre stato. Solo per fare un esempio, da più di un anno si sta celebrando, nel più assoluto silenzio, un processo sulla compravendita di sentenze in Cassazione che, visto il coinvolgimento di personaggi legati dal vincolo massonico, è stato denominato Hiram (figura allegorica della massoneria, nonchè nome della rivista ufficiale del Grande Oriente d’Italia). Ed ancora l’intreccio tra magistratura e potere massonico (di oggi e di ieri) è ben evidenziato nel libro di Gioaccino Genchi “Gioacchino Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato”. Per non parlare degli scandali che negli anni ’80 e ’90 videro coinvolti magistrati iscritti alla loggia P2. Ma, a questo punto, una domanda sorge spontanea: perché nella maggior parte degli scandali che vede coinvolti magistrati compare sempre anche la massoneria? Come fanno i massoni a poter sempre contattare il magistrato giusto al momento giusto?

2. La "Fratellanza Giuridica". La risposta non è semplice ma forse, in questa sede, si può aggiungere un dato che potrebbe essere importante per capire gli intrecci di “certo” potere. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina:

Fratellanza Giuridica" Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolta, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L'esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazioneavvocaticancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistratinotai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico. Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un'indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all'interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro... avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l'occasione fa l'uomo ladro. La frequentazione, l'amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste "logge" possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l'occasione fa l'uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l'affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia.

3. Lo Statuto. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere "Fratellanze" costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui "deviazioni" potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

A.G.D.G.A.D.U.

GRAN LOGGIA NAZIONALE DEI LIBERI MURATORI D’ITALIA

GRANDE ORIENTE D’ITALIA”

*

STATUTO DELLAFRATELLANZA GIURIDICA”

(Approvato a Roma, il 21 settembre 1968)

1. La Fratellanza Giuridica è costituita da Fratelli attivi e quotalizzanti nelle rispettive Logge della Comunione italiana, appartenenti alle seguenti categorie professionali, e che ne facciano domanda: avvocati e procuratori legali –cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri – ufficiali giudiziari.

2. La Fratellanza Giuridica ha come principali finalità:

a) Dare, quando richiestane, pareri giuridici al Grande Oriente o ai vari Organi massonici, attraverso la Gran Segreteria;

b) Promuovere lo studio dei problemi interessanti i vari aspetti del diritto, internazionale e nazionale, e quelli delle singole categorie iscritte alla Fratellanza;

c) Consentire una più fraterna collaborazione, nell’ambito di ciascuna categoria, per l’esercizio dell’attività degli iscritti;

d) Indicare nominativi di difensori d’ufficio, se richiestane dai Tribunali massonici;

e) Curare la raccolta della giurisprudenza delle decisioni degli organi giudiziari massonici, anche comparata con l’opera giudiziaria delle altre Comunioni regolari;

f) Studiare ed approfondire ogni altra questione attinente all’esercizio professionale degli iscritti, nel rispetto delle leggi e delle tradizioni massoniche.

3. La Fratellanza Giuridica ha sede presso il suo Presidente effettivo. Essa può essere sciolta in qualunque momento, o per decisione del Gran Maestro, previo il parere favorevole del Consiglio dell’Ordine, o per decisione dell’Assemblea degli iscritti. Le elezioni e le decisioni dei vari Organi della Fratellanza Giuridica sono valide a maggioranza semplice ed impegnano anche gli assenti e, per il caso di scioglimento, con il voto favorevole di almeno due terzi degli iscritti. Le cariche non sono rinunciabili ed impegnano gli eletti sino a quando non siano accettate eventuali loro dimissioni, da inoltrarsi al Consiglio Direttivo.

4. Sono Organi della Fratellanza Giuridica:

a) L’Assemblea degli iscritti;

b) Il Consiglio Direttivo;

c) L’Ufficio di Presidenza;

d) Ufficio di Segreteria e Tesoreria.

5. L’Assemblea degli iscritti è convocata dall’Ufficio di presidenza almeno una volta l’anno, entro il 31 marzo, o quando appaia opportuno, ovvero quando gliene faccia richiesta la maggioranza semplice del Consiglio Direttivo oppure almeno un quinto degli iscritti. Alla Assemblea sono demandate tutte le decisioni comunque riguardanti la Fratellanza Giuridica, anche nelle materie di spettanza dei singoli Organi.

6. Il Consiglio Direttivo è composto dai Delegati circoscrizionali, che durano in carica tre anni e sono rieleggibili. I Delegati circoscrizionali vengono eletti, anche mediante schede inviate per posta, dagli iscritti alla Fratellanza Giuridica, nell’ambito delle circoscrizioni regionali massoniche. Il Consiglio Direttivo si riunisce per convocazione dell’Ufficio di Presidenza, almeno due volte l’anno, ovvero quando ne faccia richiesta, allo stesso Ufficio di Presidenza, almeno un terzo dei suoi membri.

7. Le riunioni del Consiglio Direttivo sono valide con la presenza di almeno la metà dei suoi componenti. In caso di parità di voti prevale quello del presidente.

8. Ciascun delegato circoscrizionale deve promuovere riunioni di iscritti, iniziative e attività varie, nell’ambito della propria circoscrizione, in armonia con le leggi massoniche, con le finalità della Fratellanza Giuridica, con le deliberazioni dell’Assemblea e del Consiglio Direttivo.

9. L’Ufficio di Presidenza è composto:

a) Dal Gran Maestro;

b) Dal presidente effettivo, che viene eletto dal Consiglio Direttivo;

c) Da un Vice-Presidente.

Al Presidente effettivo (o, in caso di suo impedimento o assenza, al Vice-Presidente) spettano la rappresentanza, la direzione, le decisioni di ordinaria amministrazione della Fratellanza Giuridica.

10. L’Ufficio di Segreteria è composto:

a) Dal Gran Segretario;

b) Da un Segretario o da un Vice-Segretario, nominati dal Consiglio Direttivo, ai quali spetta la tenuta degli schedari, dei verbali, della corrispondenza della Fratellanza Giuridica. L’Ufficio di Segreteria effettua il controllo annuale della regolare appartenenza alle Logge della Comunione di tutti gli iscritti della Fratellanza. Il Segretario o il Vice-Segretario possono essere eletti anche al di fuori del Consiglio Direttivo, nel qual caso vi partecipano senza diritto di voto.

11. Il Tesoriere è nominato da Presidente effettivo, anche non fra i Delegati circoscrizionali, nel qual caso partecipa al Consiglio Direttivo senza diritto di voto. Il Tesoriere cura l’amministrazione, la contabilità, la riscossione delle quote e degli eventuali contributi volontari, e quant’altro attiene alla economia della Fratellanza Giuridica. Il Tesoriere redige, entro il 31 dicembre di ciascun anno il bilancio consuntivo degli incassi e delle spese, ed un bilancio preventivo per l’anno successivo, da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea.

12. Per far fronte alle spese di organizzazione e funzionamento della Fratellanza Giuridica, tutti gli iscritti devono versare una quota annuale.

13. Entro il 31 maggio di ciascun anno il Consiglio Direttivo:

a) Predispone ed approva bilanci consuntivi e preventivi redatti dal Tesoriere da sottoporre all’Assemblea;

b) Fissa l’ammontare della quota annuale obbligatoria a carico degli iscritti;

c) Redige una relazione morale sull’attività compiuta nell’anno precedente che, se approvata dall’Assemblea, viene inviata alla Gran Maestranza;

d) Delibera la destinazione delle somme pervenute per contributi volontari dai vari iscritti.

14. Ogni notizia relativa agli elenchi degli iscritti potrà essere chiesta e fornita dai rispettivi Delegati circoscrizionali, a ciascuno dei quali tali elenchi verranno consegnati, ovvero, in mancanza, dall’Ufficio di Segreteria.

15. Il presente Statuto potrà essere modificato con delibera di almeno un terzo degli iscritti, i Assemblea.

16. E’ demandata al Consiglio Direttivo la formulazione del regolamento di attuazione del presente Statuto.

Note: 1. come rivela una sentenza a sezioni unite del Tribunale massonico del 28/X/1978, per il principio n. 1 Cap. IV degli Antichi Doveri” il massone anche se a conoscenza di un reato non può neanche minacciare di denunciare un fratello a quello che viene definito “Tribunale Profano”, ovvero l’organo giudiziario previsto dalla Costituzione italiana, pena l'immediata espulsione dalla loggia.

Carte riservate on line, massoneria in tribunale. Il caso del «muratore» allontanato dalla loggia per aver diffuso notizie sui «fratelli» e i boss, scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. Espulso dal Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani «per averne leso l’immagine, l’onore e la reputazione», attraverso la pubblicazione su internet «in modo accessibile ai profani» di un articolo di denuncia sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nella massoneria. Amerigo Minnicelli, iscritto dal 1991 alla loggia di Rossano intitolata all’eroe dei «Mille» Luigi Minnicelli (suo antenato), ha impugnato il provvedimento di espulsione davanti al Tribunale di Roma, chiedendone l’immediata sospensione in via cautelare, per potersi candidare alla carica di Gran Maestro alle elezioni fissate per il 2 marzo 2014. I giudici della terza sezione civile, lunedì scorso, hanno rigettato il reclamo e Minnicelli è rimasto tagliato fuori dalla tornata elettorale. A decretarne la radiazione dalla più antica comunione massonica italiana, costituita nel lontano 1805, sono stati gli organi di disciplina interna. Il primo provvedimento è stato emesso dal «Tribunale circoscrizionale della Calabria» il 5 aprile 2012 e poi confermato, in secondo grado, dalla «Corte centrale del Grande Oriente d'Italia» il 3 ottobre dello stesso anno. L’oratore (omologo del nostro pm) incolpa Minnicelli di «un’implicita accusa di omessa vigilanza verso i Maestri Venerabili». L'articolo «incriminato» viene pubblicato sul sito web «Goiseven» (di cui Minnicelli è direttore) pochi giorni dopo l’arresto, avvenuto il 29 luglio 2011, del massone Domenico Macrì, iscritto presso la loggia di Città di Castello. Secondo la Procura Macrì avrebbe concorso, come intermediario d’affari della Banca di Credito Sanmarinese, al riciclaggio di circa 15 milioni di euro proventi del narcotraffico della cosca calabrese dei Mancuso di Limbadi. Minnicelli prende spunto da questo fatto di cronaca per riportare su internet la frase che gli era stata riferita da «un fratello tra i migliori calabresi» nel corso di una riunione della primavera del 2010. «Siamo seduti su un braciere ardente - spiega nel suo articolo - significava dire che nei pie' di lista delle logge vicine ai territori 'ndranghetisti sarebbe entrato di tutto e di più». Nel passaggio successivo, Minnicelli rimprovera i vertici della massoneria, a partire dal Gran Maestro Gustavo Raffi, di inerzia nell’osteggiare l’ingresso di persone legate ai clan. Il massone espulso si è appellato al diritto di critica, ma secondo l'organo di giustizia interno non doveva «esternarla su un sito web accessibile ai fratelli compagni e apprendisti e soprattutto ai profani». «Gli estranei non massoni non devono essere posti nelle condizioni di conoscere le vicende attinenti la vista associativa», hanno confermato i giudici ordinari. «L'obbligo alla riservatezza riguarda i lavori in Loggia - precisa l'avvocato Carlo Paduano, legale di Minnicelli - Altrimenti la massoneria dovrebbe essere considerata un'associazione segreta».

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Quel pm intralcia le indagini". L’inchiesta Expo è una faida. Ora c'è anche una nota di Edmondo Bruti Liberati, inviata al Csm, secondo la quale il procuratore Alfredo Robledo avrebbe «determinato un reiterato intralcio alle indagini» su Expo; l'invio di atti al Csm fatto da Robledo, inoltre, avrebbe «posto a grave rischio il segreto delle stesse». In altre parole, la miglior difesa è l’attacco: Bruti Liberati contrattacca alle accuse di Robledo d’aver fatto assegnazioni anomale o sospette e aggiunge peraltro un carico da novanta: perché intralciare un’indagine sarebbe anche un reato. È difficile credere che Bruti Liberati voglia incolpare penalmente il suo sostituto, ma quel che è certo è che a Milano gli stracci volano sul serio: ed è tutta colpa del caso Expo. Il fascicolo è seguito dai pm anticorruzione Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio, ed è noto che Bruti Liberati, durante la conferenza stampa sugli arresti per Expo, aveva già precisato che Robledo non ne aveva condiviso le conclusioni: ora aggiunge che avrebbe addirittura intralciato l’inchiesta. Bruti Liberati, nella sua nota al Csm, cita anche l’episodio di un doppio pedinamento: «Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza», ha scritto il procuratore capo, spiegando poi che «solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini». Nei fatti, il low profile della procura di Milano è definitivamente turbato. Lo scontro oltretutto divide i magistrati. Da una parte il procuratore aggiunto anticorruzione Alfredo Robledo, l’anarchico, dall’altra il procuratore capo di quel granducato giudiziario che negli anni ha scosso il Paese con sue inchieste, Edmondo Bruti Liberati, personaggio più - diciamo così - militante. Intanto il Csm sta continuando con le audizioni dei magistrati chiamati in causa: si discute di presunte anomalie nelle assegnazioni, ritardi di iscrizioni nel registro degli indagati, soprattutto tensioni che covavano da almeno tre anni. Robledo sostiene che è stata ritardata l’iscrizione di politici come Roberto Formigoni e Guido Podestà, che l’azione penale è stata gravemente ritardata nel caso Sea-Gamberale (il fascicolo era stato dimenticato in cassaforte, ha ammesso Bruti Liberati) e questo senza parlare del chiassoso caso Ruby, laddove il fascicolo era curiosamente finito al dipartimento antimafia guidato da Ilda Boccassini. Su quest’episodio c’era stata anche l’ammissione, resa nota nei giorni scorsi, di Ferdinando Pomarici, ex responsabile della Dda di Milano: quell’assegnazione fu «anomala», ha detto. Il magistrato ha pure spiegato che scrisse a Bruti Liberati tutte le sue perplessità a proposito, poi ribadite durante una riunione. Pomarici ha anche segnalato un’anomalia legata al caso di Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale già condannato al carcere per diffamazione: secondo Pomarici, Edmondo Bruti Liberati voleva che si facesse una deroga personalizzata per il direttore. La circostanza peraltro era già stata ammessa dal procuratore aggiunto Nunzia Gatto, responsabile dell’Ufficio esecuzione della Procura. Insomma, tutto rispecchia le storiche divisioni della procura, sinora sottaciute: gli uomini del procuratore capo - storicamente più legati a Magistratura democratica - contro gli altri. Va da sé che secondo Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari e legato a Bruti, nell’iscrizione di Formigoni non ci fu «nessun ritardo». Nessuna irregolarità neanche nel caso Ruby, ha spiegato anche Ilda Boccassini (vedi Libero di ieri). Più in generale, lo scontro tra il procuratore capo e il suo aggiunto è molto più interessante dei resoconti che i giornali si sforzano di darne; sull’esito dell’esposto di Robledo contro Bruti Liberati non c’è da attendersi chissà che cosa: stiamo pur sempre parlando di un magistrato contro un altro magistrato, giudicato da altri magistrati. Pare più interessante, leggendo gli atti del Csm, il differenziato profilo che si intravede. Bruti Liberati uomo d’apparato, di corrente, politicizzato, sensibile agli scenari politici e ai suoi cambiamenti, alle conseguenze delle inchieste che nascono dai suoi uffici: dunque un abile amministratore. Robledo, invece, più compiaciuto della propria indipendenza sancita dalla Costituzione, più immediato, automatico, quasi precipitoso, convinto che una certa ruvidità faccia parte dei suoi doveri e ufficialmente indifferente alle conseguenze delle sue indagini. È difficile essere più diretti senza prendere la solita querela: ma piacerebbe dire che entrambi i profili, se portati all’eccesso, descrivono alla perfezione il periglioso archetipo del magistrato all’italiana. Sin troppo responsabile e «politico» il primo, sin troppo anarchico il secondo. Quello che rimane identico, sempre leggendo gli atti del Csm, è lo scenario enormemente discrezionale nel quale i due paiono muoversi all’interno della procura: non quel tappeto di regole inflessibili e rigide che il cittadino magari s’aspetta (perché il magistrato è soggetto soltanto alla legge, si dice) bensì un groviglio gommoso di dipartimenti, mezzi dipartimenti, non-dipartimenti, assegnazioni, coassegnazioni, non assegnazioni, iscrizioni, non iscrizioni, in generale una discrezionalità dell’azione penale ben travestita. Un potere smisurato, in altre parole, che si può esercitare in un modo o nell’altro: e capita che non sempre i magistrati si trovino d’accordo.

Lo scontro tra Robledo, Bruti Liberati e la Boccassini e la guerra nascosta dentro il Csm, scrive “Libero Quotidiano”. La battaglia campale all'interno della Procura di Milano, con lo scambio di accuse tra il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, è solo la punta dell'iceberg di quanto sta accadendo all'interno della magistratura italiana. Robledo lamenta favoritismi nell'assegnazione di processi-manifesto, dal Rubygate all'ultima inchiesta sull'Expo, che sono finiti indebitamente (è l'accusa) a Ilda Boccassini e Francesco Greco. Secondo Bruti, al contrario, sarebbe stato Robledo ad intralciare le inchieste, coordinando doppi pedinamenti ai sospettati. Un pasticciaccio finito davanti al Consiglio superiore della magistratura, mentre l'Anm ha parlato di "grave rischio di delegittimazione" e la stessa Procura milanese, per bocca di molti funzionari, teme una "normalizzazione" della propria attività. Perché in gioco è in realtà il "potere" in mano al pool coordinato da Bruti. E, come ha sottolineato sul Foglio il cronista giudiziario Franck Cimini, gli equilibri stessi nel Csm, cioè l'autogoverno delle toghe italiane. Da qui a luglio, infatti, i magistrati sono in campagna elettorale. Il 6 e 7 luglio 2014 si rinnoverà la composizione del loro massimo organo e la corrente di sinistra Magistratura democratica, di cui Bruti Liberati è uno storico esponente, potrebbe dopo molti anni non avere rappresentanti tra i 16 "togati". Le "primarie" per palazzo dei Marescialli, infatti, sono state vinte da Magistratura indipendente e il "peso politico" del Csm potrebbe essere clamorosamente girato verso l'ala moderata. Il massimo esponente di MI, Cosimo Ferri, è tra l'altro sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi. E dentro MD molti sperano che il Parlamento, a trazione renziana, possa "riequilibrare" nominando elementi "laici" vicini alla sinistra. Giustizia e politica, l'intreccio continua.

A Milano la mafia non esiste. Ci sono singole famiglie mafiose ma la mafia non esiste”. Con questa dichiarazione l’ex Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, apriva l’audizione della Commissione parlamentare antimafia riunitasi dopo anni di assenza a Milano, il 22 gennaio 2010, per un summit di tre giorni in vista dell’Expo 2015, dei suoi cantieri e di un allarme legato alle infiltrazioni della ‘ndrangheta denunciato nei giorni precedenti dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e dal capo della polizia Antonio Manganelli, scrive Domenico Corrado. Il commento aveva provocato scandalo nel Pd, che aveva parlato di “vergogna”, e nel sindaco Letizia Moratti, la quale dopo avere dichiarato che “se come è vero che gli emissari delle cosche calabresi a Milano vivono e lucrano”, precisava tuttavia la sua estraneità nell’affossamento della commissione comunale antimafia voluta dall’opposizione per monitorare il grande evento. Dall’entourage del prefetto di Milano, il giorno successivo, arrivava la garanzia che non era in discussione l’ammettere la presenza delle organizzazioni criminali, “quanto il loro modo di agire. Un agire da intendersi più imprenditoriale (appoggi in luoghi di potere, scalate a società, accumulo di ditte soprattutto dell’edilizia) che esecutivo-criminale”. La dichiarazione del prefetto oltre ad avere reso evidente la sottovalutazione del fenomeno, soprattutto in vista della grande quantità di denaro pubblico che verrà stanziato per l’Expo, ha fatto emergere un ritardo culturale, che a distanza di tre anni si può dire oggi, forse, ormai colmato, che pensa che l’Italia della mafia sia solo il meridione. Perché la ‘ndrangheta non ha patria e si muove silenziosamente all’ombra del grande business laddove esiste la possibilità di ricavare enormi profitti, e, nonostante abbia sempre cercato di mantenere un profilo criminale basso – perché gli affari illeciti nel silenzio si svolgono con più tranquillità – ha dimostrato di possedere un apparato militare efficiente in grado di piegare qualsiasi resistenza, e che, talvolta, ha perfino goduto del favoreggiamento di uomini delle forze dell’ordine, come nel caso dell’ex carabiniere della caserma di Rho, in provincia di Milano, Michele Berlingeri, condannato a tredici anni e mezzo in seguito alla maxi operazione Infinito del 13 luglio 2010 contro la ‘ndrangheta in Lombardia. E infatti la storia della ‘ndrangheta nella regione ha un lungo corso, che inizia negli anni Cinquanta con i primi malavitosi calabresi mandati al confino nel nord Italia, e che arriva fino ai giorni nostri, dove ha acquisito un potere tale da potersi infiltrare in ogni attività economica e istituzionale rappresentando, spesso, l’avanguardia del capitalismo italiano. La prima generazione della malavita calabrese crebbe e si sviluppò all’ombra dei piccoli centri periferici come Buccinasco, San Donato Milanese e San Giuliano Milanese, mischiandosi con la massa di compaesani partiti alla volta del nord in cerca di lavoro e fortuna. L’incontro fra queste due realtà diede alla malavita la possibilità di ‘organizzare il territorio’ attraverso la mentalità e gli stessi costumi della natia Calabria, riuscendo, così, per mezzo della paura e dell’intimidazione, a creare una rete sociale spesso connivente. Il primo boss operante in Lombardia fu Giacomo Zagari. Nativo di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, si trasferì a Gallarate, in provincia di Varese, alla metà degli anni Cinquanta, diventando presto il punto di riferimento di tutti gli uomini delle ‘ndrine che giungevano in Lombardia, e boss indiscusso del Varesotto. A quei tempi gli introiti dei boss venivano ricavati essenzialmente dal pizzo, ossia dall’estorsione di denaro nei confronti di piccoli e grandi imprenditori. Questa pratica, fin dagli esordi, dimostrava la dualità del suo scopo: da una parte il fine economico e finanziario, e dall’altro quello politico-militare legato al controllo del territorio. Ma siamo ancora lontani dal periodo in cui la ‘ndrangheta, attraverso la sua forza di persuasione finanziaria e militare, riusciva a insinuarsi nel tessuto politico ed economico della regione più ricca e produttiva del Paese, fino a minarne le basi democratiche. Infatti bisognerà attendere la metà degli anni Settanta e la stagione dei sequestri per vedere emergere gli ‘uomini nuovi’ che faranno compiere un salto di qualità alla politica criminale della ‘ndrangheta in Lombardia. Ad aprire la stagione dei sequestri ci aveva pensato Cosa nostra con il primo rapimento, quello dell’imprenditore Piero Torielli, prelevato a Vigevano, in provincia di Pavia, il 18 dicembre 1972, da un commando diretto da Luciano Leggio, e che si concluse con il pagamento di un riscatto di un miliardo e mezzo di lire. Da quel momento Milano e la Lombardia si trasformano in una miniera d’oro per tutti i gruppi di sequestratori, che in dieci anni misero a segno decine di sequestri di persona, alcuni finiti tragicamente con la morte del rapito. I rappresentanti calabresi di quella stagione furono i Pesce, i Mazzaferro, i Barbaro, i Paviglianiti, i Morabito, i Papalia e i Sergi, federati in un patto di alleanza e ideatori del sequestro di Cesare Casella, l’alleanza Coco Trovato-Flachi e i De Stefano. Attraverso i sequestri di persona la ‘ndrangheta iniziava ad affinare l’organizzazione – poiché per gestire un rapimento è necessaria una efficiente base logistica e un controllo capillare sul territorio in cui si opera – e ad arricchirsi, allargando cosi il business criminale verso nuovi e più ampi orizzonti, quello del narcotraffico di eroina e cocaina. All’inizio degli anni Ottanta, con l’aggressione sovietica dell’Afghanistan, il Paese produttore del 95% dell’oppio del mondo, l’Europa – e quindi anche l’Italia – veniva sommersa di eroina a buon prezzo, il cui traffico arricchì i cartelli siciliani e calabresi ridefinendo la cartina tornasole della criminalità organizzata nel nord Italia. Come per la stagione dei sequestri anche nel business del narcotraffico i ‘calabresi’ iniziarono al traino delle famiglie siciliane. Appoggiandosi prima al cartello Ciulla-Uguccione, e successivamente ai Fidanzati e ai Carollo, i quali negli anni Ottanta detenevano il controllo del mercato dell’eroina, la ‘ndrangheta riuscì presto a scalzare il ruolo predominante di Cosa nostra: “I calabresi si misero in proprio molto rapidamente, iniziarono a trattare con i turchi, che hanno basisti a Milano a cui far arrivare i carichi di eroina. Cosa nostra, che deteneva il monopolio, non riuscì ad arrestare la crescita dei calabresi e cosi tentò la via diplomatica, che fu al tempo stesso un riconoscimento del nuovo status raggiunto dalla ‘ndrangheta”. Da quanto venuto a galla dalle dichiarazioni rilasciate da Michel Amandini nel merito dell’inchiesta Nord – Sud condotta nel febbraio del 1994 dal pm di Milano Alberto Nobili, tra il 1986 e il 1989 si svolsero due summit, uno a Torino e uno a Milano, coordinati dal boss di Catania Nitto Santapaola e finalizzati all’elaborazione di una strategia d’azione comune per i clan siciliani e calabresi operanti in Lombardia e in Piemonte, e che si conclusero con la regolamentazione delle rispettive zone di influenza e con il riconoscimento della preminenza della ‘ndrangheta in Lombardia: “Rocco Papalia mi disse di aver preso parte insieme al fratello Antonio a due summit nei quali si sarebbe arrivati a una sorta di pax mafiosa o comunque di regolamentazione delle più importanti organizzazioni criminali [...]. Al summit presero parte rappresentanti siciliani, calabresi e napoletani. Grazie al Santapaola si decise una sorta di accordo generale in virtù del quale ogni gruppo criminale avrebbe operato nelle sue zone d’influenza senza guerre o tentativi di espansione [...] ai calabresi, era lasciata la supremazia di fatto in Lombardia e il Papalia Antonio venne indicato come personaggio di primo piano. In caso di contrasti o conflitti l’ultima e decisiva parola sarebbe spettata proprio ad Antonio Papalia”. Il processo si concluse nel 1997 con dure condanne che portarono alla decimazione dei vertici delle famiglie siciliane dei Carollo, dei Ciulla e dei Fidanzati, e delle famiglie calabresi dei Papalia, dei Sergi, dei Morabito, dei Coco-Trovato e dei Pavagliniti. Tuttavia, i calabresi riuscirono a mantenere il controllo delle posizioni raggiunte a discapito di Cosa nostra, la quale in quel periodo si trovava fortemente indebolita dal fenomeno del pentitismo che nel 1993 avrebbe portato all’arresto di nomi eccellenti come Totò Riina e Nitto Santapaola: “Ma quel colpo si rivelerà mortale solo per Cosa nostra, già provata in Sicilia dallo sfaldamento dovuto al fenomeno del pentitismo che in quegli anni porta in galera centinaia di affiliati sia tra i boss, come Totò Riina e Nitto Santapaola, che tra i semplici picciotti. Così a Milano, il centro nevralgico degli affari, Cosa nostra non ha abbastanza soldati sul campo per mantenere una posizione di rilievo nel traffico di stupefacenti. Il problema invece non si pone nemmeno per le ‘ndrine, che grazie alle seconde generazioni prenderanno definitivamente in mano il mercato della droga a Milano e anche nel resto del nord Italia”. Alla fine degli anni Novanta, dunque, la ‘ndrangheta si trova, senza concorrenti, a intraprendere i primi passi verso la creazione di quella rete di alleanze criminali internazionali che l’avrebbe portata, ai giorni nostri, a dominare in modo incontrastato il mercato della cocaina, e ad avere a disposizione una grossa massa di capitali da reinvestire in attività economiche e finanziarie diversificate e da utilizzare come strumento di persuasione per influenzare la vita politica. Nel tempo, la ‘ndrangheta è riuscita a creare una rete imprenditoriale che può vantare ramificazioni che vanno dal business dell’edilizia alle imprese di movimento terra fino alla fornitura di materiale edile, dalla gestione di imprese ludiche come discoteche, ristoranti, pub e sale da bingo al controllo della distribuzione del cibo – come emerso dalle indagini della procura meneghina sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ortomercato di Milano, che il 2 agosto 2008 hanno portato alla condanna di Salvatore Morabito e Antonino Palamara – fino alle attività finanziarie illecite in cui “una grossa massa di liquidità è reinvestita in strutture societarie o in beni immobili attraverso un’accorta attività di riciclaggio, realizzata ricorrendo all’esterovestizione mediante l’intervento di società fiduciarie con Paesi offshore”. Senza esagerazioni, si può dire che all’alba del nuovo millennio la ‘ndrangheta sia diventata ‘l’impresa’ più florida del Paese, che vanta ramificazioni criminali internazionali e una disponibilità di capitali illimitata, capace di spostare tonnellate di cocaina e di raggiungere milioni di consumatori attraverso il controllo su una fitta e diversificata rete economica e commerciale. Un’organizzazione criminale efficiente e spietata, che agli strumenti offerti dalla modernità affianca elementi arcaici di una mentalità basata sull’onore e sull’omertà, rendendola, come l’hanno definita Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, la mafia più potente del mondo. Alla luce degli avvenimenti che hanno portato alla conquista di quella che era definita la capitale morale d’Italia non stupisce affatto, quindi, il grande interesse dimostrato dalle ‘ndrine verso l’evento che porterà Milano a essere al centro del mondo: l’Esposizione universale del 2015, che secondo le stime dovrebbe ospitare 36 milioni di visitatori e porterà ricavi pari a 1.311 milioni di euro. Come è affiorato dall’inchiesta coordinata dalle Dda di Milano e di Reggio Calabria in seguito alla maxi operazione Infinito scattata il 13 luglio 2010 e che ha portato a 400 arresti, 160 dei quali in Lombardia, i clan calabresi avrebbero tentato di infiltrarsi negli appalti per Expo 2015 attraverso la Perego General Contractor. L’azienda edile, formalmente di proprietà di Ivano Perego, era concretamente manovrata dalle mani di Salvatore Strangio – Strangio e Perego sono stati anche loro incarcerati in seguito all’operazione Infinito – che gestiva le infiltrazioni delle imprese calabresi nell’ambito dei lavori pubblici, e che intendeva assorbire nel gruppo Perego alcune importanti aziende lombarde del settore edile che versavano in condizione di difficoltà economiche, allo scopo di costruire apposite attività di impresa in grado di partecipare direttamente all’affidamento degli appalti. Il piano non andò in porto nonostante l’appoggio politico di Antonio Oliviero, ex assessore della giunta provinciale di Filippo Penati passato poi nelle fila del nuovo presidente, Guido Podestà, indagato e poi rinviato a giudizio per corruzione e truffa aggravata e per i suoi rapporti con la Perego General Contractor. Nel capitolo dell’ordinanza di custodia cautelare dedicato a Oliviero, il gip Giuseppe Gennari ha indicato l’ex assessore come “il capitale sociale della ‘ndrangheta, la persona giusta per le operazioni di lobby e per mettere a frutto quella rete di relazioni istituzionali e politiche di cui si nutre l’organizzazione criminale [...] e il cui ruolo appare evidente e di non trascurabile importanza all’interno dei contatti politico istituzionali che interessano le vicende della Perego”. Secondo il gip, Oliviero progettava conquiste e appalti, si vantava di fare parte di una squadra, e rivelava la stoffa del cinico e del trasformista che vuole conservare a tutti i costi la poltrona e il suo asservimento agli interessi privati e criminali: “Il politico, con sovrano cinismo, dice a Perego di non esporsi troppo con Podestà perché poi magari rivince Penati e lui ancora quattro contatti li ha. Oliviero promette a Perego di aprirgli tutte le strade. Dice che loro sono una squadra dove Oliviero è il capo. Parole di questo genere, dette da chi si candida a ricoprire ruoli istituzionali e di amministrazione della cosa pubblica, non possono che preoccupare. E preoccupano perché rivelano l’asservimento totale dell’uomo pubblico a interessi privati. Vogliamo dire che Oliviero poteva non sapere che Perego avesse la ‘ndrangheta a casa? Ebbene, Oliviero non è raggiunto da richiesta di custodia cautelare, [...] tuttavia è evidente che sono questi momenti patologici, di osmosi tra attività istituzionali e interessi particolari, che rappresentano la via di ingresso della criminalità organizzata – che già controlla i colletti bianchi – nel mondo economico e politico”. Il caso Perego ha portato alla luce i legami esistenti tra imprenditoria, ‘ndrangheta e politica istituzionale, e ha messo in evidenza come ormai sia difficile tracciare una linea di demarcazione tra l’azione dei rappresentanti dello Stato che dovrebbero operare nella legalità e nell’interesse collettivo, e quella della criminalità organizzata, in quanto l’intreccio d’interessi politico-criminali, la zona grigia dove si incontrano gli interessi su cui è meglio non indagare, sembra ormai essere diventata sistemica, come è stato dimostrato dall’ultima inchiesta della procura di Milano che ha portato alla carcerazione di Domenico Zambetti, ex assessore del Pdl alla Regione Lombardia, per corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa. Dall’inchiesta è emerso che Zambetti pagò la ‘ndrangheta per ricevere un pacchetto di voti che gli garantisse l’elezione nel Consiglio regionale lombardo, poi avvenuta puntualmente. Voti pagati in contanti, a caro prezzo, circa 50 euro l’uno, che sono costati complessivamente 200 mila euro, versati ai clan in varie rate. A incassarli, secondo l’accusa, Giuseppe D’Agostino, gestore di locali notturni, già condannato negli anni scorsi per traffico di droga, appartenente al clan Morabito-Bruzzaniti, e l’imprenditore Eugenio Costantino, il referente del clan Mancuso. Insomma, un intreccio di affari sporchi dove mafiosi, politici e faccendieri si confondono fino a diventare una cosa sola, e anche laddove esiste una sorta di volontà di resistere alle lusinghe della via mafiosa, alla fine, spesso, vince la paura o l’omertà, come nel caso di Marco Tizzoni, coinvolto in una compravendita di voti – non andata in porto – avvenuta alle elezioni amministrative di Rho del 2011. Marco Tizzoni, leader della lista civica ‘Gente di Rho’, fu avvicinato da Marco Scalambra, finito agli arresti il 10 ottobre 2012 assieme a Domenico Zambetti, con la scusa di essere il compagno di ballo di una candidata nella sua lista, Monica Culicchi, che gli propose i voti della lobby calabrese che Tizzoni rifiutò senza però denunciare l’accaduto alla magistratura. Mafia, politica e mondo degli affari all’ombra dell’Expo 2015. Con l’operazione Infinito sono venute a galla le mire dei clan nei confronti del grande evento e la connivenza di politici disposti a tutto pur di arricchirsi e mantenere la posizione raggiunta. Nicola Gratteri ne conta ben tredici di politici lombardi in rapporti più o meno stretti con la ‘ndrangheta. E dice di più: “Questi politici hanno ricevuto i voti delle cosche”. Accuse gravi che trovano parziale conferma nelle carte, non però negli avvisi si garanzia o nelle sentenze. Al di là di tutto, degli sviluppi che seguiranno dai processi e dalle indagini in corso, con l’operazione Infinito è emerso un dato inequivocabile che non può essere ignorato neanche dai più ostinati scettici: la Mafia a Milano esiste.

Tangenti Expo, "così dieci imprese della cupola volevano spartirsi la Città della salute". In un rapporto della Finanza si parla di un "accordo preliminare" sul grande polo sanitario milanese che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni. E di una coop legata a Greganti che lavorò sulla Piastra, scrive “La Repubblica”. Dieci imprese, "pressoché" tutte in rapporti con i componenti della cosiddetta 'cupola degli appalti' finiti in carcere nei giorni scorsi, si sarebbero mosse per aggiudicarsi il maxi-appalto da 323 milioni di euro per il progetto Città della salute, una delle gare, assieme a quelle dell'Expo e ad altre nella sanità lombarda, al centro dell' inchiesta coordinata dai pm milanesi Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. E' quanto emerge da un'informativa della guardia di finanza in cui viene riportata anche una mail ricevuta dall'ex funzionario pci Primo Greganti e che conteneva un "accordo preliminare" fra le società interessate ai lavori per quel grande polo sanitario, ancora da realizzare e che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. E la cupola sarebbe riuscita a inserirsi anche nei lavori per la cosiddetta Piastra dell'Expo, l'appalto più rilevante aggiudicato per 149 milioni di euro e giunto ormai a oltre il 50 per cento di realizzazione. A quell'infrastruttura, che è la piattaforma di base su cui si sviluppa il sito espositivo, avrebbe lavorato - stando ai nuovi particolari che emergono dalle carte dell'inchiesta - anche una cooperativa legata a Greganti. Ovvero quel Compagno G che, secondo un'intercettazione, governava "le coop rosse" come un "martello" e che avrebbe stipulato addirittura un contratto, con tanto di "provvigioni", con il colosso delle costruzioni del mondo cooperativo: la Cmc di Ravenna.Sul fronte Città della salute, il messaggio di posta elettronica, come scrive la Finanza, sarebbe stato inviato al 'Compagno G' l'11 aprile del 2013 da Lorenzo Beretta, un responsabile di Olicar, gruppo che si occupa di servizi per l'energia. Nella mail veniva indicato come oggetto "Città della Salute e della Ricerca-Sesto San Giovanni" ed era allegato "un file" denominato "Sesto San Giovanni accordo preliminare", che in precedenza sarebbe stato girato, secondo gli inquirenti, dall'imprenditore vicentino Enrico Maltauro (ora in carcere) allo stesso Beretta. Il file conteneva "la bozza di una scrittura privata tra i seguenti soggetti: Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro spa; Cons. Naz. Coop di Produzione e Lavoro Ciro Menotti Scpa; Cefla S.C; Prisma Impianti spa; Gemmo Spa; Manutencoop Facility Management spa; Servizi Ospedalieri spa; Olicar; Vivenda spa; Sotraf". Era una bozza con l'indicazione della "costituzione di un raggruppamento temporaneo di imprese" per partecipare alla gara. Nel gruppo di imprese, sempre secondo la guardia di finanza, doveva essere inserita in vista dei lavori anche la cooperativa Viridia, che sarebbe stata legata a Greganti, tanto che la 'Ciro Menotti' dichiarava nella scrittura privata di "intervenire per conto della propria consorziata Viridia". Le società "interessate al raggruppamento temporaneo di imprese", segnala la Finanza, erano "pressocché" tutte collegate con il "sodalizio Frigerio-Cattozzo-Greganti-Grillo". Fra l'altro i presunti legami di Greganti con i manager della Olicar sono documentati anche da molte altre intercettazioni, tra cui una dello scorso 14 febbraio: intercettazione che dimostrerebbe ancora una volta l'abitudine del Compagno G, che fu il collettore delle tangenti rosse ai tempi di Tangentopoli, di frequentare i palazzi del potere dopo l'ormai nota telefonata in cui diceva che stava uscendo da una riunione in Senato. "Adesso sono in assessorato al Comune di Torino", spiegava l'ex funzionario del Pci a Paolo Fusaro, amministratore delegato di Olicar, aggiungendo che sarebbe arrivato a Milano per le 11 col treno e puntuale all'appuntamento in un albergo. Molto attivo per l'affare Città della salute era anche Gianni Rodighero, indagato e ritenuto il braccio destro dell'ex dc Gianstefano Frigerio. Fu Rodighero il 20 febbraio scorso, stando ad un'informativa della guardia di finanza, a ricevere una telefonata da Danilo Bernardi, manager Manutencoop che voleva "fissare un appuntamento" con Frigerio per discutere la "questione dei reciproci oneri di ricerca delle protezioni politiche" per l'appalto Città della salute. Tornando alla Piastra, invece, un altro appalto dell'Expo, dunque, diverso da quelli già venuti a galla dall'inchiesta (tra cui la gara per le architetture di servizi), potrebbe aver subito i condizionamenti delle presunta associazione per delinquere che aveva in prima linea, oltre a Greganti, anche Frigerio e l'ex senatore Luigi Grillo (Forza Italia). Grillo che, secondo quanto diceva in una telefonata Sergio Cattozzo, ex esponente dell'Udc e presunto corriere delle tangenti, avrebbe avuto "consolidate aderenze" e "rapporti diretti" anche "con Lupi", ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Intercettazione questa, come molte altre nelle quali la "squadra" fa nomi di politici, che gli inquirenti valutano con cautela perché potrebbe trattarsi di millanterie. E' in un'informativa della guardia di finanza, invece, che compaiono una serie di intercettazioni nelle quali il 'Compagno G' parla con Fernando Turri, rappresentante legale di Viridia, coop di Settimo Torinese attiva dal '92 e che opera in vari settori, delle costruzioni alla produzione di energia. I finanzieri scrivono che Viridia assume rilevanza con riferimento a buona parte delle vicende attenzionate" dai pm Gittardi e D'Alessio: la società era interessata anche "alla realizzazione della Città della salute" e "agli appalti" di Sogin. E soprattutto, pur "non essendo palesemente ricompresa nel raggruppamento di imprese", capeggiato dalla Mantovani Spa, che vinse l'appalto per la 'Piastra' (appalto citato anche nelle carte dell'inchiesta che a marzo 2014 ha portato in carcere l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni), Viridia ha "svolto dei lavori nel sito di Expo 2015, verosimilmente in qualità di consorziata del Consorzio Veneto Cooperativo". Il responsabile di Viridia, poi, sempre secondo la Finanza, "avrebbe partecipato" anche ad almeno due incontri con Greganti e Angelo Paris, l'allora manager di Expo 2015 spa - uno del 20 dicembre 2013 e un altro del 29 gennaio 2014 - per discutere sulla realizzazione dei padiglioni. Greganti, scriveva Paris in un sms, "è uno che governa le coop rosse, che al momento performano male su Expo... E quindi lui è il martello che le fa rigare". E questi stretti collegamenti tra l'ex funzionario del Pci e le coop sembrano acquistare anche maggior peso con il ritrovamento, da parte della guardia di finanza, del testo di un "accordo di partnership sottoscritto da Seinco En-ri srl", società riconducibile a Greganti, con la Cmc di Ravenna, che fra l'altro costruirà il padiglione della Francia per l'Expo (oltre a essersi già aggiudicata l'appalto per la rimozione delle interferenze). Il 14 febbraio scorso, spiegano gli inquirenti, Greganti inviò una mail a Dario Foschini, amministratore delegato di Cmc, contenente il testo di un contratto che riconosceva "sostanzialmente da parte di Cmc un concorso in spese di ufficio per sei mesi e, soprattutto, una provvigione sulle attività e progetti frutto del presente accordo che (...) non potrà essere inferiore all'1 per cento del valore delle operazioni portate a buon fine". E per l'inizio della prossima settimana sono fissati due interrogatori decisivi per lo sviluppo delle indagini: lunedì i pm sentiranno Paris e martedì Cattozzo, l'uomo della presunta "contabilità delle mazzette".

Sergio Cattozzo, l'ex esponente dell'Udc ligure, aveva in casa un dossier costituito da molti documenti su cui avrebbe appuntato in maniera ordinata numeri, date e nomi. Contabilità che si aggiunge quindi al biglietto che Cattozzo ha cercato di nascondere ai finanzieri che erano andati ad arrestarlo o 0.3 o lo 0.5% sul valore degli appalti, scrive Il Fatto Quotidiano. Non solo un post-it, ma un vero e proprio archivio cartaceo. Sergio Cattozzo, l’ex esponente dell?Udc ligure e corriere delle tangenti versate alla “cupola degli appalti”, secondo la Procura di Milano, aveva in casa un dossier costituito da molti documenti cartacei su cui avrebbe appuntato in maniera ordinata numeri, date e nomi, ossia una presunta contabilità delle mazzette. Contabilità che si aggiunge quindi al biglietto che Cattozzo ha cercato di nascondere ai finanzieri che erano andati ad arrestarlo.  Dopo un primo interrogatorio Cattozzo, che intercettato al telefono con Frigerio sosteneva che i pubblici ufficiali andavano “coccolati” come le “belle donne”, sarà nuovamente sentito martedì prossimo. Nei post-it, come aveva confessato lo stesso Cattozzo al gip, aveva annotato in pratica “la contabilità delle tangenti” con date e percentuali: lo 0.3 o lo 0.5% sul valore degli appalti. Secondo i calcoli degli inquirenti, riscontrati già dopo gli interrogatori, le tangenti versate dall’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, ammonterebbero a circa 600mila euro in totale tra quest’anno e lo scorso anno. Anche se il costruttore avrebbe parlato di una cifra doppia con gli inquirenti. Tra l’altro, proprio Cattozzo in una intercettazione, parlando con l’ex parlamentare Dc Gianstefano Frigerio ed elencando una serie di cifre, lo rassicurava dicendo: “Io ho scritto tutto”. “Un’organizzazione efficiente e prismatica, quasi militarmente organizzata nella scrupolosa suddivisione dei ruoli e delle mansioni affidate a ciascun sodale, con una produttività di rilievo”. È una delle conclusioni del rapporto della sezione di pg della Gdf dello scorso 31 marzo e ora agli atti dell’inchiesta. Le Fiamme Gialle, nel descrivere la  ”cupola” aggiunge che la sua “efficacia operativa” viene dimostrata anche dalla capacità di far fronte a “variabili impreventivabili come la perdita di una ‘pedina’ fondamentale quale Antonio Rognoni (ex dg di Infrastrutture Lombarde ora agli arresti domicilari, ndr)”, “prevedendo soluzioni alternative e rapide manovre di avvicinamento, accerchiamento o consolidamento dei rapporti coi pubblici ufficiali interessati”. Secondo i finanzieri la cupola aveva tentato di coinvolgere nel ‘sistema’ architettato anche Riccardo Napolitano, amministratore delegato di Finmeccanica Services Group, “al fine di conseguire importanti vantaggi in termini economici visto che” l’alto dirigente “gestirebbe appalti per miliardi di euro per conto dell’intero gruppo”. In base “all’analisi delle conversazioni intercettate all’interno dell’ufficio di Frigerio con Cattozzo e Greganti – si legge nel rapporto – è emerso come i tre stiano consolidando il rapporto con Riccardo Napolitano”. La sezione pg della Guardia di Finanza sottolinea che una serie di intercettazioni telefoniche sull’utenza di Cattozzo “hanno consentito di accertare che nei giorni 23,25 e 26″ settembre 2013, l’ex esponente dell’Udc ha avuto “un fitto scambio di contatti telefonici con manager o dipendenti del gruppo Finmeccanica”, cui sarebbero seguiti incontri nelle sede del Gruppo in via Monte Grappa a Roma e di Finmeccanica Services Group in via Piemonte, “tra cui Riccardo Napolitano (incontrato, peraltro, insieme a Primo Greganti), Giovanni Pontecorvo”, attuale presidente di BredaMenarinisus, società del gruppo Finmeccanica, e due persone non meglio identificate, tale Gianni e tale Ugo. Inoltre, si legge in una nota dell’informativa con cui nell’ ottobre dell’anno scorso era stata chiesta una proroga delle intercettazioni, Cattozzo e Frigerio “avrebbero ricevuto da Napolitano un documento, riportante l’elencazione di tutti i principali settori di servizi affidati da Finmeccanica, agli stessi estremamente utile per individuare i servizi da mettere in correlazione con gli imprenditori amici”. Frigerio avrebbe inviato un fax a Napolitano “informandolo del suo interessamento presso importanti figure politiche allo scopo di favorirlo nello sviluppo della sua carriera professionale, invitandolo nel contempo a ricevere tre imprenditori suoi amici in prospettiva di favorirli nell’assegnazione degli appalti”. E per completare il quadro i finanzieri spiegano che dalle conversazioni Cattozzo “starebbe perorando assiduamente gli interessi economici di Francesco Marguati – ex sindaco (area Pdl) di Tortona dimessosi nel 2009 – cui fa capo la Sotraf” impresa attiva nel settore delle pulizie “con l’intento di fargli aggiudicare qualche gara anche in Finmeccanica, non limitandosi, dunque, alle strutture sanitarie” come l’ospedale San Matteo e l’azienda ospedaliera di Pavia. ”Io stavo pensando di fare un’operazione di questo genere (…) ma perché tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole”. Così, in un’intercettazione del 17 maggio del 2013, Cattozzo parlava con Gianstefano Frigerio. Nella conversazione, inserita in “brogliaccio” redatto dalle Fiamme Gialle i due, stavano parlando, in particolare, del ruolo Napolitano. Cattozzo, annota la Gdf, dice a Frigerio che Riccardo Napolitano “gli ha detto che gestisce 3 miliardi di euro all’anno di lavori”. Frigerio spiega, quindi, che lui “continua a chiedere a Napolitano in quali settori”. Cattozzo: “Adesso mi fa l’elenco dei settori”. Frigerio: “Bravo … ecco che guardiamo io e te”. Cattozzo: “Però io stavo pensando di fare un’operazione di questo genere (…) ma perché tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole”. Frigerio: “Certo”.

Expo, cronaca di uno scandalo annunciato. L’Antimafia aveva avvisato: attenti alla Maltauro. Ma la prefettura non l’ha buttata fuori dagli appalti. E i cassieri delle mazzette aggiravano i controlli sui lavori più importanti, scrivono Paolo Biondani e Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Adesso qualcuno spera che il resto della storia rimanga segreto. Prega che non si sappia che la Prefettura di Milano avrebbe potuto, e forse dovuto, fermare l’ingresso della “Maltauro costruzioni” negli appalti per l’Expo 2015. Perché alcuni funzionari del prefetto avevano da tempo scritto che «la società Maltauro tende a subappaltare lavori a ditte che sono successivamente destinatarie di informazioni antimafia interdittive»: cioè, secondo il rapporto, l’impresa veneta si serve anche di imprenditori collegati alla criminalità organizzata. Nessuno però in Prefettura se l’è sentita di privare l’Expo del contributo di Enrico Maltauro, 59 anni, il boss dell’impresa che ha vinto due appalti indispensabili all’esposizione universale per un totale di 97 milioni e mezzo. Il 21 febbraio 2014 dopo sette mesi di istruttoria, l’«Ufficio di supporto della sezione specializzata del comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sulle grandi opere Expo Milano 2015» (questo il pomposo nome) ha deciso di fare più umilmente come Penelope durante l’assenza di Ulisse: «Si resta in attesa dell’esito degli ulteriori accertamenti in corso», sottoscrivono la dirigente prefettizia della struttura di sorveglianza, la dirigente di gabinetto della Prefettura, tre tenenti colonnello, due vicequestori, un tenente e un sostituto commissario. I nove rappresentanti della legge permettono così a Enrico Maltauro di continuare a lavorare indisturbato nei cantieri. Fino al suo arresto, l’8 maggio, per presunte tangenti con due immortali faccendieri di Tangentopoli anni ‘90, Gianstefano Frigerio, 75 anni, area Berlusconi, e Primo Greganti, 70 anni, tessera Pd ora sospesa, l’ex onorevole del Pdl Luigi Grillo, 71 anni, e Angelo Paris, 48 anni, promettente direttore generale e responsabile dei contratti di Expo, praticamente il numero due della società pubblica a cui resta un anno per preparare l’evento. L’inchiesta della Procura di Milano esce allo scoperto negli stessi giorni in cui indagini antimafia e sentenze colpiscono i pilastri di vent’anni di centrodestra in Italia e riscoprono nomi intramontabili delle bustarelle rosse. Così ecco la fuga in Libano del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno a Cosa Nostra, l’arresto del ministro dell’Interno ai tempi del G8 a Genova, Claudio Scajola, successivamente famoso per l’appartamento sul Colosseo pagato a sua insaputa, fino all’intrigo massonico che lega i due con la rete che protegge la latitanza dell’ex parlamentare berlusconiano, Amedeo Matacena, condannato a sua volta per concorso esterno alla ‘ndrangheta. Ma ecco anche il ruolo di Primo Greganti, l’ex cassiere del Pci arrestato e condannato durante la prima inchiesta di Mani pulite e ancora operativo, secondo la Procura, nei contratti per l’Expo e la sanità con il coinvolgimento di alcune importanti cooperative. Tanto per confermare quanto l’appalto con l’aiutino della stecca non faccia schifo nemmeno a sinistra. Se questo sia l’inizio di una stagione rinnovata di Mani pulite dipende dal supporto di uomini e mezzi che il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e il collega della Giustizia, Andrea Orlando, forniranno alle indagini. Le infiltrazioni criminali, i ritardi nel cantiere e la necessità di ridurre i controlli antimafia per non fermare i lavori. Mentre il governo valuta anche il "modello Bertolaso" per finire in tempo e la Mantovani, dopo la gara vinta con un ribasso record, chiede decine di milioni extra. Allo schiaffo giudiziario sull’Expo, si aggiunge la botta economica. La Mantovani spa, l’impresa di Padova che ha realizzato la piastra su cui saranno costruiti i padiglioni dell’esposizione, pretende ora 110 milioni in più rispetto al prezzo che la stessa Mantovani aveva formulato per strappare l’appalto alle concorrenti. La capocordata, insieme con altre imprese appartenenti all’intera lobby parlamentare dal Pdl alla Lega Coop, si era aggiudicata il contratto più grosso di Expo con l’offerta di 165 milioni, partendo da una base d’asta di 272 milioni. Un ribasso che aveva scandalizzato perfino un politico navigato come il celeste senatore Roberto Formigoni, allora governatore ciellino della Lombardia e ora imputato per la corruzione sulla sanità. Se in Francia, dove l’Esposizione universale ha la sua sede storica, un ente pubblico formulasse una base d’asta superiore del 65 per cento rispetto ai prezzi di aggiudicazione, i suoi manager e progettisti verrebbero licenziati per aver gonfiato le cifre. Oppure l’offerta dell’impresa verrebbe bocciata. In Italia no: da noi in questo modo si vincono contratti colossali. «Questo è stato possibile grazie alla nostra consolidata esperienza nell’affrontare sistemi complessi», raccontava a “l’Espresso” l’allora amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, poco prima di essere arrestato per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture false e dichiarazione fraudolenta e poi condannato con un patteggiamento a un anno e dieci mesi. Certo: esperienza consolidata. La Mantovani, guidata dopo Baita dall’ex questore di Treviso Carmine Damiano, con la giustificazione dei tempi di consegna accelerati, presenta dunque il conto del suo ribasso fuori mercato: 110 milioni di maggiore spesa che il governo Renzi dovrebbe stanziare per accontentare la società, definita solo otto mesi fa dai giudici «gruppo economico criminale», per farla così rientrare dai preventivi spericolati presentati dal pregiudicato Baita in una gara d’appalto la cui commissione aggiudicante era presieduta dall’attuale detenuto Angelo Paris. Il commissario unico per l’Expo, Giuseppe Sala, è ottimista: «Più che di contenzioso, dobbiamo parlare di riserve», spiega a “l’Espresso”: «Chi conosce le questioni relative agli appalti sulle costruzioni sa che in genere si chiude su un dieci-venti per cento del valore richiesto». Altri osservatori sono un po’ più pessimisti: «Mantovani non scenderà al di sotto dei 60 milioni». Comunque è sempre un bel malloppo a carico degli italiani. Baita, nonostante la condanna, non è scomparso dal panorama. Secondo i magistrati, è tuttora rappresentante legale di quattro società. E a lui si rivolge il general manager Paris nel suo tentativo di trovare sponsor, a cominciare da Silvio Berlusconi, per essere promosso al posto di Antonio Rognoni, arrestato poche settimane fa, direttore generale di Infrastrutture lombarde (Ilspa), il braccio operativo della Regione nei grandi appalti e nella direzione dei lavori per l’Expo. «Posso chiederti un consiglio da amico. Ti candideresti al bando pubblico per ricerca DG Ilspa?», scrive Paris in un sms. «Se fossi in te sì. Fatti vivo. Ciao», gli risponde Baita. Sulla Mantovani gravano sempre le parole pronunciate davanti al prefetto di Milano, Francesco Tronca, dal procuratore vicario della Direzione nazionale antimafia Pier Luigi Dall’Osso. Lo scorso  6 settembre durante una riunione del Comitato per l’alta sorveglianza sui grandi appalti il magistrato aveva messo in guardia sulla posizione dell’azienda: l’esistenza di informative ancora coperte dal segreto e quanto già scritto dai giudici nelle inchieste venete offrono uno spaccato dell’attività dell’impresa che «probabilmente potrà essere uno degli elementi fondanti di importanti iniziative da adottare in tema di antimafia». Pesa però anche l’immediata risposta del provveditore alle Opere pubbliche, Pietro Baratono, rappresentante a Milano del ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi: Baratono dice al prefetto e ai presenti di essere preoccupato e rammaricato per quanto ha riferito l’alto magistrato sulla Mantovani perché «l’adozione di un eventuale provvedimento interdittivo potrebbe mettere a rischio la realizzazione dell’evento». Per buona pace della Mantovani, il dottor Dall’Osso non si occupa più della questione. Nel frattempo è stato promosso procuratore a Brescia. Dopo l'inchiesta-denuncia di Fabrizio Gatti, la prefettura ha deciso di bloccare la società siciliana in rapporti con le cosche che si era aggiudicata l'appalto più importante. È alla vigilia di questo clima che il 10 luglio 2013 «su richiesta della stazione appaltante Expo 2015» la Prefettura avvia la prima istruttoria sulla Maltauro spa: l’impresa ha vinto la commessa per 41 milioni e 902 mila euro per la realizzazione della Via d’acqua Sud e il collegamento del canale dell’Expo con la Darsena, un’opera fondamentale nell’immaginario dei progettisti. È il prefetto che deve concedere la necessaria liberatoria antimafia o l’interdittiva che allontanerebbe l’azienda dai cantieri, con il conseguente ritardo nell’avvio dei lavori. Dall’ottobre 2013 il tempo di risposta è ulteriormente ridotto a sette giorni. Scaduti i quali, la Prefettura è obbligata a rilasciare una liberatoria provvisoria. Ma c’è ancora margine per evitare all’Italia la figuraccia internazionale. Invece l’istruttoria non viene mai conclusa e il 27 gennaio 2014 Expo ne richiede una seconda: Enrico Maltauro, questa volta secondo la Procura grazie agli aiutini di Paris, ha vinto anche l’appalto da 55 milioni e 679 mila euro per le architetture di servizio nell’area dell’esposizione. Finalmente per la riunione del 21 febbraio l’ufficio di supporto al Comitato di sorveglianza presenta la sua relazione al gruppo ispettivo antimafia della Prefettura. La Maltauro risulta destinataria di tre informazioni atipiche emesse nel 2011 e nel 2012 dalle prefetture di Vicenza e L’Aquila. L’impresa «ha partecipato a varie gare d’appalto con la società... indagata perché infiltrata da esponenti della criminalità mafiosa» e vengono ricordate due inchieste delle procure antimafia di Venezia e Palermo. L’ufficio aggiunge che «nel contesto dei lavori eseguiti presso la base militare di Aviano la società Maltauro inseriva nelle liste presentate per il rilascio dei pass personaggi quali... esponenti inseriti organicamente nelle principali organizzazioni criminali». I funzionari del prefetto avvertono anche che Enrico Maltauro «consigliere e amministratore delegato della predetta società, risulta essere stato condannato negli anni Novanta tra vari reati anche per corruzione e turbata libertà degli incanti». Da qualche tempo il Tar della Lombardia si pronuncia spesso a favore delle imprese e contro il prefetto. Forse proprio per questo e non solo per evitare ritardi ai cantieri, i nove rappresentanti degli organismi investigativi e della Prefettura concludono che «le informazioni finora acquisite non consento di affermare che l’impresa presenti i connotati di infiltrazioni mafiose». La decisione viene così ulteriormente rinviata. Nel frattempo i lavori per la Via d’acqua di Maltauro sbattono contro una cava piena di rifiuti tossici dentro Milano. La ditta si rifiuta di fornire informazioni al comitato di quartiere preoccupato dagli scavi a cielo aperto. «Qualunque altro operatore che avesse agito in questo modo», sospettava già mesi fa Enrico Fedrighini, consigliere dei Verdi, «sarebbe stato oggetto di controlli». Aveva visto giusto. Perché per proteggere Maltauro interviene il solito direttore generale di Expo. Il 7 marzo Paris parla con Christian Malangone, direttore della pianificazione e controllo sul grande evento: «Oggi han portato la terra in una discarica non autorizzata... Sei volte hanno già fatto infrazione. Sei volte». Maltauro deve pagare a Expo una multa di due milioni. Viene informato anche Frigerio, presentato a Maltauro dalla «Cancellieri», l’ex prefetto di Vicenza ed ex ministro Annamaria Cancellieri: «Perché aveva l’ufficio di Prefettura in casa sua, a Vicenza», dice Frigerio in una telefonata. E, sempre in marzo, cerca di porre rimedio: «Dì a Enrico di rispettare le regole sull’antimafia, perché ha fatto entrare due, tre aziende. Meno male che abbiamo Paris».

Le infiltrazioni criminali, i ritardi nel cantiere e la necessità di ridurre i controlli antimafia per non fermare i lavori. Mentre il governo valuta anche il "modello Bertolaso" per finire in tempo e la Mantovani, dopo la gara vinta con un ribasso record, chiede decine di milioni extra, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. C'è una storia segreta per l’Expo. Una storia mai raccontata nelle dichiarazioni pubbliche sul grande evento che dal primo maggio 2015 a Milano deve rilanciare l’immagine dell’Italia nel mondo. Da una parte il malaffare di alcune imprese che si sono aggiudicate appalti importanti, le infiltrazioni della ‘ndrangheta e il ritardo di un anno sul programma dei lavori. Dall’altra, l’impegno di un gruppo di funzionari dello Stato, a cominciare dal prefetto di Milano, che oggi si ritrova di fronte al bivio: difendere la legalità con la conseguenza di rallentare i cantieri e mettere a rischio l’intera manifestazione, oppure snellire le norme antimafia e abbassare la guardia. La più grande opera pubblica del momento, quasi tre miliardi di spesa tra infrastrutture e organizzazione per ospitare l’Esposizione universale, diventa così la metafora di un Paese all’ultima spiaggia. La voglia di fare che si scontra con il tempo perso in liti politiche: famosa la rissa che ha bloccato l’Expo per mesi tra l’allora sindaco Letizia Moratti e l’ex governatore Roberto Formigoni, oggi ben stipendiato in Senato. L’assalto della criminalità all’economia sana. La corsa affannata verso l’inaugurazione. E, in fondo a tutto, la mancanza di alternative. Si è scelto così di ridurre i controlli: attraverso la modifica del codice nazionale antimafia oppure l’ampliamento dei poteri speciali del commissario unico, Giuseppe Sala, come si faceva con la Protezione civile di Guido Bertolaso. La discussione, tuttora in corso, ha coinvolto quattro ministri, il presidente della Regione Lombardia, il sindaco di Milano e il capo della Prefettura. Ecco il diario segreto di sei mesi di incontri e contatti che “l’Espresso” ha ricostruito grazie alle testimonianze di quanti erano presenti.

5 settembre 2013: Roma, Direzione centrale della polizia criminale. Il vice capo della polizia e direttore centrale della polizia criminale, viene aggiornato sull’arresto, qualche giorno prima, del vicequestore aggiunto Giovanni Preziosa, 59 anni, ex assessore alla Sicurezza nella giunta di centrodestra a Bologna. È accusato di avere ceduto informazioni estratte dalle banche dati delle forze dell’ordine all’impresa di costruzioni Mantovani spa, società che a Milano si è aggiudicata l’appalto più importante di Expo 2015. L’informativa del ministero dell’Interno evidenzia che nell’ordinanza di custodia cautelare che ha disposto l’arresto del vicequestore Preziosa, il giudice per le indagini preliminari definisce la Mantovani spa un «gruppo economico criminale». Il vice capo della polizia viene anche avvertito che qualsiasi provvedimento di interdizione nei confronti della Mantovani spa potrebbe pregiudicare lo svolgimento dell’Expo: proprio perché l’impresa ha vinto il contratto per la struttura principale, cioè la costruzione della “piastra” di cemento armato su cui verranno realizzati i padiglioni dell’Esposizione universale. Anche la Prefettura di Milano è al corrente delle criticità che riguardano la società: criticità come l’arresto il 28 febbraio 2013 dell’amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta.

6 settembre 2013: Milano, Prefettura. Davanti al prefetto di Milano, Francesco Tronca, si riunisce la sezione specializzata del “Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sulle grandi opere per l’Expo 2015”. I convocati ricordano quello come un incontro carico di preoccupazioni. Il prefetto li aggiorna sul numero degli ultimi provvedimenti interdittivi antimafia: una decina di imprese già allontanate o che stanno per essere allontanate dai cantieri. Sotto esame non ci sono soltanto gli appalti per il sito dell’esposizione, ma anche quelli per le infrastrutture esterne. Tronca rivela una maggiore presenza di infiltrazioni di origine calabrese. In particolare nelle opere viarie e nei cantieri della Teem, la nuova tangenziale di Milano. Nonostante questo ulteriore allarme, il prefetto annuncia che il suo ufficio ha manifestato al ministero dell’Interno la necessità di snellire la normativa sui controlli antimafia. Una modifica che il rappresentante del governo definisce indispensabile, pur nel rispetto della legalità. Gli arretrati ancora in istruttoria superano il sessanta per cento delle richieste. Percentuale che non può essere accettata. Sarà proprio la Prefettura di Milano a scrivere la bozza della nuova normativa da inviare al Viminale. Il comitato deve anche valutare le informazioni fornite dalla Direzione nazionale antimafia (Dna) sulla Serenissima holding: la società della potente famiglia Chiarotto di Padova è proprietaria della Mantovani spa e della Fip industriale spa, altra azienda del gruppo veneto impegnata nei cantieri per le infrastrutture viarie di Expo. Il procuratore nazionale aggiunto della Dna, Pier Luigi Dell’Osso, spiega davanti al prefetto che non tutte le notizie possono essere liberate dal segreto. E che l’arresto del vicequestore Preziosa e quanto ha scritto il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare mostrano comunque uno spaccato dell’attività della Mantovani spa. Per questa ragione, secondo il procuratore Dell’Osso, l’ordinanza potrà essere uno degli elementi su cui fondare importanti iniziative da intraprendere in tema di antimafia. Ma non tutti sono d’accordo. Se ne fa immediatamente portavoce Pietro Baratono, ingegnere e provveditore alle Opere pubbliche di Lombardia e Liguria, che nel Comitato per l’alta sorveglianza rappresenta il ministero delle Infrastrutture guidato da Maurizio Lupi. Baratono dice chiaro e tondo al prefetto e ai presenti di essere preoccupato e rammaricato per quanto ha riferito l’alto magistrato sull’associazione tra imprese di cui la Mantovani spa è capogruppo. Perché, trattandosi dell’affidataria dei lavori di costruzione della piastra, l’emissione di un eventuale provvedimento interdittivo e il conseguente allontanamento dai cantieri potrebbero mettere a rischio la realizzazione della manifestazione. Cioè potrebbero costringere l’Italia a una memorabile figuraccia davanti al mondo. In altre parole chi volesse adottare i necessari provvedimenti imposti dalla legge, per proteggere la pubblica amministrazione da infiltrazioni mafiose o attività illegali, deve assumersi la responsabilità di un fallimento di Expo 2015. Al ministero dell’Interno e a quello delle Infrastrutture fanno le stesse valutazioni. Il provveditore alle Opere pubbliche si lamenta anche per il fatto che lo stato di avanzamento dei lavori verificato dai suoi funzionari nei cantieri non corrisponde a quanto ufficialmente dichiarato dalla Expo 2015 spa, società creata da Regione Lombardia, Comune di Milano, Provincia e Camera di commercio per organizzare e gestire il grande evento.

28 ottobre 2013: Roma, ministero dell’Interno. La richiesta della Prefettura di Milano di snellire le verifiche antimafia viene accolta. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, firma la direttiva sul coordinamento degli accertamenti che individua nella Direzione investigativa antimafia (Dia) «l’organismo sul quale verranno a gravitare le attività info-investigative di preventivo controllo, propedeutiche al rilascio della documentazione antimafia o all’iscrizione degli operatori nelle cosiddette white-list». Il 7 dicembre la Gazzetta ufficiale pubblica le nuove linee guida con le quali il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo fornisce “prescrizioni aggiuntive volte ad accelerare i controlli antimafia”. Viene così formalizzata una nuova procedura più rapida. Le imprese non segnalate nella banca dati della Prefettura o in quella della Dia ottengono la liberatoria provvisoria nel giro di pochi giorni: possono quindi firmare i contratti ed entrare nei cantieri.

7 gennaio 2014: Milano, Prefettura. Alla riunione del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo, partecipano oggi anche l’ambasciatore Paolo Guido Spinelli e l’architetto Andrea Del Prete per conto di Expo 2015 spa. L’ambasciatore Spinelli, che cura i rapporti con i Paesi esteri e con il «Bureau International des Expositions», comunica al prefetto che i lavori sono in ritardo rispetto al programma. L’architetto di Expo, che si occupa dei problemi tecnici del grande cantiere, spiega invece che per la realizzazione dei singoli padiglioni, gestita dagli Stati partecipanti, si prevedono affidamenti delle opere molto frazionate. E soprattutto che i Paesi esteri probabilmente firmeranno con le imprese contratti di tipo privatistico e non veri e propri subappalti pubblici. Un ostacolo in più per i controlli antimafia, tenendo conto che l’alta frammentazione dei contratti rischia di favorire l’infiltrazione di aziende colluse. L’impegno non è di poco conto: per la consegna dei padiglioni, le rifiniture, gli allestimenti, i servizi qualcuno già stima il coinvolgimento per i prossimi mesi di centinaia di piccoli e medi imprenditori italiani e stranieri, suddivisi tra una cinquantina di filiere. Imprenditori su cui saranno svolti accertamenti preferibilmente preventivi: cioè su nomi, documenti, banche dati senza necessariamente inviare ispezioni nei cantieri, per non pregiudicare l’andamento dei lavori. Com’è nell’interesse della società Expo 2015. Dietro il paravento dei documenti in ordine, però, qualche azienda collusa è riuscita a eludere i controlli. L’allarme è altissimo. Al prefetto viene riferito che la criminalità organizzata si è infiltrata principalmente nei contratti per le opere infrastrutturali stradali. Soprattutto nei lavori per la costruzione dell’autostrada Pedemontana e della nuova tangenziale di Milano, due opere finanziate per l’Expo. La Prefettura ha finora firmato l’interdizione antimafia per dieci imprese impegnate nei cantieri della Teem, la tangenziale esterna milanese. Ditte infiltrate prevalentemente dalla ‘ndrangheta. Otto sono invece le imprese “interdette” dai cantieri della Pedemontana. Molte società hanno ricevuto incarichi in tutte e due le grandi opere e sono spesso collegate tra loro da legami societari e familiari. Il maggior numero di incarichi riguarda piccoli subcontratti non sottoposti all’autorizzazione della stazione appaltante, come invece avviene per i subappalti. Uno stratagemma, viene spiegato nella riunione con il prefetto, sfruttato dalle imprese per sottrarsi agli speciali controlli antimafia previsti per l’Expo. Si è scoperto così che la criminalità organizzata è riuscita a infiltrarsi proprio grazie ai subcontratti affidati a società che, anche se con sigle e denominazioni diverse, risultano legate tra loro da un’intensa rete di interessi familiari e d’affari. E strettamente connesse o addirittura presenti, indirettamente o direttamente, in tutte le opere Expo.

13 gennaio 2014: Milano, Prefettura. Il prefetto Tronca incontra il ministro dell’Interno Alfano, arrivato da Roma per firmare il “Piano di azione Expo 2015 – Mafia free”. Il piano viene sottoscritto dal ministro con il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e il commissario unico per l’Expo, Giuseppe Sala. «La sottoscrizione del piano d’azione», spiega il ministro Alfano all’Ansa, «cristallizza la volontà ferma e determinata dello Stato e degli altri organismi coinvolti di attivare ogni iniziativa utile a garantire il rispetto della legalità e della trasparenza in tutte le fasi di realizzazione dell’evento». Nelle stesse ore, sempre in Prefettura, il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo decide di semplificare ulteriormente la procedura antimafia sulle imprese estere che lavoreranno nei cantieri. Le verifiche saranno limitate alle autocertificazioni dei proprietari, degli amministratori e dei procuratori con poteri specifici in merito al contratto, così come ha suggerito il ministero dell’Interno. Esclusi dai controlli i familiari, i conviventi, i sindaci e i revisori dei conti. I tempi di risposta della Prefettura vengono fissati in quindici giorni: oltre, la stazione appaltante sarà autorizzata a firmare il contratto con la ditta e a dare provvisoriamente il via ai lavori anche senza liberatoria. Quanti erano presenti ricordano che il termine dei quindici giorni è stato proposto dall’avvocato generale dello Stato, Ettore Figliolia, già consulente legale nella Protezione civile dei grandi eventi di Guido Bertolaso. Lo scopo della procedura semplificata è sempre quello di accelerare i tempi. Anche se, secondo alcuni osservatori, la criminalità potrebbe ora infiltrarsi in Expo dietro lo schermo delle imprese straniere.

11 febbraio 2014: Lombardia, cantieri tangenziale Teem. Le aziende con collegamenti mafiosi nei subappalti per la tangenziale esterna di Milano salgono a undici. La Prefettura ha scoperto e allontanato un’altra ditta. Per quanto riguarda i padiglioni di Expo 2015, il prefetto di Milano, Francesco Tronca, chiede al Comitato per l’alta sorveglianza che le ispezioni antimafia siano meglio coordinate. È vero che gli accessi nei cantieri delle forze di polizia, dell’Ufficio del lavoro, delle Asl garantiscono controlli più efficaci, soprattutto se fatti a sorpresa. Ma bisogna tenere conto dei tempi: al fine, sostiene il prefetto, di non interferire eccessivamente con l’esecuzione dei lavori. L’imminente ingresso nei cantieri da parte dei Paesi esteri comporterà un proliferare di imprese di ogni tipo e provenienza. Da qui la necessità di programmare l’azione di controllo: evitando il più possibile, è in sintesi l’invito del prefetto, rallentamenti ai lavori e, più in generale, alla buona riuscita dell’evento. Eppure il “Piano di azione mafia free” annunciato in pompa magna e firmato da meno di un mese da Alfano, Maroni, Pisapia e Sala prevedeva l’esatto opposto: «Potenziare l’attività di accesso ai cantieri da parte del gruppo interforze nonché, anche attraverso forme di collaborazione con i corpi delle polizie locali, in deroga ai vincoli territoriali». A gennaio le ispezioni sono state sette. E altre sette sono programmate a febbraio. Davanti ai vari funzionari di Stato che siedono nel comitato, il prefetto spiega che sono le autorità competenti in materia previdenziale e di sicurezza sul lavoro o l’Asl, e non la polizia, a svolgere controlli con maniere che rallentano i cantieri. Alcune volte anche per l’intera giornata. Il presidente della Commissione antimafia del Comune di Milano, Davide Gentili, e il collega della Commissione regionale antimafia, Gian Antonio Girelli, chiedono in tempi diversi di poter partecipare o avere informazioni sull’attività di monitoraggio contro la criminalità. I funzionari del comitato, però, sollecitano la necessità di distinguere gli organi istituzionali da quelli puramente politici. Il rappresentante dell’ufficio di gabinetto della Prefettura segnala infatti il rischio che le domande avanzate da organismi di derivazione politico-locale, in quanto espressione dell’elettorato, possano essere dirette a conoscere l’attività riservata con il fine di renderne conto agli elettori.

24 febbraio 2014: Milano, cantieri Expo 2015. Tra le colate di cemento liquido e il viavai di camion, oggi nel grande cantiere che si affaccia sull’autostrada Milano-Torino molti si sentono sollevati. Un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catania avrebbe potuto mettere in crisi l’organizzazione dell’Esposizione universale. L’indagine riguarda la Fip industriale spa, società della Serenissima holding di Padova, il gruppo che controlla anche la Mantovani spa. La Fip a Milano ha ottenuto un subcontratto dalla società Astaldi per i lavori della linea 5 della metropolitana, tra San Siro e Garibaldi. In ottobre l’amministratore delegato della Fip, Mauro Scaramuzza e un ingegnere dell’impresa, Achille Soffiato, sono stati arrestati in Sicilia per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa, l’azienda avrebbe frazionato i subcontratti al di sotto del limite di 154 mila euro per non incorrere nell’obbligo della liberatoria antimafia. E avrebbe così favorito nella costruzione di una superstrada a Caltagirone due imprese della costellazione di Ciccio La Rocca, boss locale di Cosa nostra. Gli arresti potrebbero trascinare in un provvedimento antimafia anche la società sorella, la Mantovani spa. Eventualità che bloccherebbe i cantieri dell’Expo. I dirigenti della Fip vengono però scarcerati nel giro di qualche settimana dal Tribunale del riesame per insufficienza di gravi indizi: secondo il giudice, Scaramuzza e Soffiato non hanno frazionato nulla. Il loro arresto è stato deciso in base a un’errata valutazione delle fatture. Per questo la Prefettura di Milano archivia l’argomento. Nei cantieri della Mantovani spa ora sono tutti più tranquilli. Il problema urgente da risolvere è ancora quello delle ispezioni e del mancato coordinamento. Il prefetto ha scoperto che il rallentamento dei lavori è stato provocato, come si sospettava, dagli accertamenti della Asl di Milano. Tronca annuncia che incontrerà personalmente sia il direttore generale, sia il presidente della Asl. Il comitato propone che gli accessi nei cantieri vengano comunicati alla Prefettura con un mese di anticipo: in modo da permettere una programmazione unica tra i vari enti. Anche se così si rischia di perdere l’effetto sorpresa.

3 marzo 2014: Milano, sede di Expo spa. La mattina in via Rovello 2, nella sede della società Expo spa a metà strada tra il Duomo e il Castello Sforzesco a Milano, il commissario unico Sala, il sindaco Pisapia e il presidente della Regione Maroni, incontrano quattro ministri del nuovo governo di Matteo Renzi. Sono Maurizio Lupi (Infrastrutture), Federica Guidi (Sviluppo economico), Dario Franceschini (Beni Culturali) e Maurizio Martina (Agricoltura). La versione ufficiale dell’incontro descrive la lista della spesa presentata da Maroni al governo: 2,2 miliardi di ulteriori finanziamenti per le infrastrutture e il trasporto locale. C’è però una questione molto riservata e delicata di cui vengono informati i ministri. Riguarda una richiesta che il commissario unico per l’Expo negli ultimi giorni ha comunicato al prefetto di Milano. Sala sostiene che l’applicazione del protocollo di legalità, firmato tra la Prefettura e la società Expo nel 2012, sta creando non pochi problemi. I cantieri saranno presto investiti dalla moltiplicazione dei lavori e dal proliferare di imprese di ogni tipo e provenienza. Secondo Giuseppe Sala, i controlli antimafia devono essere inquadrati in modo più sistematico e snello, comprimendo il più possibile i tempi necessari per l’ingresso nei cantieri degli appaltatori e dei subappaltatori. Altrimenti i lavori rallenteranno, con gravi conseguenze per il successo dell’esposizione. Il commissario unico propone di autorizzare l’ingresso delle imprese in cantiere immediatamente dopo l’invio della richiesta di informazione antimafia alla Prefettura e senza attendere la liberatoria. Scorciatoia da applicare nei casi di contratti per attività considerate non a rischio di infiltrazione oppure, se a rischio, per importi inferiori a 20 mila euro. A differenza degli appalti pubblici che hanno una soglia di spesa sotto la quale non sono richiesti i controlli antimafia, tutte le imprese coinvolte in Expo, per qualsiasi importo, devono essere certificate dalla Prefettura. Ma i contratti sempre più numerosi e frazionati porteranno un carico di lavoro ingestibile per gli uffici rispetto alle risorse disponibili. Con le ultime linee guida, da dicembre i tempi per le verifiche sono già ridotti al minimo. La Direzione investigativa antimafia ha soltanto sette giorni per completare gli accertamenti preliminari su ogni azienda. E in caso di ritardo nella risposta, la Prefettura rilascia automaticamente la liberatoria provvisoria. Parlando con i suoi più stretti collaboratori, il prefetto prevede che prima o poi la società Expo finirà con l’autorizzare le imprese a entrare nei cantieri senza essere legittimate dalla certificazione, vanificando così l’efficacia della procedura accelerata. In altre parole, per colpa dei ritardi che ha ereditato, Sala è con le spalle al muro. E come lui lo sono il prefetto, il governo e l’intero sistema nazionale di prevenzione antimafia. Per il commissario è una scelta obbligata: o si fa così o le opere non verranno concluse in tempo. Una soluzione ipotizzata è il modello Bertolaso, con tutti i rischi connessi: un ampliamento dei poteri speciali di deroga riconosciuti a Giuseppe Sala. L’ipotesi è stata rappresentata da Maroni e Pisapia che nei giorni scorsi si sono incontrati con Sala, il prefetto e il presidente della Provincia, Guido Podestà, per parlarne in segreto.

3 marzo 2014: Milano, Prefettura. Il pomeriggio, terminata la visita a Milano dei ministri, torna a riunirsi il Comitato per l’alta sorveglianza. La semplificazione del protocollo di legalità è tra i punti all’ordine del giorno. La Prefettura propone come via d’uscita la modifica del codice antimafia adeguando i termini per la firma dei contratti, anche in mancanza del rilascio della liberatoria. Oppure l’alleggerimento delle linee guida per l’Expo, stabilendo una soglia di esenzione dai controlli. In alternativa, resta il modello Bertolaso. Tutti i presenti comprendono che si stanno muovendo su un campo minato. Di fronte a una moltiplicazione delle imprese, il prefetto ammette il rischio di non riuscire a evadere le richieste di informazione antimafia in tempi brevi. Meglio quindi, secondo Tronca, concentrarsi sugli appalti di maggior valore nei settori più a rischio. Ed escludere dai controlli i contratti di minor valore e impatto, nel quadro di un equilibrio tra costi e benefici. Il rappresentante dell’avvocatura dello Stato, Michele Damiani, lamenta il ritardo con cui la società Expo spa ha sollevato la questione. Rispetto al prefetto precedente, Tronca ha raccolto una squadra molto più preparata. Tecnici e funzionari, uomini e donne, sono lì seduti intorno al tavolo a testimoniare con il loro lavoro l’impegno per realizzare una manifestazione senza scandali. Il colonnello Alfonso Di Vito, capocentro della Dia, ricorda a tutti che con una migliore definizione del cronoprogramma delle opere, forse questi problemi sarebbero stati evitati. Davanti al prefetto e ai colleghi del comitato, il colonnello dice che, probabilmente, la situazione segnalata da Expo deriva dai ritardi che la stessa società ha contribuito a produrre: ritardi che sono quantificabili in oltre un anno. Cioè quello che si sta costruendo ora, doveva essere fatto più di un anno fa. Nemmeno Giuseppe Sala, però, ha alternative. La necessità del commissario unico di cambiare le regole per completare in tempo i lavori potrebbe essere soddisfatta solo da un decreto legge del governo, ipotizzano in Prefettura. Ma una deroga del genere inventata ad hoc per l’Expo, avverte Baratono, il provveditore alle Opere pubbliche, potrebbe essere strumentalizzata politicamente. Ha ragione, dopo quello che ha detto Alfano nel presentare il “Piano mafia free”.

10 marzo 2014: Milano, Grattacielo della Regione. Dalle finestre del trentanovesimo piano i cantieri si indovinano nella foschia. Il pomeriggio il presidente lombardo Roberto Maroni è chiuso nel suo ufficio con il ministro Lupi e Francesco Tronca. Mancano appena dodici mesi. In attesa della visita a Milano del premier Matteo Renzi, fissata per venerdì 11 aprile, la mediazione del prefetto va avanti. Perché dopo essersi impegnato a ripulire gli appalti Expo dalla mafia, non si dica che ora devono liberarli dall’antimafia.

Le novità sull’Expo, scrive Nicola Tranfaglia su “Articolo 21”. A mano a mano che passano i giorni e si conosce di più o meglio intorno all’affare milanese, le cose sembrano peggio rare ancora peggio per l’affare legato all’EXPO milanese di cui la banda Frigerio & Co, ha approfittato fino ad oggi.  Incominciamo dai numeri. Il valore complessivo degli investimenti (di 2,65 miliardi di euro per la realizzazione dell’Esposizione),1,2 milioni di euro avrebbe pagato per sua ammissione l’imprenditore Enrico  Maltauro  per ottenere alcuni appalti nell’ambito dei lavori previsti. La percentuali di tangenti che avrebbe pagato per vincere gli appalti erano del l’0,3 o dell’O,5  per cento, secondo i calcoli dell’accusa. Ma le novità non finiscono qui e rischiano di configurare per l’ex parlamentare di Forza Italia, Claudio Scajola, l’accusa da parte della procura di Bergamo di far parte di un’associazione massonico-mafiosa internazionale che era collegata ,da una parte a Giampaolo Tarantini, l’imprenditore pugliese che organizzava le serate di festa per Berlusconi(come era già emerso dall’inchiesta giudiziaria su Ruby, presentata come la nipote di Mubarak) e dall’altra alla ‘ndrangheta calabrese e in particolare ai De Stefano, cui era legato l’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito.  Se a questo si aggiunge che – come ha chiarito già  nel novembre 2013, il presidente dell’Associazione Nazionale costruttori edili, Paolo Bozzetti, sottolineando come, in  nome della fretta sono  stati ignorati 78 articoli di legge sui contratti e tra i requisiti richiesti per partecipare alla gara c’era quello per cui era necessario aver fatturato nei cinque anni precedenti almeno il quintuplo dell’importo a base d’asta fissato in 25 milioni di euro. Si trattava - sottolineano ora i costruttori - di una richiesta “non in linea con la legge vigente oggi.” Inoltre quattro vecchie ordinanze della presidenza del Consiglio, una firmata da Romano Prodi nel 2007, le altre tre da Silvio Berlusconi nel 2010, hanno consegnato i lavori  dell’Esposizione Internazionale di Milano alla logica perversa del grande evento. Per questo sono state previste deroghe al codice dei contratti “per motivi di urgenza”. Con la  facoltà  di sostituire i bandi di gara europei  con procedure informali procedendo su inviti alle imprese. E sottraendo gli appalti al controllo della Corte dei Conti e dell’Autorità garante dei contratti pubblici. Non è un caso che ora la Corte dei Conti vuol vederci anche lei chiaro sulla vicenda e che la commissione parlamentare contro la mafia  è intervenuta ascoltando il prefetto Paolo Francesco Conta a proposito delle nuove linee guida sui controlli modificate quindici giorni fa all’interno del protocollo antimafia. La presidente della Commissione Rosy Bindi ha dichiarato:” Ci sono molti aspetti  che non appaiono chiari e comunque le modifiche delle linee guida avrebbero dovuto prevedere una interlocuzione con questa commis sione.”  Quel che risulta con chiarezza da questa prima parte dell’in chiesta e preoccupa l’opinione pubblica più attenta è che in un modo o nell’altro tutte le forze politiche presenti in parlamento hanno partecipato (i nomi li abbiamo visti: Frigerio, Greganti, Belsito alla grande spartizione) e c’è da chiedersi: come si spiega che sia stato l’ex ministro Scaiola a tenere i fili del tutto e che cosa ha fatto il sistema complessivo dei media a non dirci nulla fino all’iniziativa dei magistrati? Sono quesiti a cui bisognerebbe un giorno o l’altro poter rispondere.

Una Lega di Boss. Una nuova P2 'ndrangheto-lombarda scuote la Lega, scrive Nerina Gatti su Antimafia2000”. Arriva a lambire l’Expo 2015 e pone inquietanti interrogativi sulle “talpe” del Carroccio. Una nuova P2 ndrangheto-lombarda scuote la Lega, arriva a lambire l’Expo 2015 e pone inquietanti interrogativi sulle “talpe” del Carroccio. Come già evidenziato dall’indagine Breakfast, dalla Calabria partono le tracce e le tracciabilità degli affari che gli uomini della ndrangheta, i faccendieri trapiantati a Milano, i vecchi arnesi dell’eversione di destra e importanti imprenditori intessevano, e che avevano come punto di raccordo lo studio di consulenza Mgim, nel cuore di Milano.Non c’è da sorprendersi, anche se ancora in molti, come l’ex prefetto di Milano GianValerio Lombardi e l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni non ne vogliono sapere di ‘ndrangheta dalle loro parti. Infatti, stavolta, non si tratta di sola ndrangheta, ma di ipotesi ancor più inquietanti: di organizzazioni criminali segrete, di soffiate preventive da parte di pezzi marci delle istituzioni, di affari loschi con il Vaticano e addirittura di comprarsi banche all’estero – viene citata spesso la Arner Bank di Lugano – per evitare i controlli di Bankitalia e di procure particolarmente tenaci come quella di Reggio Calabria.  Filoni d’indagini ancora tutte da scoprire, grazie al sequestro dei file e dei computer effettuato nell’ultimo blitz. Fin dove arriverà questa associazione segreta, il cui scopo era di agevolare gli affari di una delle cosche più potenti della ndrangheta come i De Stefano è soprattutto più pericolose dal punto di vista della penetrazione a livello criminale, massonico e paraistituzionale? Con il suggello politico di Francesco Belsito questa cricca segereta, aveva creato “rapporti criminogeni per milioni di euro creando utili sotto forma di crediti d’imposta per riciclare i soldi sporchi.” Tra queste società c’erano Fincantieri, e la multinazionale Siram, che godeva di rapporti preferenziali sia con la regione Lombardia, di Roberto Formigoni, sia con quella Calabria di Giuseppe Scopelliti. Calabria e Lombardia, unite a colpi di Iban, di transazioni e , di triangolazioni tra società “amiche”. Tutte veicolate in quegli uffici a Via Durini, nella MGiM dove l’ex tesoriere dei Nar, Lino Guaglianone mediava gli affari sporchi per la ndrangheta, la Lega, gli  imprenditori in odor di mafia e massoneria come l’armatore Matacena, ex deputato di Forza Italia, condannato per concorso esterno e ora latitante e Montesano, tycoon calabrese finito nei guai per bacarotta e intestazione fittizia di beni con aggravante mafiosa, e con legami alla Bocconi. D’altronde già nel 1993 il pentito di Cosa Nostra, Tullio Cannella dichiarava ai pm di aver saputo da Vito Ciancimino che la vera massoneria era in Calabria, perché i calabresi hanno appoggi dei servizi segreti. “A Lamezia Terme- racconta Cannella – si tenne la riunione con  esponenti di “Sicilia Libera”, altri movimenti separatisti meridionali, e ed esponenti della Lega Nord.” Non deve quindi sorprendere il blitz di qualche giorno fa della Direzione Investigativa Antimafia, a firma del pubblico ministero della Dda reggina Giuseppe Lombardo e di Francesco Curcio, sostituto Nazionale Antimafia, coordinati dal procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Al  setaccio oltre 25 società, quattro filiali di Banca Intesa, una del Credito Artigiano e una della Banca Popolare di Vicenza, dove lavora uno dei componenti della società segreta, Ivan Pedrazzoli. Gli uomini del colonnello Gianfranco Ardizzone, erano a caccia di conti correnti  serviti per far transitare fondi di provenienza illecita per poi essere riciclati. La “cricca masso-ndranghetista” grazie alle coperture politico-istituzionali e finanziarie dei loro componenti, muoveva centinaia di milioni di euro. Ma ora, i reati sono associazione a delinquere finalizzata ad agevolare la cosca De Stefano e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, istituita proprio dopo l’indagine sulla P2 di Licio Gelli, figura con la quale i De Stefano hanno intrattenuto rapporti anche grazie all’ex deputato del Psdi, Paolo Romeo, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver favorito la cosca. Tra gli indagati e organizzatori di questa “società criminale segreta” figurano: Pasquale “Lino” Guaglianone,  una condanna per terrorismo, ex politico vicino a Ignazio La Russa. Con il socio Giorgio Laurendi, anche lui indagato, fonda la Mgim. Pasquale Guaglianone sfrutta bene le amicizie politiche e accumula incarichi prestigiosi ma sarebbe stata strategica per la cricca la sua posizione in Fiera Milano Congressi, che è diventata recentemente il partner ufficiale e organizzatore di spazi dell’Expo 2015. Altro organizzatore, sarebbe Bruno Mafrici, nominato consulente del ministero della Semplificazione da Belsito che ne era sottosegretario. Sarà così che aiuterà gli “amici” ad entrare nella cuccagna dei bandi e degli investimenti statali. Ma Mafrici, cura anche i rapporti con i politici calabresi tra cui il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti. Proprio di Scopelliti è amico e alleato politico un altro indagato, Giuseppe Sergi. Nella lista spunta un altro importante imprenditore reggino Michelangelo Tibaldi, che rilevò le azioni della Fiat in Multiservizi, una società mista del comune di Reggio Calabria che è risultata in mano alla ndrangheta della cosca Tegano L’intreccio cosche-amministratori della Multiservizi è uno dei fattori che ha portato allo scioglimento per contiguità mafiose del comune di Reggio Calabria nell’ottobre 2012. Ma la storia del colosso torinese che investe in una società proprio a Reggio Calabria è un’altra storia sulla quale bisognerà fare chiarezza. Un ruolo di supporto lo fornivano Angelo Viola, investigatore privato, e Romolo Girardelli, ex estremista di destra e uomo dei De Stefano per gli affari in Liguria. Ma nel decreto di perquisizione i pubblici ministeri non dimenticano di citare Paolo Martino, ambasciatore dei De Stefano in Lombardia ed oltre. Martino ha frequentazioni strategiche. Tra queste Luca Giuliante, legale di Roberto Formigoni (oltre che di Lele Mora e “Ruby”) ma soprattutto membro regionle del PdL e tesoriere per la Lombardia del partito di Silvio Berlusconi. Giuliante viene intercettato mentre parla con il boss Martino dandogli delle dritte su una gara d’appalto che avrebbe interessato la ditta Mucciola, famiglia romana di imprenditori con sede a Reggio Calabria e cliente della Mgim che poi si aggiudicò dei lavori al Pio Albergo Trivulzio. La Mucciola spa è tra le aziende perquisite nel blitz. Questo “cerchio criminogeno” ha consentito agli indagati di diventare il terminale di un sistema criminale occulto, che riusciva ad acquisire e gestire proficuamente informazioni riservate fornite da soggetti che sono ancora in corso di individuazione, ma sicuramente facenti parte delle istituzioni. Come già confessato da Francesco Belsito, i “colonnelli” della Lega, come l’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli erano conoscenza delle perquisizioni prima che avvenissero. Si può dedurre, quindi, che tra le “talpe” del Carroccio ci siano addirittura dei magistrati. I prossimi sviluppi si attendono dalle rogatorie richieste in Tanzania, a Cipro e soprattutto in Svizzera dove la cricca aveva un base a Lugano.

Cari amici di blog, scrive Roberto Galullo, da giorni sto analizzando con voi alcuni passaggi dell’audizione del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, resi in Commissione parlamentare antimafia il 14 aprile. Con la solita eccezionale schiettezza, quando si è trattato di parlare di politica e mafia, Gratteri non si è certo tirato indietro, sapendo perfettamente che di fronte si trovava anche parlamentari calabresi. Nel servizio di due giorni fa abbiamo visto il suo pensiero sulla politica calabrese, ritenuta debole, e il perenne dilemma della politica locale se ceder o meno al voto di scambio. Ieri abbiamo visto come, secondo il procuratore antimafia, si formano le liste elettorali in Calabria (e non solo). Oggi cambiamo pagina e leggiamo un “ritorno” di Gratteri sull’evoluzione della ‘ndrangheta. L’incipit è duro, perché richiama gli errori che furono commessi (e amplificati da una stampa nel migliore dei casi ignorante in altri “galoppina”) nell’ormai famosissima (e ripeto spesso io, comunque importantissima) operazione Crimine/Infinito sull’asse Milano-Reggio Calabria (o il contrario, fate voi). «Quando sono state condotte l'operazione Crimine a Reggio Calabria e l'operazione Infinito a Milano – ha infatti dichiarato Gratteri – è stato commesso un grave errore di valutazione. È stato detto, in sede di conferenza stampa, che è stato scoperto il Riina della Calabria, Oppedisano Domenico, e che era stata scoperta la cupola, come nel caso di cosa nostra. Questa è una sciocchezza. La ’ndrangheta non è piramidale come Cosa nostra. All'interno di un locale di ’ndrangheta nessuno può interferire. Il crimine di San Luca, che è erroneamente stato rapportato alla cupola di cosa nostra, non è altro che il custode delle regole. Il crimine è il custode delle dodici tavole. Il crimine esiste per presiedere il rispetto delle regole. Il crimine interviene quando c’è una faida all'interno di un locale, come è successo a Locri nel 1989». Per rafforzare il concetto (è Gratteri e non l’umile cronista che leggete, a parlare di “grave errore” e “sciocchezze”), ricorda che da aprile 1970 (a seguito di una sentenza del Tribunale di Locri colpevolmente dimenticata), si conosce l’unitarietà della ‘ndrangheta, Gratteri ribadisce che, appunto «esiste l'unitarietà della ’ndrangheta, ma ripeto che sulla vita economica, politica e strategica all'interno del locale nessuno può interferire, a meno che non si vìolino le regole della ’ndrangheta e il crimine di San Luca non intervenga per dirimere la faida». Come sapete (chi mi segue lo sa) non è un caso che l’unitarietà della ‘ndrangheta è un tema che poco mi appassiona ma al quale molto grato sono se serve (come è accaduto con un punto ormai pressoché fermo posto in sede di appello del processo Crimine a Reggio Calabria) per mettere un punto fermo giudiziario e andare oltre per attaccare frontalmente la ndrangheta 2.0 che corre molto più velocemente delle stesse verità giudiziarie. Mentre l’audizione si appresta alla conclusione Gratteri dirà ancora: «Il capo crimine non fa business, non fa affari. È il custode delle regole. Qual è l'importanza del custode delle regole? La differenza è che, se si arresta un camorrista, ci vogliono uno schiaffo per farlo parlare e due per farlo stare zitto. Se si arresta un calabrese, uno ’ndranghetista, si fa vent'anni di carcere e sta zitto, perché sa che dovrebbe parlare prima di 200 parenti, poi degli amici e poi degli amici degli amici. Per questo motivo non ci sono collaboratori nella ’ndrangheta ». Tracciato questo quadro (visto che non c’ero e non lo so, sarebbe stato meglio se Gratteri avesse anche ricordato chi, in sede di conferenza stampa spacciò il Crimine per la cupola e il Riina della Calabria don Mico Oppedisano: a proposito, viste le intdegne critiche che mi sono piovute addosso negli anni da chi ha volutamente inteso stravolgere il senso del mio pensiero, non chiamerò più don Micovenditore di piantine” visto che non lo chiama più così neppure lo storico inventore della definizione, vale a dire…lo stesso Gratteri!!!) il procuratore aggiunto di Reggio Calabria ha parlato anche di evoluzione della ‘ndrangheta. A sorpresa (ma solo per chi non studia e si fa affabulare dalle veline pronto-consumo spacciate ovunque dalle classi dirigenti di questo Paese) Gratteri ha affermato l’ovvio (ma l’ovvio non è conosciuto da chi non studia). «L’evoluzione della ’ndrangheta – ha dichiarato Gratteriè avvenuta nel 1969 , quando c’è stata una rivoluzione interna alla ’ndrangheta con la creazione della Santa. La Santa consiste nella possibilità per uno ’ndranghetista di essere affiliato anche alla massoneria deviata. Questo è servito alla ’ndrangheta per avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione e, quindi, con medici, ingegneri e avvocati. Un collaboratore di giustizia ci ha spiegato che «all'orecchio del Gran Maestro» possono essere affiliati tre incappucciati. Ciò vuol dire che questi sono conosciuti solo al Gran Maestro. Lo stesso collaboratore ci ha spiegato che anche alcuni magistrati hanno partecipato a riunioni della Santa. Su questo, però, non siamo riusciti ad avere riscontri». E poco dopo Gratteri ancora dirà: «Oggi noi abbiamo gente incensurata che gestisce la cosa pubblica in modo mafioso. Il mafioso non va a chiedere la mazzetta, ma è lì; è una persona pubblica, un medico o un ingegnere». Parlando di massoneria deviata (le logge coperte e non ufficiali sono il collante della ‘ndrangheta 2.0), Gratteri confermerà che «è nata nel 1969-1970 con la Santa. Lo stesso ’ndranghetista, al contempo santista, partecipa alla massoneria deviata per entrare nei quadri della pubblica amministrazione. Per arrivare a questo c’è stata una guerra sanguinosa in provincia di Reggio Calabria. È stato ucciso Antonio Macrì, ed è stato ucciso Don Mico Tripodo, nel carcere di Poggio Reale, da due cutoliani, per conto dei De Stefano di Reggio Calabria». Semplice, lineare, efficace. Perfetto. Eccola la nuova ‘ndrangheta che si evolve. Non da oggi. Dal 1969. Pensate quanti anni sono stati persi per rincorrere la “vecchia” ‘ndrangheta, quella che si alimentava solo di rapimenti e droga. «Oggi, invece la ’ndrangheta vive con noi e si nutre con noi»: ancora una volta, di fronte ai commissari antimafia, parole e musica (mortali) di Gratteri che io, umilmente, mi limito a sottoscrivere a pieno.

Cari amici di blog, da ieri sto analizzando alcuni passaggi dell’audizione del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, resi in Commissione parlamentare antimafia il 14 aprile 2014. Con la solita eccezionale schiettezza, quando si è trattato di parlare di politica e mafia, Gratteri non si è certo tirato indietro, sapendo perfettamente che di fronte si trovava anche parlamentari calabresi. Nel servizio di ieri abbiamo visto il suo pensiero sulla politica calabrese, ritenuta debole, e il perenne dilemma della politica locale se ceder o meno al voto di scambio. Oggi continuiamo su questo filone, con riferimento alla formazione delle liste. Il ragionamento di Gratteri è stato indotto da una domanda della parlamentare del Pd Enza Bruno Bossio, che ha introdotto il discorso delle liste con il caso di Limbadi (Vibo Valentia), comune che deve andare al voto e dove anche i sassi sanno che la cosca Mancuso controlla pure i respiri. «Il vero problema è come fare in modo che le liste di tutti i partiti di coloro che saranno nominati nelle prossime elezioni a Limbadi – ha affermato Bruno Bossiosiano assolutamente a prova di antimafia. Questo, secondo me, dovrà essere il vero problema che ci dovremo porre, in maniera tale che chi entra nel comune democraticamente, non come commissario, chiunque vinca, sia in grado di fare effettivamente quella bonifica. Ripeto, io sono convinta che la maggioranza della popolazione abbia tutt'al più paura, ma non sia coinvolta. Occorre, quindi, controllare le liste. Il vero problema sarà non solo fare in modo che questo non sia semplicemente un problema deontologico ed etico di ciascun partito, ma come effettivamente impedire che nelle liste ci siano degli elementi in collegamento con la mafia, com'era esplicitamente indicato nella relazione della Commissione d'accesso a proposito di questa giunta comunale.
Non entro nel merito del 416-bis e del 416-ter. Non ho le competenze che ha lei e che avete voi, ma sicuramente un problema me lo pongo. Io sono stata tra coloro che hanno fatto una battaglia perché nell'Italicum ci fossero le preferenze, ma vedo molto difficile il voto di scambio con le liste bloccate. È così. Il tema non può riguardare il singolo parlamentare
». Un ragionamento concreto che pone quesiti di non poco conto, dalla enorme difficoltà. Ed infatti Gratteri lo affronta con misura, senza però farsi mancare le stoccate alle ipocrisie di una classe politica (tutta) che fa finta di non vedere in Calabria come nel resto d’Italia. «Lei parlava delle liste – dice rivolgendosi a Bruno Bossio e alla Commissione tutta – . La storia è molto delicata. Quando si fanno le liste, non si può dire che in un Paese di 5.000 abitanti non si conoscono le persone. Si inserisce nella lista scientificamente un rappresentante della famiglia di ’ndrangheta. Gli ’ndranghetisti sono molto prolifici. Ognuno di loro fa sei figli, che a loro volta fanno altri sei figli. Un locale di ’ndrangheta è composto da due o tre famiglie patriarcali, cioè da 500-600 persone. In un posto in cui ci sono 5.000 abitanti ci sono 2.500 elettori. Quando io ti presento, ti metto in una lista un rappresentante, un cugino alla lontana. Lì siamo tutti i cugini. Ci sono paesi in cui ci sono quattro cognomi. Nel Novecento c'erano due famiglie che si sono sposate tra di loro quattro volte. Basta mettere un elemento: la lista è fatta e le elezioni sono vinte. Noi lo mettiamo, poi, se ci scoprono, va bene, ma intanto abbiamo governato due o tre anni. Poi cadiamo dalle nuvole e diciamo che non sapevamo chi fosse questa persona. Non è possibile. Questo è un problema di etica, di morale e di deontologia dei politici e di chi fa le liste, perché non può dire che non sa. Non siamo a Pordenone, anche se questo è vero anche a Pordenone. L'altro giorno io ero in Friuli Venezia Giulia. Sono sempre paesi piccoli, dove ci si conosce tutti. Il politico non può dire che non sapeva chi fosse questa famiglia mafiosa o che non sapeva che quell'altra fosse mafiosa. Stiamo scherzando? Scientificamente, si opera così. Le liste vengono fatte con questi criteri, non in base alla competenza o all'amore per la politica, ma al numero di voti che uno porta. Questo è un problema che riguarda tutta Italia, dalla Valle d'Aosta alla Sicilia. Quanto al discorso della lista, normativamente come faccio io a un incensurato a dire che non si può candidare, solo perché è cugino del capomafia? Non posso creare una norma su questo punto. Il problema è la politica. Non vi lamentate poi che sono i magistrati che si sostituiscono alla politica. Su queste cose non può intervenire la magistratura. Ricordate sempre che la magistratura interviene sempre dopo, non fa prevenzione. Interviene dopo che c’è il reato». Insomma, un richiamo bello e buono ad una piena assunzione di responsabilità da parte di chi “non può non sapere”, vale a dire la politica. Più semplice (e vero) di così si muore.

Pane al pane e vino al vino. Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria, è fatto così. Prendere o lasciare. C’è chi lo ama (la gente comune) e chi, non potendolo comunque non amare o rispettare, lo ignora (buona parte della magistratura che snobba quella sua ruspantezza che poco si addice ai piani alti delle presunte ed eccelse classi dirigenti italiane). Tutti (impossibile non farlo), ne apprezzano le qualità professionali e umane che, talvolta, vengono tirate per la giacchetta dalla politica. Calabrese (ammesso che esista) ed italiana (ammesso che esista). In questo momento, ad esempio, in Calabria, destra, centro e sinistra (ammesso che esista una differenza reale in quella regione) si sparerebbero in una gamba pur di candidarlo alla tolda di comando della Regione, visto che il Governatore Giuseppe Scopelliti è uscente. Lui li lascia fare e spero non ceda mai alla tentazione di avere a che fare con la politica calabrese (di ogni colore). Verrebbe sbranato. Una prova della sua schiettezza, Gratteri l’ha data (dico io fortunatamente) ancora una volta il 14 aprile in sede di audizione in Commissione parlamentare antimafia (di questo mi occuperò in questo umile e umido blog nei prossimi giorni). Il discorso, ad un certo punto, è scivolato proprio sulla politica. Ecco cosa ha detto Gratteri. «Mi rendo conto della difficoltà della politica calabrese. È una politica debole. I parlamentari calabresi sono molto deboli. Sono pochi e, inoltre, c’è il dilemma se nelle ultime quarantott'ore si debba cedere al voto di scambio o meno. Sul palco tutti diciamo che non vogliamo i voti della mafia. Bisogna vedere l'ultima o la penultima notte che succede». E tenete conto che di fronte aveva anche i parlamentari calabresi, come quella Dorina Bianchi (Ncd e scopellitiana di ferro) che pochi minuti prima aveva detto: «Le dico un'altra cosa, però: noi, come classe politica calabrese, abbiamo una difficoltà reale nel momento in cui andiamo a gestire le comunità locali, in primo luogo se non se ne fa parte e non le si conosce. Pur avendo io vissuto tutta la mia vita a Crotone, le devo dire che in una circostanza, peraltro di una manifestazione anti-’ndrangheta, mi sono trovata vicino a uno dei figli degli Arena, il quale si è presentato a me e mi ha chiesto se fossi una giornalista. Io non l'ho riconosciuto. Le faccio questo esempio per dirle che non sempre è semplice da parte dei calabresi conoscere realmente il fenomeno». Un azzardo rifugiarsi dietro il “ma come faccio a sapere”, visto che poco prima Gratteri, non in risposta a Bianchi ma nella sua introduzione, aveva detto che: «Oggi, invece, sono i politici che vanno a casa dei capimafia, a chiedere pacchetti di voti in cambio di appalti. Mediamente in Calabria i paesi hanno 5.000 abitanti. Tutti ci conosciamo e nessuno può dire di non sapere chi è il mafioso. È impossibile, perché siamo nati nello stesso paese di 5.000 o 15.000 abitanti. Non puoi dire che non sai chi è il mafioso, chi è il faccendiere, chi è il politico, chi è la persona onesta. Lo sappiamo tutti. Eppure anche la Chiesa, anche i preti, anche i vescovi hanno detto che non possono chiedere il certificato penale. Se sei vescovo da dieci anni in quel paese, non mi puoi dire questo. Questa risposta non mi appaga. È una foglia di fico. Oggi se è il politico che va a casa del capomafia a chiedere i voti, vuol dire che nel comune pensare e sentire si ritiene che il modello vincente è il capomafia. Perché il capomafia interviene anche sulla ristrutturazione di un marciapiede da 20.000 euro? Con tutti quei soldi si interessa pure di un marciapiede? Sì, perché lui farà lavorare per venti giorni cinque padri di famiglia per quel lavoro, e quando sarà ora di votare quei cinque padri di famiglia si ricorderanno di votare per il candidato prescelto dal capomafia». Per il momento mi fermo qui ma domani torno con un altro approfondimento dell’audizione di Gratteri, perché ha avuto il coraggio di mettere soprattutto la politica calabrese nuda davanti alla sua pochezza. Senza guardare in faccia a nessun colore politico.

Maroni o massoni?, si chiede “Dagospia”. La Lega al centro di un intreccio torbido tra poteri occulti e ‘ndrangheta. Ora bisogna solo dare un nome (P7? P8?) alla loggia masso-mafio-legaiol-fascista che emerge dall’inchiesta sugli “amici” di Belsito - Una “piovra” affaristica e criminale che si da Reggio Calabria raggiunge il Nord ed è arrivata a sfiorare Flavio Tosi… Scrive Guido Ruotolo per "la Stampa". Spunta la massoneria nella inchiesta su Lega e 'ndrangheta. Seguendo l'odore dei soldi della potente cosca De Stefano, i magistrati reggini e gli uomini della Dia trovano prima il cerchio magico di Umberto Bossi, di Francesco Belsito l'ex tesoriere che investe i soldi del Carroccio usando gli stessi canali della cosca. E adesso, inseguendo gli amici di Belsito, i Pasquale Guaglianone e Bruno Mafrici, si trovano i leghisti «buoni», come il sindaco Flavio Tosi. C'è di peggio, per la verità, perchè questo cerchio magico del malaffare è in contatto con gli impronunciabili di una tragica stagione del terrore. Come Delfo Zorzi, terrorista nero di piazza Fontana rifugiato in Giappone, che viene intercettato al telefono con l'ex cassiere dei Nar, Pasquale Guaglianone - conversazioni di quest'inverno - a cui chiede di salutargli anche Bruno Mafrici. E Guaglianone è amico dell'ex sindaco di Reggio oggi governatore Calabrese, Giuseppe Scopelliti. Otto indagati per nuove contestazioni di reato: l'associazione mafiosa e l'organizzazione segreta punita dalla legge Anselmi. Una ventina di perquisizioni a Milano, Genova e Reggio Calabria. Gli uomini del colonnello Gianfranco Ardizzone, capo centro Dia di Reggio Calabria, sono andati anche in quattro filiali milanesi dell'istituto SanPaolo, alla Banca popolare di Vicenza e al Banco del Credito Artigianale. Vediamo gli indagati: Romolo Girardelli, «l'ammiraglio», colonna genovese degli affari immobiliari della cosca De Stefano. Una new entry, Giuseppe Sergi, ex consigliere comunale di Reggio Calabria, legato a Scopelliti. E poi Michelangelo Maria Tibaldi, imprenditore socio di minoranza della Multiservizi, società partecipata del comune di Reggio proprietà nei fatti della 'ndrangheta. E poi Angelo Viola, investigatore privato genovese indagato per il dossieraggio (tabulati telefonici, servizi fotografici) di Belsito nei confronti di Bobo Maroni. E soprattutto Pasquale detto Lino Guaglianone e Bruno Mafrici. Il primo è il titolare di quella «Mediobanca» del mondo (opaco) delle imprese reggine, dove nascono imprese, si suggellano affari e commesse, che sono gli uffici di Mgim srl di via Durini 14, a Milano. L' ex cassiere dei Nar, Guaglianone, secondo gli investigatori della Dia ha tentato prima di inserirsi nel mondo istituzionale attraverso Ignazio La Russa e Alessandra Mussolini, poi agganciando» la Lega di Tosi attraverso comuni amici «naziskin» frequentati nella Palestra Doria di Milano. E poi c'è lo pseudo avvocato, che avvocato non è, Bruno Mafrici. Nel decreto di perquisizione si legge che gli indagati sono sospettati di far parte di una associazione criminale al cui interno «opera una componente di natura segreta, collegata alla cosca De Stefano». Obiettivi e finalità della struttura massonico-mafiosa: «Complesse attività di riciclaggio e reimpiego di capitali di provenienza illecita. Attraverso le relazioni personali con Francesco Belsito l'obiettivo è consolidare e implementare la capacità di penetrazione e di condizionamento mafioso nel mondo politico-istituzionale». La cupola, la struttura criminale riservata, ha ai suoi vertici organizzativi: «Bruno Mafrici, Pasquale Guaglianone, Giorgio Laurendi, noti professionisti di origine calabresi, inseriti in multiformi contesti politici». E ancora: «Gli imprenditori reggini Michelangelo Tibaldi e Giuseppe Sergi (che ricopre anche incarichi politici e istituzionali di rilievo locale); con ruoli di ausilio informativo e di supporto, Girolamo Girardelli, Angelo Viola e Ivan Pedrazzoli». Colpisce la descrizione di questa che appare una moderna «Spectre»: «La gestione di operazioni politiche ed economiche ha consentito alle persone sottoposte ad indagini scrivono nel decreto di perquisizione i pm antimafia nazionale Francesco Curcio e di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo - di divenire il terminale di un complesso sistema criminale, in parte di natura occulta, destinato ad acquisire e gestire informazioni riservate, che venivano fornite da numerosi soggetti in corso di identificazione collegati anche ad apparati istituzionali». Non è una novità per la Calabria, questo scenario. Franco Freda, il terrorista nero, fu ospitato da latitante negli anni '70 proprio dalla cosca De Stefano. A Lamezia Terme, a cavallo della stagione stragista del '92 e '93 si tennero incontri delle Leghe meridionali e non solo con Cosa nostra, con Vito Ciancimino. Anche l'esistenza,di una superloggia massonico-ndranghetista emerse nella inchiesta del pm Enzo Macrì, anni 90.

Legami tra Lega e 'ndrangheta, Tosi: "Fandonie, mai conosciuto Belsito". Il vice segretario della Lega, e segretario veneto del partito risponde alle accuse mosse su presunti accordi tra la mafia calabrese e i vertici del Carroccio: "Come accostarmi al Mostro di Firenze", scrive “Verona Sera”. Non conosco nessuna delle persone alle quali un articolo di stampa, parlando di logge massoniche e 'Ndrangheta, ha accostato oggi incredibilmente il mio nome. Tantomeno il signor Belsito e i suoi affari: credo non dico di non aver mai parlato con lui, ma nemmeno di averlo mai salutato e, come ampiamente riportato in passato dagli organi d'informazione, nella Lega ero tra i suoi avversari dichiarati". Lo afferma il vice segretario della Lega, e segretario veneto del partito, Flavio Tosi, commentando notizie giornalistiche sugli sviluppi dell'inchiesta sull'ex tesoriere della Lega Francesco Belsito. La Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sta indagando da alcune ore sul presunto riciclaggio di denaro della cosca di 'ndrangheta dei De Stefano, operazione nella quale è indagato anche l'ex tesoriere del Carroccio, Francesco Belsito. "Trovo anche più assurdo parlare di tentativi di aggancio alla Lega di Tosi - aggiunge - tramite fantomatici amici di una palestra di Milano a me sconosciuta quanto i suoi presunti frequentatori. Scrivere che io possa avere rapporti con logge massoniche o la mafia calabrese è come attribuirmi rapporti con Jack lo squartatore o il Mostro di Firenze. Mi riservo, ovviamente, ogni azione legale a tutela della mia onorabilità". Sul tema era già intervenuto anche il vice-segretario federale del Carroccio, Matteo Salvini: "Gli sviluppi dell'inchiesta di Reggio Calabria sull'ex tesoriere della Lega sono fuffa estiva: a qualcuno fa comodo accostare la Lega alla mafia", aveva dichiarato. "La Lega - ha aggiunto parlando delle notizie pubblicate fra ieri e oggi - non c'entra niente con la 'ndrangheta. E se qualcuno c'entra è già stato cacciato".

Verona, "Tangenti in Veneto per la Lega Nord". Belsito ai pm: "Zaia e Tosi sapevano". L'ex tesoriere del Carroccio mette a verbale le accuse contro i dirigenti per un prsunto pagamento di un milione di euro da parte di una multinazionale francese degli appalti ospedalieri. Partono querele, scrive “Verona Sera”. "Belsito è uno che non è la prima volta che tenta queste sortite: la prima volta ha detto che era noto a lui che andavo a pranzo con imprenditori per incassare soldi, tangenti e robe del genere. Ed è stato un po' sfortunato perché io ai pranzi non vado mai, quindi gli è andata male. Questa volta leggo che dice che 'Zaia comunque sapeva che c'era qualcuno che andava in cerca a chiedere soldi' ". E' secca la replica del presidente della Regione Veneto Luca Zaia alle accuse che avrebbe lanciato, parlando con i pm per ore, l'ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito. Quest'ultimo in un passaggio con i magistrati, riferito oggi da Repubblica, ricostruisce il pagamento di un milione di euro alla Lega del Veneto da parte di una multinazionale francese specializzata in appalti ospedalieri, la Siram. Belsito avrebbe affermato che tutto lo stato maggiore del partito era informato di quel finanziamento. "Anche Zaia - è la tesi dell'ex tesoriere del Carroccio - fu informato". "Rispedisco al mittente queste affermazioni - sottolinea Zaia - mi spiace perché avrei qualcos'altro di cui occuparmi. Penso che anche la magistratura abbia altro di cui occuparsi però a questo punto la impegnerò io facendo un querela, tutelandomi. Spero che si faccia chiarezza da subito. Stiamo parlando comunque di una persona che, tra le tante cose, abbiamo scoperto aveva una Porsche pagata dalla Lega, tra l'altro ora sequestrata. E' imbarazzante. Rimando tutto al mittente. Sono a disposizione dei magistrati e querelo, assolutamente querelo". Ma non solo. Secondo l'ex tesoriere del carroccio, l'ex presidente del Consiglio regionale del Veneto, Enrico Cavaliere, indagato per corruzione per una presunta tangente da 850mila euro che avrebbe ricevuto assieme ad un ex manager dalla Siram, faceva parte di una "cordata" della Lega e "rispondeva al sindaco di Verona, Flavio Tosi, e a Roberto Maroni, che erano i suoi diretti superiori". Questo quanto ha messo a verbale lo scorso 15 luglio dall'ex tesoriere, indagato nell'inchiesta "The Family". Dalle dichiarazioni di Belsito sul caso Siram è nata una nuova tranche d'indagine. Durissima la replica, a caldo, del sindaco Tosi: "Si parla di un episodio - spiega ai microfoni di Radio Verona - che risale al 2010. Io sono segretario della Liga Veneta da un anno o poco più. Questo da' la dimensione: tant'è che io son diventato segretario con Maroni alla guida, dopo gli scandali, per far pulizia in Lega. Le affermazioni vengono da una persona schifosa come Belsito, che io non ho mai avuto nemmeno l'occasione di salutare. Non ho mai avuto rapporti con lui nè con il cosiddetto 'cerchio magico' nè tantomeno con chi girava attorno a quelle situazioni. Penso che il paragone più appropriato con la persona di Belsito sia quello con un escremento. E si rischia di offendere l'escremento. Da un soggetto come lui, che ne ha fatte di tutti i colori e che girava in ambienti torbidi, c'è da aspettarsi di tutto. Dopo le dichiarazioni rilasciate alla stampa, il presidente Zaia ha dato mandato al proprio legale di presentare denuncia per calunnia e una querela per diffamazione nei confronti di Belsito. Analoghi provvedimenti potrebbero essere presi dal sindaco di Verona, dal neosegretario della Lega, Matteo Salvini, e dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni.

Report inguaia Tosi, a cena con la 'ndrangheta', scrive “L’Ansa”. L'ira del sindaco: Chi getta fango è disperato. Report inguaia Tosi. La trasmissione andata in onda ieri sera parte con un servizio sul caffè, poi si passa al sindaco di Verona e la Gabanelli annuncia che il giornalista autore dell'inchiesta su come funzionano le tangenti in ambito Lega, Sigfrido Ranucci, è stato querelato anche per il presunto pagamento di denaro per ottenere un fantomatico video hard con Tosi protagonista. Delle immagini nel servizio Rai non c'è traccia e l'inchiesta passa ai rapporti tra Tosi e alcuni calabresi, indagati o coinvolti  in indagini sulla ’ndrangheta e la malavita organizzata. Coinvolta anche la moglie del sindaco veronese Stefania Villanova, responsabile della segreteria dell’assessore regionale alla Sanità. A  cominciare da una cena a Crotone, con Tosi a fianco di Stanislao Zurlo, presidente della locale Provincia per il quale fu chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Ranucci racconta che la cena fu organizzata da Katia Forte, consigliera comunale della Lista Tosi . A capo della tavolata c’è Raffaele Vrenna, presidente del Crotone calcio, condannato in primo grado per concorso esterni mafioso e poi assolto.  Dopo la trasmissione, Katia Forte ha specificato: "La cena di Crotone è stata pagata da me e mio padre". Ranucci spiega che di Raffaele Vrenna hanno parlato tre collaboratori di giustizia. Uno è Luigi Bonaventura che indica tra i boss orbitanti al Nord. Poi Francesco Sinopoli, candidato ed eletto nella Lista Tosi. I Giardino, secondo il racconto di un imprenditore, sono stati presenti nelle cene organizzate per la campagna elettorale di Tosi e del suo assessore di origine calabrese, Marco Giorlo». Nell'intervista un uomo racconta che a quelle cene si parlava di appalti «con il sindaco Tosi» e al quesito se c’erano anche altri politici dice «c’era Casali, (l’attuale vicensindaco Stefano Casali) e Marco Giorlo». Ma Casali precisa che lui in Calabria non c’è mai stato. Nel servizio parte la sequela su quello che è ormai l’ex assessore allo Sport, trombato da Tosi proprio per le sue dichiarazioni «sventate» a Report. "Se uno va a vedere, chi mi getta fango è gente disperata, prove zero, reati zero", ha detto Flavio Tosi commentando l'inchiesta andata in onda nella trasmissione Report di Rai 3. "I personaggi del servizio di Report non dovrebbero stupire nessun veronese: la Signora Katia Forte - il cui padre, imprenditore nel settore delle pulizie, è personaggio noto alle cronache giudiziarie della città- già nel '97 mi chiedeva la sala di rappresentanza della Provincia di Verona per presentare una nuova iniziativa ad opera di un imprenditore crotonese del settore della gioielleria, con la partecipazione prevista del Presidente della Provincia di Crotone". Lo ricorda Antonio Borghesi, già Presidente della Provincia di Verona, in relazione alla trasmissione di Report di ieri sera.. "Allorché mi vennero segnalate le condanne dell'imprenditore in questione, per legami con la criminalità organizzata ritirai la mia disponibilità, ma la cosa ebbe comunque luogo - continua -. Al tempo Flavio Tosi era segretario della Lega Nord". Borghesi si rivolge poi direttamente a Tosi, dopo la trasmissione del servizio di Report. "Alla luce di quanto emerso dalla trasmissione e dopo l' arresto del suo vicesindaco - dice - il sindaco Tosi dovrebbe trovare la dignità di fare un passo indietro. E invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali ed il potere amministrativo. Le solite querele preventive non possono più tappare un vero e proprio vaso di Pandora".

Dopo la puntata di Report di ieri sera, è stata presentata al prefetto di Verona una richiesta formale di accertamenti sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Verona. A chiederla è stato un parlamentare veronese di centrodestra, Alberto Giorgetti. Qualora il prefetto dovesse inviare una commissione in Comune e l’indagine riscontrasse l’esistenza di infiltrazioni, il Comune di Verona potrebbe essere sciolto per mafia. “Se le cose dette da Report sono vere – ha dichiarato Giorgetti – ci sarebbe un collegamento diretto tra la ‘ndrangheta e assessori o eletti appartenenti alla maggioranza di Flavio Tosi, per cui secondo l’attuale normativa antimafia, sussisterebbero automaticamente i presupposti per lo scioglimento”. Nel corso dell’inchiesta di Report, è emerso il ruolo di alcune famiglie di costruttori calabresi trapiantanti a Verona e molto vicini a esponenti di primo piano dell’amministrazione Tosi. In particolare il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha per la prima volta rivelato di aver partecipato alcuni anni fa a un summit in cui erano presenti boss della ndrangheta calabrese e rappresentanti di una famiglia di costruttori veronesi.

LA MASSONERIA ED IL POTERE.

MONTI, LETTA E RENZI, I TRE CURIAZI INDIVIDUATI DALLA MASSONERIA REAZIONARIA PER PIEGARE ROMA, scrive Francesco Maria Toscano su “Il Moralista”. Esiste un livello di potere reale, all’interno del quale si scontrano anche soggetti apparentemente alleati, e ne esiste un altro formale buono per motivare tifoserie oramai disabituatesi a pensare criticamente. Passiamo dalla teoria alla pratica. Il profano, osservando oggi in superficie la situazione politica italiana, potrebbe convincersi del fatto che esista un centrodestra lacerato che si contrappone ad un centrosinistra altrettanto lacerato nonostante la contingenza obblighi forze certamente diverse ad una momentanea coabitazione indispensabile per perseguire il solito e immancabile bene del Paese. Questa rappresentazione, con l’aggiunta del pericolo antisistema rappresentato dall’impetuosa crescita del movimento “populista” di Beppe Grillo, è falsa nonché buona per convincere i polli. Nel vuoto ideale che contraddistingue tutti i partiti presenti sulla scena pubblica, l’unico collante rimane il potere per il potere. Tutti possono dire tutto e il loro esatto contrario a patto di trarne un beneficio di corto respiro. Qualche esempio pratico? Il partito e i giornali di Berlusconi hanno improvvisamente scoperto tutti i limiti dell’euro  in contemporanea con l’aggravarsi della posizione del vecchio leader, oramai chiaramente abbandonato dai potentati massonici di ispirazione reazionaria che governano questo mostro di Ue. Fino a ieri, quando ancora dalle parti del Biscione si aspettava fiduciosi un cenno di amicizia dai parte dei fratelli che contano, nessuno osava volgere lo sguardo verso le sacre stanze del potere comunitario, mentre tutti i reprobi nemici del divino Monti venivano tacciati a giorni alterni di demagogia e populismo. Cioè, se l’Europa massacra i cittadini ma tutela la posizione personale di Berlusconi, allora i sacrifici cari a Bruxelles vanno accettati serenamente nel nome della verità e della responsabilità (alias: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e quindi dobbiamo soffrire); se invece l’Europa massacra i cittadini e permette pure che si consumi la fine politica del cavaliere Berlusconi, allora  l’euro non funziona, la Merkel è cattiva e Monti è più ottuso del cane Empy.  E’ dignitoso trovare il coraggio di dire la verità soltanto quando si ritiene di essere stati ingiustamente mollati? Per niente. Dalle parti del Pd sono pure peggio, perché mentre Berlusconi recita e ricatta per tutelare se stesso, i piddini mentono per conto terzi o, nella migliore delle ipotesi, per eccesso di stupidità. Il viceministro Stefano Fassina, considerato il più a sinistra del Pd (figuratevi gli altri…), poco prima delle elezioni di febbraio si faceva intervistare da Financial Times promettendo la prosecuzione delle devastanti politiche promosse da quel Mario Monti che ora fa ipocritamente fa finta di disconoscere. Dopo la dura presa di posizione del Tesoro americano contro le politiche affamatrici della Germania, tanti piccoli uomini senza decoro né dignità trovano finalmente il coraggio di dire a voce alta quello che erano abituati per paura a sussurrare al buio e sottovoce. Dato quindi per scontato che nessuno crede in nulla e tutti sono disposti a cambiare versione quando ritengono di avvantaggiarsene sul piano privato, è ora arrivato il momento di chiedersi: qual è la vera partita di potere che si sta giocando adesso nell’ombra? Quella che vede come terminali di diverse cordate di interessi da una parte l’attuale premier Enrico Letta e dall’altra il sindaco di Firenze Matteo Renzi, entrambi strategicamente convinti di dover completare la devastazione dell’apparato produttivo italiano quanto tatticamente divisi per ragioni di potere personale. Le improvvise critiche riservate da quel buffone di Olli Rehn e dal suo degno compare Mario Monti alla legge di stabilità predisposta dal massone reazionario di rito draghiano Fabrizio  Saccomanni vanno lette in questa ottica. “Se non siete in grado di continuare a spremere a sangue gli italiani”, questo il messaggio esoterico contenuto fra le righe dell’analisi proposta dal vicepresidente della Commissione Europea, allora fatevi subito da parte per lasciare spazio a Matteo Renzi, cavallo di Troia nuovo di zecca  pronto a dare il colpo di grazia a questi fannulloni di italiani mangia-spaghetti”. Enrichetto Letta, infatti, si è spaventato precipitandosi al convegno organizzato dal Financial Times per promettere di regalare  ai padroni quel che resta del patrimonio pubblico italiano nella speranza di allungare la vita al suo meschino governo. Monti è soltanto un brutto ricordo, Letta arranca mentre Renzi è pronto per sfogare tutto il suo distruttivo potenziale. Finita tra le pernacchie e la disperazione generale la parabola del sindaco di Firenze sarà poi possibile cominciare a pensare alla ricostruzione di un’Italia piegata e afflitta come alla fine della seconda guerra mondiale. Se è per davvero geometricamente indispensabile che il nostro povero Paese finisca con l’essere brutalizzato a turno da questi tre emissari (a diverso titolo) della massoneria reazionaria sovranazionale, allora tanto vale augurarsi una rapida accelerazione degli eventi. Rivedremo la luce solo dopo avere attraversato per intero il tunnel dentro il quale una manina maligna ci ha sapientemente indirizzati.

Matteo Renzi: un personaggio costruito dal Nuovo Ordine Mondiale, scrive Nicola Bizzi su “Signoraggio”. È appena calato il sipario sull’ennesima carnevalata renziana alla Stazione Leopolda di Firenze, evento su cui sono stati puntati per due giorni tutti i riflettori dei media di regime, e si pone adesso la necessità di alcune riflessioni e considerazioni. Viaggio spesso per motivi di lavoro e devo ammettere che mi sono decisamente stancato, ogni volta che su un treno, su un aereo, durante una cena o una conferenza, quando mi capita di fare conversazione con qualcuno ed emerge il fatto che sono di Firenze, mi vengano sempre rivolte le stesse raccapriccianti domande o le stesse esclamazioni. Vale a dire: “Come è fortunato lei a vivere in una città amministrata da Renzi!”; “Ha avuto modo di incontrarlo?”; “Ah, Firenze, la città di Renzi!”, e così via…Un tempo Firenze era conosciuta per altri motivi, soprattutto per l’Arte e la Cultura e per i capolavori del Rinascimento. A cavallo fra gli anni ’80 e ’90 era nota soprattutto per le vicende del “mostro” (il più gettonato argomento di conversazione di allora). Ma ho avuto modo drammaticamente di riscontrare che oggi, per la maggior parte delle persone con cui parlo, sia in Italia che all’estero, risulta inevitabile associare il nome della mia città a quello di Matteo Renzi. Mi sono di conseguenza chiesto, tentando anche di darmi delle risposte, come sia stato possibile che un personaggio a mio avviso del tutto insignificante, palesemente inadatto a fare un ragionamento politico profondo e di senso compiuto, e con un volto che (almeno a me) non ispira alcuna simpatia, in sostanza una personificazione “del nulla che avanza”, sia diventato oggetto di un simile clamore mediatico. Conosco Matteo Renzi, ho avuto l’occasione di parlare con lui alcune volte, e vi assicuro che, a parte le frivolezze di circostanza sui livelli di ozono in città durante l’estate e sui goal della Fiorentina (a me il calcio poi neppure interessa), ogni volta che ho provato a fargli una domanda seria sulla sua progettualità politica o sull’economia, ha abilmente glissato e divagato, pronunciando frasi di circostanza e guardando nervosamente l’orologio. Certo, per carità, per Firenze, come Sindaco, qualcosa di buono lo ha saputo fare. La città era governata da oltre vent’anni da una disgustosa cricca di potere affaristico legato al carrozzone del vecchio PCI (poi trasformatosi gattopardescamente in PDS, in DS e in PD) che faceva il bello e il cattivo tempo, con conflitti di interesse di inaudita portata e sotto lo sguardo compiaciuto e assente di una certa magistratura politicizzata. Divenuto Sindaco, il “ragazzo” ha abilmente decapitato questo marcio sistema di potere sostituendolo con una squadra di boy-scout composta per lo più da suoi coetanei, magari animata da buona volontà, ma nella pratica, da un lato troppo inesperta per governare bene una grande città e, da un altro (fortunatamente) ancora alle prime armi per dedicarsi a tempo pieno alle ruberie della politica. Essendo quindi stato chiamato dal solito elettorato con il prosciutto sugli occhi a sostituire il peggiore e più odiato Sindaco che Firenze abbia mai avuto (quel Leonardo Domenici che, come premio per i suoi fallimenti, è stato mandato al Parlamento Europeo), era inevitabile che qualcosa di buono dovesse pur farlo. Ma, a parte aver evitato lo scempio del passaggio di un tram delle dimensioni di un Eurostar da Piazza del Duomo e aver ripavimentato alcune strade del centro, l’ex “ragazzo prodigio” ha utilizzato sapientemente Firenze come palcoscenico per proporsi alle masse come il volto nuovo, come una sorta di messia destinato a cambiare l’Italia, come un nuovo ed ennesimo “salvatore della Patria”. In rete esistono decine di siti che hanno tentato, mediante ragionamenti di largo respiro, di interrogarsi su chi sia realmente Matteo Renzi e sui retroscena della sua folgorante carriera politica che, da giovane militante dei comitati per Prodi (buono quello!) lo ha visto divenire prima segretario provinciale del PPI e poi della Margherita di Rutelli e di Lusi, poi, a soli 28 anni,  Presidente della Provincia di Firenze, poi Sindaco e, progressivamente, il personaggio politico più presente in assoluto nei programmi televisivi. Quello che, fra cene ad Arcore con il Cavaliere e incontri con Angela Markel e Obama, attraverso il “verbo” della rottamazione e dichiarazioni pubbliche incentrate sulla pochezza e sull’ovvietà, si sta candidando alla guida sia del PD e di un’Italia che affonda. Ebbene, tutti questi siti, pur facendo giuste osservazioni e ponendosi legittimi interrogativi sui suoi rapporti con la Massoneria e con i poteri forti della finanza internazionale, non ci danno delle risposte, non vanno oltre il pettegolezzo o le illazioni. A noi non interessa il pettegolezzo. Quello lo lasciamo volentieri a Marco Travaglio e ad altri simili servi del sistema. A noi interessa che la gente apra gli occhi sulla verità, sul grande inganno nel quale siamo immersi fino al collo. A noi interessa constatare e far capire quella che è ormai un’evidenza: Matteo Renzi è un massone figlio di massoni! Non ci interessa il fatto che magari non si trovino le prove di un suo effettivo “tesseramento”, di una sua affiliazione a qualche loggia. Renzi è l’espressione più diretta ed immediata di quella culturalità massonica di cui si servono i grandi burattinai del potere occulto per agire indisturbati ai danni della società. Questa massonicità lo investe come individuo, come parte integrante di un contesto politico di potere e come espressione di una cultura che è e resta prettamente massonica. Per stessa ammissione del Maestro Venerabile del Grande Oriente d’Italia Gustavo Raffi, fra le fila degli iscritti al PD si contano oltre 4000 affiliati all’obbedienza di Palazzo Giustiniani (vale a dire quasi un quinto dei tesserati del partito), la maggior parte dei quali risultano in Toscana. E questo senza contare i tesserati che fanno capo ad altre obbedienze massoniche diverse dal G.O.I., che sono comunque molto forti e radicate sul territorio. Il mondo è governato da circa 1000 grosse banche, quasi tutte sotto il diretto controllo di potenti famiglie come i Rotschild e i Rockfeller. La Massoneria rappresenta il loro braccio esecutivo nello scegliere e nel selezionare quei leader politici più idonei, più gestibili e maggiormente manovrabili che, insediatisi nei posti chiave del potere, favoriscono gli interessi di chi realmente comanda e decide. Matteo Renzi rientra perfettamente in questo schema, ed è il prodotto di una abile e pianificata campagna di marketing dai toni a stelle e strisce e dal sapore inconfondibilmente massonico. Una campagna di marketing senza dubbio preparata già da anni, e finalizzata a lanciare mediaticamente e politicamente un “volto nuovo” in un certo senso predestinato ad assumere le leve del potere e a fare di conseguenza, una volta Presidente del Consiglio, gli interessi di chi sta nella cabina di regia. Questa è l’idea che mi sono fatto personalmente di Matteo Renzi, un personaggio abilmente costruito a tavolino e curato nei minimi dettagli per quanto riguarda il look, la gestualità, il tenore e il contenuto dei discorsi, tanto che, nonostante risulti agli occhi dei più attenti una squallida scopiazzatura di Barak Obama, sta trovando sempre maggiori consensi sia fra un elettorato di sinistra ormai senza bussola e senza identità, sia fra l’elettorato di un centro-destra fiaccato da vent’anni di Berlusconismo e di promesse non mantenute. Non so voi, ma io in questa cabina di regia ci vedo chiaramente i volti del Bilderberg, dei Rotschild, della grande finanza internazionale e del Nuovo Ordine Mondiale.

Chi è davvero Matteo Renzi, si chiede “Il Foglio”. «Quando, il 13 settembre del 2012, al palazzo della Gran Guardia di Verona, Matteo Renzi a un certo punto disse: “Ci candidiamo a guidare questo Paese per i prossimi cinque anni”, fummo in molti a pensare che fosse un megalomane. Non per il plurale maiestatis, ma per la sproporzione tra l’obiettivo dichiarato e la sua esperienza politica. Invece, aveva ragione lui» (Michele Brambilla) [1]. Se tutto andrà come sembra, Renzi prenderà il comando del governo a 39 anni gli stessi che aveva Mussolini quando divenne a sua volta presidente del Consiglio [2]. Renzi, ovvero scout, Ruota della fortuna, camicia bianca, maniche arrotolate, giubbotto di Fonzie, rottamare ecc. Alessandro Campi: «La parlantina sciolta che avvolge e disorienta l’interlocutore, l’autostima forse esagerata, l’ostinazione e il coraggio che ha sempre mostrato nei momenti decisivi, il piglio volitivo e decisionistico, l’argento vivo e la perenne agitazione, una sfrontatezza compensata da un viso da bravo ragazzo un filo evidente di narcisismo e un po’ della prosopopea che i fiorentini hanno da secoli. Eppure resta la domanda su chi sia per davvero Matteo Renzi» [2]. Matteo Renzi nasce l’11 gennaio 1975 a Firenze, secondo dei quattro figli di Laura Bovoli e Tiziano Renzi, ex consigliere comunale della Dc a Rignano sull’Arno [3]. La prima sconfitta della sua vita al Liceo classico Dante di Firenze, come rappresentante studentesco. La lista capeggiata da Leonardo Bieber, “Carpe Diem”, supera la sua, “Al buio meglio accendere una luce che maledire l’oscurità”. Dopo il diploma nel 1993 comincia a lavorare alla Chil, l’azienda di famiglia che si occupa di marketing e giornali [3]. Nel 1999, a ventiquattro anni, si laurea in Giurisprudenza con una tesi su «Giorgio La Pira sindaco di Firenze». Nello stesso anno diventa segretario provinciale del Partito Popolare. Campi: «Politicamente, lo si continua a definire un ex-democristiano, ma quando nel 1996 lui esordì con i Comitati Prodi la Dc storica già non esisteva da un pezzo» [2]. Nel 2001 è coordinatore della Margherita fiorentina, nel 2003 segretario provinciale, dal 2004 al 2009 presidente della Provincia di Firenze. Dà del tu a tutti [4]. Brambilla: «Nel settembre del 2008 si mette in testa un’altra idea da matti, candidarsi alle primarie per il sindaco di Firenze. Tutti a dirgli Matteo sta’ bono, non fare il passo più lungo della tu’ gamba. Eppure vince, e vince contro uno favoritissimo, Lapo Pistelli, deputato e responsabile nazionale Esteri del partito. Ancora una volta aveva ragione lui, il giovane Matteo, che naturalmente poi l’anno dopo sbanca le elezioni comunali e diventa sindaco di Firenze [1]. Pistelli: «Matteo è talmente rapido da farti venire il mal di testa. Ed è sistematico il modo in cui colpisce. Sempre allo stesso modo. Come un serial killer. Prenderlo è difficile. E anche le rare volte che perde, c’è sempre una botta di culo a rimetterlo in pista. Ha la provvidenza dalla sua» [5]. «Da sindaco gli viene prima di tutto riconosciuto il gran colpo di aver smantellato la cupola di potere sedimentata in dieci anni di amministrazione di Leonardo Domenici» (Denise Pardo) [6]. Filippo Sensi: «Quando gli fanno quella domanda, la domanda, e cioè se, in fondo in fondo, sia davvero di sinistra, Matteo Renzi si mostra tutt’altro che contrariato, anzi. Come a dire di non temere l’esame del sangue che pure gli viene richiesto ogni due per tre per capire se, veramente, sia uno di noi, uno dei nostri. Glielo ha chiesto Enrico Mentana, quest’estate alla festa del Partito democratico di Genova, ultima domanda, quella quando hai le difese basse e puoi scivolare. Ma il sindaco di Firenze ne ha approfittato per un finale in crescendo, declinando la parola sinistra, così insidiosa e ispida, con una sfilza di impegni presi e, secondo lui, onorati a Firenze. Le biblioteche pubbliche, gli asili nido, la pedonalizzazione, il wifi libero. Cioè, una sana lista di cose “tradizionalmente” di sinistra, senza rinunciare, tuttavia, al suo frame più abituale, quello della lotta contro il conservatorismo, contro una certa compiaciuta supponenza, e poi, colpa grave, contro la voluttà minoritaria della sconfitta» [7]. Da sindaco guadagna quattromiladuecento euro al mese: «Che va bene, ma è meno di quel che prende il capo segreteria di un consigliere regionale» [8]. La parola “rottamazione” la pronuncia per la prima volta nell’agosto 2010, quando in un’intervista a Umberto Rosso di Repubblica attacca i dirigenti del Pd: «Se vogliamo sbarazzarci di nonno Silvio dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani... Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi. […] Ma li vedete? Berlusconi ha fallito e noi stiamo a giocare ancora con le formule, le alchimie delle alleanze: un cerchio, due cerchi, nuovo Ulivo, vecchio Ulivo... I nostri iscritti, i simpatizzanti, i tanti delusi che aspetterebbero solo una parola chiara per tornare a impegnarsi, assistono sgomenti ad un imbarazzante Truman show. Pensando: ma quando si sveglieranno dall’anestesia? Ma si rendono conto di aver perso contatto con la realtà?» [9]. Nel 2012 si candida alle primarie del centrosinistra. Perde al ballottaggio con Bersani: lui prende il 39,1%, Bersani il 60,9. «Fu quella domenica sera in cui perse il ballottaggio che Renzi preparò la sua rivincita. Arrivò alla Fortezza da Basso, a Firenze, guidando la sua station wagon – niente autisti e niente scorte – con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto. Pronunciò un formidabile discorso in cui disse soprattutto una cosa: ho perso. In un Paese dove alle elezioni non perde mai nessuno, Renzi si mostrò, forse più che mai, diverso. E lì cominciò la sua rimonta» [1]. Pippo Civati, Giorgio Gori, Giuliano Da Empoli: lunga è la lista di amici, consiglieri, professori, esperti d’immagine e colleghi che Renzi ha messo da parte o in alcuni casi promosso per allontanarli (come il suo ex vicesindaco Dario Nardella, oggi deputato). Salvatore Merlo: «E dunque Renzi si scrive i discorsi da solo, trova da solo le sue citazioni, le immagini, le figure retoriche, le invenzioni linguistiche, scopre da solo quali sono i libri da leggere (pochini quelli che ha letto), studia da solo i complessi problemi di un paese strano come l’Italia» [10]. Con Letta premier i rapporti sono sempre freddi. «Durante l’estate 2013 comincia la marcia: il sindaco decide – lo annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a costruire attorno a sé una rete di contatti extra politici. E così, 13 luglio, dà il là al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano. I mesi passano, Renzi si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato necessario votare con il Porcellum ma poi si arriva al 5 dicembre del 2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale e per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge elettorale si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi. Detto, fatto» (Claudio Cerasa) [11]. Note: [1] Michele Brambilla, La Stampa 14/2; [2] Alessandro Campi, Il Mattino 15/2; [3] Wanda Marra e Davide Vecchi, il Fatto Quotidiano 8/12/ 2013; [4]. Paola Maraone, Gioia 11/10/2012; [5] Tommaso Labate, Corriere della Sera 15/2; [6] Denise Pardo, l’Espresso 28/10/2011; [7] Filippo Sensi, Europa 27/9/2013; [8] Monica Ceci, Gioia 15/10/2010; [9] Umberto Rosso, la Repubblica 29/8/2010; [10] Salvatore Merlo, Linkiesta 18/8; [11] Claudio Cerasa, Il Foglio 14/2.

Firenze: Ritratto di Matteo Renzi, candidato PD a sindaco. Interessanti i suoi rapporti con dei noti immobiliaristi e altro ancora. Altro che l’Obama fiorentino! (A cura della sinistra unita e plurale (SUP)di Firenze). Matteo Renzi è figlio di Tiziano Renzi, ex parlamentare della DC e gran signore della Margherita e della Massoneria in Toscana. Il feudo incontrastato della famiglia Renzi è il Valdarno, dal quale si stanno allargando a macchia d'olio. Il padre di Matteo controlla dalla metà degli anni '90 la distribuzione di giornali e di pubblicità in Toscana. Questo, unito agli affari con la Baldassini-Tognozzi, la società un po' edile e un po' finanziaria che controlla tutti gli appalti della Regione, spiega l'ascesa di Matteo Renzi. Le prime 10 cose che non vanno di Matteo Renzi:

1) Da presidente della Provincia, tra il 2004 e il 2009, ha acquisito il controllo di tutta la stampa locale, radio e tv, in Toscana. L'ultimo giornale che un po' gli era ostile era "La Nazione". Per questo, in occasione dei 150 anni di questo giornale, ha fatto ospitare dai locali della Provincia, in via Martelli, una mostra che, naturalmente, è stata pagata coi soldi di noi contribuenti. In questo modo, La Nazione è divenuta renziana.

2) Renzi per controllare ancora meglio l'informazione locale, ha trovato un secondo lavoro a moltissimi giornalisti: gli uffici stampa degli eventi organizzati dalla Provincia, come il Genio fiorentino, il suo stesso portavoce, tutta una serie di riviste inutili e costossime per la collettività (Chianti News, InToscana, ecc.) servono a lui e a Martini, il presidente della Regione, a tenersi buoni i cronisti locali. Inoltre, trasmissioni come "12 minuti col Presidente", che va in onda su RTV 38 e Rete 37, gli sono servite a dare delle tangenti legalizzate alle redazioni di queste emittenti che ormai, in lui, riconoscono il vero datore di lavoro.

3) Tra le cose di cui più si vanta Renzi, vi è il recupero di Sant'Orsola. Il grande complesso situato in San Lorenzo, chiuso e abbandonato da molti decenni, sarebbe stato recuperato dalla Provincia - così dice Renzi - con un investimento iniziale di 20 milioni di euro. E questo non è vero. Infatti, a bilancio, a fine anno, la Provincia per Sant'Orsola ha stanziato la miseria di un milione di euro. E' un esempio del suo continuo modo di mentire.

4) Renzi in questi 5 anni ha utilizzato la Provincia allo scopo di promuovere la propria immagine personale coi soldi nostri. A questo servono manifestazioni inutili e costose come "Il Genio fiorentino e "Riciclabilandia". Attraverso l'utilizzo delle consulenze, degli uffici stampa, della commissione di sondaggi, pubblicazioni e pubblicità ha creato una vasta rete clientelare di giornalisti che non ne contraddicono mai le posizioni.

5) L'inchiesta di Castello: Matteo Renzi, come presidente della Provincia, è molto più coinvolto del sindaco Domenici. Infatti, le opere oggetto dell'inchiesta sono quasi tutte commissionate dalla Provincia: tre scuole, una caserma nonché naturalmente il nuovo (e che bisogno c'è?) palazzo della Provincia. Eppure sui giornali ci è finito Domenici.

6) Il braccio destro di Ligresti, patron della Fondiaria, Rapisarda, lo si vede bene nelle intercettazioni telefoniche, pretende che per le commissioni di Castello la Provincia faccia una gara d'appalto. "sennò ci accusano di fare noi il prezzo", spiega Rapisarda al telefono all'assessore Biagi. Pochi giorni dopo quella telefonata, compare questo titolo su Repubblica: "Renzi contro la Fondiaria: per Castello si farà la gara d'appalto". Ovvero: Renzi è colui che meglio esegue le volontà della Fondiaria e poi appare addirittura come quello contro i poteri forti!

7) Nel 2004 come prima cosa taglia i fondi della Provincia per la raccolta differenziata. Risultato, i Verdi si arrabbiano (giustamente) e lui li espelle dalla Giunta.

8) Dal 2004 Renzi ha creato un'infinità di società alle quali la Provincia commissiona eventi culturali, indagini di mercato e così via. Il caso più clamoroso è quello di "Noilink" che, durante le primarie del PD, diventa il suo vero e proprio comitato elettorale!

9) Tutti i giornaletti del cappero che arrivano nelle case dei fiorentini a partire da "Prima, Firenze!" sono stampati coi soldi della Provincia.

10) Nessun giornalista osa fare una domanda su quanto abbiamo riportato nei primi nove punti a Matteo Renzi.

Chi c’è dietro Matteo Renzi? Si chiede Alessandro D'Amato su “Giornalettismo”. Da Marchionne a Carrai, da Serra a Della Valle, da Vitale a Micheli fino all’americano Phillips: Libero vi racconta la sua verità. Chi c’è dietro Matteo Renzi? La domanda è retorica, ma Libero di oggi la prende sul serio per imbastire una prima pagina dedicata al presidente del consiglio incaricato e a tutti i suoi “suggeritori”, non accusati di occultismo ma quasi. La prima pagina di Libero: CHI C’E’ DIETRO MATTEO RENZI – L’articolo di Franco Bechis comincia puntando il dito su quel Guido Tabellini che oggi è considerato ministro dell’Economia in pectore. Dietro il quale, come al solito, ci sarebbe la manina dell’Ingegnere: C’è chi vede quella manina infatti nell’improvvisa emersione nel toto-ministri del nome del professore di Economia ed ex Rettore dell’Università Bocconi, Guido Tabellini. La sua candidatura non è nuovissima nella vigilia della formazione dei governi. Era già emersa perfino nel 2008, per la squadra di Silvio Berlusconi, come alternativa a Giulio Tremonti. Tabellini ha due estimatori influenti: Sergio Marchionne (che aveva influenza sul cavaliere,mane ha pure su Renzi) e appunto De Benedetti. Entrambi lo hanno voluto cooptare in azienda. E infatti Tabellini siede nel consiglio di amministrazione di Fiat Industrial e in quello di Cir, la holding operativa del gruppo De Benedetti. Una candidatura con padrinato evidente. Ma tra i nomi spunta anche quello di Franco Bernabé, ed è importante far notare che nell’occasione lo sponsor non è considerato De Benedetti, ma l’amico d’infanzia di Renzi Marco Carrai. Il quale, oltre ad essere socio di una società in partecipazione con Bernabé, ha anche ottimi rapporti con Chicco Testa, l’ex presidente di Legambiente poi diventato presidente dell’Enel e nuclearista convinto. Ma l’elenco non finisce qui. Descritto come molto vicino a Carrai è infatti Fabrizio Palenzona, ex sindacalista e poi banchiere in Unicredit oltre che collezionista di poltrone tra AdR, Aiscat, Autostrade e così via. Palenzona sarebbe stato lo sponsor di Lucrezia Reichlin, data al ministero dell’Economia per qualche ora ieri sui giornali italiani. E non finisce qui: Ma c’è sempre Palenzona, sia pure a braccetto con Paolo Fresco (altro rapporto di Renzi ricevuto in dote da Carrai) dietro l’emergere e il solidificarsi della candidatura a ministro di Mauro Moretti, il manager che da una vita guida le Ferrovie italiane. Fra i padrinati dell’ultima ora ne è emerso uno istituzionale e in qualche modo naturale: l’appoggio – assolutamente solitario e perdente – dato dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, alla riconferma del suo ex direttore generale, Fabrizio Saccomanni, all’Economia. Infine, ci sono i nomi considerati vicini a Renzi fin dai tempi delle primarie di Firenze e di quelle contro Bersani: Nomi in qualche caso ben noti, come il finanziere David Serra (anche lui inventato da Carrai) e del patron di Tod’s e Fiorentina, Diego Della Valle. Ma anche qualcuno emerso meno dalle cronache fiorentine: come l’ex banchiere che guidò Lazard in Italia (e fondò Euromobiliare), Guido Roberto Vitale, o il finanziere Francesco Micheli (in coppia con il figlio Carlo). Enorme il peso su Renzi di Vincenzo Manes, presidente dell’Intek group e finanziatore generoso delle fondazioni con cui il sindaco di Firenze ha scalato la grande politica. Contano – e non poco -anche due personaggi che vengono dalla diplomazia e dalle reti di lobbing americane, come John Phillips – ex found raiser di Barack Obama,ora ambasciatore Usa in Italia. O il più oscuro Michael Ledeen, repubblicano assai conservatore, uomo simbolo dell’American Enterprise Institute. Da segnalare che quello di Ledeen è un nome che rientra periodicamente nelle discussioni sugli influencer americani dei politici italiani. Non ultimo si parlò di Leeden come sponsor del progetto Decidere.net di Daniele Capezzone: vero è che i due si conoscevano e stimavano, ma tutta la storia era soltanto complottismo.

Massoneria e “Misteri di Napolitano” nel libro “I panni sporchi della sinistra”. Un capitolo del libro scritto dai giornalisti Ferruccio Pinotti (Corriere della Sera) e Stefano Santachiara (Fatto quotidiano) parla di Unione Sovietica, di massoneria, di Henry Kissinger e del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, scrive “Blitz Quotidiano”. Massoneria e "Misteri di Napolitano" nel libro "I panni sporchi della sinistra" di Pinotti e Santachiara. “I misteri di Napolitano”: si chiama così il capitolo del libro “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere) scritto dai giornalisti Ferruccio Pinotti (Corriere della Sera) e Stefano Santachiara (Fatto quotidiano) in cui si parla di Unione Sovietica, di massoneria, di Henry Kissinger e del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Capitolo citato da Paolo Bracalini sul Giornale: “«Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull’asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in I panni sporchi della sinistra [...] Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l’ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell’intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell’ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel ’78, nei giorni del sequestro Moro, l’altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all’incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l’identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all’uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un’associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano, ndr). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese…». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l’amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l’attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell’unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all’epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un’altra fonte, l’ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L’asse di Berlusconi con Putin – specie sul dossier energia – poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvicente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg…”

Descrizione: http://extrk.aws.forebase.com/artprint.html"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”. "Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.

Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?

«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen.»

E allora?

«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli.»

Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?

«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria.»

Cioè?

«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia.»

E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.

«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva.»

Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?

«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio.»

Ne faccia un altro.

«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori.»

E quindi?

«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva.»

Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.

«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi.»

E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?

«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense.»

Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?

«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica.»

Perché?

«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo.»

Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?

«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi.»

Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.

«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento.»

Calabria e Massoneria, un antico legame. Le statistiche collocano la regione al terzo posto per densità massonica in Italia, dopo la Toscana e il Piemonte. Il nostro territorio nel corso dei secoli ha infatti espresso molte personalità del libero pensiero, scrive Vincenzo Pitaro su “Soverato Web”. Da una recente rilevazione, la Calabria è risultata tra le regioni a più elevata densità massonica, dopo la Toscana e il Piemonte. Un dato che non ha mancato di sorprendere gli esperti nazionali di statistica, i quali non sarebbero riusciti a spiegarsi «il motivo di un simile primato». Questo perché nessuno, a quanto pare, ha tenuto conto della storia. Il fenomeno odierno si innesta infatti sulla scia di un’antica tradizione lasciata in Calabria da numerose personalità. Qui infatti  nacquero ed operarono Antonio Jeròcades (a lui è attribuita l’istituzione della prima loggia calabrese), Francesco De Luca (che succedette a Giuseppe Garibaldi nella Gran Maestranza nazionale), Saverio Fera, di Petrizzi (CZ), artefice dello scisma del 1908 e fondatore dell’Obbedienza di Piazza del Gesù, e tanti altri (da Armando Dito a Vittorio Colao) che ricoprirono sotto le volte stellate incarichi di primo piano. Tra gli illustri massoni calabresi, peraltro, la storia annovera finanche uomini di Chiesa, come lo stesso abate Jeròcades, di Parghelia; i sacerdoti Gregorio Aracri, di Stalettì (CZ); Giuseppe Monaldo, di Filadelfia (VV); Antonio Greco,  di Catanzaro (che sedette anche nel primo parlamento del Regno d’Italia); Domenico Angherà, arciprete di San Vito sullo Jonio, che il 10 agosto 1861 fondò a Napoli il Grande Oriente, trasformatosi in seguito in Supremo Consiglio di Napoli, e che da molti è considerato l’antesignano del Grande Oriente d’Italia. Che la Calabria fosse, dunque, «una regione di corposità massonica» non è affatto una novità; un qualcosa che si scopre oggi per merito delle statistiche. Il prezioso contributo offerto dalla regione alla Massoneria italiana venne addirittura sottolineato, già nel 1875, nientemeno che da Francesco De Sanctis, il padre della letteratura italiana, durante un suo elogio funebre tenuto dinanzi al feretro proprio di Francesco De Luca, avvocato, professore di scienze naturali e scrittore (fra l'altro, autore di un interessante volume su «L’educazione dei popoli», nonché di vari opuscoli di matematica sullo «sviluppo di un nuovo sistema di logaritmi») che era nato a Cardinale (CZ) nel 1811 e che già dal dal 28 maggio 1865 al 20 giugno del 1867 era stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la massoneria di Palazzo Giustiniani. Nel discorso tenuto in forma solenne, De Sanctis (anch’egli massone, come del resto lo furono Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo, ecc.) non solo onorò la memoria di Francesco De Luca, esaltandone le doti umani e professionali, ma trovò modo di lodare anche la Terra che gli aveva dato i natali, sottolineando i «nobili ideali universalistici e filantropici dei tanti calabresi che avevano alimentato la massoneria. Ideali praticati da uomini rispettosi delle leggi della patria, osservanti dei diritti dell’uomo e del cittadino, gelosi della dignità della persona umana, irreprensibili nel comportamento privato e sociale. Alla pari di tanti altri grandi massoni internazionali: da Voltaire a Cavour, da Fleming a Washington, fino a Mozart». La forte presenza della Massoneria in Calabria perciò altro non è altro che un fatto storico. Già nel 1864, esisteva a Catanzaro la loggia «Tommaso Campanella» (che oggi vanta di aver «ricevuto la luce proprio da Antonio Jeròcades»), una loggia che perdipiù - stando a quanto sostiene qualche storico della Libera Muratoria - sarebbe stata fondata per preparare la gioventù ad una nuova guerra contro l’Austria per la conquista di Venezia. A  innalzare le sue colonne furono sette «fratelli» (Giuseppe Rossi, Filippo D’Alessandria, Odoardo Squillace, Giuseppe Falletti, Gaetano Palopoli, Gregorio Iannone, Michele Martone) assieme ad Antonio Menniti-Ippolito eletto maestro venerabile. Non si sa se a tutt'oggi spetterebbe ad essa, o meno, il titolo di «loggia madre calabrese», visto che - tra quelle più antiche ancora esistenti nella regione - ce n'è un'altra a Reggio Calabria, la «Domenico Romeo». L'afflusso maggiore comunque si sarebbe registrato dal 1900 in poi, fino all’avvento del fascismo, quando nella sola provincia di Catanzaro erano attive molte logge, tra cui la «Francesco De Luca» a Chiaravalle Centrale; la «Giovanni Andrea Serrao» a Filadelfia; l’«Antica Vibonese Rinnovellata» a Monteleone (oggi Vibo Valentia); la «Dionisio Ponzio» a Nicastro; la «Bruno Vinci» a Nicotera e la «Benedetto Musolino» a Pizzo Calabro, oltre ai «triangoli» elevati a Nardodipace, Fabrizia e ad Arena.

L’alleanza tra ’ndrangheta e massoneria per avvicinarsi al potere. Le oltre duemila pagine dell’ordinanza notificata ai 39 arrestati dell’inchiesta “Saggezza” gettano luce sui rapporti tra ’ndrangheta e massoneria, usata per avvicinarsi ai centri decisionali politici ed economici. Non è una novità: già nel ’92 il procuratore di Palmi, Agostino Cordova, indagò sulla massoneria deviata, scrive Francesca Chirico su “L’Inchiesta”. «È venuto il gran maestro del coso… del…ferma, che mi ricordo, come si chiama quell’altra obbedienza grossa…». «Grande Oriente». «Sì, del Grande Oriente, c’era il gran maestro che è venuto tutto pieno di collane e di cose». La trascrizione dell’intercettazione telefonica del 4 dicembre 2006 indica, a questo punto, “risate”. Poi l’interlocutore più esperto si ricompone e spiega: «Sono i paramenti per i gradi». Probabilmente simili a quelli che, quattro anno dopo, durante una perquisizione domiciliare, i carabinieri di Locri gli troveranno in casa. Ordinatamente piegati e custoditi in camera da letto dove i militari dell’Arma erano in cerca, forse, di pistole e munizioni. Di Nicola Nesci, cinquantasettenne operaio forestale di Ciminà, nella Locride, sapevano i vecchi precedenti per armi e tentata estorsione, le frequentazioni con i pregiudicati della zona, gli affari nel noleggio delle slot-machine e l’interesse per la politica locale, con tanto di candidatura e successiva elezione in Consiglio comunale nel 2007. Ne conoscevano bene, per averlo arrestato con l’accusa di narcotraffico, anche il cognato Antonio Spagnolo, boss di Ciminà fino al giorno delle manette. Ignoravano, però, che Nicola Nesci fosse associato alla massoneria con le cariche di “Maestro segreto di 31° grado” e “Presidente della camera di 4° grado”. Titoli ai quali avrebbe unito, senza problemi di conflitto d’interessi, anche quello di “mastro di Corona”. In quest’ultimo caso, però, non parliamo di logge ma di cosche. Nelle oltre duemila pagine dell’ordinanza notificata nei giorni scorsi ai 39 arrestati dell’inchiesta “Saggezza”, tra capi d’imputazione come estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, concorrenza sleale e frode in appalti pubblici, sono emerse anche questioni relative all’organizzazione e all’assegnazione di cariche interne alla ’ndrangheta. Secondo i magistrati della Dda reggina proprio «il maestro segreto di 31° grado» Nicola Nesci avrebbe infatti animato, con altri complici, «una articolazione dell’associazione denominata “Corona”, struttura cui facevano capo i “locali” di ’ndrangheta di Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo, finalizzata al controllo mafioso dei territori di tali Comuni». Disseminati nella Locride e svuotati dall’emigrazione, Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo bisogna metterli insieme per raggiungere quota ottomila abitanti. E mettersi insieme, in questo fazzoletto di Calabria, tra l’Aspromonte e le spiagge sabbiose dello Jonio, ostaggio della statale 106 e del binario unico della ferrovia, è l’unico modo per contare qualcosa. Per i magistrati lo avrebbe capito anche la ’ndrangheta che in zona avrebbe attivato un livello organizzativo comprensoriale, la “Corona”, appunto, per gestire in sinergia gli affari (appalti pubblici, attività commerciali, etc) e interloquire da una posizione più forte con i “colleghi” del mandamento della Locride. Ma anche per scongiurare il riproporsi di faide come quella che a Ciminà, dopo l’omicidio nel 1966 del boss Francesco Barillaro, collezionò decine di morti, compresi un pastore sedicenne (Vincenzo Barillaro, figlio del defunto capocosca), un prete (don Antonio Esposito, trucidato a colpi di mitra) e un sindaco (Domenico Fazzari). L’anziano “capo corona” Vincenzo Melia, tornato in Calabria dopo quasi 50 anni trascorsi in America, e i suoi consiglieri (Nicola Nesci e Nicola Romano) non amano sentire parlare di guerre di ’ndrangheta. Gli arresti e la pressione delle forze dell’ordine prodotti dalla faida di San Luca e dall’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, Franco Fortugno (16 ottobre 2005 a Locri), li spingono spesso a deprecare, con tono accorati di biasimo e accenni nostalgici al passato, l’allontanamento dai valori di “sangue e onore” di un tempo. «Hanno distrutto un paese come Locri che lo avevano mantenuto come “una rosa nel vaso”…sia la politica, sia la ’ndrangheta, sia la massoneria, insieme, tutti insieme, tutti d’accordo, l’avevano portato un gioiello». Per prosperare, insomma, servono saggezza e armonia. E ad un’armonica collaborazione tra “poteri” alcuni esponenti della “Corona” sembrano ispirare il loro variegato curriculum da fratelli di sangue e, contemporaneamente, fratelli massoni. «Il contatto con gli ambienti massonici – scrivono i magistrati nell’ordinanza – costituiva un vero e proprio trampolino di lancio per gli affiliati al sodalizio mafioso, poiché li avvicinava a quelle componenti della società italiana che costituivano i veri centri decisionali in campo economico, politico e sociale». Per sei degli indagati dell’operazione “Saggezza” il contatto era formalizzato da un’iscrizione ufficiale alla “Massoneria Universale Grande Oriente d'Italia, Ordine dell’Alto Jonio reggino”, con tanto di quota associativa annuale da corrispondere: oltre al già citato Nicola Nesci, erano della partita della “squadra e del compasso” anche il presunto boss di Ardore, Giuseppe Varacalli, Giuseppe Siciliano, Rocco Mediati, Ferdinando Parlongo e Bruno Parlongo, accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni. E affratellati con i politici, medici, avvocati e professionisti che il sabato a Siderno si danno appuntamento presso la sede della loggia. Per la sua investitura, per esempio, Varacalli volò nel 2001 direttamente a Malta. Sette anni dopo lo avrebbero ammanettato per aver favorito la latitanza del boss di San Luca, Antonio Pelle, tra i responsabili della faida di San Luca e catturato il 16 ottobre 2008 in un bunker ricavato proprio sotto un capannone di Varacalli ad Ardore marina. L’abbraccio tra ’ndrangheta e massoneria emerso nell’inchiesta “Saggezza” non è inedito né recente. «Sino alla prima guerra di mafia, la massoneria e la ’ndrangheta erano vicine, ma la ’ndrangheta era subalterna alla massoneria, che fungeva da tramite con le istituzioni… È evidente che in questo modo eravamo costretti a delegare la gestione dei nostri interessi, con minori guadagni e con un necessario affidamento con personaggi molto spesso inaffidabili. A questo punto, capimmo benissimo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire direttamente ed essere rappresentati nelle istituzioni…». Il salto, secondo Giacomo Lauro, tra i primi pentiti di ’ndrangheta, avvenne quindi nella seconda metà degli anni Settanta, dopo l’eliminazione dei boss della vecchia guardia da parte delle nuove leve (De Stefano, Nirta). Un salto proficuo ma non del tutto “invisibile”. Partendo dagli affari della cosca Pesce di Rosarno, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, il 16 ottobre 1992 il procuratore di Palmi, Agostino Cordova, avviò, infatti, la prima inchiesta italiana sulla massoneria deviata, ipotizzando l’esistenza di una “super loggia segreta” e finendo nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Il magistrato fu immediatamente “promosso” alla Procura di Napoli e l’indagine, compendiata in quasi mille faldoni, finì archiviata.

Massoneria al voto, con lo spettro della 'ndrangheta, scrive Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano del 14 Febbraio 2014. Si va alle urne. Il 2 marzo 2014 si vota. Non per le elezioni politiche, ma per eleggere il nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la più grande comunione massonica italiana. Quel giorno finirà l’era di Gustavo Raffi, al vertice del Goi dal 1999. Dopo tre mandati consecutivi non può più ricandidarsi: aperte le grandi manovre per la successione. Candidati, Stefano Bisi, giornalista di Siena, l’ex vicesindaco socialista di Livorno Massimo Bianchi e il notaio di Messina Silverio Magno. Raffi lascia la scena dopo 15 anni di governo massonico. Arrivò a Villa il Vascello, la splendida sede romana del Goi, promettendo di rinnovare l’Istituzione e far dimenticare le ombre del passato. Veniva da Ravenna e diceva che la massoneria “doveva ripudiare l’affarismo e diventare una casa di vetro”. Dichiarava che “la P2 sta al Grande Oriente come le Br al Partito comunista”. Una volta gli sfuggì addirittura che “il cuore della massoneria batte a sinistra”. Ma subito smentì e fu poi subissato di critiche: lo accusarono di essere un falso amico della sinistra, venendo sì dai repubblicani, ma quelli presidenzialisti e un po’ golpisti di Randolfo Pacciardi; e di essere lui il vero affarista. Si è raddoppiato l’emolumento annuo (portato a 130 mila euro) e ha perfino favorito il fratello (non massonico, di sangue) affidando all’agenzia turistica di famiglia l’organizzazione dei viaggi e soggiorni a Rimini per l’annuale Gran Loggia, il parlamento massonico. Raffi ha sempre respinto al mittente le accuse velenose dei fratelli coltelli, esibendo i suoi successi. I massoni del Goi erano 13 mila nel 1999, oggi sono esattamente 22.181. Le Logge sono aumentate: erano meno di 600, oggi sono quasi un migliaio. L’età media si è abbassata. La comunione ha riallacciato le relazioni (che erano state sospese) con la massoneria svizzera, belga e francese. Con la riforma elettorale (“un Maestro un voto”), Raffi ha esteso la partecipazione alle elezioni massoniche a tutti i Maestri (oggi sono 16.252), mentre prima votavano soltanto i Maestri Venerabili (quelli a capo di una Loggia). Ecco dunque il voto del 2 marzo. Sarà eletto al primo turno il candidato che raccoglierà almeno il 40 per cento dei voti. Sennò, ballottaggio il 23 marzo, a ridosso del giorno esoterico dell’equinozio di primavera.

Stefano Bisi, il favorito, è giornalista e dirigente del Corriere di Siena. È l’inventore della definizione “groviglio armonioso” affibbiata a Siena e al Montepaschi: un “sistema” capace di tenere insieme gli opposti e di durare dal Medioevo fino a oggi. Con lo scandalo della banca e il crollo del suo presidente Giuseppe Mussari, il groviglio ha preso il sopravvento e l’armonia è finita, anche perché sono finiti i soldi che il Montepaschi distribuiva a pioggia. Anche ai giornali di Bisi, naturalmente, che ringraziava invitando Mussari come ospite “profano” ai convegni massonici e assumendo la direzione responsabile di Siena News, il giornale on-line fondato dal portavoce di Mussari, David Rossi, morto tragicamente nei giorni più drammatici dello scandalo. La voce di Bisi è rimasta registrata più volte nelle intercettazioni dell’inchiesta sull’aeroporto di Ampugnano, mentre parlava con due degli indagati, il presidente Mussari e l’amministratore delegato della società aeroportuale Enzo Viani, ex dirigente Montepaschi ma anche fratello massone,  nonché amministratore di Urbs, la società che controlla il grande patrimonio immobiliare del Goi, da Villa il Vascello all’ultima delle Logge, vera cassaforte dei massoni.

Massimo Bianchi è definito da qualcuno dentro le logge “candidato di disturbo”: ha fatto una campagna elettorale d’opposizione alla gestione Raffi, dopo essere stato però per 15 anni il suo numero due, come Gran Maestro Aggiunto. Gli oppositori della passata gestione faranno dunque confluire i voti sul notaio messinese Silverio Magno. C’è chi, dentro il Grande Oriente, mostra preoccupazioni per il pericolo di infiltrazioni mafiose. Tra questi, l’avvocato calabrese Amerigo Minnicelli, che già nel 2012 segnalava che molti tra gli indagati e gli arrestati in Calabria per mafia e corruzione erano appartenenti al Goi. Per tutta risposta, è stato accusato di fomentare una campagna denigratoria contro la massoneria ed è stato espulso dal Grande Oriente. Un anno dopo, lo stesso Raffi ha dovuto evidentemente prendere atto che il problema era reale, tanto che ha provveduto a sospendere la Loggia Verduci, nella Locride, proprio per infiltrazioni mafiose. Oggi Minnicelli solleva di nuovo il problema. Delle tre regioni ad alta presenza massonica – Piemonte, Toscana e Calabria – quest’ultima ha ben 2 mila iscritti, di cui circa 1.500 Maestri votanti. Minnicelli calcola che si può risultare eletti con 4-5 mila voti validi. I massoni calabresi sono dunque determinanti: lo furono alle ultime elezioni, quando Raffi vinse grazie ai mille voti ricevuti in Calabria, che gli permisero di superare per una manciata di voti (meno di 400) il suo sfidante Natale Di Luca. Ma per sapere quale sarà il futuro della massoneria italiana dovremo aspettare l’equinozio di primavera.

Il grande boom dei Fratelli. Così cambia la Massoneria. I liberi muratori eleggono il nuovo Gran Maestro. Che guida 802 logge e 22 mila iscritti. “L’Espresso” è entrato nella Nuova Casa. Tra misteri, potenti sotto inchiesta, giovani adepti, sedi sfarzose che non pagano l’Imu. E le denunce per una casta interna, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Sabato 1 marzo 2014, un po’ prima delle dieci di mattina, gli spettri che si aggirano per l’Italia, per l’Europa, per il pianeta, si materializzano davanti all’ex cinema Belsito, alle pendici di Monte Mario, Roma. Al riparo da una pioggerella gelida, i devoti del Gadu (grande architetto dell’universo) si scambiano il tfa (triplice fraterno abbraccio) in attesa che il Gm (gran maestro) uscente del Goi (Grande Oriente d’Italia) Gustavo Raffi inauguri la nuova Casa Massonica “Ernesto Nathan”. La libera muratoria abusa degli acronimi quanto i redattori di lettere commerciali. E, in effetti, nella piccola folla che attende l’inaugurazione del centro Nathan tira una certa aria da ragionieri in gita. Età media elevata. Poche donne, per lo più mogli, madri e figlie perché il Goi rimane un’obbedienza riservata ai maschi. I rari giovani si accollano con fierezza i labari delle RRLL (rispettabili logge) e li dispiegano all’interno della struttura che un tempo ospitava le adunanze craxiane mentre, da questa settimana, accoglierà le riunioni delle logge romane nei sette templi nuovi di zecca realizzati al piano sotterraneo del Belsito. Nonostante le luci sfavillanti e le pareti imbiancate di fresco, il mitico complotto della massoneria universale ha un’aria dimessa. Il cronista in caccia di vip deve limitarsi all’ex deputato radicale Massimo Teodori, al giornalista Rai Gabriele La Porta e a Valerio Zanone, già segretario del Partito liberale durante la Prima repubblica. L’apparenza può ingannare. Iniziati e profani attenti al fenomeno concordano: la massoneria non è mai stata tanto in salute. Troppo in salute, a volte. Dal gran commis di Stato al giornalista, dal politico al militare in carriera, dal giudice al criminale organizzato, non c’è emergente che non sia sospettato di impugnare la cazzuola misterica in una delle 187 obbedienze, come si chiamano le associazioni massoniche, sparpagliate per la nazione e spesso in guerra fra loro al punto che la storia dell’Italia unita è in gran parte un seguito di faide tra fratelli: Agostino Depretis contro Francesco Crispi, Enrico Cuccia contro Michele Sindona e il piduista accidentale Silvio Berlusconi contro il tecnocrate Mario Monti, presunto braccio armato delle logge internazionali. Ma dato che la libera muratoria teorizza la copertura a scopo protettivo delle figure apicali, dalla matinée romana di inizio marzo non c’è da aspettarsi grandi nomi o outing di alcun genere. Anche gli organi istituzionali invitati all’ex cinema Belsito, dal sindaco di Roma Ignazio Marino fino al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che alcuni indicano addirittura come presunto ufficiale di collegamento tra i fratelli americani e i grembiuli europei, si sono limitati a spedire un messaggio di auguri. Il Gran Maestro Raffi li giustifica. «Abbiamo deciso questa cerimonia di apertura in tempi brevissimi. D’altra parte, ci tenevo molto a farla io», ammette l’avvocato ravennate con trascorsi nel partito repubblicano. I nemici lo avevano soprannominato Raffinger, molto incautamente. Benedetto XVI si è dimesso ben prima del papa massonico che ha fatto e disfatto statuti pur di prolungare a livelli di record la sua permanenza al vertice. Dopo quindici anni alla guida del Goi, Raffi non si è potuto ricandidare alle elezioni del 2 marzo. L’inaugurazione della Casa massonica intitolata a Nathan, storico sindaco della capitale e Gm del Goi fino all’avvento del massonofobo Benito Mussolini, non è però l’ultimo atto della carriera di Raffi e il suo futuro da Gv (grande vecchio) è assicurato. Sotto la sua gran maestranza i profani hanno “bussato” in massa alle porte del Goi che è salito da 9 mila a oltre 22 mila iscritti alle 802 logge nazionali. Molti hanno storto il naso verso la svolta modernista e movimentista del Goi. La Gran Loggia, assise annuale che si tiene a Rimini in aprile, è diventata un happening esoterico-spettacolare a metà tra Sanremo (con tanto di concerto di Ornella Vanoni) e il Meeting di Comunione e liberazione. «La sola struttura centrale», critica il notaio messinese Silverio Magno, uno dei tre candidati alle elezioni del 2 marzo, «costa 6 milioni di euro all’anno». Una fetta non sottile dei ricavi va in tasca al Gm: almeno 400 mila euro tra emolumento, note spese e fringe benefits. A differenza della gestione precedente, quando il cagliaritano Armandino Corona pensava più che altro a salvare il Goi dai contraccolpi dello scandalo P2, con Raffi i fratelli sono stati obbligati a una frequentazione regolare della loggia e al pagamento puntuale della quota annua di base (400 euro), pena l’esclusione dai piedilista dell’associazione. Di soli contributi ordinari, il Goi incassa circa 10 milioni di euro l’anno, escluse le capitazioni straordinarie e le donazioni. E se il conto economico è florido, lo stato patrimoniale non è da meno. Le principali casseforti societarie (Urbs e Augusta 2002) hanno decine di immobili registrati a bilancio per una ventina di milioni di euro. Ma il valore reale è almeno quadruplo. E nonostante le esternazioni di Raffi contro la Chiesa che non paga l’Imu, anche il Goi approfitta dell’esenzione ogni volta che un Comune lo consente. Quando non lo consente, si va in causa. È successo con Villa del Vascello, la magnifica residenza del Grande Oriente alle pendici del Gianicolo per la quale il Campidoglio non ha riconosciuto il vincolo. L’inquilino di Villa del Vascello per i prossimi cinque anni, il giornalista senese Stefano Bisi, ha confermato il pronostico vincendo al primo turno con oltre il 40 percento ed evitando quindi il ballottaggio. Sabato 8 marzo il suo incarico sarà convalidato dalla commissione elettorale salvo contestazioni. Formalmente Raffi non ha sostenuto né Bisi né gli altri due candidati (Magno e il livornese Massimo Bianchi) ma Bisi stesso dichiara di volere reggere la maggiore obbedienza massonica in continuità con la linea del gran maestro uscente. «Raffi ha mostrato la strada dell’apertura verso l’esterno», dice Bisi, 57 anni. «Quando mi sono affiliato a una loggia di via Montanini a Siena, era il 1982, un anno dopo lo scandalo P2. Si andava alle riunioni alla chetichella e i fratelli mi dicevano di stare attento a non farmi vedere quando uscivo in strada. Oggi ci si ferma fuori dal portone a chiacchierare. Soprattutto fra i giovani ci sono ancora molti massoni che non sanno di esserlo e che spero di potere iscrivere. Con la crisi dei valori e della politica, con la desertificazione delle anime, dove altro dovrebbe andare un giovane?» Si potrebbe obiettare che anche il potere massonico a Siena (170 iscritti al Goi) non è del tutto esente da una certa desertificazione. Le disavventure del Monte dei Paschi e del suo ex numero uno Giuseppe Mussari, ufficialmente profano ma certo ben collegato agli ambienti della muratoria senese e toscana, non hanno affatto indebolito la candidatura di Bisi, amico di Mussari. Anzi. Con il vicedirettore del “Corriere di Siena” si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2 mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Uno dei più critici è stato proprio il fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l’esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere, così come è anomalo in sede locale il consenso quasi unanime su un solo candidato, l’avvocato vibonese Marcello Colloca. E l’operazione “Decollo money” che ha portato in carcere nel 2011 l’imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. «E su Colloca ci metto la mano sul fuoco», aggiunge anche se il nome dell’avvocato viene citato nell’informativa che, pochi giorni fa, ha portato all’arresto del capo e del vice della Squadra Mobile di Vibo Valentia, in una pagina fra le più nere nella lotta alla ’ndrangheta. Secondo i giudici, la loggia di Colloca (“Michele Morelli”) sarebbe la stessa che ha affiliato alcuni giudici locali e Pantaleone “Luni” Mancuso, mammasantissima del crimine calabrese che ha teorizzato la confluenza della’ndrangheta nella massoneria. Lo scorso settembre un’altra sospensione è toccata alla “Rocco Verduci”, loggia del Goi all’Oriente di Gerace nella Locride, per infiltrazioni mafiose. «È vero che ho sospeso la Verduci», dice Raffi, «ma finora non è arrivato uno straccio di prova concreta sulle infiltrazioni. In ogni caso, quando sono arrivato al vertice del Goi, i malavitosi avevano quarant’anni ed erano già dentro. Sulle infiltrazioni ho sfidato anche monsignor Giovanni Bregantini, al tempo vescovo di Locri, a un confronto pubblico, fosse in loggia in parrocchia o in piazza, così da parlare anche delle magagne della Chiesa. Ma lui non me l’ha concesso». La linea di difesa ufficiale è ribadita da Aldo Alessandro Mola, “profano” e storico della libera muratoria. «L’infiltrazione mafiosa ha colpito tutte le organizzazioni associative e tutte le categorie: partiti, clero, finanza, magistratura. È ingeneroso bollare d’infamia la sola massoneria che, al contrario, è la rete di sicurezza dello Stato quando i partiti e le istituzioni scricchiolano». E le istituzioni di certo non scricchiolano soltanto in Calabria. Oltre ai pasticci di stampo massonico che hanno inguaiato il Monte dei Paschi e al processo per l’aeroporto di Siena che ha coinvolto il raffiano Enzo Viani, amministratore dell’immobiliare Urbs, la Toscana in grembiule è rimasta coinvolta dal crac della holding Bf di Roberto Bartolomei e Riccardo Fusi, costruttore molto vicino a Denis Verdini, banchiere in Firenze, ex coordinatore nazionale del Pdl e uomo che sussurra all’orecchio del premier Matteo Renzi per conto dell’opposizione forzista. In un filone dell’inchiesta sul crac Bf, sono emerse amicizie fra alcuni giudici che dovevano occuparsi delle società di Fusi, l’amministratore delegato della Fiorentina Sandro Mencucci e due professionisti, un dentista e un avvocato che sono finiti sotto inchiesta in base alla legge 17 del 1982, la poco applicata legge Anselmi sulle associazioni segrete approvata dieci mesi dopo il ritrovamento delle liste della loggia Propaganda 2 di Licio Gelli (marzo 1981). Per quanto la deputata democristiana Tina Anselmi sia tra le figure più odiate in loggia insieme agli ex pubblici ministeri Agostino Cordova e Luigi De Magistris, c’è da chiedersi se i principi delle tenebre massoniche siano un avvocato e un dentista di Prato. La stessa domanda, peraltro, circolava ai tempi di Gelli, ex dirigente della materassi Permaflex di Frosinone. Ma la domanda sulle logge coperte, se esistono e quanto sono influenti, è destinata a restare senza risposta. All’interno delle logge, governanti e oppositori sono uniti sul no quando si chiede se esistono ancora le iniziazioni “sulla spada” o “all’orecchio del Gran maestro”, riservate ai massoni di maggiore influenza, e se i pezzi da novanta preferiscano iscriversi a logge straniere, a Montecarlo, in Canton Ticino, a Malta o a Londra, per mantenere il riserbo. Ma è un no obbligato. Gli aggiornamenti della P2 - la P3, la P4 e la P5 dello sketch di Corrado Guzzanti - sono tutti in versione orale.

Massoneria, ai conservatori degli Alam non piace Facebook, scrive ancora “L’Espresso”. Antonio Binni, numero uno della Gran Loggia d’Italia degli  antichi liberi accettati muratori, è contrario al modernismo: "Io sono un massone in blazer". «Poco tempo fa un fratello giovane ha pubblicato una sua foto a una festa su Facebook. È stato richiamato per quello che noi consideriamo un comportamento disdicevole». Antonio Binni, 77 anni, avvocato civilista con studio a Bologna, numero uno della Gran Loggia d’Italia degli Alam (antichi liberi accettati muratori) dopo le elezioni dello scorso dicembre, non ha paura di essere elitario, un filo démodé. La sua obbedienza, che una volta stava a Roma in piazza del Gesù e oggi si è spostata poco distante a palazzo Vitelleschi, è la seconda sotto il profilo numerico dopo il Grande Oriente con 10 mila iscritti (500 logge) ed è sempre passata per essere più conservatrice rispetto al Goi, oltre che collegata al Grande Oriente di Francia (52 mila iscritti) mentre il Goi si richiamava ai fratelli inglesi della Gran Loggia Unita. L’elezione di Binni - suo zio era l’italianista Walter - è stata una conferma della linea di continuità con il passato contro i progetti rottamatori dell’avversario Luciano Romoli. La parola d’ordine è “pochi ma buoni” contro l’espansionismo modernista del Goi di Gustavo Raffi. «Lui si è dichiarato massone in jeans. Io sono massone in blazer e non vengo remunerato per la mia carica», dice Binni. «Non lo dico per fare polemica con lui. Abbiamo buoni rapporti con il Grande Oriente d’Italia ma la nostra linea punta di più sugli aspetti culturali, è più restrittiva. E quando un profano “bussa” da noi per ottenere l’affiliazione, non ci limitiamo a richiedere il certificato penale o i carichi pendenti, ma ci informiamo con la nostra rete locale e pretendiamo che ci sia qualcuno che presenti il candidato facendosene garante. Questo ci ha tenuti lontano dagli scandali giudiziari tipo P2 che, pur essendo una loggia coperta del Goi e non nostra, ci attirò un mese di perquisizioni». La presa di distanza dalla disinvoltura di certe affiliazioni targate Goi è evidente. Nello stesso modo pacato e filosofico Binni non risparmia la stoccata al Vaticano che, secondo quanto risulta al Gran Maestro, conta parecchi sacerdoti iscritti agli Alam, con buona pace di papa Bergoglio che ha denunciato il lobbismo dei muratori in tonaca. «Il pregiudizio religioso o laicista per noi non esiste», dice Binni. «A Milano ho appena affiliato un fratello musulmano che ha giurato sul Corano. In tutto il Nordafrica siamo ben organizzati, così pure nella zona balcanica e mi hanno appena chiesto di aprire una loggia in Ucraina». L’altro punto di forza degli Alam è l’apertura alle iscrizioni femminili che rappresentano il 45 per cento dell’obbedienza e che spesso sono le mogli e le sorelle dei massoni del Goi. Nella prossima tornata elettorale, prevista nel 2016 se non sarà portata a termine la riforma verso un unico mandato quinquennale non rinnovabile, Binni si aspetta una candidatura femminile. «L’apporto della donna è indispensabile. Sempre sotto il profilo della tradizione».

FINANZA E POTERE. IL GRUPPO BILDERBERG E LE TEORIE COMPLOTTISTICHE.

Bilderberg: il gruppo dei "poteri forti" e le teorie del complotto mondiale. Il meeting di Torino del maggio 2018 richiama la storia del gruppo di potenti nato nel 1954 tra ricostruzione e Guerra Fredda, fino all'Europa unita e alla globalizzazione, scrive Edoardo Frittoli l'8 giugno 2018 su "Panorama". Nato come gruppo neoliberista con l'intento di discutere i grandi temi dell'economia e della politica tra i più influenti think-tank del mondo occidentale, il gruppo Bilderberg si è riunito quest'anno a Torino, generando non poche polemiche e proteste sulla opportunità della sua presenza e sull'impatto della visita sulla città. Ripercorriamo le tappe principali della sua storia, dei principali membri e delle teorie cospirazioniste che si sono sviluppate negli anni di attività del gruppo. Il Bilderberg è nato ufficialmente nel 1954, nel pieno della Guerra Fredda e della ricostruzione europea finanziata dal piano Marshall. Muove i primi passi proprio negli anni cruciali della nascita delle istituzioni europee e dell'Alleanza atlantica. Il nome Bilderberg fu preso dall'hotel olandese che ospitò la prima riunione ad Oosterbeck dal 29 al 31 maggio 1954. I promotori del gruppo furono il consigliere politico di nazionalità polacca Jòzef Retinger, esiliato dal governo comunista nel dopoguerra. Assieme a lui il Principe Bernhard d'Olanda, di nascita e formazione tedesca. A rappresentare la grande industria multinazionale tra i fondatori del Bilderberg l'olandese Paul Rijikens a capo della Unilever. Tra i grandi banchieri invitati al primo meeting spicca il nome dell'americano David Rockefeller. I lavori furono organizzati dalla struttura ancor oggi in atto, un Comitato direttivo in rappresentanza di 18 nazioni coordinato da un Presidente e da un Segretario Generale onorario. I membri su invito possono variare da un minimo di 120 ad un massimo di 200 ed includono figure di primissimo piano del settore finanziario e bancario, industriale, politico e diplomatico e dei media. Le riunioni del Bilderberg si svolgono rigorosamente a porte chiuse, secondo un programma che include grandi temi di respiro internazionale decisi dal Consiglio e divulgati preventivamente. La sicurezza attorno agli ospiti è massima, in particolar modo in seguito alle crescenti proteste di piazza che si sono intensificate negli ultimi anni nei confronti della riunione segreta dei grandi potenti. Una caratteristica che ha contribuito ad alimentare decisamente la tensione attorno alla riunione annuale del Bilderberg è il fatto che i giornalisti non siano invitati e che nessuna notizia possa trapelare in merito ai contenuti del convegno. Proprio la natura pseudo-massonica degli incontri ha generato in oltre mezzo secolo di esistenza del gruppo Bilderberg una diffusa e convinta serie di teorie complottiste secondo le quali i potentissimi membri del consesso perseguirebbero l'obiettivo finale di plasmare e comandare il mondo globalizzato secondo un "nuovo ordine mondiale" disegnato da un'élite di oligarchi. Già dai primi passi del Bilderberg si sono susseguite le ipotesi che la lobby politico-economica si fosse formata allo scopo di influenzare gli equilibri globali secondo una scansione parallela allo sviluppo del mondo occidentale postbellico dominato dagli Usa e diviso dalla Guerra Fredda.

Gli anni 50 e 60: il Gruppo Bilderberg e l' "tlanticismo". Proprio il rapporto con l'Urss e i suoi satelliti aprì l'ordine dei lavori della prima sessione del maggio 1954. Tra gli organizzatori era stato incluso un personaggio di spicco, il capo della CIA Walter Bedell Smith (che fu presente all'Armistizio di Cassibile il 3 settembre 1943 oltre che consigliere militare di Eisenhower, che nel frattempo era stato eletto Presidente degli Usa). L'obiettivo principale del primo e dei seguenti meeting degli anni seguenti fu la creazione del consenso internazionale alle teorie americane del libero mercato, stimolato dagli effetti e dai finanziamenti inclusi nel piano Marshall. I critici della prima frazione della vita del gruppo lessero negli intenti la volontà di influenzare le scelte economiche dei Paesi europei e di blindare il modello capitalista. Tra gli ospiti della prima riunione figurava il Presidente della Fiat Vittorio Valletta.

Le origini naziste del fondatore. Il Principe Bernhard, nato e cresciuto in Germania, avrebbe aderito secondo gli archivi del NSDAP al partito di Hitler fin dalla prima ora almeno fino al 1934. In seguito fu organico alla IG Farben, il colosso della chimica tedesca che produsse lo Zyklon-B usato nelle camere a gas. Nel 1976 il fondatore del gruppo Bilderberg fu coinvolto nell'affare delle tangenti noto come scandalo Lockheed.

Il fondatore Jòzef Retinger spia del Vaticano e della CIA? Retinger fu attivo tra le due guerre come consigliere durante le rivolte messicane. Durante la Seconda guerra mondiale fu a capo del Governo polacco in esilio a Londra, dove venne in contatto con i Servizi inglesi e americani. Alla fine del conflitto fu paracadutato in Polonia con armi e fondi per la resistenza. Esiliato dai governi comunisti, sarà vicino all'ambiente dei Gesuiti e sospettato di essere un agente del Vaticano. I teorici del complotto collegano il fondatore del Bilderberg alla sua opera di costruzione del Consiglio d'Europa e del Movimento Europeo. Tra i contatti italiani principali oltre a Vittorio Valletta, Retinger incluse il diplomatico italiano Pietro Quaroni ed Alcide De Gasperi, che fu il primo membro italiano del gruppo.

Il Bilderberg alimenta i conflitti nel mondo? L'attività del gruppo è stata spesso correlata alla storia dei conflitti seguiti al 1945. Ad esempio l'incidente del Tonchino che scatenò la guerra in Vietnam fino al conflitto tra Europa e Serbia contro Slobodan Miloseviç fino ad arrivare alle "armi di distruzione di massa" di Saddam Hussein che fecero scoppiare la guerra in Iraq. I motivi delle pressioni del gruppo, secondo i complottisti avrebbero un duplice obiettivo: mantenere la popolazione in continua tensione e generare affari di grande valore alle lobby delle armi che farebbero parte del gruppo di potere.

Riduzione progressiva della sovranità nazionale tramite la globalizzazione. Il gruppo Bilderberg, che si riunisce prevalentemente in Europa e ogni 4 anni in Nordamerica, avrebbe seguito e plasmato direttamente le istituzioni europee che progressivamente avrebbero tolto la Sovranità agli stati membri tramite un azione di spersonalizzazione burocratica (gli accusatori indicano che l'80% delle leggi della UE siano state decise da funzionari non eletti) e tramite l'istituzione della moneta unica controllata dalla Banca Centrale Europea. L'azione di controllo sulla sovranità monetaria avrebbe un lungo passato, inaugurata negli anni del New Deal dal banchiere membro del Bilderberg David Rockefeller con l'Istituzione di un gruppo simile a quello del 1954, il Council On Foreign Relations. Il potere del presunto "nuovo ordine" avrebbe ottenuto la propria forza politico-finanziaria con il sistema del debito sovrano degli Stati dell'UE, usato come strumento coercitivo nei confronti delle economie nazionali a vantaggio del sistema sovranazionale. Gli accusatori del Bilderberg citano una situazione simile a quella europea tentata anche nel continente americano: i teorici del complotto tracciano la storia delle relazioni tra Usa, Canada e Messico, cercando di delineare le trame del disegno eversivo passando dall'idea di unificazione tra Canada e Usa, dalla quale avrebbero escluso il francofono Quèbec. Nel 1995 fu indetto nella Provincia canadese il referendum per l'indipendenza, che fu perso per un soffio dai separatisti. L'anno precedente la macchina economica dei poteri forti si era poi mossa con la firma degli accordi commerciali noti come NAFTA (North American Free Trade Agreement) che generarono la migrazione delle grandi aziende nordamericane verso il Messico causando la profonda crisi del comparto industriale americano ancora attuale. Nel 2005 i teorici del complotto avrebbero indicato nel meeting tra George W. Bush, Vicente Fox e Paul Martin la ratifica di un accordo segreto di unificazione politica e monetaria dei tre stati con adozione della moneta unica, l'"Amero".

Poveri, sottomessi e invasi. Una delle accuse ricorrenti nelle frequenti proteste in occasione delle riunioni annuali del Bilderberg sarebbe stata quella di avere favorito un flusso migratorio dai Paesi africani allo scopo di indebolire e spersonalizzare ulteriormente le identità nazionali d'Europa, oltre a quello di garantire un serbatoio di futuri consumatori in contrasto con una popolazione del vecchio continente in netto declino. Molte di queste tesi sono state fatte proprie dai movimenti politici anti-europeisti e nazionalisti emersi nell'ultimo decennio. Le condizioni di disagio socio-economico creerebbero le condizioni per realizzare il progetto di un nuovo "ordine mondiale".

I membri del Bilderberg sono figli dei "rettiliani"? La tesi più curiosa dei complottisti si colloca nella più pura tradizione della letteratura fantastica del XX secolo: ben costruita e divulgata, l'idea della natura rettile del gruppo del Bilderberg si è divulgata dalle idee di David Icke, un cronista sportivo secondo il quale dietro alle figure dei potenti del gruppo si nasconderebbe una razza di gigantesche lucertole mutanti decise a conquistare il potere mondiale. Tra gli invitati italiani alle riunioni del Bilderberg vi sono stati: Alberto Pirelli, Alcide de Gasperi, Ugo La Malfa, Guido Carli, Alberto Ronchey, Ugo Stille, Francesco Cossiga, Vittorio Valletta, Romano Prodi, Mario Draghi, Umberto Agnelli, Mario Monti, Tommaso Padoa-Schioppa e molti altri influenti politici, banchieri, imprenditori e diplomatici.

La Trilaterale ed il Bilderberg condannano Berlusconi scrive Giancarlo Marcotti. Ore 19:45 di giovedì 1 agosto 2013, va in onda l'ultima scena di una farsa colossale, la sentenza della Corte di Cassazione nei confronti del cosiddetto processo Mediaset che vedeva fra gli imputati anche Silvio Berlusconi. La “Cupola” che vuole governare il mondo, la Commissione Trilaterale ed il Gruppo Bilderberg, tanto per capirci, cioè quell'insieme di faccendieri e uomini del malaffare che stanno soffocando il mondo occidentale portandolo alla rovina, crede così di aver raggiunto lo scopo che si era prefisso già da diversi anni, cioè distruggere politicamente e umanamente Silvio Berlusconi. Viene anche rispettato il copione seguito da tutte le organizzazioni più spietate, e cioè che il nemico non va tanto eliminato “fisicamente” (potrebbe resistere “il mito”), ma ne va distrutta la figura, la moralità e l'integrità. L'arma impiegata per l'esecuzione è la Magistratura, che, in questi casi, a mo' di rafforzativo, viene ribattezzata “Giustizia”. Quale sia la colpa di Berlusconi, per la quale è stata emessa questa sentenza capitale da parte della Commissione Trilaterale, è evidente a tutti. Berlusconi non è mai piaciuto all'establishment che Governa il mondo, è un imprenditore non un politico, ed anche una volta diventato Presidente del Consiglio continua a comportarsi da imprenditore, cioè cerca di fare gli interessi economici dell'Italia senza dare peso agli equilibri geopolitici, quindi si attira immediatamente le antipatie delle burocrazie del Vecchio Continente e, inevitabilmente si scontra con l'oligarchia finanziaria anglosassone. Egli stringe amicizie, ovviamente nell'interesse dell'Italia, con leader mondiali invisi alla Trilaterale (due nomi su tutti: Putin e Gheddafi) per garantirsi, ai migliori prezzi di mercato, le indispensabili risorse energetiche delle quali, uno Stato manifatturiero come il nostro, ha assoluta necessità. Per certi versi, quindi la persona alla quale potremmo paragonarlo è certamente Enrico Mattei. Anche se Mattei non ebbe mai incarichi politici senza dubbio era colui che “guidava” la politica economica nazionale e lo fece nel solo interesse del nostro Paese, sappiamo tutti, poi, la fine che gli fecero fare le multinazionali del petrolio americane. Come dicevo, oggi, non si usa più far precipitare un aereo facendolo passare per un guasto, Berlusconi, in un caso del genere, sarebbe diventato un “martire”, si preferisce invece, proprio come fanno le mafie, distruggere il nemico dal punto di vista morale, occorre infangarlo ed attribuirgli tutti i peggiori crimini.

Un comportamento ancora più umiliante rispetto all'eliminazione fisica. D'altronde questo “metodo” era già stato utilizzato con successo nei confronti di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, forse gli ultimi veri leaders politici che abbia avuto l'Italia. A Craxi ed Andreotti non fu perdonata la vicenda di Sigonella, l'unico caso, nel dopoguerra, in cui Carabinieri italiani e forze speciali dell'esercito americano (i Navy Seal) furono ad un passo da uno scontro a fuoco. L'unico caso in cui uomini politici italiani ebbero il coraggio di rifiutarsi di obbedire agli ordini del Presidente degli Stati Uniti rispondendogli che: “Sul suolo italiano, comandano gli italiani”. Quel gran rifiuto nei confronti dell'allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan costò loro praticamente la vita perché fu scatenata la Magistratura che in due procedimenti diversi li accusò delle più infamanti nefandezze. Oggi tocca a Berlusconi, la storia si ripete, all'uomo di Arcore è stato intimato più volte di lasciare la politica, avrebbe avuto una vita di lussi continuando a fare l'imprenditore, ma sappiamo che nel vocabolario del Cavaliere non esiste la parola “sconfitta” e lui ha opposto un rifiuto. Volete una prova di questa mia tesi? Semplice! Qual è l'emblema per eccellenza della finanza mondiale? Cosa legge prima di ogni altra cosa un uomo d'affari in qualunque luogo al mondo si trovi? Sì certo, nessun dubbio … Il Financial Times Ed il Financial Times come titola dopo la conferma della sentenza da parte della Cassazione? Così ... “Cala il sipario sul buffone di Roma” Un linguaggio che non si può trovare neppure in un tazebao di un Centro Sociale. Un titolo del genere è più che una firma, e non lascia dubbi su chi siano i mandanti. Ed ora come andrà a finire? Nessuno lo può ancora sapere, nemmeno la Trilaterale che pensava già di aver “ucciso” politicamente Silvio Berlusconi quando nel novembre del 2011 organizzò il colpo di Stato in Italia che portò al governo Mario Monti. Che si sia trattato di un colpo di Stato, penso che non ci siano dubbi. Se in un giorno viene deposta la persona democraticamente eletta alla carica di Presidente del Consiglio e sostituita con un'altra che non ha nessuna legittimazione popolare, beh, come possiamo chiamarlo se non golpe? Come non c'è alcun dubbio su chi abbia ordito il golpe visto che in quel momento Mario Monti è il Presidente per l'Europa della Commissione Trilaterale, mandato che lascia a Jean Claude Trichet assumendo la carica di Premier in Italia. Nelle elezioni dello scorso febbraio, però, Berlusconi, dato da tutti per spacciato, compiva il miracolo, risultando il vero vincitore morale della tornata elettorale e ribaltando un pronostico che non gli dava chance, quindi anche oggi seppur formalmente fuori dai giochi, non si può dire che il Cavaliere abbia chiuso la sua avventura politica. Certo che se dovesse rinascere anche questa volta come un'Araba Fenice si dovrebbe davvero gridare al miracolo, ma, come si dice, quando c'è di mezzo Silvio Berlusconi … mai dire mai.

IL GRUPPO BILDERBERG.

Il Gruppo Bilderberg (detto anche conferenza Bilderberg o club Bilderberg), spiega Wikipedia,  è un incontro annuale per inviti, non ufficiale, di circa 130 partecipanti, la maggior parte dei quali sono personalità influenti in campo economico, politico e bancario. I partecipanti trattano una grande varietà di temi globali, economici, militari e politici.

Il gruppo si riunisce annualmente in hotel o resort di lusso in varie parti del mondo, normalmente in Europa, e una volta ogni quattro anni negli Stati Uniti o in Canada. Ha un ufficio a Leida nei Paesi Bassi. I nomi dei partecipanti sono resi pubblici attraverso la stampa ma la conferenza è chiusa al pubblico e ai media. Dato che le discussioni durante questa conferenza non sono mai registrate o riportate all'esterno, questi incontri sono stati oggetto di critiche e di varie teorie del complotto, come ad esempio quella sostenuta da Daniel Estulin nel libro Il Club Bilderberg. Gli organizzatori della conferenza, tuttavia, spiegano questa loro scelta con l'esigenza di garantire ai partecipanti maggior libertà di esprimere la propria opinione senza la preoccupazione che le loro parole possano essere travisate dai media.

Storia del gruppo Bilderberg

La prima conferenza si tenne il 29 maggio 1954 presso l'hotel de Bilderberg a Oosterbeek, vicino Arnhem, in Olanda. L'iniziativa di tale prima conferenza fu presa da molte persone, incluso il politico polacco Józef Retinger, preoccupato dalla crescita dell'antiamericanismo nell'Europa occidentale e col fine di favorire la cooperazione tra Europa e Stati Uniti in campo politico ed economico, anche in ottica di difesa. Per quella prima conferenza furono contattati il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld, il primo ministro belga Paul Van Zeeland e l'allora capo della Unilever, l'olandese Paul Rijkens. Il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld a sua volta coinvolse Walter Bedell Smith, capo della CIA. La lista degli ospiti fu redatta invitando due partecipanti per ogni nazione, uno per la parte liberale e l'altro per l'opposta parte conservatrice. Cinquanta delegati da undici paesi europei insieme a undici delegati statunitensi parteciparono a quella prima conferenza. Il successo di questo primo incontro spinse gli organizzatori a pianificare delle conferenze annuali. Fu istituita una commissione permanente con Retinger nel ruolo di segretario permanente. Alla morte di Retinger divenne segretario l'economista tedesco Ernst van der Beugel nel 1960 e in seguito la posizione fu rivestita da Joseph E. Johnson, William Bundy e altri. Molti partecipanti al gruppo Bilderberg sono capi di Stato, ministri del tesoro e altri politici dell'Unione Europea ma prevalentemente i membri sono esponenti di spicco dell'alta finanza europea e anglo-americana.

Struttura organizzativa

La conferenza è organizzata da una commissione permanente (Steering Committee) della quale fanno parte due membri di circa 18 nazioni differenti. Oltre al presidente della commissione è prevista la figura di segretario generale onorario. Non esiste la figura di membro del gruppo Bilderberg ma solo quella di membro della commissione permanente ("member of the Steering Committee"). Esiste anche un gruppo distinto di supervisori.

Aliberti Editore ha pubblicato Club Bilderberg, gli uomini che comandano il mondo di Domenico Moro. In questo estratto Moro ricostruisce la storia del Bilderberg, e la composizione dei suoi organismi dirigenti. Precursore e per certi versi padre del Bilderberg è il Council on Foreign Relations. Il Cfr fu fondato nel 1921 da prominenti personalità statunitensi allo scopo di completare l’uscita dal tradizionale isolazionismo degli Usa, iniziata con l’intervento militare nel conflitto che si combatteva in Europa. L’obiettivo era far assumere agli Usa una maggiore responsabilità e il ruolo di decision maker nei nuovi assetti mondiali post bellici. Cosa che, però, si realizzò solo dopo la seconda guerra mondiale con la liquidazione di Germania e Giappone. Anche se con molte somiglianze con il Bilderberg il Council on Foreign Relations se ne distingueva per l’essere almeno inizialmente ristretto ai soli cittadini statunitensi e perché non rifletteva ancora il ruolo guida che gli Usa avrebbero assunto. Tuttavia, il Cfr svolse un ruolo attivo di consulente del governo Usa durante la guerra, confermando la tesi di Wright Mills sulla formazione dell’élite del potere nel corso del conflitto e, secondo alcuni, influenzò direttamente le politiche di ricostruzione post-belliche, tra le quali la formazione delle istituzioni previste negli Accordi di Bretton Woods (Banca mondiale, Fmi). Il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale presenta, rispetto al primo dopoguerra, uno scenario internazionale mutato e contrassegnato da due fenomeni. Il primo è la ricostruzione di un mercato mondiale capitalistico sotto l’egemonia Usa, e basato sulla ricostruzione, sul modello statunitense, delle economie giapponese e soprattutto europea occidentale. Il secondo è la sfida rappresentata dal rafforzamento dell’Urss e dei partiti socialisti e comunisti non solo nel Terzo mondo ma anche in molti Paesi avanzati. Ciò evidentemente poneva questioni importanti di mantenimento della stabilità politica ed economica. Davanti alle élites si presentavano, quindi, problemi nuovi e più globali, che rendevano necessaria la formazione di sedi di confronto e di elaborazione di strategie adeguate. In particolare, sedi transnazionali, che riunissero le élites atlantiche, ovvero quelle di Usa ed Europa occidentale. Le élites venivano così a costituire un livello informale e parallelo a quello ufficiale degli Stati. Questi, infatti, sul piano economico avevano costituito l’Fmi e la Banca mondiale e sul piano politico-militare la Nato, che, per l’appunto nacque come alleanza atlantica, tra Usa e Europa occidentale, in funzione di contrasto all’Urss. Il gruppo Bilderberg nacque il 29 maggio 1954 e prese il nome dall’albergo in Olanda in cui si riunì per la prima volta. Tra i principali ispiratori e primo segretario ci fu Joseph Retinger, di origine polacca e fondatore anche del Movimento Europeo, organizzazione ispiratrice del processo di unificazione europea. Lo scopo dichiarato della costituzione del Bilderberg era incentivare il dialogo tra i leading citizens di Usa ed Europa Occidentale per «creare una migliore comprensione delle forze complesse e delle principali tendenze che influenzavano le nazioni occidentali nel periodo postbellico». Ma, tiene a precisare il Gruppo, la fine della Guerra fredda non ha diminuito bensì ha aumentato l’importanza di queste riunioni. Secondo il Bilderberg, ciò che rende unici gli incontri sono tre caratteristiche. L’ampia presenza di leading citizens, provenienti da vari settori della società, in incontri che hanno una durata di tre giorni e impegnano i convenuti in discussioni informali e off-the records su tematiche di importanza attuale, specialmente di politica estera ed economia internazionale. Il forte feeling tra i partecipanti, che permette di superare la varietà di orientamento e impostazione derivata dalla provenienza da nazioni diverse. La privacy degli incontri, che non ha altro scopo se non quello di permettere ai partecipanti di esprimersi apertamente e liberamente. Il Bilderberg si presenta come «un forum internazionale, piccolo, informale e non ufficiale nel quale possono essere espressi punti di vista diversi e la reciproca comprensione sviluppata. L’unica attività del Bilderberg sono le conferenze. Durante gli incontri non vengono fatte votazioni, né prese risoluzioni, e neanche fatte dichiarazioni politiche». Dal 1954 si sono tenuti cinquantanove incontri, uno all’anno, i cui partecipanti e l’agenda vengono resi pubblici alla stampa, a differenza dei contenuti dei dibattiti. I partecipanti ai dibattiti variano ogni volta e vengono scelti dal presidente dopo consultazioni con lo Steering Committee sulla base delle loro conoscenze ed esperienze a riguardo delle tematiche che verranno affrontate. La composizione dei partecipanti, che solitamente sono circa 120, è la seguente: sul piano della provenienza geografica per i due terzi vengono dall’Europa Occidentale ed il rimanente dagli Stati Uniti. Sul piano dei settori sociali, essi provengono per un terzo dalla politica e dalla istituzioni, e per due terzi dalla finanza, dall’industria e dalle comunicazioni. Ad ogni modo, i convenuti partecipano a livello personale e non ufficiale. Gli organismi di autogoverno del Bilderberg sono il presidente e lo Steering Committee, il comitato direttivo. Il presidente è eletto dallo Steering Committee, mentre quest’ultimo è eletto non si capisce bene da chi per quattro anni ed i suoi membri possono essere rieletti. Esiste, inoltre, la figura del Segretario esecutivo che riporta al presidente. Compiti del presidente sono presiedere il direttivo, decidere con esso le tematiche da discutere e, come detto, selezionare i partecipanti alle conferenze annuali. Le spese del mantenimento del segretariato sono a carico del direttivo, mentre quelle dei meeting annuali sono a carico dei membri del direttivo del Paese ospitante. Vediamo ora da dove vengono, quanti e chi sono i membri del direttivo. I Paesi cui appartengono sono 18 e sono collocati esclusivamente in Nord America (con l’esclusione del Messico) e in Europa Occidentale, con la sola eccezione della Turchia. Tali Paesi fanno quasi tutti parte, spesso sin dall’inizio, della Nato, tranne la Svizzera, la Finlandia, l’Austria, la Svezia e l’Irlanda. I membri del gruppo dirigente sono 35, di cui 33 dello Steering Committee, cui si aggiungono il presidente, il francese Henri de Castries, ed il membro anziano dell’Advisory Group, lo statunitense David Rockefeller. L’egemonia statunitense è chiara, come del resto lo è anche nella Nato, anche se il presidente è europeo. Numericamente prevalgono le personalità anglosassoni, in tutto 16 (45,7 per cento). In particolare gli statunitensi sono 11 (31,4 per cento), ai quali si aggiungono 3 britannici e 2 canadesi. Gli altri Paesi, con l’eccezione della Francia con 3 membri (che ha il presidente Jean Claude Trichet classificato come “internazionale”) e della Germania con 2, hanno tutti un solo membro nel direttivo. Molti Paesi sono sottorappresentati, a partire dalla Germania che pure è la seconda nazione presente nel comitato direttivo per economia e popolazione e dall’Italia, che ha un solo membro, Franco Bernabè, presidente di Telecom Italia, come la Norvegia, il Portogallo e la Grecia. La composizione è piuttosto varia e copre quasi tutti i settori, anche se prevale la finanza. Nello Steering Committee ci sono membri che hanno incarichi direttivi in 13 grandi imprese finanziarie. Di queste 2 sono grandi gruppi assicurativi, 4 fondi d’investimento (attivi in hedge fund e private equity), e 7 grandi banche. Dopo la finanza c’è l’industria con 11 imprese. Vi sono rappresentati quasi tutti i settori più importanti, il metalmeccanico (2), i mass media (2), il siderurgico (2), il chimico e farmaceutico (2), il petrolifero (1), l’informatico (1), e le telecomunicazioni (1). Inoltre, sono presenti esponenti di 4 think-tank, 3 esponenti del mondo politico (un ministre d’État belga, un membro della Camera dei Lord e il Lord cancelliere e segretario alla giustizia britannico), 2 di quello accademico e infine un esponente del mondo della distribuzione e uno di uno studio legale internazionale. Gli Usa prevalgono nella finanza, mentre gli europei nell’industria. Sono statunitensi 2 banchieri e 4 dirigenti di fondi d’investimento, ovvero la totalità del sottosettore, 3 rappresentanti dei think-tank, il che suggerisce una egemonia ideologica, un accademico e soltanto 2 esponenti di imprese industriali. La Gran Bretagna ha 2 politici e un banchiere. Il resto dell’Europa occidentale ha 8 dirigenti di imprese industriali su 11 totali, 3 banchieri e un dirigente di un fondo d’investimento, 2 di assicurazioni, il presidente di un think-tank, un accademico, un legale internazionale e un politico. In effetti, la nazionalità dei membri del direttivo non coincide sempre con quella delle imprese cui fanno riferimento, dato che si tratta spesso di imprese transnazionali. Ad esempio, l’irlandese Peter D. Sutherland è dirigente di Goldman Sachs che in effetti è una banca statunitense. Non tutte tra le imprese presenti sono gruppi transnazionali al vertice della classifica delle imprese mondiali come Royal Dutch Shell e Microsoft – quinta e decima al mondo per profitti nel 2010 – o ai primi posti nel ranking dei loro settori, come Alcoa, EADS, Novartis, e Telecom Italia tra le industriali, Goldman Sachs, Barclays, Axa, Zurich Insurance tra le finanziarie. Le altre sono grandi imprese ma non hanno una dimensione particolarmente grande a livello mondiale, anche se spesso si tratta di aziende prestigiose e con contatti ramificati come la banca Lazard. In effetti, l’appartenenza allo Steering Committee del Bilderberg non dipende strettamente dalla grandezza o importanza dei gruppi che si dirigono, ma – come vedremo – dalla internità al network dell’élite degli affari mondiale. È, insomma, una appartenenza in gran parte personale, anche se ovviamente l’essere inseriti in certe imprese aiuta. Vale forse la pena soffermarsi sulle biografie di qualcuno dei membri del gruppo dirigente. Henri Conte de Castries, presidente del Bilderberg dal 2010, proviene da una antica famiglia della nobiltà francese, cui appartiene anche Christian de Castries comandante a Dien Bien Phu, ed è un esempio dell’intreccio tra aristocrazia e mondo degli affari. Nella storia del Bilderberg un esempio importante ne è anche il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld, marito della regina Giuliana d’Olanda e tra i fondatori del Bilderberg di cui fu primo presidente dal 1954 al 1976, allorché dovette dimettersi per il suo coinvolgimento nello scandalo delle tangenti Lockheed. Il principe occupò anche posizioni di responsabilità in due corporation che ricorrono spesso nel Bilderberg e nella Trilaterale, la Shell e SGB. Henri de Castries è rappresentativo dell’esistenza del meccanismo delle revolving doors anche in Francia. Fu alto funzionario del ministero del Tesoro francese sotto il governo Chirac, durante il quale (1986) partecipò alla privatizzazione di varie aziende tra cui Compagnie Générale d’Electricité, ora chiamata Alcatel-Lucent. Nel 1989 entrò in Axa, la seconda compagnia assicuratrice mondiale per asset (2011), di cui è diventato presidente nel 2000. Caratteristiche simili ha anche il belga Étienne visconte Davignon, nominato dal re del Belgio ministre d’État, che è stato prima Commissario europeo agli affari industriali e poi dirigente di importanti gruppi industriali belgi, come Société Générale e Gdf Suez. Altra figura interessante è il già citato David Rockefeller, una specie di trait d’union in carne ed ossa di varie organizzazioni dell’elite statunitense e mondiale. È, infatti, uno dei fondatori del Bilderberg e della Trilaterale ed è stato presidente tra 1970 e 1985 del Council on Foreign Relations. Il nonno, John Davison Rockefeller, fu uno dei protagonisti dell’espansione economica statunitense di fine Ottocento, attraverso la fondazione della Standard Oil, grazie alla quale acquisì il monopolio della produzione e raffinazione di petrolio e divenne l’uomo più ricco del mondo. Il padre di David, John Davison Rockefeller Junior, fu punto di riferimento dell’alta finanza negli anni Venti-Trenta e rimase coinvolto in scandali per la corruzione di membri del Congresso e nel massacro di Ludlow, durante lo sciopero dei minatori nel 1914. David Rockefeller, oggi patriarca della famiglia, oltre ad essere stato presidente della JP Morgan Chase, ottava banca mondiale per asset totali nel 2012, di cui è ancora il principale azionista, ha ricoperto importanti ruoli in multinazionali di primaria importanza, come Exxon Mobil e General Electric. Recentemente David Rockefeller ha siglato una alleanza strategica con Lord Jacob Rothschild, patriarca dell’altra storica dinastia della finanza internazionale. Un altro personaggio la cui presenza nel comitato direttivo di Bilderberg è alquanto significativa è Richard Perle, uno degli ideologi principali della corrente neoconservatrice, che ha influenzato la politica estera Usa dell’ultimo decennio. Perle fu assistente del ministro della Difesa sotto la presidenza Reagan e successivamente con Bush II è stato membro e poi presidente del Defence Policy Board. Perle è nel Bilderberg come Resident Fellow dell’American Enterprise Institute, ma è anche membro di un altro think-tank neoconservatore, il Project for the New American Century, formatosi nel 1997 con lo scopo di promuovere la leadership globale americana. Nel gennaio 1998 Perle firmò, insieme ad altri membri di questo gruppo di pressione, tra cui Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, una lettera diretta al presidente Clinton in cui si chiedeva di rimuovere con la forza Saddam Hussein. L’obiettivo del gruppo era, come si evince da un altro documento «mantenere nell’area del Golfo una consistente forza militare americana», dato che il Golfo è «una regione di vitale importanza», a causa della concentrazione di riserve petrolifere che vi si trova. Perle, insieme a Rumsfeld e Wolfowitz che diventeranno rispettivamente ministro e vice ministro alla Difesa con Bush II, sarà parte del gruppo dirigente statunitense che inizierà, sull’onda emotiva dell’attacco alle torri gemelle, l’invasione dell’Iraq e la cosiddetta “guerra al terrore”, che dura ancora oggi. Molto interessante è anche osservare la composizione del Gruppo Bilderberg nel passato. Cominciamo dai presidenti, che, compreso l’attuale, sono stati sette e sempre europei occidentali, con una prevalenza britannica con tre presidenti, ai quali si aggiungono un olandese, un belga, un tedesco e attualmente un francese. Si tratta di personaggi di primissimo piano nella politica europea. Come abbiamo detto il primo presidente del comitato direttivo fu il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld della Casa reale olandese. Il secondo, tra 1975 e 1977, fu Walter Scheel, già vice primo ministro e ministro degli esteri tedesco dal 1969 al 1974 e Presidente della Repubblica Federale di Germania dal 1974 al 1979. Gli succedette tra 1977 e 1980 il duca Alexander Douglas-Home, primo ministro britannico dal 1963 al 1964 e ministro degli esteri nel 1970. Fu poi la volta di Eric Roll barone di Roll of Ipsden dal 1986 al 1989, che tra 1968 e 1977 è stato uno dei direttori della Banca d’Inghilterra, e del barone Peter Carington, che fu segretario di Stato britannico per gli affari esteri e del Commonwealth e segretario generale della Nato dal 1984 al 1988. Infine, Etienne Davignon, di cui abbiamo già parlato, fu presidente tra 1998 e 2011, allorché fu sostituito da Henri de Castries tutt’ora in carica. Vi sono inoltre 135 personaggi che hanno fatto parte dello Steering Committee nel passato e ora non ne fanno più parte. Tra questi citiamo solo alcuni nomi prestigiosi, come Henri Kissinger, forse il maggiore tra i segretari di Stato Usa dopo la seconda guerra mondiale e sempre presente come invitato anche agli ultimi incontri, Edmond de Rothschild della omonima dinastia finanziaria, l’olandese Wim Duisenberg, primo presidente della Bce, e il già citato Paul Wolfowitz. La presenza anglosassone è sempre preponderante, ma in modo meno forte di quanto non sia nel direttivo attuale, con il 44,4 per cento dei membri, di cui 39 sono statunitensi (29,1 per cento), 15 britannici (11,1 per cento) e 5 canadesi (3,7 per cento). Il terzo Paese in assoluto e primo Paese europeo, con l’esclusione della Gran Bretagna, è questa volta sorprendentemente l’Italia che è stata presente nei vari direttivi con 11 personalità (8,1 per cento), seguita dalla Germania con 8 (5,9 per cento), e da Francia e Danimarca con 7 (5,2 per cento). La forte presenza numerica italiana e le personalità di spicco assoluto dei membri italiani dello Steering Committee sta a dimostrare il consistente impegno italiano nella storia dell’organizzazione. La composizione del gruppo italiano vede la prevalenza di personalità provenienti dalla burocrazia economica e politica internazionale e europea e dal mondo della grande industria. In particolare alcuni hanno svolto un ruolo importante nella costruzione del mercato europeo e della valuta unica. Quasi sempre si registra un intreccio tra i due ambiti, della grande industria e della burocrazia internazionale. Inoltre, si nota anche un intreccio con la politica nazionale, visto che 4 membri hanno ricoperto incarichi in almeno un governo italiano, due sono stati presidenti del Consiglio, due ministri e uno sottosegretario. È importante notare che ben 7 su undici degli italiani che hanno fatto parte dello Steering Committee nella storia del Bilderberg sono stati legati, seppure in modalità diverse, al gruppo Fiat. Senza contare che anche l’attuale e unico membro italiano dello Steering, Franco Bernabè, è passato per la Fiat, in gioventù come Chief Economist nell’ufficio pianificazione e successivamente come membro del Cda. Ad ogni modo, dei 7 «uomini Fiat», Gianni e Umberto Agnelli appartengono alla famiglia fondatrice che ancora controlla il gruppo. La presenza degli Agnelli e della Fiat in organizzazioni a forte presenza Usa come il Bilderberg e la Trilaterale non deve stupire. Essi hanno stabilito fin dall’origine con gli Usa un forte legame, che con la recente acquisizione della Chrysler si è consolidato anche sul piano industriale. Il capostipite della famiglia, Giovanni Agnelli, era amico di un altro magnate statunitense dell’auto, Henry Ford. Il nipote Gianni, l’“avvocato”, il cui bisnonno materno, George W. Campbell, fu ministro del Tesoro Usa, era in gioventù membro del jet-set internazionale, divenendo amico di personalità influenti come John Fitzgerald Kennedy, presidente Usa. Dal 1966 alla morte, avvenuta nel 2003, Gianni occupò la carica di presidente della Fiat. Il fratello Umberto, già presidente dell’Ifil, la «cassaforte» di famiglia, gli successe nel 2004 come presidente del Gruppo Fiat. L’importanza di Gianni Agnelli nel Bilderberg è testimoniata dalle parole di un abituale frequentatore degli incontri del gruppo: «Nelle occasioni in cui fui presente, Agnelli era in qualche modo, così mi sembrò, la figura chiave; la figura cui gli altri facevano riferimento e si rimettevano». Uomo Fiat fu anche Vittorio Valletta, che aderì alla massoneria negli anni Venti e che diventò amministratore delegato della Fiat nel 1939. Epurato nel 1944 dal Comitato nazionale di liberazione (Cnl) per collaborazionismo con l’occupante tedesco, fu reintegrato nel suo ruolo nel 1946 divenendo anche presidente della Fiat fino al 1966. Dal mondo della burocrazia economica e politica europea ed internazionale provengono 6 personaggi, di cui 4 hanno fatto parte del mondo Fiat. Il marchese Gian Gaspare Cittadini-Cesi fu ambasciatore e segretario generale di quella che sarebbe diventata l’Organization for Economic Cooperation and Development (Ocse) e amministratore delegato di Fiat Francia. Straordinaria è la figura di Renato Ruggero, che ha attraversato tutti gli ambiti, accumulando incarichi di vertice ai livelli politico-burocratico nazionali e soprattutto internazionali. Fu capo gabinetto e poi portavoce (1977) del presidente della Commissione europea e tra i negoziatori dell’entrata dell’Italia nel Sistema monetario europeo (Sme), che anticipò l’euro. Divenne successivamente ambasciatore italiano a Bruxelles e segretario generale del ministro degli Esteri (massima carica della diplomazia italiana). Dal 1987 al 1991 fu ministro degli Esteri in due governi successivi e dal 1991 al 1995 responsabile delle relazioni internazionali del Gruppo Fiat. Dal 1995 al 1999 fu direttore generale del Wto e poi presidente dell’Eni. Nel 2006 fu ministro degli esteri, ma solo per sei mesi dopodiché diede le dimissioni dal governo di Silvio Berlusconi, che non sembra avere un gran feeling con la Fiat in particolare e con i membri del Bilderberg. Tra questi c’è sicuramente Tommaso Padoa-Schioppa, alla cui nomina come governatore della Banca d’Italia Berlusconi si è sempre opposto. Ad ogni modo, la carriera di Padoa-Schioppa è stata notevole. Direttore generale per l’economia e le finanze della Commissione Europea nel periodo di lancio dello Sme (1979-1983), vicedirettore della Banca d’Italia (1984-1987), membro del comitato istituito dal presidente della Commissione europea Delors, suo amico personale, per redigere il progetto di Unione monetaria europea, presidente Consob, membro del comitato esecutivo della Bce (1998-2006), ministro dell’Economia con il Prodi II (2006-2008), presidente del comitato monetario e finanziario internazionale dell’Fmi, e, dulcis in fundo, membro del consiglio di amministrazione di Fiat industrial (2010). Un altro membro autorevole del Bilderberg con cui Berlusconi non sembra essersi sempre inteso è Mario Monti, ben noto come ex rettore e presidente del consiglio d’amministrazione della Università Bocconi. Meno risaputo è che anche Monti, amico personale di Gianni Agnelli, è stato un uomo Fiat. Nel 1989, a soli 46 anni, fece tris d’assi, stando contemporaneamente nel consiglio d’amministrazione della Fiat, della Banca Commerciale italiana e delle Assicurazioni Generali. Successivamente Berlusconi lo mandò a Bruxelles come commissario europeo, dove ebbe la delega al mercato interno e all’integrazione e ai servizi finanziari. Quando D’Alema, nuovo presidente del Consiglio, lo riconfermò, gli fu data la delega alla concorrenza che mantenne fino al 2004. Fatto questo che non gli ha impedito di diventare successivamente consulente antitrust della Coca-cola e di Goldman Sachs. Presidente europeo della Commissione Trilaterale e membro del Bilderberg, se ne dimise nel momento in cui fu nominato presidente del Consiglio dei ministri da Napolitano in sostituzione di un Berlusconi ormai inviso a una buona fetta dell’élite italiana e soprattutto transnazionale. Ma, forse il “calibro” più grande tra gli uomini Bilderberg italiani, almeno tra i burocrati-politici, è un altro professore: Romano Prodi. Presidente Iri, quando questa era una delle prime conglomerate del mondo, Presidente della Commissione europea e due volte presidente del Consiglio dei ministri italiano. La presenza di Prodi (e di Padoa-Schioppa) nello Steering Committee è abbastanza significativa di quanto il Bilderberg sia capace di mettere insieme figure conservatrici e progressiste, di centrodestra e di centrosinistra. E probabilmente è ancora più significativo del fatto che differenze tra le due ali dello schieramento politico non ce ne sono, o almeno non ce ne sono di significative per quanto attiene agli interessi del network del capitale transnazionale. L’elemento dominante è l’adesione alla prevalenza del mercato autoregolato sull’intervento statale. Non a caso Prodi fu l’artefice del progressivo smantellamento dell’Iri e della privatizzazione delle banche e dell’industria di Stato, nonché di provvedimenti di liberalizzazione in molti settori. Tuttavia, come il rapporto tra capitale finanziario e Stato muta, così mutano anche le personalità del Bilderberg. Infatti, nello Steering Committee fu presente anche Pasquale Saraceno, grande commis d’État italiano. Economista di orientamento cattolico come Prodi (fu anche docente alla Cattolica di Milano) entrò nell’Iri già durante il fascismo. Nel dopoguerra, da consulente del ministro Vanoni, fautore dell’intervento dello Stato in economia, e di altri ministri democristiani fu tra i sostenitori della programmazione economica e della Cassa del Mezzogiorno, nonché il fondatore dell’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno (Svimez). Anche lui come altri del Bilderberg, inoltre, fece il suo necessario passaggio europeo, come rappresentante italiano nella Commissione economica per l’Europa di Bruxelles e consigliere della Banca europea degli investimenti (Bei), l’istituzione che dal 1957 finanzia gli investimenti per il raggiungimento degli obiettivi europei. Terminiamo la nostra carrellata sui membri italiani del comitato direttivo del Bilderberg con gli ultimi due personaggi, forse minori ma ugualmente significativi. Il primo è Stefano Silvestri, che è stato sottosegretario alla Difesa tra 1995 e 1996 e, oltre ad essere consulente di ministri della Difesa, Esteri e Industria, è presidente dell’Istituto Affari internazionali (Iai), un think-tank italiano impegnato sulle questioni militari e di chiaro indirizzo «atlantico». Il secondo è Paolo Zannoni, un top manager collegato al capitale transazionale di origine Usa ed italiana. Zannoni, di cui si dice che fossero ottime le entrature con Gianni Agnelli, è stato presidente di Prysmian Spa, azienda italiana leader mondiale nel settore cavi e sistemi per il trasporto di energia e telecomunicazioni, ma controllata da Goldman Sachs (banca collegata ai Rockefeller) con il 31,7 per cento e con la partecipazione di altre banche e fondi di investimento Usa, come Blackrock, JP Morgan Chase, Lazard. Oggi, Zannoni è sempre nell’orbita di Goldman Sachs, di cui è managing director, e siede nel consiglio d’amministrazione e nel comitato risorse umane di Atlantia, holding operante nelle infrastrutture e controllata dalla famiglia Benetton.

Gira sul web un video sul gruppo di Bilderberg, realizzato da Alessandro Carluccio e Francesco Amodeo (non dalle Iene come precedentemente scritto, dell’errore ci scusiamo con gli autori)  che è già stato visto da oltre un milione e mezzo di persone, scrive “Link Sicilia”. E’ un video che racconta in modo dettagliato e con parole semplici chi sono questi esaltati del gruppo di Bilderberg e qual è, oggi, il loro potere nel mondo e, soprattutto in Europa e in Italia. Il nostro giornale, già da tempo, denuncia la presenza inquietante di questi signori del gruppo di Bilderberg. Il video, adesso, fa giustizia e sputtana, definitivamente, l’ex presidente del Consiglio nominato incredibilmente senatore a vita (che vergogna!), Mario Monti, l’attuale presidente del Consiglio dei Ministro, Enrico Letta, la Ministra degli Esteri, Emma Bonino, e l’uomo della Banca centrale europea, già ai vertice della Banca d’Italia, Mario Draghi. Questi quattro personaggi sono autorevoli rappresentanti del gruppo di Bilderberg. Nel video a parlare, tra gli altri, c’è anche Daniel Estulin, l’autore di un libro che è stato tradotto in 50 lingue e diffuso in 70 Paesi: “Il club di Bilderberg”. Estulin, che è stato oggetto di attentati ed è sfuggito a un rapimento, racconta la storia di questo gruppo d’ispirazione massonica (e ti pareva!). E descrive in modo molto efficace il pericolo che questa setta rappresenta per le libertà dei popoli. C’è anche una breve intervista con il giudice Ferdinando Imposimato, che ha indagato a lungo sul gruppo di Bilderberg. E che ha raccontato, nei suoi libri, le tante stragi compiute in Italia. Secondo Imposimato, la strategia della tensione – cioè le stragi di Stato compiute in Italia dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso in poi per fermare il riformismo dei Governi di centrosinistra – è da addebitare al gruppo di Bilderberg. E, anche sulle stragi del 1992, il giudice vede l’ombra di questo gruppo.  Nel video si spiega il meccanismo, piuttosto semplice, con il quale i signori del Bilderberg condizionano agli editori. Molte società editoriali sono quotate in Borsa. Se non si comportano bene, gli fanno crollare i titoli. Con questo metodo, secondo noi, nel novembre del 2011, hanno mandato a casa il Governo di Silvio Berlusconi. Interessante l’intervista con l’avvocato Luigi Marra, già parlamentare Europeo. Che racconta di aver denunciato alla magistratura Mario Monti in quanto componente del gruppo di Bilderberg. Marra spiega che il Parlamento Europeo (che, per inciso, costa agli europei un sacco di soldi, visto che ogni europarlamentare si porta a casa, in media, 40 mila euro al mese: una vergogna!) non conta nulla. Non promulga nemmeno le leggi che vengono ‘gestite’, in tutto e per tutto, dalla Commissione Europea, che è il Governo dell’Unione Europea non eletto dal popolo, ma designato dalle massonerie finanziarie e bancarie. Di fatto, come il nostro giornale ripete spesso, l’Unione Europea non è quella dei popoli sognata da Altiero Spinelli e da Gaetano Martino, ma l’Europa delle banche (peraltro fallite, visto che i ‘geni’ che le amministravano, nel 2008, hanno fatto incetta di titoli tossici americani) e della finanza speculativa. Ed è per questo che quest’Unione Europea, condizionata dal Bilderberg, va sbaraccata. E va sbaraccata no non andando a votare per il Parlamento europeo, come predica qualche idiota, ma andando a votare in massa e mandando a Strasburgo persone disposte a lottare contro il gruppo di Bilderberg, contro le banche e contro la finanza speculativa. Nel video si parla anche della truffa del fondo salva-Stati. Con questo marchingegno truffaldino hanno rubato dalle tasche dei popoli europei 700 miliardi di euro. Al contrario del nome che porta, questo è un fondo truffa-Stati e non salva-Stati. Viene anche spiegato che cos’è il Mes, sigla che sta per Meccanismo europeo di stabilità. Un’altra invenzione truffaldina per spillare soldi agli Stati Europei. Il video chiarisce anche perché, dal giorno dopo le elezioni politiche, i poteri forti del nostro Paese non hanno fatto altro che attaccare il Movimento 5 Stelle. Questo perché questa formazione politica si è rifiutata di sostenere il Governo di Bilderberg. Come detto all’inizio, l’attuale Presidente del Consiglio, Enrico Letta, è un uomo del gruppo di Bilderberg, come lo è Monti. Che cosa abbia a che vedere un Partito che si dice di sinistra – il riferimento è al Pd – con questa gente non è chiaro. Forse lo dovrebbero spiegare Bersani e lo stesso Letta. Fatto sta che per essersi rifiutato di entrare a far parte di un Governo dove sono presenti personaggi del gruppo di Bilderberg, il Movimento 5 Stelle è oggetto di un attacco senza precedenti. Queste cose vanno spiegate bene ai milioni di elettori di sinistra del nostro Paese che votano ancora per il Pd. Sappiano, queste persone, che Letta, come hanno ripetuto i parlamentari grillini in Parlamento – e come abbiamo ripetutamente scritto noi di LinkSicilia prima e dopo che il signor Letta, sostenuto da Berlusconi, mettesse piede a Palazzo Chigi – è un autorevole esponente del gruppo di Bilderberg. Questo spiega l’ostracismo dei poteri forti verso il Movimento 5 Stelle di Grillo. Questo spiega perché il leader di questa formazione politica non vuole ‘addizionarsi’ al Pd. E questo dimostra che in Italia c’è l’esigenza di dare vita a un partito che si ispiri al socialismo vero e non al gruppo di Bilderberg.  Come si dice sempre nel video, i parlamentari nazionali del Movimento 5 Stelle sono stati i primi che, in Parlamento, hanno parlato del gruppo di Bilderberg e sel cosiddetto ‘Signoraggio’. Ed è per questo che i poteri forti gliela vogliono fare pagare.

Il Bilderberg si mette a nudo e smaschera le accuse di complotti. Alle porte di Londra entra nel vivo la riunione del club riservato alle personalità più influenti del mondo economico. Per la prima volta, il summit si dota di un ufficio stampa e fa chiarezza su ospiti e agenda. Ma fuori dall'albergo di lusso continuano le proteste e le congetture: "Vogliono farci tornare al Medio Evo", scrive Enrico Franceschini su “La Repubblica”. "Eccolo, eccolo". Giugno 2013. Un fremito scuote la folla e come un sol uomo tutti puntano il dito accusatorio contro la limousine che sfreccia lungo la radura. "Spazzatura, spazzatura, all'inferno brucerai", gli gridano contro i dimostranti. Chi ci sia, dentro la vettura, è un mistero: ha i vetri dei finestrini oscurati. E comunque sfreccia rapida davanti a qualche centinaio di dimostranti, per entrare dentro i cancelli del Grove, un albergo a cinque stelle alle porte di Watford, cittadina ai sobborghi di Londra. La scena si ripete ogni quarto d'ora o giù di lì: di auto ne passano parecchie, per portare a destinazione i 138 partecipanti alla riunione del Bilderberg, il club che si riunisce ogni anno da qualche parte nel mondo, con l'obiettivo - perlomeno secondo i suoi critici - di dominarlo. Non ho contato le macchine, per sapere quanti sono i partecipanti all'edizione 2013, anche perché in teoria ce ne potevano essere più di uno per auto (sulle limo il posto abbonda). E' stato più facile arrivare al totale di 138: quest'anno, per la prima volta, il Bilderberg ha diffuso la lista degli invitati. Comprende il ministro del Tesoro britannico George Osborne, la sua controparte laburista (cioè il ministro del Tesoro del governo ombra dell'opposizione) Ed Balls, l'ex-guru del blairismo Peter Mandelson, il fondatore di Amazon Jeff Bezos, il boss di Google Eric Schmdt, il presidente della Goldman Sachs Peter Sunderland, l'ex-segretario di stato americano Henry Kissinger, l'ex-comandante delle forze americane in iraq e in Afghanistan David Petraeus. Per l'Italia ci sono l'ex-premier Mario Monti, mezza dozzina di amministratori delegati di grandi società, la giornalista Lilli Gruber. Venerdì anche il primo ministro britannico David Cameron ha preso parte al Bilderberg, e questo ha perso provocato polemiche a Londra, anche perché ci è andato da solo, non accompagnato da funzionari o portavoce. Il leader conservatore si è sempre vantato di difendere la massima trasparenza negli affari di governo e ora qualcuno lo può accusare di avere violato la sua promessa. Downing street si è difesa sul punto sostenendo che è una riunione “privata” e che non fa venire meno l’impegno di Cameron di dare pubblicità alle sue iniziative e alla sua politica. Le novità del summit di quest'anno non si limitano però ai soli partecipanti: il Bilderberg ha anche reso nota l'agenda della tre giorni di discussioni: debito, occupazione, Europa, come i "big data" (la mole di informazioni che circola sul web e viene analizzata con speciali algoritmi) cambierà quasi tutto, la guerra civile in Siria, lo spionaggio cibernetico. E come se non bastasse stavolta c'è anche un ufficio stampa, che non pubblicherà alcuna risoluzione finale, perché non ve ne sono, ma appunto distribuisce le suddette informazioni. C'è anche una specie di tribuna stampa per i giornalisti che vogliono seguire l'evento, si fa per dire perché è a 5 chilometri di distanza dall'albergo: ma, se è per questo, il centro stampa per il summit del G8 (che si svolge anche quello nei prossimi giorni in Gran Bretagna) è a 30 chilometri dalle sale dove si incontreranno i grandi della terra. Come mai il Bilderberg ha puntato sulla glasnost, dopo la totale segretezza del passato, quando si sapeva a malapena dove si riuniva (a partire dal 1954, quando l'incontro si tenne all'Hotel Bilderberg, in Germania - da cui il nome)? Forse per cercare di smentire una volta per tutte l'accusa di essere il governo occulto del pianeta, come e più della Trilateral Commission e di altri organismi internazionali che suscitano i sospetti di legioni di innamorati della teoria del complotto. La pubblicità un po' è servita: i giornali hanno scritto più articoli del solito sul Bilderberg, pur senza aggiungere molta sostanza alle discussioni, che escludono la stampa proprio perché non devono decidere niente e vogliono dare libertà agli intervenuti di parlare fuori dalle prudenze diplomatiche. Ma non è bastato a convincere chi vede complotti dappertutto. I dimostranti sulla strada che conduce all'albergo Grove sono destinati a crescere fino alla giornata di chiusura, domenica. La loro presenza è già diventata una sorta di secondo summit, un Bilderberg Fringe, una riunione alternativa. "Siamo qui per assalire questo gruppo di plutocrati internazionali e fare luce sulle loro azioni, affinché brucino tra le fiamme dell'inferno", dice Alex Jones, uno degli abituali organizzatori della contestazione. "Quelli là stanno dettando l'agenda di tutto quello che avverrà nei prossimi 365 giorni e per farci il lavaggio del cervello", accusa un altro, Wayne Fontana. Il quale, nonostante la cortina di segretezza stesa dai complottatori del Bilderberg, ha le idee piuttosto chiare sulle loro intenzioni: "Cominceranno con la guerra contro l'Iran e finiranno con la dominazione totale sul mondo e la riduzione del 90 per cento della popolazione. Prima cadrà l'euro, poi il dollaro, poi ci diranno di usare solo le carte di plastica come denaro, poi ci metteranno un chip sotto la pelle e a quel punto, se non faremo quello che ci dicono, spegneranno il chip e ci faranno morire di fame". Viene il dubbio se abbia letto la trama di "Inferno", il nuovo romanzo di Dan Brown, o se usi le stesse fonti di un certo deputato grillino italiano. L'accusa più ingenua è tuttavia quella di un altro dimostrante, un certo Simon Taylor, che sostiene che lo scopo del Bilderberg è "mandare in bancarotta la classe media e creare un nuovo Medio Evo, perché i tiranni odiano la classe media". Uhm, ma se scompare la classe media e si torna al Medio Evo, a chi venderebbero i loro prodotti i "tiranni" riuniti a porte chiuse al summit annuale del Bilderberg?

Chi comanda il Bilderberg e il mistero del "direttivo". Il presidente viene eletto ogni quattro anni dal comitato esecutivo che sceglie il programma degli incontri annuali e stila l'elenco degli invitati: nessuno, però, sa chi nomini i membri del consiglio, scrive Giuliano Balestreri su “La Repubblica”. Il gruppo Bilderberg è un circolo internazionale "piccolo, informale e non ufficiale nel quale possono essere espressi punti di vista diversi e la reciproca comprensione sviluppata". Un'associazione che riunisce, una volta all'anno, i potenti della terra provenienti dagli ambienti della politica e della finanza che discutono, ma non adottano risoluzioni nè votano alcun provvedimento. Di più, secondo il sito ufficiale del gruppo Bilderberg, dal nome dell'albergo dove si riunirono per la prima volta in Olanda nel 1954, "non vengono rilasciate dichiarazioni politiche". Di certo, però, in questo modo si alimentano i misteri e le teorie del complotto visto che la stampa non è ammessa e tutti gli interventi sono rigorosamente "off the record". Negli ultimi anni sono cresciute le pressioni perché sul gruppo Bilderberg si alzasse il velo di segretezza che lo circonda, ma nonostante le insistenze del premier britannico, David Cameron, il conservatore paladino della trasparenza poco, è cambiato. Neppure è servito l'invito a partecipare ad alcuni giornalisti inglesi, dell'Economist e del Financial Times (organi ufficiosi del gruppo, secondo alcuni), ma anche italiani, tra cui il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, l'ex direttore del Sole 24 Ore, Gianni Riotta, la giornalista Lilli Gruber e Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica, Limes. Gli invitati, 140 persone circa, e il programma delle conferenze sono decisi dal comitato direttivo che – pur non essendo chiaro da chi sia nominato – resta in carica per quattro anni. L'attuale presidente è Henri de Castries, numero uno del colosso assicurativo Axa. Attualmente l'unico membro italiano del direttivo è Franco Bernabè, presidente di Telecom Italia. Le spese organizzative sono sostenute dai membri del consiglio direttivo del Paese ospitante: quest'anno l'incontro inglese sarà pagato dall'ex ministro del Tesoro conservatore Kenneth Clarke (ministro senza portafoglio nell'odierno governo Cameron), da Thomas Enders, amministratore delegato di Eads, una delle più grandi aziende militari del pianeta, e da Peter Sutherland, presidente della Goldman Sachs, la banca numero uno della Terra. La sicurezza dei partecipanti, però, sarà a carico del governo britannico. 

I legami del gruppo Bilderberg: gli intrecci tra politica e finanza. Il circolo assomiglia a un'oligarchia globale dove si riunisce l'élite mondiale: nobili attivi nel campo della politica e della finanza. A cominciare dall'attuale presidente Henri de Castries, numero uno di Axa, scrive Giuliano Balestreri su “La Repubblica”. Le teorie del complotto, e della direzione occulta delle politiche mondiali, sono alimentate dalla presenza nel comitato direttivo del gruppo Bilderberg di personaggi profondamente connessi tra loro, espressione dell'élite mondiale e, spesso, anello di congiunzione tra le grandi aristocrazie e il mondo degli affari. Una sorta di oligarchia globale. Il presidente attuale, Herni de Castries, numero uno del colosso francese Axa, appartiene alla nobiltà transalpina, così come nobile era il principe Bernhard van Lippe Biesterfeld, tra i fondatori del gruppo e marito della regina Giuliana d'Olanda. Nobili, ma attivi nel mondo degli affari. Come Richard Perle, membro del direttivo, ideologo dei neocon americani, membro di gabinetto del ministro della Difesa sotto la presidenza di Ronald Reagan, consigliere di George Bush e fermo sostenitore della guerra in Iraq, un'area di "vitale importanza per gli Usa" per la concentrazione di petrolio. Nel 1998 scrisse un lettera a Bill Clinton per chiedere la rimozione di Saddam Hussein, con lui la firmarono Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz che diventeranno ministri di Bush. Del direttivo hanno fatto parte anche l'ex segretario di Stato americano, Henri Kissinger, Edmond de Rothschild e il primo presidente della Bce, Wim Duisenberg. Nel direttivo Bildenberg si sono succeduti 12 italiani, compreso il membro attuale, il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè. Ma a livello nazionale è interessante come molti di questi uomini siano legati, direttamente o indirettamente al mondo Fiat: lo stesso Bernabè oltre ad aver ricoperto il ruolo di "Chief economist" del Lingotto, si è anche seduto nel Consiglio di amministrazione.

Gli argomenti del Bilderberg tra lotta al comunismo e armi. I contenuti delle relazioni e delle conferenze sono top secret, ma sul sito del gruppo vengono pubblicati i temi affrontati: in cima alle preoccupazioni del circolo l'ex Urss e tutte le minacce per l'Occidente. Compresa la crisi economia mondiale, continua scrive Giuliano Balestreri su “La Repubblica”. Come detto i contenuti delle relazioni e degli interventi è top secret. Anche di fronte alla presenza di giornalisti tenuti a rispettare l'impegno a non divulgare le informazioni ricevute. Tuttavia sono pubblici i temi affrontati. Anche perché si tratta – spesso – di tematiche legate agli eventi politici e finanziari mondiali. Fin dagli albori, in cima alle preoccupazioni del Bilderberg c'è stata l'avanzata del comunismo e quindi come fronteggiare l'ex Urss. Tematiche che si sono evolute negli anni, prima con l'apertura al dialogo da parte di Nikita Kruscev, poi con la caduta del Muro di Berlino del 1989: il problema di come rapportarsi con la Russia è sempre stato centrale. Così come i conflitti in Medio Oriente e – a ondate alterne – la crisi di leadership degli Stati Uniti. Eventi vissuti come una minaccia per l'Occidente. All'interno del Bilderberg si discute spesso di rapporti tra Europa e Stati Uniti e, soprattutto, dalla metà degli anni 90 in poi, di economia: dalla gestione della crisi economica mondiale all'euro, dall'inflazione al protezionismo, dalla globalizzazione al petrolio. Ovviamente non mancano le discussioni legate al mercato delle armi.

Gli italiani al vertice del Bilderberg: dalla galassia Fiat a Letta e Tremonti. In 12 sono entrati nel consiglio direttivo del gruppo, molti sono stati legati al Lingotto: da Gianni e Umberto Agnelli a Monti e Padoa Schioppa. Tra i presidente del Consiglio dei ministri anche Romano Prodi è stato nel comitato esecutivo, conclude Giuliano Balestreri su “La Repubblica”.  Nel consiglio direttivo del gruppo Bilderberg si sono succeduti 12 italiani. L'elemento più interessante riguarda, probabilmente, la correlazione di molti con il mondo Fiat, a testimonianza della forza internazionale del Lingotto. Primi fra tutti, Gianni e Umberto Agnelli, nipoti del fondatore Giovanni e assidui frequentatori dei circoli internazionali, soprattutto a matrice americana. Come loro, ha frequentato il Bilderberg, Vittorio Valletta, il genovese che alla morte del fondatore gli succedette alla guida del gruppo fino al 1966, prima di passare la mano a Gianni Angelli. Instaurata una prassi, la tradizione è proseguita nel tempo con Franco Bernabè, attuale presidente di Telecom Italia, ma già amministratore di Fiat e ancora prima Chief economist del Lingotto. E ancora. Gian Gaspare Cittadini-Cesi, marchese, diplomatico, fu amministratore delegato di Fiat Francia, carica per la quale ottenne anche dal Quirinale l'onorificenza di Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana. L'ambasciatore ed ex ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, è stato responsabile delle relazioni internazionali di Fiat, prima di passare al Wto e diventare presidente di Eni. Un ruolo al Lingotto, come membro del cda di Fiat Industrial, lo ha avuto anche Tomaso Padoa Schioppa, già ministro dell'economia del governo Prodi e membro del comitato esecutivo della Bce. Nel cda di Fiat è stato anche Mario Monti, poi commissario Ue e consulente - tra le altre - di Coca Cola e Goldman Sachs: Monti si dimise dal direttivo del Bilderberg dopo la nomina a presidente del Consiglio nel novembre 2011. Non era legato a Fiat l'ex premier ed ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, ma era alla guida dell'Iri quando Alfa Romeo, contesa anche dall'americana Ford, passò, al Lingotto. Nel comitato direttivo si sono seduti anche l'economista Pasquale Saraceno, tra i sostenitori della Cassa del Mezzogiorno, Stefano Silvestri, ex sottosegretario alla Difesa, filo americano, e Paolo Zannoni, ex numero uno di Prysmian, controllata, prima della quotazione in Borsa, dalla banca d'affari Goldman Sachs. Numerosi sono anche gli italiani invitati alle conferenze annuali: da John Elkann a Paolo Scaroni, da Mario Draghi a Giulio Tremonti, da Alfredo Ambrosetti a Domenico Siniscalco, da Rodolfo De Benedetti a Fulvio Conti e Corrado Passera, tutti hanno preso parte a più di un meeting. Molti altri sono stati invitati almeno una volta, a cominciare dal presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta.

Il Bilderberg Club di anime belle? (Sono arrivati gli spin doctor), scrive Marcello Foa su “Il Giornale”. Dunque il Bilderberg cambia tattica: non è più un’associazione segreta o almeno così lascia intendere. La grande novità della riunione annuale che inizia il 5 a Londra è infatti l’apertura di un ufficio stampa e addirittura di uno spazio per i contestatori. La sezione inglese del Bilderberg ha addirittura pubblicato in anticipo la lista dei partecipanti e un istoriato dell’associazione, meglio nota come il Club dei potenti del mondo. Ma si tratta di una vera svolta? Il Bilderberg è diventato improvvisamente democratico e trasparente, ponendo fine ai sospetti che lo circondano? Certi commentatori pensano di sì. Io sono più cauto e penso che più che altro si è affidato agli spin doctor. Negli ultimi 2-3 anni il Bilderberg è finito sotto pressione non tanto sui media ufficiali quanto su internet, sono stati pubblicati diversi libri di denuncia, non tutti attendibili e documentati a dir la verità, e i manifestanti che tentavano di rompere le asfissianti misure di sicurezza aumentavano di anno in anno. Insomma, stava salendo un pericoloso rumore mediatico, non più confinato a pochi siti di informazione alternativa. E allora il Club ha deciso di ricorrere allo spin difensivo ovvero a una mossa a sorpresa che serve a depotenziare i sospetti che ti vengono rivolti, appropriandoti delle accuse. Se l’accusa è quella di essere cospirazionisti tu devi aprire le porte, persino ai manifestanti (in aree ben circoscritte) e comunicare, comunicare, comunicare. O perlomeno dar l’impressione di farlo (e infatti gli osservatori più acuti non hanno abboccato come Charlie Skelton del Guardian). In tal modo da adesso in avanti sarà più difficile tacciare il Bilderberg di essere un Club segreto e il fronte degli accusatori si spaccherà. Una mossa molto abile, preparata da spin doctor professionisti, che hanno saputo confezionare molto bene il sito, aggiungendo spin allo spin; ad esempio invocando la trasparenza e la lotta alle lobby. Proprio loro che sono una mega lobby! Elogiano Transaprency international ovvero… un’organizzazione popolata da membri del Bilderberg. Tutto è stato preparato con estrema cura, al fine di relativizzare, minimizzare, edulcorare. Leggendo il sito del Bilderberg inglese si ha l’impressione che si tratti di un Club animato da persone disinteressate, che hanno a cuore solo il bene dell’umanità, quasi dei benefattori. Bravissimi i loro spin doctor, non c’è che dire. Resta il dubbio, fondato, sulle finalità reali di questo Club e sul modo in cui eserciti il proprio potere. Oggi si oscilla tra posizioni iperminimaliste – che non vedono nulla di male nel fatto che banchieri, manager di grandissime aziende, politici, banchieri centrali, grandi intellettuali si riuniscano dal Dopoguerra e promuovano un’agenda segreta e globalista – e posizioni cosiddette complottiste, come quelle di Estulin, che descrivono il Bilderberg come una grande Spectre. La verità, verosimilmente, è molto più raffinata e sottile e per questo difficile da decriptare. Probabilmente il Bilderberg è un anello di una rete di interessi più complessa e articolata. Un anello che peraltro sembra perdere smalto. I centri élitari davvero efficienti sono quelli che riescono a preservare la capacità di selezione dei membri; qualità che non appare più quella di un tempo, alla luce di alcune new entry anche italiane. Ma questo è un altro discorso…

I massoni e la sinistra italiana, scrive Andrea Cinquegrani – tratto da "La Voce della Campania". Il Gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma viene ufficializzato due anni più tardi, a giugno del 1954, quando un ristretto gruppo di vip dell’epoca si riunisce all’hotel Bilderberg di Oosterbeek, in Olanda. Da quel momento le riunioni si sono svolte una o due volte all’anno, nel più totale riserbo. In occasione di una delle ultime, nella splendida e appartata resort di Sintra, in Portogallo, il settimanale locale News riportò una notizia secondo cui il Governo avrebbe ricevuto migliaia di dollari dal Gruppo per organizzare «un servizio militare compreso di elicotteri che si occupasse di garantire la privacy e la sicurezza dei partecipanti». Ma torniamo agli esordi. I primi incontri si sono svolti esclusivamente nei paesi europei, ma dall’inizio degli anni ’60 anche negli Usa. Tra i promotori - precisano alcuni studiosi della semi sconosciuta materia - occorre ricordare due nomi in particolare: sua maestà il principe Bernardo de Lippe, olandese, ex ufficiale delle SS, che ha guidato il gruppo per oltre un ventennio, fino a quando, nel 1976, è stato travolto dallo scandalo Lockheed; e Joseph Retinger, un faccendiere polacco al centro di una fittissima trama di rapporti con uomini che per anni hanno contato sullo scacchiere internazionale della politica e dell’economia. «La loro ambizione - viene descritto - era quella di costruire un’Europa Unita per arrivare a una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali. Fin dalla prima riunione vennero invitati banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali degli Usa e dell’Europa occidentale, per un totale di un centinaio di personaggi circa». Ecco cosa hanno scritto alcuni giornalisti investigativi inglesi nel magazine on line di Bbc News a pochi giorni dal meeting di Stresa. «Si tratta di una delle associazioni più controverse dei nostri tempi, da alcuni accusata di decidere i destini del mondo a porte chiuse. Nessuna parola di quanto viene detto nel corso degli incontri è mai trapelata. I giornalisti non vengono invitati e quando in qualche occasione vengono concessi alcuni minuti a qualche reporter, c’è l’obbligo di non far cenno ad alcun nome. I luoghi d’incontro sono tenuti segreti e il gruppo non ha un suo sito web. Secondo esperti di affari internazionali, il gruppo Bilderberg avrebbe ispirato alcuni tra i più clamorosi fatti degli ultimi anni, come ad esempio le azioni terroristiche di Osama bin Laden, la strage di Oklaoma City, e perfino la guerra nella ex Jugoslavia per far cadere Milosevic. Il più grosso problema è quello della segretezza. Quando tante e tali personalità del mondo si riuniscono, sarebbe più che normale avere informazioni su quanto sta succedendo». Invece, tutto top secret. Scrive un giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol: «Secondo alcune indiscrezioni che ho raccolto, il primo luogo nel quale si è parlato di invasione dell’Iraq da parte degli Usa, ben prima che ciò accadesse, è stato nel meeting 2002 dei Bilderberg». Di parere opposto un redattore del Financial Times, Martin Wolf, più volte invitato ai meeting: «L’idea che questi incontri non possano essere coperti dalla privacy è fondamentalmente totalitaria; non si tratta di un organismo esecutivo, nessuna decisione viene presa lì». Fa eco uno dei fondatori, anche lui inglese, lord Denis Healey: «Non c’è assolutamente niente sotto. E’ solo un posto per la discussione, non abbiamo mai cercato di raggiungere un consenso sui grandi temi. E’ il migliore gruppo internazionale che io abbia mai frequentato. Il livello confidenziale, senza alcun clamore all’esterno, consente alle persone di parlare in modo chiaro». Ed ecco cosa scrive un altro studioso di ordini paralleli e di gruppi e associazioni che agiscono sotto traccia, Giorgio Bongiovanni. «Bilderberg rappresenta uno dei più potenti gruppi di facciata degli Illuminati (una sorta di super Cupola mondiale, ndr). Malgrado le apparenti buone intenzioni, il vero obiettivo è stato quello di formare un’altra organizzazione di facciata che potesse attivamente contribuire al disegno degli Illuminati: la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale e di un Governo Mondiale entro il 2012. Sembra che le decisioni più importanti a livello politico, sociale, economico-finanziario per il mondo occidentale vengano in qualche modo ratificate dai Bilderberg». «Il Gruppo - scrive ancora Bongiovanni - recluta politici, ministri, finanzieri, presidenti di multinazionali, magnate dell’informazione, reali, professori universitari, uomini di vari campi che con le loro decisioni possono influenzare il mondo. Tutti i membri aderiscono alle idee precedenti, ma non tutti sono al corrente della profonda verità ideologica di alcuni membri principali». I veri ‘conducator’- secondo questa analisi - i quali a loro volta fanno anche parte di altri segmenti strategici nell’organigramma degli Illuminati. Due in particolare: la Trilateral e la Commission of Foreign Relationship, nata nel 1921, la quale riunisce a sua volta tutti i personaggi che hanno fra le loro mani le leve del comando negli Usa. «Questi membri particolari - prosegue Bongiovanni - sono i più potenti e fanno parte di quello che viene definito il ‘cerchio interiore’. Quello ‘esteriore’, invece, è l’insieme degli uomini della finanza, della politica, e altro, che sono sedotti dalle idee di instaurare un governo mondiale che regolerà tutto a livello politico e economico: insomma, le ‘marionette’ utilizzate dal cerchio interiore perché i loro membri sanno che non possono cambiare il mondo da soli e hanno bisogno di collaboratori motivati e mossi anche dal desiderio di danaro e potere». Passiamo, per finire, alla Trilateral, vero e proprio luogo cult del Potere nascosto, in grado comunque di condizionare i destini del mondo. Ovviamente ‘sponsorizzato’ della star dell’imprenditoria multinazionale, come Coca Cola, Ibm, Pan American, Hewlett Packard, Fiat, Sony, Toyota, Mobil, Exxon, Dunlop, Texas Instruments, Mutsubishi, per citare solo le più importanti. L’associazione nasce nel 1973, sotto la presidenza “democratica” di Jimmy Carter e del suo consigliere speciale per la sicurezza, Zbigniew Brzezinsky, il vero deux ex machina. A ispirare il progetto, le famiglie Rothschield e Rockfeller, i Paperoni d’America. Un progetto che ha irresistibilmente attratto i potenti del mondo, a cominciare proprio dai presidenti Usa, con un Bill Clinton in prima fila. Così descriveva Giovanni Agnelli la Trilateral: «Un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (Usa, Europa e Giappone, ndr) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse». Il solito ritornello. Di diverso avviso il giornalista Richard Falk, che già nel 1978 - quindi a pochissimi anni dalla nascita - scrive sulle colonne della Monthly Review di New York: «Le idee della Commissione Trilaterale possono essere sintetizzate come l’orientamento ideologico che incarna il punto di vista sopranazionale delle società multinazionali, che cercano di subordinare le politiche territoriali a fini economici non territoriali». E’ la filosofia delle grandi corporation, che stanno privatizzando le risorse di tutto il pianeta, a cominciare dai beni primari, come ad esempio l’acqua: non solo riescono a ricavare profitti stratosferici ma anche ad esercitare un controllo politico su tutti i Sud - e non solo - del mondo. La logica della globalizzazione. E i bracci operativi di questo turbocapitalismo sono proprio due strutture che dovrebbero invece garantire il contrario: ovvero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. «Entrambi - scrive uno studioso, Mario Di Giovanni - sotto lo stretto controllo del “Sistema” liberal della costa orientale americana. Agiscono a tutto campo nell’emisfero meridionale del pianeta, impegnate nella conduzione e ‘assistenza’ economica ai paesi in via di sviluppo». E proprio sull’acqua, la Banca Mondiale sta dando il meglio di sé: con la sua collegata IFC (Internazionale Finance Corporation) infatti sta mettendo le mani sulla gran parte delle privatizzazioni dei sistemi idrici di mezzo mondo, soprattutto quello africano e asiatico, condizionando la concessione dei fondi all’accettazione della privatizzazione, parziale o più spesso totale, del servizio. Del resto, è la stessa Banca a calcolare il business in almeno 1000 miliardi di dollari… Scrive ancora Di Giovanni: «Le decisioni assunte dai vertici della Trilateral riguarderanno sempre di più quanti uomini far morire, attraverso l’eutanasia o gli aborti, e quanti farne vivere, attraverso un’oculata distribuzione delle risorse alimentari. Decisioni che riguarderanno l’ingegneria genetica, per intervenire nella nuova ‘umanità’. In una parola, tutto ciò che definitivamente distrugga il ‘vecchio’ ordine sociale, cristiano, per la creazione di un nuovo ordine. Ma tutto questo senza particolari scossoni. Non vi sarà bisogno di dittature, visto che le democrazie laiche e progressiste, condotte da governi di “centrosinistra”, servono già così efficacemente allo scopo. Governi che riproducono - conclude - una formula già sperimentata lungo l’intero corso del ventesimo secolo e plasticamente rappresentata dal passato governo Prodi-D’Alema: l’alleanza fra la borghesia massonica e la sinistra, rivoluzionaria o meno».

Che autogol, Concita: scrive di complotti ma svela quelli dei suoi amici. Su Repubblica racconta che per governare in Italia bisogna essere graditi ai poteri forti. Ma tutti i nomi che fa, da Amato a Prodi, sono suoi pupilli, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. Una mattina Concita De Gregorio, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutata in una complottista. Ieri, su Repubblica, è apparsa un’articolessa  di due pagine a sua firma, con notevole richiamo in prima, dal titolo: «Da Lockheed a Bilderberg quegli amici americani che “votano” per il Colle». Obiettivo del pezzo: spiegare l’influenza di Washington sugli affari italici, a partire dalla scelta della persona da spedire al Quirinale. Intrigante. Nell’articolo, la nostra Signorina Grande Firma preferita scomoda il meglio del meglio della dietrologia internazionale, dal succitato Bilderberg alla Trilateral, passando per Gladio, Goldman Sachs e  il golpe Borghese. Concita, che è successo? Hai scoperto i libri di Maurizio Blondet? Ti sei invaghita di Adam Kadmon, quello che a Mistero su Italia Uno dà la colpa di ogni catastrofe agli Illuminati? A pensar male, si direbbe che la biondocrinita giornalista si appresti a rubare il posto a Roberto Giacobbo: «E adesso, una bella inchiesta su come gli alieni hanno costruito le piramidi, dalla nostra inviata spaziale Concita De Gregorio!».  Per adesso, tuttavia, ci accontentiamo di leggere le dietrologie sugli oscuri signori che dominano il pianeta, di cui fino alla scorsa settimana la nostra cronista doveva essere ignara.  Concita ci spiega per esempio che il Club Bilderberg è una «associazione di finanzieri, banchieri, politici e uomini di Stato fondata nel ’54»,  i cui membri «si riuniscono ogni anno in un conclave a porte chiuse». Dovete sapere, infatti, che «ai grandi gruppi economico-politici internazionali, alla finanza e dunque alla politica nordamericana interessa molto e moltissimo chi governa, chi comanda, chi ha influenza in Europa e in subordine in Italia». Posto che ci meraviglieremmo del contrario, ci gustiamo l’enfatica prosa con cui la De Gregorio spiega che «l’ombra dell’America è verde come il colore dei dollari. Tuona come le armi che varcano l’oceano in perpetuo e spesso illecito commercio».  Non solo: l’ombra maligna degli Usa «parla la lingua dei banchieri, la sola lingua degli affari. Si affaccia sull’Italia dalla postazione mediterranea di Israele». Ah, già, mancava il complottone pluto-giudaico-massonico. Insomma, il succo del discorso è che esistono delle élite potentissime che ambiscono a governare per lo meno l’Occidente  in nome del profitto. E quindi non si fanno scrupolo a muovere le fila della politica globale, compresa quella italiana. Motivo per cui, se uno vuol comandare qui da noi, deve essere in qualche modo gradito a tali Signori Oscuri. Per svelare la scomoda verità, Concita interpella persino Paolo Cirino Pomicino, il quale confessa: «Senza le credenziali degli americani e in specie delle grandi banche d’affari oggi nessuno può pensare di aspirare seriamente al Quirinale». Ora, se  stupisce l’improvvisa trasformazione dell’inviata di punta e soprattutto di tacco di Repubblica in una Dan Brown in gonnella, sorprende ancora di più l’elenco dei nomi contenuto nel suo articolo. Già, perché una volta detto che Bilderberg, Trilateral e Aspen Insitute manovrano i nostri destini, bisogna anche dire chi sono i loro emissari. Eccoli qua. Al Bilderberg sono passati, tra gli altri, Monti, Draghi, Padoa Schioppa, Siniscalco, Prodi.  «Ogni tanto qualche giornalista (Lilli Gruber, per dire, ndr) una volta Veltroni, Emma Bonino». Nell’entourage della potentissima banca d’affari Goldman Sachs sono transitati Prodi, Draghi, Monti, Gianni Letta. Massimo D’Alema, invece, ha avuto un «rapporto che sarebbe durato nel tempo» con Clinton, mentre Prodi «voleva essere ricevuto subito, ma non si poteva». Quanto all’Aspen, «in Italia conta su Amato, Prodi e D’Alema». La Trilateral «fondata da Rockefeller  (...) Monti l’ha presieduta fino al 2011. La frequentano la consulente per la politica estera di D’Alema Marta Dassù (...), Enrico Letta...». Apprendiamo qualcosa pure su Scalfaro. Con lui al Colle, «c’è il ciclone Mani Pulite» che dà  «spazio a una generazione nuova. Più avvezza all’uso di mondo, alle relazioni internazionali, alla lingua degli uomini d’affari. È dal denaro, adesso, dalla finanza che passano gli interessi politici. (...) È ai banchieri che si ricorre quando la politica tace o sobbolle di sue interne diatribe». Riepiloghiamo: Monti, Scalfaro, D’Alema, Veltroni, Letta jr, Prodi, Amato... Scusate, eh, ma non sono personaggi che Repubblica ha supportato per anni e ancora sostiene? Non sono prodotti di quella sinistra di salotto che il quotidiano di Mauro ha contribuito a creare? E adesso Concita ci viene a dire che sono manovrati dagli americani per fare gli interessi della finanza? Incredibile. Fortuna che è già prevista una nuova puntata dell’inchiesta della De Gregorio. In onda a Voyager: ai confini dell’ignoto. Rimanete collegati. Sera.

Gruppo Bilderberg. Nomi e cognomi di tutti i partecipanti dal 1954 al 2012. In quale girone dell’inferno dantesco andranno a finire queste anime prave? Si chiede Matteo Vitiello. Guardate, sinceramente, penso che per questa feccia italiana sia addirittura troppo lusinghiero andare ad occupare un posto nella magnificenza dell’opera letteraria per antonomasia. Ipocriti, falsari, traditori e violenti. I politici: non dicono la verità ai cittadini italiani e, nonostante il loro dovere di uomini politici sarebbe quello di rappresentare e servire il popolo, lo ingannano. Banchieri: creano e sperperano il denaro per dominare e controllare. Imprenditori violenti: Finmeccanica, Fiat, Pirelli, Olivetti, Ferruzzi, Alenia, Selex, Fincantieri, Confindustria… sono tra i primi dieci nella scala mondiale di produttori d’armi! …e poi si comportano da puritani, protetti dal Vaticano… che poi non è nient’altro che la patria dei più falsi di tutti, i preti (se ne salvano alcuni). Di seguito trovate tutti i partecipanti della nostra nobile Italia alle diverse riunione di Gruppo Bilderberg, dal 1954 al 2011. Ricordate che il Gruppo Bilderberg non è la riunione più importante dei potenti ma è dove i “ranghi” più bassi (capi azienda, politici nazionali ed internazionali di turno, giornalisti corrotti) ricevono istruzioni dai padroni della finanza mondiale: cosa fare, che politiche attuare, cosa far credere alla gente e così via.  Ne discutono un poco e ne aggiustano i dettagli, quindi, occhio, non crediate che tutti i bildebergers siano gente particolarmente importante al mondo, proprio perché il loro potere decisionale è quasi nullo rispetto ai loro capi (ne parlo dettagliatamente negli altri articoli dedicati al Bilderberg). Vi ricordo i punti fondamentali che contraddistinguono gli obiettivi a lungo termine del Bilderberg. Vi aiuterà a capire il perché di tanta segretezza e di tante bugie da parte di banchieri, imprenditori, politici e giornalisti corrotti.

 1.      Un’identità internazionale: distruggere l’identità nazionale ed il concetto di Stato-Nazione, cioè depauperare la sovranità di ogni singolo Stato (come sta accadendo sotto i nostri occhi in Europa, ad esempio ndr), per creare un’unica “grande impresa”, un unico governo mondiale fondato sul denaro ed il mantenimento di uno status di “padrone-schiavi”

 2.      Un controllo centralizzato della popolazione

 3.      Una società a crescita zero

 4.      Uno stato di disequilibrio perpetuo 

5.      Un controllo centralizzato dell’educazione: qui rientra non solo la rilettura della storia da parte dei diretti interessati ma anche la fondamentale funzione di lavatrice del cervello svolta dalla televisione, dai giornali e da tutti i mezzi di comunicazione principali (un mezzo di comunicazione principale è una tv, un giornale, una radio a grande diffusione. Questa diffusione è ottenuta solo dai mezzi di comunicazione i cui direttori/presidenti decidono di non pubblicare notizie scomode ai potenti. Internet è, attualmente,  un’eccezione, comunque è controllato anch’esso… qualcosa ce lo lasciano scrivere per darci una sorta di valvola di sfogo).

 6.      Un controllo centralizzato di tutte le politiche nazionali ed internazionali

 7.      La concessione di un maggior potere alle Nazioni Unite

 8.      Un blocco commerciale occidentale

 9.      L’espansione della NATO e la creazione di un unico esercito in modo tale che la catena di comando risponda solo ad una cerchia ristrettissima di persone

10.  Un sistema giuridico unico

11.  Uno stato di benessere socialista

1954 Oosterbeek, Olanda 

Alcide De Gasperi

Raffaele Cafiero (senatore)

Giovanni Malagodi (parlamentare)

Alberto Pirelli (Amm. delegato Pirelli)

Pietro Quaroni (Ambasciatore italiano in Francia)

Paolo Rossi (parlamentare)

Vittorio Valletta (Presidente Fiat)

1955 Barbizon, Francia e Garmisch-Partenkirchen, Germania Ovest - irreperibile

1956 Fredensborg, Danimarca – irreperibile

1957 St Simons Island, Georgia, USA

Amintore Fanfani (Ministro Esteri)

Longo Imbriani (BNL)

Giovanni Malagodi (Presidente Senato)

1958 – Palace Hotel, Buxton, Inghilterra

Giovanni Agnelli

Guido Carli (Direttore Banca d’Italia)

Giovanni Malagodi (presidente del Senato)

Alberto Pirelli (Presidente Gruppo Pirelli)

Pietro Quaroni (Presidente RAI)

1963 – Cannes, Francia 

Alighiero De Micheli (Presidente Confindustria)

Aurelio Peccei (Direttore Generale Italconsult)

Mario Pedini (parlamentare)

Alberto Pirelli (Presidente Gruppo Pirelli)

Pietro Quaroni (Ambasciatore in Gran Bretagna)

Vittorino Chiusano (nobile, nipote del vescovo Paolo Maurizio Caissotti di Chiusano, membro consiglio amministrazione Juventus)

 1964 – Williamsburg, Virginia, USA

 Giovanni Agnelli

Ugo La Malfa (parlamentare)

Ettore Lolli (Manager BNL)

Franco Malfatti (Sottosegretario Ministro dell’Industria e del Commercio)

Aurelio Peccei (Direttore Generale Italconsult)

Giovanni Scaglia (parlamentare Democrazioa Cristiana)

Paolo Vittorelli (senatore)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

1965 – Villa D’Este, Lago di Como

 Giovanni Agnelli (FIAT)

Manlio Brosio (Segretario Generale NATO)

Guido Carli (Direttore Banca d’Italia)

Eugenio Cefis (parlamentare)

Ugo La Malfa (parlamentare)

Giovanni Malagodi (parlamentare)

Mario Pedini (parlamentare e membro P2)

Giuseppe Petrilli (Presidente IRI)

Leopoldo Pirelli (Gruppo Pirelli)

Mariano Rumor (parlamentare)

Paolo Vittorelli (senatore)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

1966 – Wiessbaden, Germania

Giovanni Agnelli

Piero Bassetti (politico e imprenditore azienda Bassetti)

Manlio Brosio (Segretario Generale NATO)

Franco Malfatti (parlamentare e giornalista)

Mario Pedini (parlamentare e membro P2)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

 1967 – Cambridge, Inghilterra

 Giovanni Agnelli

Manlio Brosio (NATO)

Principe Guido Colonna di Paliano (commissario europeo, diplomatico NATO)

Mario Aggradi Ferrari (parlamentare, ministro, membro Democrazia Cristiana)

Aurelio Peccei (manager FIAT e OLIVETTI, membro fondatore del Club di Roma)

Leopoldo Pirelli (Gruppo Pirelli)

Paolo Vittorelli (senatore)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

1968 – Mont Tremblant, Canada

 Giovanni Agnelli

Roberto Olivetti (Gruppo Olivetti)

Aurelio Peccei (manager FIAT, Olivetti, Club di Roma)

Leopoldo Pirelli (Gruppo Pirelli)

Alberto Ronchey (ministro, scrittore e giornalista Corriere della Sera)

Altiero Spinelli (Club del Coccodrillo, commissario europeo, scrittore e politico)

Ugo Stille (giornalista Corriere della Sera)

1969 – Marienlyst, Danimarca

Giovanni Agnelli

Antonio Cariglia (senatore)

Fabio Luca Cavazza (editore, scrittore, giornalista)

Piero Ottone (giornalista Corriere della Sera)

Lorenzo Vallarino Gancia (imprenditore Gruppo Asti-Gancia)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

1970 – Bad Ragaz, Svizzera

Giovanni Agnelli

Renato Altissimo (parlamentare)

Gilberto Bernardini (fisco e docente fisica nucleare Università di Bologna)

Arrigo Levi (giornalista Corriere Della Sera, RAI)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

1971 – Woodstock, Vermont, USA

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Emanuele Gazzo (giornalista, fondatore Agenzia Europa)

Giuseppe Glisenti (Direttore Rai, cofondatore Democrazia Cristiana)

Gian Giacomo Migone (docente universitario, NATO, ONU)

Piero Ottone (giornalista Corriere della Sera)

Gianfranco Piazzesi (giornalista Corriere della Sera)

1972 – Knokke, Belgio

Giovanni Agnelli

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Umberto Colombo (scienziato italiano)

Principe Guido Colonna di Paliano (commissario europeo, diplomatico, NATO)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Arrigo Levi (giornalista Corriere della Sera, RAI)

1973 – Saltsjöbaden, Svezia

Giovanni Agnelli

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Raffaele Girotti (manager Montedison, ENI, senatore Democrazia Cristiana)

Siro Lombardini (economista)

Cesare Merlini (Presidente Istituto Affari Internazionali)

Ugo Stille (giornalista Corriere della Sera)

1974 – Hotel Mont D’Arbois, Megévè, Francia

Giovanni Agnelli

Enzo Bettiza (senatore, giornalista Corriere della Sera, cofondatore de Il Giornale)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Principe Guido Colonna di Paliano (commissario europeo, diplomatico, NATO)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Giorgio La Malfa (parlamentare)

Arrigo Levi (giornalista Corriere della Sera, RAI)

Franco Maria Malfatti (senatore)

Alberto Rochey (giornalista Corriere Della Sera, scrittore)

1975 – Golden Dolphin Hotel, Cesme, Turchia

Giovanni Agnelli

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Guido Carli (politico e Presidente Confindustria)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Francesco Forte (docente universitario, parlamentare)

Giorgio La Malfa (parlamentare)

Arrigo Levi (giornalista Corriere Della Sera, RAI)

1977 – Torquay, Inghilterra

Giovanni Agnelli

Tina Anselmi (politica, partigiana e Presidente della Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Guido Carli (politico, Presidente Confindustria)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Marcella Glisenti (scrittrice)

Carlo Sartori (pittore)

Francesco Cossiga

1978 – Princeton, New Jersey, USA

 Giovanni Agnelli

Nino Andreatta

Gian Gasperi Cesi Cittadini

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Piero Ottone (giornalista Corriere Della Sera)

Paolo Savona (economista, docente universitario)

Stefano Silvestri (sottosegretario Affari Europei, consulente Difesa)

1979 – Baden, Austria 

Giovanni Agnelli

Vittorio Barattieri (Direttore generale Ministero Industria)

Gian Gasperi Cesi Cittadini

Stefano Silvestri (sottosegretario Affari Europei, consulente della Difesa)

Nicola Tufarelli (FIAT)

1980 – Aachen, Germania

 Luigi Barzini (scrittore)

Giorgio Benvenuto (sindacalista, segretario generale UIL)

Marchese Gian Gasperi Cesi Cittadini

Luigi Ferri (giurista)

Romano Prodi

Stefano Silvestri (sottosegretario Affari Europei, consulente della Difesa)

Barbara Spinelli (giornalista, cofondatrice Repubblica)

1981 – Burgenstock, Svizzera

 Giovanni Agnelli

Romano Prodi

Stefano Silvestri

1982 – Sandefjord, Norvegia

Piero Ostellino (giornalista Corriere della Sera)

Romano Prodi

Virginio Rognoni (Ministro Affari Interni)

Stefano Silvestri

1983 – Montebello, Quebec, Canada

Umberto Agnelli

Piero Bassetti (Bassetti Spa)

Mario Monti

Paolo Zannoni

1984 – Saltsjobaden, Svezia 

Giovanni Agnelli

Mario Monti

1985 – Rye Brook, New York, USA

Giovanni Agnelli

Umberto Cappuzzo (Generale Esercito Italiano)

Mario Monti

Guido Rossi (giurista e avvocato)

Giovanni Sartori (Docente Columbia University)

Paolo Zannoni (FIAT)

1986 – Gleneages, Scozia, Regno Unito 

Giovanni Agnelli

Antonio Maccanico (politico, segretario generale Ufficio Presidenza Repubblica Italiana)

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa (Direttore Banca d’Italia)

Renato Ruggiero (Segretario Ministero Affari Esteri)

Gaetano Scardocchia (editore, La Stampa)

Luigi Spaventa (docente economia Università La Sapienza)

Paolo Zannoni (FIAT)

Alfredo Ambrosetti (Presidente Studio Ambrosetti)

1987 – Villa D’Este, Cernobbio, Lago di Como, Italia 

Giovanni Agnelli

Luigi Caligaris (senatore)

Guido Carli (senatore)

Carlo Azelio Ciampi

Francesco Cingano (Direttore Banca Commerciale Italiana)

Raul Gardini (Direttore generale Ferruzzi Spa)

Mario Monti

Romano Prodi

Franco Reviglio (Direttore ENI)

Cesare Romiti (FIAT)

Renato Ruggiero (Segretario Ministero Affari Esteri)

Gaetano Scardocchia (editore, La Stampa)

Paolo Zannoni (FIAT USA)

Alfredo Ambrosetti

Alessandro Vanzetto (FIAT)

1988 – Telfs-Buchen, Austria

Giovanni Agnelli

Giorgio La Malfa

Mario Monti

Ugo Stille (Capo Editore Corriere della Sera)

Paolo Zannoni

1989 – La Toja, Spagna 

Giovanni Agnelli

Enrico Braggiotti (Banca Commerciale Italiana)

Raul Gardini (Ferruzzi Spa)

Mario Monti

Filippo Maria Pandolfi (politico Democrazia Cristiana, vice presidente Commissione Comunità Europea)

Paolo Zannoni

1990 – Glen Cove, New York, USA 

Giovanni Agnelli

Enrico Braggiotti (Banca Commerciale Italiana)

Raul Gardini (Ferruzzi Spa)

Mario Monti

Romano Prodi

Renato Ruggiero (Ministro Commercio Estero)

Paolo Zannoni

1991 – Baden Baden, Germania 

Giovanni Agnelli

Giampiero Cantoni (Direttore Banca Nazionale del Lavoro)

Gianni De Michelis (Ministro Affari Esteri)

Mario Monti

Renato Ruggiero (politico e diplomatico)

1992 – Evian-les-Bains, Francia

Giovanni Agnelli

Mario Monti

Sergio Romano (La Stampa)

Renato Ruggiero

Paolo Zannoni

1993 – Atene, Grecia

Giovanni Agnelli

Mario Monti

Renato Ruggiero

Barbara Spinelli

Marco Tronchetti Provera (Pirelli Spa)

1994 – Helsinki, Finlandia

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Alfredo Ambrosetti (Gruppo Ambrosetti)

Franco Bernabè (Telecom, ENI, banchiere e vicepresidente Rothschild Europa)

Innocenzo Cipolletta (Direttore Confindustria)

Mario Draghi

Mario Monti

Renato Ruggiero

1995 – Zurigo, Svizzera

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Mario Draghi

Renato Ruggiero

1996 – Toronto, Canada 

Giovanni Agnelli

Franco Bernabè

Mario Monti

Valter Veltroni 

1997 - Lake Lanier, Georgia, USA 

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Carlo Rossella (La Stampa)

Stefano Silvestri

1998 – Turnberry, Ayrshire, Scozia 

Giovanni Agnell

Franco Bernabè

Luigi Cavalchini

Rainer Masera (Direttore Gruppo SanPaolo IMI)

Tommaso Padoa-Schioppa

Domenico Siniscalco

Enrico Mattei

1999 – Sintra, Portogallo

Agnelli Umberto

Franco Bernabè

Francesco Giavazzi (Università Bocconi)

Paolo Fresco (FIAT)

Alessandro Profumo (Unicredit)

2000 – Genval, Bruxelles, Belgio

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Alfredo Ambrosetti

Franco Bernabè

Paolo Fresco

Gianni Riotta (La Stampa)

Renato Ruggiero (Schroder Salomon Smith Barney Italia)

Giulio Tremonti

2001 – Stenungsund, Svezia

Franco Bernabè

Mario Draghi

Gian Maria Gros-Pietro (FIAT, Atlantia, Seat, Edison)

Mario Monti

Gianni Riotta

2002 – Chantilly (Virginia), USA

Mario Draghi

Mario Monti

2003 – Versailles, Parigi, Francia

Alfredo Ambrosetti

Rodolfo De Bendetti (CIR)

Franco Bernabè

Mario Draghi

Mario Monti

Marco Panara (La Republica)

Corrado Passera (Banca Intesa BCI)

Roberto Poli (ENI)

Paolo Scaroni (Enel)

2004 – Stresa, Italia

Alfredo Ambrosetti

Rodolfo De Benedetti

Franco Bernabè

Ferruccio De Bortoli (RCS Libri)

Lucio Caracciolo (Direttore rivista italiana di geopolitica Limes)

Mario Draghi

Gabriele Galateri (Mediobanca)

Francesco Giavazzi (docente Bocconi)

Cesare Merlini

Mario Monti

Corrado Passera (Banca Intesa Spa)

Gianni Riotta (Corriere della Sera)

Paolo Scaroni (Enel)

Domenico Siniscalo

Giulio Tremonti

Marco Tronchetti Provera

Ignazio Visco (Banca d’Italia)

2005 – Rottach-Egern, Germania

Franco Bernabè

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Paolo Scaroni

Domenico Siniscalo

2006 – Ottawa, Canada

Franco Barnabè

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Paolo Scaroni

Giulio Tremonti

2007 – Istanbul, Turchia

Franco Bernabè

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Paolo Scaroni Paolo

Domenico Siniscalco

Giulio Tremonti

2008 Chantilly, Virginia, USA

Franco Bernabè

Mario Draghi

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

2009 – Atene, Grecia

Franco Bernabè

Mario Draghi

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa, Minister of Finance, President “Notre Europe”

Romano Prodi

Domenico Siniscalco

2010 –  Sitges, Spagna

Franco Bernabè Franco, CEO, Telecom Italia s.p.a

Fulvio Conti Fulvio (ENI)

John Elkann John

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Gianfelice Rocca (Gruppo Techint, Confindustria)

Paolo Scaroni

2011 – Sant Moritz, Svizzera 

Franco Bernabè

John Elkann

Mario Monti

Paolo Scaroni

Giulio Tremonti Giulio

2012 - Chantilly, Virginia, USA

Franco Bernabè

Fulvio Conti (CEO and General Manager, Enel S.p.A)

John Elkann

Lilli Gruber

Enrico Letta

[fonte: Bilderberg Meeting Report]

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste.
Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

 

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

L’inno di Mameli? Non è l’inno della Repubblica italiana, ma quello dei massoni!, scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri". Questo inno massonico ha anticipato e accompagnato la ‘conquista’ del Sud da parte di quei ‘briganti’ dei Savoia. I massoni si schierarono con i piemontesi per massacrare le popolazioni del Mezzogiorno che si ribellavano alle angherie e alle prepotenze di Vittorio Emanuele e dei suoi sgherri. Una ribellione contro un invasore volgare e ignorante che gli storici prezzolati hanno definito “lotta al brigantaggio”. In realtà, i “briganti”, come già detto, erano i Savoia e i massoni che li spalleggiavano! Vi siete mai chiesti perché il nostro inno nazionale inizia con la parola “fratelli”? E, su questo vi siete mai data una risposta? A tal proposito vale bene ricordare che l’inno di Mameli non è mai stato l’inno ufficiale della Repubblica italiana, bensì un inno ufficioso o, per meglio dire “precario” come, del resto, lo è la maggior parte di tutto ciò che avviene in questo nostro Paese. A ben vedere, per quanto infatti diremo, il “precario” e ufficioso inno di Mameli si può definire a buon diritto l’inno che la massoneria impose alle nascente Repubblica italiana nel lontano 1946 in sostituzione della “marcia reale” che aveva caratterizzato il precedente periodo monarco-fascista. “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”: queste infatti sono le prime parole dell’inno di Mameli. Un inno, come si intuisce, di chiara connotazione massonica, musicato da Michele Novaro e scritto nell’autunno del 1847 dal “fratello” Goffredo Mameli (al quale, a riprova della sua appartenenza e devozione ai liberi muratori, sarà poi dedicata a futura memoria una loggia) che, non a caso e da buon “framassone”, lo fa iniziare con la sintomatica e significativa parola “Fratelli”. Un inno scritto dal “fratello” Goffredo Mameli nel 1848 e riproposto un secolo dopo, il 12 ottobre 1946, da un altro “fratello”, il ministro delle guerra dell’allora governo De Gasperi, il repubblicano Cipriano Facchinetti, da sempre ai vertice della massoneria, con la carica di Primo sorvegliante nel Consiglio dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia e affiliato alla loggia “Eugenio Chiesa”. Fu in quella data dell’ottobre del 1946 che Facchinetti, quale ministro della guerra, impose che l’inno fosse suonato in occasione del giuramento delle Forze Armate. E da quel momento “Fratelli d’Italia” divenne, come lo è tuttora, l’inno ufficioso della Repubblica italiana. Ufficioso e provvisorio, perché mai istituzionalizzato con alcun decreto e ancor di più, perché non contemplato dalla nostra Carta costituzionale come lo è sancita, dall’articolo 12 della stessa Costituzione, l’istituzione del tricolore come bandiera nazionale. Un inno che rimane, pertanto, per le cose dette, ancora ad oggi, privo di ogni ruolo e di ogni qualsivoglia definizione istituzionale. Da quanto argomentato si può altresì facilmente desumere che l’inno degli italiani fu un inno, nella sua lunga gestazione, fortemente voluto dai massoni che tanta parte, come abbiamo visto, ebbero e continuano, ancora oggi, ad avere nelle vicende che portarono alla mal digerita unità d’Italia. Fu immediatamente dopo l’unità d’Italia che il Sud si “destò” e si accorse, sulla propria pelle e a proprie spese, di che pasta erano fatti i “fratelli” che erano venuti a “liberarlo”. Non passò molto tempo, infatti, che siciliani e meridionali si resero conto che i garibaldo-italo-piemontesi non erano affatto i liberatori sperati, ma spietati conquistatori. E che di conquista e di colonizzazione, e non di liberazione del Sud e della Sicilia si trattò, ne è testimonianza quanto avvenne nella seduta parlamentare del 29 maggio 1861, a Palazzo Carignano, quando, ai deputati e ai giornali del Nord, che si ostinavano, avendone la piena convinzione, a sostenere di avere conquistato la Sicilia e il Mezzogiorno, si opponeva il siciliano on. Giuseppe Bruno deputato di Nicosia, il quale, in pieno Parlamento così si ergeva a protestare: “Si è detto, in alcuni giornali e qui si è ripetuta l’espressione di province meridionali ‘conquistate’ e siccome questa è un’espressione offensiva, non solo, ma ingiusta, permettetemi che come testimonio oculare la respinga risolutamente. Ciò posto, prego gli onorevoli colleghi a non volere ripetere la frase di ‘conquista’ riguardo nostro e conto che dopo queste parole e le spiegazioni da me date sui fatti di Sicilia accetteranno essi senza offesa la mia protesta”. I piemontesi della protesta dell’on Bruno non ne tennero alcun conto se, negli anni successivi, essendo ben convinti di essere conquistatori e non liberatori, perpetreranno nei confronti delle genti del Sud eccidi e massacri inenarrabili. Del resto, che di conquista, a tutti gli effetti, si trattò ce ne dà ampia e documentata testimonianza anche Antonio Gramsci nel suo autorevole saggio sul Risorgimento. Con la spedizione dei Mille, infatti, ebbe inizio il lungo processo di conquista e di scientifica colonizzazione del Sud e della Sicilia e la “radunata rivoluzionaria”, come ebbe a definirla lo stesso Gramsci, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi s’innestava nella forze statali piemontesi e che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo e sterilizzò la flotta borbonica. Gramsci, di fatto, nella sua lucida analisi non faceva altro che evidenziare come la “gloriosa “spedizione non fu altro che una grande mistificazione storica. E fu con questa radunata rivoluzionaria, che Gramsci chiama “rivoluzione passiva” o, meglio ancora, “rivoluzione-restaurazione”, che trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne perché nulla cambiasse. Anzi, per cambiare in peggio. Una rivoluzione-restaurazione che fa dire allo scrittore e uomo politico sardo che, nel suo contesto, il popolo ebbe un ruolo molto marginale, anzi subalterno, così che il risorgimento si caratterizzò, con tutte le sue ineluttabili e deleterie conseguenze, come “conquista regia” e non come movimento popolare, perché appunto mancava al popolo una coscienza nazionale. E in questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneità del popolo al moto unitario fu così possibile ai moderati cavouriani dirigere il processo di unificazione, regolarlo ai propri fini e ai propri interessi, in chiave antimeridionale e a tutela degli interessi del Nord con la creazione di un nuovo Stato che di questi fini e di questi interessi ne fu portatore. Con la “rivoluzione-restaurazione”, il Piemonte assume una funzione di “dominio” e non di dirigenza reale e democratica di un processo di rinnovamento che in effetti non ci fu. Si passò, nelle regioni meridionali, dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo piemontese. “Dittatura senza egemonia”, opportunamente la definisce ancora Gramsci, che fece pagare al Sud – e alla Sicilia in particolare – sotto tutti i punti di vista, soprattutto in termini economici e repressivi, il prezzo più alto. Del resto, di recente anche di “risorgimento senza popolo”, sulla stessa lunghezza d’onda di Gramsci, parla nel suo interessante saggio Storia e politica Risorgimento- Fascismo e Comunismo il giornalista, scrittore e saggista Paolo Mieli, il quale nel capitolo dedicato al risorgimento, frutto di approfondite ricerche storiche (Ernesto Ragionieri, Gabriele Turi, Fulvio Camarrano, Giorgio Candeloro e altri) perviene alla conclusione di un risorgimento realizzato da una “ èlite”, in cui il popolo non fu per niente protagonista e, proprio perché èlite, riuscì a creare un’area di consenso popolare assai ristretta o quasi nulla. “Dal 1861 – sostiene Mieli – dunque, il popolo, anziché essere una riserva di consenso, costituì un problema per le èlite che fecero l’Italia, con conseguenze drammatiche nella definizione dei modi di fare e di intendere la politica”. Mieli, in premessa, prende in esame in particolare l’arco di tempo che va dalla fine del Settecento, all’inizio dell’Ottocento e dai movimenti popolari che li caratterizzarono (sanfedismo e insorgenze) sino all’Unità d’Italia. Arco di tempo in cui vennero poste le basi del risorgimento. Ebbene, saltano fuori alcuni “temi scomodi” delle nostra storia patria che la agiografia ufficiale e i testi scolastici hanno sempre occultato. Ossia, a differenza di quanto avvenne nelle rivolte Sanfediste e delle Insorgenze, in cui il popolo fu protagonista attivo di quelle lotte e di quelle rivolte, nel risorgimento, al contrario, registriamo la quasi totale assenza di un consenso popolare e di partecipazione attiva alla sua realizzazione. Insomma che il popolo non fu mai un soggetto protagonista, ma in alcuni casi avverso alle lotte e agli ideali del risorgimento è acclarato da avvenimenti incontrovertibili e documentati per quanto diremo, in questo contesto, riferibili a Carlo Pisacane e a Ippolito Nievo. Carlo Pisacane fortemente impregnato da una ideologia socialisteggiante e libertaria in cui collega l’idea d’indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto sociale e politico delle masse contadine e per questo propugnatore di un “socialismo utopistico” e libertario, alla fine si troverà, nel giugno del 1857, appena sbarcato a Sapri, assalito e massacrato da quegli stessi contadini e popolani per cui voleva fare la sua personale rivoluzione. E proprio nel suo Saggio sulla rivoluzione, distinguendosi e prendendo le distanze da Garibaldi e dagli altri nei giudizi su casa Savoia, tra l’altro così scriveva: “La dominazione della Casa Savoia e la dominazione della Casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa” e poi ancora “che il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia del Borbone”. In seguito i fatti gli daranno ampiamente ragione. Un uomo giusto e di grandi ideali che si trovò a operare nel posto e in un contesto sbagliato. Appena sbarcato a Sapri, Pisacane e i suoi 300 compagni, buona parte ex detenuti fatti evadere dall’isola di Ponza, furono affrontati, circondati e massacrati, con circa un centinaio di morti, compreso Pisacane, non come era prevedibile dalle guardie regie, ma dai contadini e dalla stessa popolazione locale. Dell’assenza del popolo nelle lotte risorgimentali e nella stessa spedizione dei Mille, dopo lo sbarco di Marsala avvenuto tra l’indifferenza generale della popolazione, ce ne dà altrettanta buona testimonianza quanto Ippolito Nievo scrive, il 24 giugno del 1860, alla cugina Bice con la quale intrattiene una intensa corrispondenza, a proposito della conquista di Palermo: “Ti giuro Bice… dentro pareva una città di morti, non altra rivoluzione che, sul tardi, qualche scampanio. E noi soli, ottocento al più sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati, senz’ordine e senza direzione, alla conquista di una città. Noi correvamo per vicoli e piazze in cerca dei napoletani per farli sloggiare e dei palermitani per far fare loro la rivoluzione. Riuscimmo mediocremente più nell’una che nell’altra cosa. In fin dei conti Palermo rimase nostra di noi soli come si direbbe a Milano”. Anche qui, secondo quanto riportato da Nievo nella lettera alla cugina, il popolo, come in tanti altri avvenimenti e circostanze, brillò per la sua assenza. Ma ancor di più, immediatamente dopo l’unità d’Italia, un consenso e una partecipazione popolare attiva si ebbero addirittura, soprattutto, nel Mezzogiorno dalla parte opposta a quella del risorgimento che culminò in una sanguinosa guerra civile con le lotte contadine e di liberazione dall’invasione italo-piemontese, contrabbandata, da sempre dalla storiografia ufficiale, come lotta al brigantaggio. Partigiani e contadini poveri che si batterono per la loro libertà, per le loro terre e per il loro diritto all’esistenza che fece dire, come poi scrisse testualmente Antonio Gramsci su Ordine Nuovo: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Questi dunque, anche a parere di Gramsci e di tanti altri scrittori e saggisti che di recente – come Mieli – si pongono l’obiettivo di una serena e imparziale revisione storica, in buona sostanza, i vizi d’origine e le cause di debolezza del nuovo stato italiano e di una mal digerita e mai metabolizzata Unità. Vizi d’origine e debolezze che meritano oggi, più che costose retoriche e trionfalistiche celebrazioni – come spesso è avvenuto nel passato – opportuni e doverosi, per rispetto della verità storica, momenti di riflessione. Con la conquista del Sud inizia infatti il processo di scientifica rapina e di saccheggio dei beni e delle ricchezze del Mezzogiorno e della Sicilia e degli inenarrabili massacri a cui furono sottoposte le popolazioni dei territori “conquistati”.

Quando il massone Garibaldi si mise a disposizione della Chiesa di Roma. E gli storici? Tacciono…, scrive Ignazio Coppola il 10 febbraio 2016 su "I Nuovi Vespri". Solo in Italia, per oltre 150 anni, verità storiche con tanto di testimonianze scritte possono essere nascoste dagli storici di regime. Così, ancora oggi, i libri di storia continuano a negare i fatti. Pensate: il ‘condottiero’ protagonista della breccia di Porta Pia, anni prima, aveva mosso la sua spada a disposizione della Chiesa di Pio IX che gli disse no. In cambio di denaro era pronto, sono parole sua, “servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane”. E l’hanno fatto ‘padre della patria’ intestandogli viene scuole…Forse non tutti sanno che Giuseppe Garibaldi il massone dei due mondi e primo massone d’Italia si mise per fame, per bisogno e necessità a disposizione del Papa e della Chiesa. A tal proposito vi raccontiamo la storia dell’eroe dei due mondi e il suo lungo e travagliato excursus di adesione alla massoneria e la sua contraddittoria disponibilità, lui massone impenitente, di mettere la sua spada al servizio di Pio IX e della Chiesa romana. Ma cominciamo dall’inizio. Appunto dalla sua iniziazione alla “Fratellanza Universale” che avvenne nelle lontana America del Sud, a 37 anni, nel 1844 per poi concludersi con la sua consacrazione a Gran Maestro nel 1864. Il primo approccio di Giuseppe Garibaldi alla Massoneria avviene nel 1835, ai tempi della sua permanenza in Brasile, in seguito alla frequentazione dell’amico e compatriota Livio Zambeccari, a sua volta affiliato alla loggia massonica di Porto Alegre, ai tempi della Repubblica del Rio Grande do Sul. In seguito, prenderà maggiore dimestichezza con “cappucci, grembiuli, mattoni e cazzuole”, iscrivendosi, nel 1844, a Montevideo alla loggia L’asil de la virtude (loggia irregolare). Sempre nello stesso anno e nella stessa città, aderisce alla loggia Les amis de la patrie sotto il Grande Oriente di Francia. Nel 1850, frequenta le logge massoniche di New York, per poi ritrovarsi negli anni 1853/54 “alloggiato” alla Philadelphes di Londra. Ma è nel 1859 che in Italia è autorevole protagonista della ricostituita loggia del Grande Oriente d’Italia insieme, tra gli altri, a Cavour, a Filippo Cordova, a Massimo D’Azeglio e al gran maestro Costantino Nigra. Siamo nella immediata vigilia della spedizione in Sicilia e, come abbiamo visto, le massonerie di Londra e Torino, preparandola a puntino, avranno un ruolo determinante e incisivo per la buona riuscita dell’impresa. A Garibaldi, entrato da “conquistatore” nella capitale dell’Isola, nel giugno del 1860 verranno conferiti, dal Grande Oriente di Palermo, tutti i gradi della gerarchia massonica (dal 4° al 33°) e la nomina a Gran Maestro. Officianti della cerimonia, che si svolse a Palazzo Federico, in via dei Biscottari, Francesco Crispi e altri cinque fratelli massoni. Alcuni giorni dopo, sempre a Palermo, il neo Gran Maestro, in virtù del massimo grado appena attribuitogli dalla gerarchia massonica, firma le proposte di affiliazione del figlio Menotti (1 luglio 1860) e di alcuni autorevoli componenti il suo stato maggiore: Giuseppe Guerzoni, Francesco Nullo, Enrico Guastella e Pietro Ripari (3 luglio 1860). Il nostro eroe, da buon stakanovista della Massoneria, come vediamo, ha il suo bel da fare. In una lettera inviata ai “fratelli” di Palermo, il 20 marzo 1862 scriveva di “avere (…) assunto di gran cuore il supremo ufficio conferitogli e ringraziava i liberi fratelli per l’appoggio che essi avevano dato da Marsala al Volturno nelle grande opera di affrancamento delle province meridionali. La nomina a Gran Maestro rappresentava, come scrisse, la più solenne delle interpretazioni delle sue tendenze, del suo animo, dei suoi voti, lo scopo per cui aveva mirato tutta la sua vita. Ma il culmine della sua carriera massonica Garibaldi lo raggiungerà a Firenze, nel maggio del 1864. I settantadue delegati della prima costituente massonica, riunitisi nella città in riva all’Arno, lo elessero, a stragrande maggioranza, Gran Maestro dei Liberi Muratori comprendente i due riti, scozzese e italiano. Ma, a causa di divergenze e divisioni tra le varie anime del massimo organo della Massoneria, non durerà che pochi mesi nella suprema carica. Gli succederà Ludovico Frappolli. Nel maggio del 1867, in una successiva assemblea tenutasi a Napoli, a sua parziale consolazione, verrà eletto Gran Maestro Onorario. Nel 1881, infine, a poco meno di undici anni dalla sua morte, ottenne la suprema carica del Gran Hierofante del rito egiziano del Menphís Misrain. Come dicevamo all’inizio, da quanto abbiamo visto, Garibaldi più che eroe dei due mondi può definirsi a pieno titolo il “massone dei due Mondi”. V’è da credere che nella storia della Massoneria nessuno quanto lui abbia avuto più affiliazioni nelle varie logge sparse nel mondo. Roba da guiness dei primati. Eppure, i libri di testo delle nostre scuole, ipocritamente e in mala fede, continuano a ignorare questa sua appartenenza, come protagonista e figura di primo piano delle consorterie massoniche di mezzo mondo, e il ruolo pregnante che la Massoneria ha avuto e ha continuato ad avere sino ai nostri giorni nella storia del nostro Paese. Come altrettanto ipocritamente e in mala fede, nel mancato rispetto della verità storica, tutto questo è stato sempre sottaciuto in occasione delle celebrazioni del bicentenario della sua nascita e delle celebrazioni di qualche anno fa dell’Unità d’Italia. In dispregio alle verità ed alla trasparenza della storia, abbiamo bisogno di eroi a ogni costo sotto le mentite spoglie di massoni, mercenari, avventurieri e predoni. Tra le mancate virtù di Garibaldi a questo punto, ci piace infine sottolineare e ricordare quella della sua incoerenza: come dire, era suo solito, del predicare bene e razzolare male. Siamo a Montevideo nel 1847 mentre, con poca gloria, si sta esaurendo la sua esperienza uruguaiana. Avendo nostalgia dell’Italia e alla ricerca, da buon mercenario ed avventuriero, di un nuovo padrone cui mettere a disposizione la propria spada e i propri compagni d’arme, non trova di meglio che proporsi, egli massone, anticlericale e mangiapreti impenitente, al servizio della Chiesa e di Pio IX. Nell’agosto di quell’anno così scrive a un suo amico: “Io più che mai, siccome i compagni non aneliamo ad altro che al ritorno in patria comunque sia. Dunque, mio amico, se vedeste fosse possibile servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane. Siamo pronti a qualsiasi condizione purché non indecorosa”. E con questa propensione all’asservimento alla Chiesa ed a Pio IX cosi scrive il 12 ottobre 1847 a monsignor Gaetano Bedini, nunzio apostolico a Rio de Janiero con giurisdizione sui paesi platensi: “Offro a Pio IX la mia spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa. Ricordando (egli sempre massone, ateo e anticlericale) i precetti della nostra augusta religione sempre nuovi e sempre immortali, pur sapendo che il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. Monsignor Bedini, a nome di Pio IX, rispose con molti ringraziamenti e gentilezza, declinando l’offerta di Garibaldi e della legione Italiana. Più avanti, Garibaldi, come era nella sua indole, non dimostrando altrettanta cortesia, definirà Pio IX e i preti un mucchio di letame. Salvo poi, dopo la conquista della capitale della Sicilia, il 15 luglio del 1860, in occasione della festa di santa Rosalia, non aver alcun pregiudizio, egli mangiapreti e impertinente massone, a sedere sul più alto trono della Cattedrale di Palermo per ricevere l’incenso dall’arcivescovo di quella città, secondo la tradizionale cerimonia della così detta “cappella reale” simboleggiante i poteri della Legazia Apostolica. E lo ritroviamo, poco meno di un mese dopo, a Napoli, con altrettanto fervore religioso, rendere omaggio, se pur Gran Maestro Venerabile della Massoneria, alla Madonna Venerabile nella chiesa di Piedigrotta ed a un breve discorso del sacerdote officiante rispose con parole di devoto amore alla religione cristiana e alle sue grandi e sublimi verità. Il 10 giugno, infine, rispettando le consuetudini religiose di questa città, dispose la celebrazione della ricorrenza del patrono San Gennaro, presenziando autorevolmente assieme agli alti prelati della chiesa napoletana al miracoloso scioglimento del sangue del santo. Misteri della fede massonica o cattolica dell’eroe dei due mondi. Fate voi. Ai lettori l’ardua sentenza.

Ma quale gloriosa battaglia di Calatafimi! Solo imbrogli e tradimenti. In stile Garibaldi, scrive "Ignazio Coppola" il 5 gennaio 2016 su "I Nuovi Vespri". In un reportage La Repubblica edizione di Palermo, per la firma di Gianni Bonina, ripropone Garibaldi e la battaglia di Calatafimi. Presentata come una vicenda ‘eroica’. Ragazzi, ormai lo sanno pure le pietre che Garibaldi ‘vinse’ sta battaglia-farsa grazie al tradimento del generale Landi. Altro che gloria! E’ di questi giorni sulla pagina culturale de La Repubblica edizione di Palermo un reportage a puntate dal titolo “Sulle orme dei garibaldini – l’isola in camicia rossa”a firma di Gianni Bonina che va dallo sbarco di Marsala l’11 maggio 1860 e via via descrivendo ad usum delphini tutta l’impresa dei Mille di Garibaldi in Sicilia, con particolare riferimento alla battaglia di Calatafimi pubblicata domenica 31 Luglio. Ebbene, anziché ripetere falsità storiche, come ormai da 156 anni a questa parte ci propinano gli storiografi di regime, il nostro poco attendibile “storico” autore del reportage sui Mille avrebbe fatto meglio a documentarsi e trarre le debite conclusioni su come realmente si svolse la battaglia farsa di Calatafimi. E su come questa battaglia farsa, come tante altre, rientra appunto nell’alveo di quelle verità storiche sottaciute o, peggio ancora, mistificate e contrabbandate come epiche gesta da tramandare ai posteri con frasi ad effetto come quella: “Qui si fa l’Italia o si muore” che a quanto pare Garibaldi non ha mai pronunciato. Una battaglia farsa, quella di Calatafimi, decisa, dal tradimento e dalla corruzione del generale Landi e non dal valore dei garibaldini. Decisiva e galeotta, infatti, fu una “fede di credito” di 14.000 ducati (poi addirittura risultata taroccata e falsa all’atto della riscossione), pagata a Landi dallo stesso Garibaldi. Vicenda in seguito confermata dallo stesso Landi, per cui 3000 borbonici ben addestrati e ben armati s’arresero a circa 1000 garibaldini poco avvezzi all’uso delle armi e animati solamente da spirito d’avventura. Per cui l’episodio della corruzione del generale Landi fu l’unico decisivo e squallido elemento delle sorti della battaglia di Calatafimi. Del resto basta rileggere, a conferma di questo, quanto scritto dagli storiografi al seguito dello stesso Garibaldi per rendersi bene conto di quello che inaspettatamente e scandalosamente avvenne a Calatafimi. Scrive Cesare Abba nel suo diario Da Quarto al Volturno: “E proprio quando pensavamo di avere perso, alla fine ci parve un miracolo avere vinto” (il miracolo della fede di credito frutto della corruzione). E ancora Francesco Grandi nel suo diario I garibaldini testualmente riporta: “Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa, come avevamo temuto, non era lanciato dalla nostra tromba, ma da quella borbonica”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’amministratore della spedizione dei Mille, lo scrittore Ippolito Nievo, il quale nelle sue memorie ebbe a meravigliarsi di una vittoria, giunta, quanto mai inattesa. L’inusuale ritirata di 3000 borbonici al cospetto di 1000 garibaldini male in arnese, trova dunque la sua logica giustificazione nel prezzo della corruzione che Garibaldi pagò a Landi, e dallo stesso successivamente confermato, perché inopinatamente e inaspettatamente desse alle sue truppe l’ordine di ritirasi. E di tutto questo il buon Gianni Bonina avrebbe fatto meglio a documentarsi, magari rileggendosi un articolo scritto proprio su La Repubblica di Palermo qualche anno fa dallo storico Salvatore Falzone dal titolo: “La battaglia di Calatafimi - Eroismo o tradimento? - Battaglia o pagliacciata?” prima di riproporci nel suo reportage lo scontro - farsa di Calatafimi come una epica battaglia da tramandare ai posteri. E proprio ora di finirla.

Quando casa Savoia, 155 anni fa, fece fucilare Angela Romano, una bambina di 9 anni, scrive "Ignazio Coppola" l'1 gennaio 2017 su "I Nuovi Vespri". Parliamo della rivolta dei Cutrara, andata in scena nei primi giorni di gennaio di 155 anni fa a Castellammare del Golfo. Fu la rivolta dei poveri Siciliani, che non volevano passare cinque anni della loro vita al servizio dell’esercito piemontese. I giovani delle famiglie ricche pagavano e venivano esentati dalla leva. I poveri dovevano piegarsi alla prepotenza di casa Savoia. Da qui la ribellione repressa nel sangue dai ‘galantuomini’ di Torino. Che passarono per le armi vecchi, donne e persino una bambina. Una storia di violenza e di crudeltà che i libri di storia del nostro Paese ignorano. Ricorre in questi primi giorni di gennaio il 155° anniversario della rivolta dei “Cutrara”. Una rivolta che, per parecchi giorni, agli albori dell’unità d’Italia, insanguinò Castellammare del Golfo. Avvenimenti dei quali, come è spesso successo nella storia del nostro Paese, s’è persa la memoria e ogni traccia. Una vicenda che gli abitanti di questa cittadina siciliana del Trapanese, attraverso associazioni culturali e le istituzioni locali, con varie iniziative, meritoriamente stanno cercando di riportare alla luce squarciando così un pietoso velo che sinora ha condannato all’oblio quei tragici avvenimenti che, proprio perché facenti parte della nostra storia, ci sembra opportuno ricordare. Il primo gennaio del 1862, a poco meno di un anno dalla proclamazione del regno d’Italia, buona parte degli abitanti di Castellammare del Golfo, stanchi delle sopraffazioni e dei soprusi subiti in così breve tempo, sopratutto per le esose tassazioni e l’imposizione del servizio militare obbligatorio, scese in piazza al grido di “Abbasso la leva e morte ai Cutrara”. La causa scatenante della rivolta fu data, appunto, dall’introduzione della lunga leva militare obbligatoria (alla quale sotto il Borbone i siciliani erano esenti) la cui legge istitutiva, pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale del 30 giugno 1861, prevedeva  discriminatamene che i figli dei poveri, non potendosi comprare l’esenzione, prevista dalla legge, erano costretti ad una lunga leva di ben 5 anni, mentre al contrario ai figli dei ricchi – appunto i Cutrara (cappeddi o galantuomini) – potendoselo permettere e pagando profumatamente venivano esentati. Il primo gennaio 1862, esattamente 155 anni addietro, gran parte della popolazione capeggiata da due popolani Francesco Frazzitta e Vincenzo Chiofalo insorse contro questo stato di cose e contro queste ingiustizie. Dopo avere piantato una bandiera rossa al centro del paese si pose alla caccia dei notabili locali – per l’appunto i Cutrara – i nobili e i borghesi, simbolo di queste discriminazioni e di questi privilegi. Furono assaltate la abitazioni del commissario alla leva, Bartolomeo Asaro, e del comandante della guardia nazionale, Francesco Borruso, che vennero catturati catturati ed uccisi e le loro case bruciate. Eccessi esecrabili di una popolazione esasperata da vessazioni ed ingiustizie. Fatti che non possono certo giustificare le rappresaglie e gli eccidi da parte dei piemontesi sbarcati su due navi da guerra con centinaia di bersaglieri nel porto di Castellammare. Militari inviati dal generale Govone al comando dal generale Pietro Quintino, un ex garibaldino che, anziché porsi alla caccia dei colpevoli, non trovò di meglio che passare per le armi, in dispregio ad ogni elementare norma di umanità e legalità, uomini, vecchi, donne e persino un’innocente bambina di appena 9 anni, Angela Romano. Innocenti, rastrellati dalle truppe piemontesi in contrada Villa Falconeria, alla periferia del paese, e massacrati. Vigliaccheria allo stato puro. Gli altri cittadini fucilati alle ore tredici di quel maledetto venerdì 3 gennaio 1862 furono Mariano Cruciata, di 30 anni, Marco Randisi di 45 anni, il sacerdote Benedetto Palermo, di 46 anni, la contadina Anna Catalano, di 50 anni, e i vecchi Angelo Calamia e Antonino Corona, entrambi di 70 anni. A distanza di poco meno di due anni si ripetevano a Castellammare, ad opera dei piemontesi, con pedissequa ferocia e con una sconcertante crudeltà, gli eccidi andati in scena a Bronte perpetrati da Nino Bixio contro ogni aspettativa di libertà, di giustizia e di affrancamento dalla miseria: richieste che i siciliani avevano all’arrivo dei garibaldini prima e dei piemontesi dopo. Di recente, in memoria degli atti di crudeltà perpetrati dai piemontesi le Amministrazioni comunali di Castellammare del Golfo e di Gaeta hanno deciso di intitolare una via cittadina ad Angelina Romano, la più giovane delle incolpevoli e inconsapevoli vittime di quell’esecrabile eccidio. La rivolta di Castellammare del gennaio del 1862 fu poi, quattro anni dopo, propedeutica della grande rivolta palermitana del settembre del 1866 così detta del “Sette e Mezzo” che costò miglia e migliaia di vittime a causa della repressione piemontese (qui potete leggere l’articolo sulla rivolta del “Sette e mezzo” scritto, sempre da Ignazio Coppola, nel settembre dello scorso anno). Rivolte puntualmente ed ipocritamente secretate e ignorate dai testi scolastici e dalla storiografia ufficiale. Questo, ancora una volta, fu il contributo di sangue innocente dato dai meridionali e dai siciliani alla causa dell’unità nazionale. E proprio per questo sarebbe giusto, oltre che festeggiare e celebrare enfaticamente – come spesso avviene -episodici retorici dell’unità d’Italia, ricordare quei morti e quelle vittime innocenti che furono immolate, loro malgrado, al processo unitario. Ed è quello che, con molto merito per rimuovere una damnatio memoriae che per lungo tempo li ha condannati all’oblio, hanno fatto in questi ultimi tempi i cittadini di Castellammare del Golfo, commemorando e ricordando le vittime della rivolta dei cutrara del gennaio del 1862. In piena sintonia con quanto sosteneva Leonardo Sciascia: “Questo è un Paese senza memoria e io non voglio dimenticare”. Ed è per non dimenticare che i Siciliani sono impegnati alla costante ricerca della loro perduta memoria storica.

FRATELLI COLTELLI.

Massoneria, scoppia la grande faida. Dopo il sequestro di 35 mila nomi da parte della Guardia di Finanza, nelle logge è tutti contro tutti. Espulsioni, autosospensioni, scissioni. Riti paralleli e incontrollabili. Macabre cerimonie di iniziazione. E sullo sfondo le infiltrazioni criminali su cui indaga l’Antimafia, scrive Gianfrancesco Turano il 10 aprile 2017 su "L'Espresso". Nel fine settimana della Gran Loggia, organizzato dal Grande Oriente a Rimini dal 7 al 9 aprile, la massoneria si mostra compatta, in salute, forte delle sue adesioni in crescita costante. Nel trecentesimo anniversario dalla nascita della massoneria moderna a Londra, la kermesse annuale ha convocato al Palacongressi della città romagnola duemila persone, ha programmato spettacoli teatrali dedicati alla vita di Enzo Tortora, commemorazioni di fratelli illustri come l’attore Arnoldo Foà e l’apneista Enzo Maiorca. Fra i politici invitati, gli habitués Daniele Capezzone (Direzione Italia) e il viceministro delle Infrastrutture e segretario socialista Riccardo Nencini. Abbondanti e varie anche le delegazioni internazionali presenti in Italia per ottenere il riconoscimento del Goi: Mali, Sudafrica e cinque Stati della federazione brasiliana. Tutto sotto il patrocinio del segretario esecutivo della conferenza dei Gran Maestri internazionali, il chirurgo pediatrico rumeno Radu Balanescu. Tutto bene, quindi? Non è proprio così. Dietro labari e stendardi le divisioni aumentano. Il triplice fraterno abbraccio del rituale non esclude la pugnalata alla schiena e di faide massoniche è piena la storia d’Italia. Ma quello che sta accadendo ai vertici delle due principali obbedienze italiane (Grande Oriente d’Italia o Goi e Gran Loggia degli Alam) non si vedeva da 36 anni, ai tempi della tempesta P2, loggia speciale del Goi guidata da Licio Gelli.

A fare detonare le tensioni che covavano da tempo fra le colonne mistiche di Jachin e Boaz sono state le pressioni della Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi che, dopo settimane di trattative, promesse mancate e offerte di collaborazione andate a vuoto, ha rotto gli indugi sequestrando gli elenchi di 35 mila iscritti alle quattro principali obbedienze nazionali. In origine l’obiettivo dell’Antimafia erano i fratelli di Sicilia e Calabria, regioni ad alto rischio dove si è registrato un boom di affiliazioni alla libera muratoria. Alla fine, com’è accaduto nel 1992 su ordine del procuratore di Palmi Agostino Cordova, gli uomini della Guardia di finanza hanno prelevato gli elenchi in blocco. Per tutelare le esigenze di riservatezza e prevenire le fughe di notizie, finora nessuno dei parlamentari ha avuto accesso alle liste che saranno controllate da esperti informatici per verificare eventuali manipolazioni. Il lavoro di catalogazione si svolgerà con la supervisione dei magistrati consulenti della Commissione e sarà lungo. A oggi non risulta che gli elenchi siano stati trasferiti alle principali procure che indagano sul crimine organizzato. Ma il segnale è chiaro. A un quarto di secolo dall’inchiesta di Cordova finita in nulla dopo l’avocazione da Palmi a Roma, la magistratura ha preferito cedere l’iniziativa alla politica e non ha sequestrato gli elenchi direttamente, come pure poteva, proprio per agire in parallelo con una commissione dove sono presenti tutti i gruppi parlamentari. L’intervento, mirato a scoprire le infiltrazioni del crimine organizzato fra i grembiuli, ha incrinato il riserbo dei massoni che, dopo l’inchiesta dell’Espresso di due mesi fa, hanno rivelato lotte interne, guerre di potere, episodi boccacceschi e rituali in stile Grand-Guignol, piuttosto lontani dalle tradizioni risorgimentali. Fra espulsioni, scissioni e processi massonici, nelle logge è tutti contro tutti.

La spaccatura più grave riguarda la Gran Loggia degli Alam (antichi liberi accettati muratori), seconda associazione massonica per numero di iscritti (8114 in 510 logge), unica in Italia ad accettare le donne e molto legata, sul piano internazionale, agli oltre 50 mila iscritti del Grande Oriente di Francia. Gli Alam sono guidati da Antonio Binni, avvocato civilista modenese con studio a Bologna, classe 1937, studi a Berlino e Gottinga, nipote del grande italianista e dantista Walter Binni. Eletto nel 2013, Binni ha lasciato l’attività forense e per questo è stato il primo Gran Maestro degli Alam ad attingere all’emolumento annuale previsto dagli statuti (40 mila euro, con l’ipotesi di aumentare a 60 mila). Poca cosa rispetto ai 130 mila euro del numero uno del Goi, Stefano Bisi. In compenso, non è trascurabile il patrimonio degli Alam. Il Centro sociologico italiano, semplice associazione collegata agli Alam, gestisce 22 immobili, quasi tutti destinati a case massoniche, escluse quelle estere che spaziano da Beirut a Toronto («niente calabresi, molti lucani», ha dichiarato Binni all’antimafia a proposito delle logge canadesi). Il 17 dicembre 2016 Binni ha rivinto le elezioni per il secondo mandato con una maggioranza risicata. Il giorno dopo, con un gruppo di sei fedelissimi e in assenza dei suoi nove oppositori, ha rivoluzionato il Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e accettato (Rsaa). Al posto dei nove dissidenti con grado 33 (il massimo riconosciuto dal Rsaa), il Gran Maestro e Sovrano Gran Commendatore Binni ha nominato ventinove fratelli e si è garantito il controllo del consiglio convalidando la decisione il 14 gennaio 2017. Per capire l’importanza dell’operazione, bisogna aggiungere che il Rito Scozzese è l’élite dell’iniziazione massonica. Oltre a essere il più praticato a livello internazionale, consente di proseguire il percorso iniziatico al di là dei tre gradi di apprendista, compagno e maestro previsti dall’ordinamento. Le conseguenze del colpo di mano del 17 dicembre sono state drammatiche per l’obbedienza di palazzo Vitelleschi, splendida dimora al centro di Roma. Gli esclusi hanno protestato invano contro Binni, che in audizione davanti all’Antimafia si è vantato di governare l’obbedienza con le maniere forti. Uno scambio incrociato di Tavole d’accusa ha portato alla secessione di circa 600 fratelli che hanno seguito l’ex Gran Maestro degli Alam Luigi Pruneti verso una nuova obbedienza. Il 18 febbraio Pruneti e il fiorentino Riccardo Cecioni sono stati espulsi da Binni. Per usare la terminologia esoterica, sono stati bruciati fra le colonne del Tempio, nel rogo simbolico che rappresenta la massima punizione della giustizia massonica, in quanto colpevoli di spergiuro e tradimento. Circa un migliaio di fratelli si sono messi in sonno (autosospensione). Altri si stanno rivolgendo (stanno bussando, in gergo) ad altre obbedienze. Chi ha deciso di rimanere combatte la battaglia dall’interno sotto la guida di Sergio Ciannella, avvocato che ha il titolo di Venerabile Gran Priore del Supremo Consiglio. In sostanza, è il numero tre degli Alam schierato insieme al suo gruppo contro il numero uno, Binni, e il suo vice, Luciano Romoli, ex avversario di Binni diventato il suo delfino e autore di una strategia di riavvicinamento al Vaticano che non tutti hanno apprezzato all’interno dell’obbedienza. Ancora meno è stato apprezzato l’atteggiamento di Binni davanti all’Antimafia, il 25 gennaio 2017, quando il Gran Maestro ha negato qualunque infiltrazione indicando ai parlamentari il problema delle 92 obbedienze (non logge, quindi, ma intere organizzazioni) nella sola Arezzo e aggiungendo di non essere amato né in Calabria, né in Sicilia. In verità, Binni sembra poco amato anche altrove. «Non vogliamo sentire parlare di Vaticano, di Bilderberg e di altri poteri forti», dice il napoletano Ciannella. «Siamo figli dei patrioti dell’Ottocento e vogliamo continuare nell’alveo della tradizione senza uscire dall’obbedienza. È Binni che deve uscire. Il suo comportamento davanti all’Antimafia ha suscitato indignazione fra gli Alam in Piemonte, in Lombardia, in Toscana. Il Gran Maestro ha scaricato i fratelli siciliani e calabresi in modo indiscriminato e poi si è messo al riparo dicendo che non li controlla. Si è dimenticato di dire che gli affiliati da lui sospesi sono stati reintegrati con sentenze della magistratura ordinaria. Molti di noi hanno invece apprezzato l’atteggiamento di Stefano Bisi del Goi a difesa della privacy di chi è iscritto a un’associazione non riconosciuta prevista dalla Costituzione». La gestione di Binni è stata contestata anche di recente durante una riunione con circa 200 fratelli piemontesi a Torino. Il Gran Maestro ha replicato con piglio autocratico alle domande riguardanti la questione del Supremo consiglio e certi presunti favoritismi come quello verso una giovanissima affiliata. La sorella è stata promossa di tre gradi in un colpo solo all’interno del Rito scozzese antico e accettato per opera di un “motu proprio” del Gran Maestro. Eppure proprio Binni sottolinea nel suo programma per la gran maestranza che “occorre ostacolare con ogni dovuta fermezza la corsa ai gradi”. A chi gli ha fatto notare l’incongruenza fra teoria e prassi Binni ha replicato ammettendo a suo modo l’errore: avrebbe dovuto avanzare di quattro gradi invece che di tre la giovane sorella. Secondo fonti investigative, c’era anche lei oltre a Binni a palazzo Vitelleschi la notte in cui sono stati sequestrati gli elenchi. «Siamo arrivati al punto», dice il membro di una loggia della Toscana meridionale, «che un fratello promosso dal terzo al grado, un passaggio molto importante, ci ha telefonato per rinunciare alla cerimonia». Consultato dall’Espresso, Binni ha affidato a un portavoce il suo desiderio di non rilasciare commenti sui dissidi interni degli Alam. Presto dovrà comunque farlo. Il conflitto sul colpo di mano del 17 dicembre scorso è stato portato a conoscenza della magistratura ordinaria con una citazione al Tribunale di Roma mirata a ottenere l’annullamento delle sospensioni deliberate da Binni. Il verdetto dovrebbe arrivare entro metà giugno. Prima, il 20 aprile, si riunirà l’Alta Corte di Giustizia massonica convocata dal gruppo di Ciannella contro Binni e Romoli. In seguito, si terrà il processo interno a parti invertite. Già nel 1998, a Bologna, c’era stato uno scontro finito davanti al tribunale ordinario fra il Maestro Venerabile della loggia Carducci Vincenzo Maria Santoro, notaio, e l’allora numero uno dell’obbedienza, il commercialista Renzo Canova, che aveva espulso Santoro. Canova era difeso dall’avvocato Binni. Ma la situazione di oggi è molto più grave.

La crisi degli Alam è una copia della scissione che colpì il Goi nel 1993, quando il numero uno di allora, Giuliano Di Bernardo, decise di abbandonare l’obbedienza a seguito dell’inchiesta di Cordova. Di Bernardo fondò la Gran Loggia Regolare d’Italia portandosi dietro l’ambitissimo riconoscimento della Gran Loggia d’Inghilterra. Al Goi non la presero bene e bruciarono materialmente i ritratti del Gran Maestro scissionista nel tempio. Il Grande Oriente d’Italia (23 mila iscritti in 805 logge) è l’obbedienza che più si è scontrata con l’Antimafia. Per certi aspetti il braccio di ferro con la commissione ha puntellato sul fronte interno il numero uno del Goi. Nelle sue audizioni Stefano Bisi ha sempre tenuto una posizione antagonistica sulla consegna degli elenchi. Molti fratelli hanno apprezzato e, anche se Bisi non conferma, molti transfughi della Gran Loggia degli Alam stanno bussando a Villa del Vascello, il lussuoso palazzo al Gianicolo che ha sostituito come sede del Goi palazzo Giustiniani, acquisito dal Senato della Repubblica. Con i parlamentari lo scontro continua a salire di livello. Il 17 marzo il Goi ha presentato alla Commissione un’istanza di revoca in autotutela contro il sequestro degli elenchi avvenuto il primo giorno di marzo nella sede dell’obbedienza. Non avendo ottenuto risposta, il 31 marzo il collegio difensivo del Goi si è rivolto alla magistratura di Roma «con una richiesta di verifica sulle liceità dei comportamenti e degli atti adottati dalla Commissione e dai suoi componenti». Bisi si è difeso dagli attacchi dell’Antimafia con lo stesso vigore che ha dimostrato nei confronti di don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera che ha messo in relazione stretta ’ndrangheta e massoneria sulla scia delle inchieste della Procura di Reggio Calabria. La polemica e i continui battibecchi fra la presidente Bindi e il Gran Maestro Bisi, entrambi senesi, hanno animato le audizioni e hanno fatto passare in secondo ordine i contrasti sul fronte interno della maggiore fratellanza italiana. C’è una richiesta di dimissioni del Gran Maestro avanzata da parte di un dirigente di alto livello del Goi, il Gran Tesoriere Giovanni Esposito, commercialista napoletano di 49 anni. Esposito ha chiesto il passo indietro di Bisi in relazione al processo per ricettazione che coinvolge il leader del Goi a margine delle vicende del Mps. L’udienza preliminare dove si doveva decidere sul rinvio a giudizio di Bisi chiesto dalla Procura di Siena è slittata dal 16 febbraio a giovedì 6 aprile, quando questo numero dell’Espresso era in stampa. Ma anche in caso di rinvio a giudizio, Bisi resterà al suo posto a Villa del Vascello. Non è detto che lo stesso capiti a Esposito sul quale pende una tavola d’accusa massonica per la sua presa di posizione contro il Gran Maestro. «Non mi sembra il caso», dice Bisi, «di soffermarsi sui processi disciplinari interni. Nella nostra comunione in questo momento ci si occupa di altro. In Calabria, Sicilia o Umbria, siamo tutti molto coesi in difesa del gruppo. Se fratelli di altre obbedienze come gli Alam o la Gran Loggia Regolare hanno apprezzato il nostro atteggiamento, non può che farmi piacere soprattutto in rapporto a come si sono comportati i loro Gran maestri davanti al presidente Bindi». La stoccata non troppo fraterna è riferita all’apparente disponibilità di Binni e di Venzi a consegnare gli elenchi alla Commissione dietro un semplice ordine di presentazione. Venzi, in particolare, ha dichiarato nell’audizione del 24 gennaio che la sua obbedienza ha l’abitudine di consegnare due volte all’anno gli elenchi al ministero dell’Interno, mentre le liste locali vengono recapitate alla Digos, ai carabinieri e alle prefetture delle varie province. In realtà né Binni né Venzi hanno rispettato la data ultimativa di consegna chiesta dalla Commissione (8 febbraio) e hanno consegnato le liste solo con l’intervento della Guardia di finanza.

Fra gli elementi di scontento all’interno del Goi non c’è soltanto la vicenda personale del Gran Maestro. Oggi come ieri la massoneria vive di un contrasto fra la tendenza esoterica e l’ambizione di entrare in un circuito privilegiato che garantisce relazioni di potere e affari più o meno legittime.

«I riti vanno distinti dall’Ordine iniziatico», dice un membro pugliese del Goi e del Rito simbolico italiano dietro garanzia di anonimato. «La massoneria prevede solo i primi tre gradi, che peraltro non vanno considerati in modo gerarchico come fanno i più, e finisce qui. I riti sono associazioni satellite e accessorie alla massoneria, autonome ma non indipendenti, che hanno il ruolo di approfondire determinati aspetti della massoneria con una chiave di lettura propria. Questa chiave è l’esoterismo iniziatico, che può essere di origine cavalleresca, come nel caso del Rsaa o del rito di York, ovvero egizio nel caso di Memphis e Misraim. Il Rito Scozzese si picca di fornire una formazione completa dell’adepto ma in realtà in Italia dietro la facciata spiritualistica si nasconde una vera e propria scuola di potere che dal dopoguerra ha determinato la politica del Goi. I calabresi che tengono in vita Bisi sono patologicamente fissati con l’appartenenza e sono quasi tutti nel Rsaa. Fanno favori a tutti i livelli e affari solo agli alti livelli e non mi riferisco all’Italia ma al mondo intero. Va ricordato che il Rito scozzese è nato negli Stati Uniti e ha due case madri, Washington e Boston. La nostra disgrazia fu che nel dopoguerra il Rsaa americano intervenne pesantemente in Italia. Per fare decollare il movimento le logge dovettero subire l’imposizione di gente come Giovanni Alliata di Monreale nel Goi o Giuseppe Pièche fra gli Alam, vale a dire l’estrema destra, perché si era in clima di guerra fredda. L’unico che usò il Rsaa senza esserne usato fu Gelli». Oggi il Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese nel Grande Oriente è un imprenditore con mille interessi in Italia e all’estero come Leo Taroni. Ravennate, 69 anni, costruttore, immobiliarista e commerciante, Taroni è stato nominato alla guida del rito più prestigioso nel dicembre del 2015 e presiede la confederazione europea dei Supremi consigli. Il Sovrano Gran Commendatore è azionista di minoranza di Forza Rossa, concessionaria della Ferrari e della Lotus in Romania, Serbia, Montenegro e Moldova. La maggioranza di Forza Rossa appartiene a Ion Bazac, ministro socialdemocratico della Sanità nel 2008 e 2009 con il governo guidato dal liberaldemocratico Emil Boc. Taroni è reduce da una lite con un imprenditore reggiano per l’acquisto di una Ferrari FXX K da 2,2 milioni di euro. Dopo avere rischiato di perdere la concessione con Maranello, il numero uno del Rsaa versione Grande Oriente, ha chiuso la faccenda con poco danno e una transazione. «Nessuno ci ha rimesso nulla», ha dichiarato Taroni al Corriere della Sera. «Sono stati restituiti i soldi». Tutto è bene quel che finisce bene. Ma se si trattava di dare della massoneria un’idea diversa da una rete di relazioni a fini affaristici, è un’occasione persa.

ABOLIAMO LA MASSONERIA?

Aboliamo la Massoneria. Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati. E la commissione Antimafia vuole i nomi degli affiliati. Era ora. Ma non basta, scrive Gianfranco Turano il 10 febbraio 2017 su “L’Espresso. Abolire la massoneria? Nessun esponente delle istituzioni può rispondere sì in modo formale. Non le procure, né la commissione parlamentare antimafia. Ma le loro indagini hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il Venerabile per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica. Oggi i parlamentari sono spariti, almeno così dicono i Maestri. Ma i guai giudiziari rimangono. Forse perché in 35 anni la legge 17 del 1982 sulle associazioni segrete, firmata da Tina Anselmi e da Giovanni Spadolini, non certo un massonofobo, è rimasta inapplicata. I due tentativi fatti nel 1992 dal procuratore di Palmi, Agostino Cordova, e negli anni Duemila dall’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris (inchieste Why not e Poseidone), non hanno raggiunto risultati significativi. Tre decenni e mezzo dopo Tina Anselmi, la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi ha chiesto, come fece Cordova nel 1992, l’esibizione degli elenchi ai Gran Maestri con scadenza 8 febbraio. Le resistenze opposte dalle due obbedienze più frequentate, il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia degli Alam (antichi liberi accettati muratori), hanno seri appigli giuridici nella libertà di associazione prevista dalla Costituzione, più che dalla legge sulla privacy ed è prevedibile che lo scontro durerà a lungo. Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene. Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: «Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni». La cronaca sembra confermare il teorema. In Calabria le inchieste Meta, Lybra, Decollo Money, Purgatorio, Fata Morgana, solo per citarne alcune, rivelano una compenetrazione fra ’ndrangheta e massoneria dove la seconda avrebbe inglobato la prima, come ha sintetizzato in una celebre intercettazione il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso “Vetrinetta”. In Sicilia, nel trapanese in particolare, il binomio fra grembiuli e Cosa nostra sembra solido quanto lo è in Calabria. A Roma Giulio Occhionero, ingegnere informatico e hacker con server negli Stati Uniti, arrestato a gennaio, spiava politici, manager ed esponenti dell’intelligence, senza dimenticare circa 300 suoi fratelli del Grande Oriente d’Italia (Goi). Siena, la città del Gran Maestro del Goi Stefano Bisi, è stata scossa da uno scandalo ad alta densità massonica come quello del Monte dei Paschi, che ha coinvolto lo stesso Bisi (intervista a pagina 12). E l’aeroporto della città del Palio, un’avventura chiusa con un buco da 9 milioni di euro, ha travolto la società di gestione presieduta da Enzo Viani, l’uomo che amministra l’immobiliare del Goi (Urbs). Anche il crac della Bf dei costruttori Roberto Bartolomei e Riccardo Fusi, molto vicino a Denis Verdini, ha coinvolto alcuni iniziati fra le colonne di Jachin e Boaz. Perfino il tormentato caso Cucchi ha visto la fallita ricusazione da parte della famiglia del perito e medico legale Francesco Introna, massone in sonno. Vietato generalizzare, certo. I massoni si sono difesi attaccando le magagne dei partiti o dei preti pedofili. Ma i partiti non si sono mai più ripresi sul serio dallo choc di Tangentopoli e la Chiesa, quanto meno, si è dissanguata in cause di risarcimento. La massoneria, invece, prospera a dispetto degli scandali. In alcune zone, forse proprio grazie alla sua aura di impunità e riservatezza, oltre alla capacità di fornire una rete relazionale a livello nazionale e internazionale. Anche ai vertici della libera muratoria qualcuno teme che le logge abbiano accolto un tasso di criminali superiore alla media e che le tegolature, come i massoni chiamano i controlli di ingresso sui candidati o “bussanti”, siano state poco conformi alle norme edilizie del Gadu, il grande architetto dell’universo sul quale l’iniziato deve giurare. Tutti i Gran Maestri negano in modo risoluto che esistano logge segrete e che sia ancora in voga l’iniziazione all’orecchio (o “sulla spada”) nota soltanto al Venerabile che guida la loggia. Sono anche concordi nel riferire la grande crescita di iscrizioni all’aumento delle vocazioni esoteriche, in una fase di crisi dei valori. Qualunque sia il motivo, i dati raccontano una storia di successo. Nel 1992, in piena tempesta Cordova, quando il gran maestro cosentino Ettore Loizzo denunciava all’allora numero uno del Goi Giuliano Di Bernardo che 28 logge calabresi su 32 erano in mano alla ’ndrangheta, i fratelli in Calabria erano circa 800 su circa 9 mila affiliati in Italia. Dopo il boom di iscrizioni a livello nazionale durante i 15 anni di granmaestranza di Gustavo Raffi (21 mila in 802 logge), l’attuale Gran Maestro Stefano Bisi ha dichiarato che su 23 mila iscritti al Goi in 805 logge (dati al 31 dicembre 2015) ce ne sono 2634 in Calabria e 2208 in Sicilia. Il 21 per cento degli affiliati è nelle due regioni più a sud dell’Italia. Le logge calabresi sono passate dalle 32 dei tempi di Loizzo alle attuali 80. La stessa proporzione (21 per cento) vale per la Gran loggia regolare d’Italia, obbedienza fondata da Di Bernardo e retta da Fabio Venzi con 2400 iscritti in Italia. La Gran Loggia degli Alam di Antonio Binni, seconda obbedienza in Italia con 8114 iscritti, ha la proporzione più bassa con complessivi 1357 fratelli calabro-siculi (16,7 per cento). In compenso 104 logge degli Alam su 510 totali sono in Calabria o in Sicilia (20,3 per cento). La piccola Serenissima Gran Loggia di Massimo Criscuoli Tortora (197 membri) ha la percentuale più alta con circa 60 fratelli affiliati alle tre logge calabresi (30 per cento) oltre agli iscritti alla loggia di Messina-Catania. Per ovvi motivi non si hanno cifre sulle obbedienze irregolari o spurie che sovrastano in numero le circa dieci obbedienze regolari. Le massonerie fai da te sono 124 secondo Criscuoli Tortora e 192 secondo Binni, di cui 97 nella sola Arezzo, patria di Gelli. La sproporzione è evidente, considerato che i residenti di Calabria e Sicilia sono 7 milioni, cioè l’11 per cento della popolazione nazionale. Inoltre, non è dato sapere quanti calabresi e siciliani siano affiliati a logge che non sono in Calabria o in Sicilia, per non parlare delle logge estere facenti capo a obbedienze italiane in vari paesi: Malta, Libano, Romania, Ucraina e in Canada a Toronto, città strategica nello scacchiere internazionale del crimine italo-americano. Nelle varie obbedienze si nota una prevalenza di iscritti a livello provinciale di Reggio, per la Calabria, e di Trapani, per la Sicilia, con una particolare vivacità esoterica a Campobello di Mazara e a Castelvetrano. È il regno di Matteo Messina Denaro, il capo latitante di Cosa nostra. Già nel 1986 a Trapani è emerso il radicamento della massoneria più oscura quando la polizia scoprì che il centro studi Scontrino era la copertura di sette logge inaugurate da Gelli sei anni prima e frequentate da politici, imprenditori e mafiosi. Le spiegazioni date dai responsabili a questo surplus di spirito iniziatico in Calabria e a Trapani sono le più varie. Sostiene Bisi che la prima Loggia italiana sarebbe stata fondata a Girifalco (Catanzaro) nel Settecento e si sa che i calabresi amano le loro tradizioni. Binni invece ha preso le distanze e dice: «Io non sono amato dai fratelli di Calabria e Sicilia. Hanno moltiplicato il numero di logge per contrastare la mia elezione». Più articolato il discorso di Venzi. In commissione antimafia il Gran Maestro con maggiore anzianità in circolazione (è stato eletto nel 2001 a 39 anni) ha dichiarato: «Bisogna verificare gli ambienti di Rotary, Lions e Kiwanis, dove massoni regolari e irregolari si incontrano. La ’ndrangheta sceglie le obbedienze spurie piuttosto che sopportare le nostre riunioni a carattere filosofico-culturale». Il presidente Bindi ha colto l’assist e ha replicato: «Questa è gente che si fa anni di galera. Si figuri se si spaventano per una conferenza». Ma il tema della cinghia di trasmissione fra massoneria ufficiale, non ufficiale e associazioni paramassoniche non è da trascurare. Nel tempio, come sostiene Venzi, «un fratello non mi deve sbagliare una deambulazione». Vietatissimo parlare d’affari. In una cena al Rotary è diverso. Non si portano guanti e grembiule. L’ambiente è più informale. E il Venerabile o gli Ispettori Magistrali non sorvegliano. Più problematico è il ragionamento sulle massonerie irregolari. Che ci sia una proliferazione è indiscutibile. Basta navigare mezz’ora sul web per essere sommersi da sigle mistiche rette da Gran Commendatori e Supremi Sovrani, in un’orgia di abbreviazioni che ricorda le targhe sulla porta dei direttori galattici nei film di Fantozzi. È vero che per creare un’associazione massonica bastano cinque minuti, sette persone un notaio. Ma poi? Aldo Alessandro Mola, storico di riferimento della massoneria in Italia, risponde: «Non vedo quale interesse potrebbe avere la ’ndrangheta a inserirsi in logge massoniche spurie che non hanno contatti su base nazionale o internazionale con le obbedienze regolari. Anche quando si parla di P2, se ne parla in modo inesatto. La P2 non era affatto una loggia coperta. Era una loggia speciale affiliata al Goi con tre caratteristiche. Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita. La loggia di Gelli era una replica della Propaganda massonica, costituita nel 1877 come vetrina e fiore all’occhiello del Goi tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote. Anche la P2 aveva capitazioni ridicole. Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».

La giustizia interna alla massoneria, esercitata in parallelo con quella dello Stato o “profana”, è un tema chiave dello scontro. Per quanto i giuramenti sulle costituzioni dei liberi muratori siano abbinati alla dichiarazione di fedeltà alla Costituzione della Repubblica e alla presentazione di certificati giudiziari e di carichi pendenti, l’indulgenza della giustizia massonica è un dato di fatto. Il timore è che questa inclinazione al perdonismo si estenda alle aule dei tribunali ordinari quando un fratello giudica un fratello o alle commissioni parlamentari quando un fratello scrive una legge che può favorire altri fratelli. Anche su questo i Gran Maestri, alle domande di Rosy Bindi, hanno dato una risposta compatta: nelle logge non ci sono magistrati, che non possono starci pena censura del Csm, e non ci sono parlamentari. Dipendenti pubblici sì, militari sì, professionisti in abbondanza e persino qualche sacerdote, ma nessuna traccia degli oltre 100 deputati e senatori che furono trovati negli elenchi della P2.

E i santisti? Mai sentiti nominare, hanno risposto compatti i Gran maestri a proposito degli esponenti riservati del crimine organizzato. Nemmeno del progetto separatista al Sud, durante la transizione fra Prima e Seconda Repubblica, si è parlato direttamente nell’aula della Commissione a palazzo San Macuto. Se ne stanno occupando i magistrati fra Sicilia e Calabria tirando le fila di una tradizione che inizia con il massone Andrea Finocchiaro Aprile, antifascista e leader indipendentista, figlio di Camillo, carbonaro, massone e ministro del Regno. Anche sui picciotti ordinari di Cosa nostra e ’ndrangheta la giustizia massonica è stata piuttosto pigra. A fronte dell’emergenza mafiosa, Raffi e Binni hanno demolito in 17 anni tre logge nel reggino (Caulonia, Brancaleone, Gerace) e una nel Lazio, per insufficienza di iscritti. Un altro caso è significativo. Nel 1992, mentre reggeva il Goi, Di Bernardo ha abbattuto la Rispettabile Loggia Colosseum di Roma, creata nell’immediato dopoguerra per accogliere gli agenti della Cia operativi in Italia. Il più noto era Frank Gigliotti, calabrese emigrato negli States. Anche Binni ha chiuso alcune logge degli Alam in Sicilia, per questioni amministrative: non pagavano le quote in polemica con il Gran Maestro. È un bilancio striminzito e, in materia di giustizia massonica, Di Bernardo ha confermato all’Antimafia che la condanna è un caso straordinario. In genere, si censura, magari si sospende. «Alla fine, tutti assolti». Le due eccezioni note sono quelle di Gelli, cacciato dopo lo scandalo P2 con un processo giudicato sommario e scorretto dallo stesso Di Bernardo, e Amerigo Minnicelli da Rossano (Cosenza), promotore di una lettera a Raffi nell’ottobre 2011 dopo l’inchiesta penale Decollo Money (riciclaggio e narcotraffico fra Italia e San Marino), che coinvolgeva l’imprenditore massone calabrese residente in Umbria Domenico Macrì. A fine gennaio Minnicelli ha consegnato all’Antimafia la lettera, firmata da altri trenta fratelli dissidenti rispetto alla gestione del numero uno regionale Marcello Colloca. L’Espresso ha potuto leggerla. Nella lista delle richieste a Raffi, che includono la consegna delle liste alla Direzione distrettuale antimafia, risalta il punto 3: «Non accada che i fratelli vengano “risvegliati” in Orienti diversi da quelli di loro provenienza». Tradotto in linguaggio profano, si sottolinea la fluidità eccessiva nei passaggi da una loggia all’altra di iniziati che hanno avuto problemi con la giustizia ordinaria o massonica. Né è pensabile che gli agenti segreti della Colosseum si siano iscritti alla bocciofila di quartiere dopo l’abbattimento della loggia da parte di Di Bernardo. L’ex Gran maestro del Goi e della Gran loggia regolare d’Italia, unica riconosciuta dalla Gran Loggia Madre di Inghilterra fondata tre secoli fa (1717), è uno dei quattro testimoni-chiave della Procura di Reggio Calabria, guidata da Federico Cafiero de Raho, nella sua inchiesta per associazione segreta ribattezzata Gotha dopo l’unificazione di cinque procedimenti (Fata Morgana, Araba Fenice, Sistema Reggio, Rhegion e Mammasantissima). Gli altri quattro sono tre collaboratori di giustizia siciliani: Tullio Cannella, Gioacchino Pennino e Antonio Calvaruso, che ha indicato il boss Leoluca Bagarella come uno dei pochissimi in Cosa nostra a conoscere la componente apicale segreta, e unificata, del crimine calabro-siculo infiltrato nei templi dei liberi muratori. Di Bernardo, 76 anni, è stato pubblicamente criticato dal successore Venzi per non avere tentato di ripulire il Goi dall’interno. Di sicuro ha molto da rievocare dei suoi 55 anni di militanza frammassonica. Ne ha dato prova all’antimafia parlando di un fallito traffico d’armi con il presidente del Togo, che al tempo era Gnassingbé Eyadéma, massone come molti leader della cosiddetta Françafrique. Il business sarebbe stato gestito dal suo predecessore alla guida del Goi. In audizione Di Bernardo non lo ha mai nominato ma è Armando Corona, il professionista cagliaritano chiamato a guidare il Grande Oriente dopo lo scandalo P2. Corona è scomparso nel 2009, quattro anni dopo Eyadéma. Ma i Fratelli d’Italia sono spesso coltelli, da vivi e da morti.

Nudo accanto allo scheletro: i riti della massoneria "hard". Un pentito racconta l'iniziazione da affrontare per entrare nella superloggia, scrive Gianfranco Turano il 21 settembre 2016 su "L'Espresso". Finora l'ammissione in loggia era stata svelata ai profani dal film “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli con il Venerabile Romolo Valli che accoglie fra le colonne di Jachin e Boaz un Alberto Sordi voglioso di carriera. Ma il personaggio di Sordi è un semplice apprendista. Il superpentito Cosimo Virgiglio ha raccontato ai magistrati reggini un rito “molto duro”, chiamato “penta” perché riservato a cinque persone e dedicato a un grado iniziatico superiore. Nel verbale del 29 aprile 2015, ancora in larga parte riservato, Virgiglio parla di un personaggio, il cui nome è coperto da omissis, che ha il compito di sovrintendere al cerimoniale segreto e occupa le cariche di Gran maestro del Grande Oriente di San Marino e di Venerabile della loggia Montecarlo, madre di tutte le logge coperte. I cinque candidati pensano a una semplice formalità. È l’inizio di un’ordalia. «Vengono arrestati», racconta il pentito, «all’ingresso della dogana, si chiama così. Tutti belli pimpanti, ridono. Di colpo, pum, vengono bloccati e messi nel furgone al buio». Il Venerabile «si permetteva il lusso di farli morire al mondo profano perché il rito di iniziazione è molto duro. Lui si permetteva di farli morire al mondo profano nella Rocca di San Leo, la Rocca di San Marino». Virgiglio si riferisce alla Rocca o Forte di San Leo, antica capitale del ducato di Montefeltro che si trova circa 5 chilometri a ovest del territorio del Titano ma ancora in provincia di Rimini. La Rocca ha un particolare significato per il rito massonico perché le sue segrete hanno ospitato Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, frammassone e avventuriero settecentesco di fama internazionale. «Io l’ho vissuto», continua Virgiglio parlando del penta, «Non lì. Io l’ho vissuto a Vibo e ho fatto sette ore, seminudo con lo scheletro a fianco e una luce. Lì fai testamento». Il pubblico ministero che interroga, Giuseppe Lombardo della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, chiede se si tratti di uno scheletro vero. La risposta è affermativa. Come nel Borghese piccolo piccolo, la commedia all’italiana lascia presto il posto al dramma. Nel racconto di Virgiglio emergono i motivi che impongono ai livelli più riservati dell’associazione segreta tali durezze con chi deve “morire al mondo profano”. Virgiglio spiega al magistrato: «Per farle capire come materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale, il varco, che nel gergo massonico è riferito alla breccia di Porta Pia, è costituito da quella nuova figura criminale che è identificata con la Santa. Attraverso quel varco, costituito dai santisti che sono rappresentati da soggetti insospettabili, il mondo massonico entra nella ’ndrangheta e non viceversa. Il ruolo di santista all’interno della ’ndrangheta non consente in automatico il contatto con la massoneria. È necessario che si individuino ulteriori soggetti-cerniera, in giacca, cravatta e laurea». Virgiglio delinea il doppio scopo strategico della nuova formazione. «Il sistema allargato aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ’ndrangheta mirava al consolidamento dei capitali sporchi che andavano ricollocati sul mercato anche estero mediante strumenti finanziari evoluti». Virgiglio descrive per diretta conoscenza la struttura massonica calabrese grazie al «mio ruolo qualificato all’interno della Loggia dei due mondi di Reggio di cui detenevo il “maglietto pulito”; esiste il cosiddetto “maglietto sporco o occulto” che costituisce quell’ambito riservato o invisibile della stessa componente massonica; di tale contesto facevano parte numerosi soggetti collegati all’ambiente criminale di tipo mafioso che per evidenti ragioni non potevano essere inseriti nelle logge regolari ovvero nella parte visibile». Questi nomi sono ancora segreti, tranne uno che non è più perseguibile. Appartiene all’inventore della massoneria segreta italiana, morto a 96 anni nel suo letto alla fine del 2015. Licio Gelli, chi altri?

E poi c’è quello che non ti aspetti.

AFFARI DEI TEMPLARI LEGHISTI.

Affari dei Templari leghisti. Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la  “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E  l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo.

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA, FINANZA E MAGISTRATURA.

Tanto si è detto sull'origine della massoneria, scrive Alessandro Olimpo. Chi la vuole sorta seimila anni fa in uno sconosciuto angolo della terra, chi ne semplifica la genesi alla storica data del 1717, ognuno ha un'idea diversa, un'immagine confusa dell'antica fratellanza. Il filosofo J.G.Fichte, uno dei maggiori rappresentanti dell'idealismo, affrontava la questione e scrisse. "….nei primi decenni del secolo XVIII, precisamente in Londra, si presenta in pubblico una società, che verosimilmente era sorta ancor prima, ma della quale nessuno sa dire donde venga, che cosa sia e che cosa voglia. Essa si propaga,nonostante ciò, con rapidità inconcepibile, e si diffonde attraverso la Francia e la Germania in tutti gli stati dell'Europa cristiana, e perfino in America. Uomini di tutte le classi, reggenti, principi, nobili, dotti, artisti, commercianti, entrano nella sua cerchia. Cattolici, luterani e calvinisti si fanno iniziare e si fanno chiamare fratelli." Ma per capire a fondo le origini della massoneria non saranno sufficienti date e luoghi. Fin dalle più remote antichità due contrastanti tendenze apparirono tra gli uomini: idealismo e materialismo. Fin dai primordi il genere umano si è diviso in due tipi di individui che assecondavano, ciascuno per la sua, tali opposte tendenze. Da una parte c'erano coloro i cui interessi erano volti unicamente al soddisfacimento dei propri bisogni terreni: cibo, sesso, ecc…, dall'altra si distinguevano menti più raffinate che ricercavano le motivazioni dell'esistenza, indagavano sui misteri della vita e dell'universo. Per meglio comprendere immaginiamo per un istante di trovarci presso un'antica tribù primitiva. Il tran-tran giornaliero poteva essere il procacciamento del cibo, la conquista delle donne più appetibili, la difesa dagli aggressori, fossero essi animali o altri uomini, la protezione dalle calamità naturali e così via. Contemporaneamente altri uomini più dotati intellettivamente, pensavano a soluzioni diverse e dal pensiero scaturivano le scoperte che conducevano il clan verso una vita più qualificata. Non c'era campo che questi filosofi non osassero investigare, ivi compreso quello del cosiddetto sapere divino. Nacque così la scienza e ad opera di tali uomini nacque l'arte. Scienza ed arte, fusi in un unico ordine di sapere, divennero il patrimonio di questi "diversi" il cui potere conoscitivo era grande ma nello stesso tempo, e proprio per questo, invidiato e quindi insidiato dai guerrieri e dai capi delle società dell'epoca. La difesa contro questi ultimi era quella di coalizzarsi e di difendere la conoscenza faticosamente acquisita, e trasmessa ai discepoli ritenuti adatti, al fine di evitarne utilizzazioni improprie da parte degli indegni. La frattura fra il bene e il male , fra potere sacro e potere profano, fra i filosofi e i politici era ormai insanabile. La conoscenza filosofica è potere reale in senso assoluto e mai deve cadere nelle mani di coloro che ne approfitterebbero per perseguire i loro fini personali e materiali a danno dell'evoluzione dell'umanità. Da queste premesse è facile dedurre il perché dell'origine delle fratellanze iniziatiche. I sacerdoti di Iside e di Osiride per lungo tempo, la comunità degli Esseni, gli Orfici, i Pitagorici, i primi cristiani e quindi i più recenti Templari, i Fedeli d'Amore, gli alchimisti,i Rosacroce e tanti altri,in ultimo la massoneria che da tutti costoro ha raccolto l'eredità morale e di pensiero, sono le società che hanno conservato nei loro templi il sapere dei millenni. L'evoluzione del pensiero è sempre associata a forti idee di personaggi in qualche maniera legati a culture esoteriche. Gli Esseni in Palestina, da cui probabilmente è sorto il cristianesimo che tanto ha prodotto in termini di crescita sociale dell'umanità;le scuole filosofiche di Pitagora prima e di Platone poi, lo stesso Dante Alighieri, membro della setta dei Fedeli d'amore, ma anche accreditato di appartenenza all'Ordine Templare; bacone, Newton, Goethe e tanti altri, noti per aver fatto parte di società segrete, quali i Rosacroce e la massoneria, tutto questo lascia intendere che la cultura storica è in parte carente laddove si voglia interpretare il ruolo delle società misteriche nel tessuto portante della storia. Se poi si voglia sapere quando la massoneria ha assunto la forma attuale con le odierne costituzioni ed i moderni rituali, allora bisogna riandare alle corporazioni di mestiere medioevali e risalire alla distruzione dell'Ordine del Tempio.

Fondato nel 1119 con il compito di difendere la terra santa, quest'ordine religioso-militare - voluto da Ugo de Payns, primo gran maestro e appoggiato da Bernardo da Chiaravalle, monaco, dottore della chiesa e santo - conservava nel suo seno le dottrine segrete dell'iniziazione a cui venivano ammessi solo i cavalieri meritevoli sotto il duplice aspetto della morale e del desiderio di conoscenza.

Non si conoscono esattamente le interrelazioni e i metodi di interscambio culturale che legavano tali potenti cavalieri ai vari monasteri ed alle suddette corporazioni di mestiere, fatto è che al loro tempo fiorirono nuovi stimoli interiori, nacque dal nulla una nuova forma architettonica, il gotico, che meravigliò il mondo intero.

Tutto ciò non poteva durare. Le leggi dell'ignoranza e della superstizione, dell'egoismo e della malafede, prevalsero di nuovo sul buon senso e sulla giustizia. L'ingordo Filippo il Bello ed il papa Clemente V determinarono la fine del Tempio nel 1311. Jacques de Molays, gran maestro, e cinquantaquattro cavalieri vennero condannati al rogo. Il resto dell'Ordine fu disperso. Ma i cavalieri del Tempio non cessarono la loro attività iniziatica. Dispersi ai quattro angoli della terra si rifugiarono presso le logge dei liberi muratori germanici, scozzesi e dovunque il pensiero libero e la ricerca pura fossero i benvenuti. In Portogallo nacque l'Ordine del Cristo, in Scozia l'Ordine del Credo. Continuarono così a lavorare nell'ombra sino alla costituzione dell'Ordine dei Templari nel XVIII secolo: Così presumibilmente nacque la massoneria medievale, madre della massoneria moderna. Il 24 giugno 1717 i maestri delle quattro logge londinesi si incontrarono con alcuni rappresentanti della misteriosissima fratellanza della Rosacroce. Questi, perseguitati, chiesero alla fratellanza dei Liberi e Accettati muratori di entrare a far parte dell'Ordine. Così nasceva, in un albergo di Charles Street (che in seguito fu la sede della prima Gran Loggia d'Inghilterra) la frammassoneria moderna, decisa a combattere in campo aperto per la libertà di pensiero, di indagine, di coscienza, per la fratellanza universale, per il progresso, per la riconquista della dignità della persona umana. Subito molti Ordini misterici riapparvero in Europa come per incanto e quasi tutti entrarono a far parte della massoneria. Nobiltà, clero, scienziati, filosofi, artisti, commercianti: tutti chiedono di essere iniziati all'Arte Reale. " Quando i governi dispotici si allarmarono era ormai tardi. La reazione non potè arrestare la valanga che li avrebbe travolti. Il Contratto Sociale veniva discusso e commentato dovunque; l'agitazione cresceva, si parlava ormai apertamente dei Diritti dell'Uomo e finalmente scoppiava la Rivoluzione Francese." Ricordiamo ancora la Rivoluzione americana e la Carboneria italiana la cui ispirazione massonica è nota a tutti,non sono che pochi esempi dell'influsso delle idee muratorie sul mondo "profano", ma che servono a far meglio conoscere la capacità morale di quella fucina del libero pensiero che era la libera muratoria.

Già nell'analisi delle origini appaiono ben chiari gli scopi della massoneria.

- La "Dichiarazione dei principi" approvati dal convento dei supremi consigli confederati riuniti a Losanna nel settembre 1875: la massoneria.

- "…non impone alcun limite alla ricerca della verità, ed è per garantire a tutti questa libertà che esige da tutti la tolleranza."

- …"accoglie qualunque profano senza preoccuparsi di conoscere quali siano le sue opinioni politiche e religiose, purchè esso sia libero e di buoni costumi."

- "… ha per scopo di lottare contro l'ignoranza sotto tutte le sue forme; è una scuola scambievole, il cui programma si riassume in questi punti: obbedire alle leggi del proprio paese, vivere secondo l'onore, praticare la giustizia, amare i propri simili, lavorare senza posa al bene dell'umanità e perseguire la sua emancipazione progressiva e pacifica."

- " per innalzare l'uomo ai propri occhi, per renderlo degno della missione sulla terra, la Massoneria pone come principio che il Creatore supremo ha dato all'uomo, come il bene più prezioso, la libertà: la libertà, patrimonio dell'umanità tutta intera, raggio così luminoso che nessun potere ha diritto di spegnere o di offuscare e che è la fonte di ogni sentimento d'onore e di dignità".

La prefazione degli Statuti Generali delle società dei Liberi Muratori del Rito Scozzese Antico ed Accettato,ristampa del 1874:

" Quella unione di uomini saggi e virtuosi, che, con allegorico significato, si appella ordinariamente Società dei Liberi Muratori,è stata in ogni tempo considerata come il Santuario dei buoni costumi, l'asilo dell'innocenza, la scuola della virtù, il tempio della filantropia".

" …ha per fine il perfezionamento del cuore umano; e si propone, qual mezzo necessario per ottenere questo fine, l'esercizio e la pratica delle virtù."

" Il Fratello Libero Muratore deve per necessità essere uomo probo, sobrio, onesto e virtuosamente benefico. Chi non possiede queste necessarie doti non può affatto aspirare al merito di poter far parte di questa unione di saggi."

Ci sembra utile riportare le tesi del già citato Fichte: "…poiché il fine dell'esistenza è quello di chiarire il senso della vita alla luce dell'eternità, questa società offre all'essere ragionante il massimo di luce; di conseguenza, lo scopo della cultura umana è contemporaneamente quello della cultura massonica; questo fine verrebbe meno se tale cultura non sopprimesse i contrasti della divisione del lavoro e se non trasformasse in cultura universale le pluralità delle classi sociali; la sua azione nel mondo trae origine dall'influsso reciproco di tali classi; la massoneria non è fine a se stessa più che la Chiesa; dando alla religione una "educazione massonica", se ne svincola il concetto di universalità; la massoneria libera l'uomo dall'aspetto falsamente universale della sua religione; questo stesso uomo cessa di essere religioso, ma pensa e agisce religiosamente; lo scopo politico della massoneria è identico al suo scopo spirituale, perché unisce il patriottismo al cosmopolitismo; in tutto questo la massoneria è l'erede della cultura segreta dell'umanità, perché sempre sono esistiti uomini pronti a notare i difetti della società della loro epoca, e a gettare il seme per il futuro."

Citiamo infine la voce ufficiale della massoneria italiana.

"Quando si parla di Massoneria si suole identificarla come Ordine, ed, invero, le sue origini radicate nelle corporazioni dei Liberi Muratori si ricollegano ad una serie di livelli operativi quali Apprendista, Compagno, Maestro perfettamente sovraordinati l'uno all'altro e regolati da norme liberamente accettate da tutti gli adepti e perciò ancor più vincolanti che se fossero imposte. Tali norme consentono di conquistare progressivamente una sempre più profonda conoscenza di se stessi e di accostarsi alla verità ed alla perfezione rendendo così il Massone idoneo a svolgere il suo compito filantropico di operare per il bene ed il progresso dell'Umanità. Questa metodologia affascinò uomini delle più diverse condizioni accostandoli l'un l'altro in un'ansia di ricerca che aboliva ogni differenza sociale ed economica creando viceversa un vincolo profondo che si rafforzava via via che gli adepti acquistavano sempre maggiore coscienza della comune origine dal suolo italico e della missione unificatrice delle sue genti che essi assumevano.

Il “Gioco Grande”. Il mezzo secolo di intrecci tra massoneria deviata, mafia e servizi segreti deviati che ha sconvolto l’Italia.

Dallo sbarco degli Alleati in Sicilia alle stragi di Capaci e via D’Amelio, il panorama italiano è stato governato da accordi tra mafia, massoneria e servizi segreti italiani e americani, scrive Gea Ceccarelli. All’inizio del ’900, circa un milione di siciliani abbandonò le proprie terre per trasferirsi negli States, in special modo a New York, città che, già dal 1870, era legata a Palermo grazie al commercio di agrumi. In mezzo alle centinaia di migliaia di emigranti, vi furono molti “uomini d’onore” che nella Grande Mela trovarono terreno fertile per le proprie attività delinquenziali; in particolar modo il traffico dei prodotti commerciali divenne una prerogativa italiana, le banchine dei porti di New York parlavano siciliano. Per decenni Cosa Nostra in America regnò indisturbata, il gangsterismo si configurò come una potenza occulta e feroce, in rapida crescita, mentre, in Sicilia, le famiglie d’onore venivano tartassate dal regime di Mussolini e vivevano in uno stato di profonda crisi in concomitanza della Seconda Guerra Mondiale. E proprio in questo contesto vi fu il primo vero e documentato approccio del governo americano alla mafia. Il 9 febbraio 1942, infatti, un ex transatlantico trasformato in unità di trasporto truppe, la Normandie, prese misteriosamente fuoco e si capovolse alle foci dell’Hudson. Subito si pensò che si fosse trattato di un sabotaggio e i primi ad essere additati come colpevoli furono gli italo-americani di New York. Per far luce sull’incidente, dunque, la Marina degli Stati Uniti decise di entrare in contatto con la mafia che controllava i docks del porto. Così, su raccomandazione di due boss, Joseph Socks Lanza e Meyer “Little Man” Lansky, gli ufficiali dell’US Navy contattarono Charles Lucky Luciano, già in carcere. Lui, considerato il padre moderno del crimine organizzato, primo boss ufficiale della famiglia Genovese, dall’alto del suo potere, era in grado di cambiare le sorti della guerra. E così, spinto dal patriottismo e dalla solidarietà verso i “cugini” mafiosi siciliani, vessati da Mussolini, Luciano decise di collaborare con le autorità e fece in modo che i porti newyorkesi si schierassero dalla parte degli Alleati. Un aiuto incredibile, grazie cui gli americani si resero effettivamente conto di quanto fosse importante avere dalla propria parte la mafia. Per questo, durante la preparazione dell’Operazione Husky, decisero di rivolgersi nuovamente a Luciano, stavolta tramite l’Oss, l’Office of Strategic Service, precursore della più nota Cia. Luciano, in cambio della grazia, mise in moto una serie di trattative che si videro compiute il 10 luglio del 1943, quando gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia. Lì trovarono un terreno favorevole per l’occupazione, proprio grazie alle famiglie mafiose contattate da Cosa Nostra Americana. Nel frattempo, l’agente Max Corvo, diretto referente di Allen Dulles, alto funzionario dell’Oss, formò un’unità militare denominata “the mafia circle”, grazie alle raccomandazioni di Luciano: tra i contatti “celebri” si contavano personalità quali il boss Vito Genovese e i finanzieri Michele Sindona e Licio Gelli. Grazie al loro contributo, i servizi segreti americani riuscirono a raggiungere le prigioni siciliane e liberarono circa 850 mafiosi per arruolarli. Una volta terminata la guerra, nella sola provincia di Palermo, almeno 62 di essi vennero nominati sindaci. Il legame con Luciano, nello spaccato della Seconda Guerra Mondiale, non fu certo l’unico ambiguo, per Dulles.

Nello stesso periodo, infatti, l’alto funzionario mantenne contatti anche con il generale delle SS, Karl Wolff, che comandava i contingenti della Gestapo in Italia. Un rapporto scottante, che si vide compiuto nei negoziati dell’Operazione Sunrise. In base ad essi, le forze naziste sarebbero state “graziate” dagli americani, in cambio del loro appoggio nella battaglia pre-pianificata atta a sconfiggere la minaccia sovietica. Cioè la Guerra Fredda. Al tempo stesso, per permettere ai nazisti di salvarsi, Dulles consigliò a Wolff di avvalersi delle “ratlines”, le vie di fuga del Vaticano. Quelle stesse vie che furono poi utilizzate da Cosa Nostra, negli anni ’80, per il contrabbando di droga in America, l’ormai celebre operazione “Pizza Connection” su cui indagò anche Falcone. Non deve sorprendere l’affinità della Santa Sede con la Cia: molti illustri membri dell’agenzia segreta americana erano anche Cavalieri dello Smom, meglio conosciuto come Ordine dei Cavalieri di Malta, da sempre ritenuto il braccio armato del Vaticano. Fu così che, in nome degli accordi presi con gli Usa, gli ormai ex nazisti si spostarono tutti verso l’America Latina, laddove combatterono la minaccia comunista, allestendo di fatto il terreno per la Guerra Fredda. Non molto diverso fu il panorama in Europa, in cui il lavoro preparatorio aveva stabilito di rovesciare o contrastare i governi eletti democraticamente attraverso una rete di “unità Stay Behind”equipaggiata con uomini fascisti, in Italia organizzata sotto l’egida dell’Operazione Gladio, voluta prevalentemente dalla Nato.

Nel nostro paese, la Gladio venne costituita il 26 novembre del 1956, con un protocollo di intesa tra servizi segreti italiani e americani. Si trattava di un’organizzazione atta a bloccare qualsivoglia invasione sovietica nel Paese. Nel 1972, questa struttura, che sorse in Sicilia, si collegò indissolubilmente al Sid di Vito Miceli. Erano gli anni in cui Gladio iniziava a potenziarsi: nascevano nuclei indipendenti, tra cui quello della neofascista Rosa dei Venti, coinvolto in numerosi atti eversivi, non in ultimo il celebre “Golpe Borghese”. Il primo a parlare di Gladio fu l’ex terrorista Vincenzo Vinciguerra, accusato della strage di Peteano. Nel 1984, all’interno del processo della strage di Bologna, l’uomo parlò apertamente di una struttura occulta nelle forze armate italiane, che era stata in grado di coordinare le varie stragi per evitare che il paese si spostasse troppo a sinistra; questo, sempre secondo la testimonianza dell’ex terrorista, a nome della Nato e con il supporto dei servizi segreti e di alcune forze politiche e militari italiane. E’ interessante notare come il perito balistico Marco Morin, che si occupò della strage di Peteano, nonché dell’omicidio Moro e di quello Dalla Chiesa, risultò essere legato all’organizzazione Gladio e, secondo il giudice Felice Casson, falsificò la perizia per nascondere come le armi utilizzate nella strage provenissero proprio dai depositi di Gladio. Nello stesso procedimento per la strage di Bologna, Gian Adelio Maletti, l’ex capo Reparto D del Sid, venne accusato di depistaggio delle indagini, come anche Licio Gelli. Nel 2001, in un’intervista, il generale dichiarò come, ai tempi, esistesse una “regia internazionale” delle stragi, relativa alla strategia della tensione, e come la Cia finanziasse sia il Sid che Gladio. Intanto, il Sid aveva formato una “altra Gladio”, ben più celata. Su di essa scrisse Paolo Biondani:Una struttura mista militari civili, parallela alla rete ‘Stay Behind’, con obiettivi analoghi ma con protagonisti diversi: nuovi nomi, ancora top secret, di presunti responsabili di operazioni coperte che i magistrati collegano alla strategia della tensione degli anni 1969-1974. Un’organizzazione che agiva sotto una sigla pseudo istituzionale, "Nuclei di difesa dello Stato", della quale finora nessuna autorità aveva mai parlato, neppure dopo la divulgazione degli elenchi dei 622 gladiatori ‘ufficiali’”. Sei anni dopo le allusioni di Vinciguerra, nel 1990, Giulio Andreotti rese pubblica l’esistenza di Gladio. Si disse che era una struttura atta a contrastare la criminalità organizzata.

Nello stesso anno morì Miceli e due magistrati militari aprirono un’inchiesta per far luce sui misteri legati all’unità “Stay Behind” siciliana. Conducendo indagini, risalirono a diversi fascicoli archiviati dai Servizi. In essi si leggeva chiaramente come la Cia rivestisse un ruolo di primo piano nella vicenda. L’agenzia americana raccomandava ai Servizi italiani di mantenere il segreto su Gladio: “si dovrebbe sapere solo che ha il compito di creare quadri di guerriglieri destinati a svolgere attività armata contro l’occupante. Avrebbe poca importanza che le strutture Sios, i servizi segreti delle singole armi, vengano a conoscenza di questi compiti, l’importante è che pensino che i nominativi che forniscono sono destinati a questo scopo soltantoInoltre, la Cia si sarebbe posta in prima linea per rendere operativo il tutto: “nostra cura creare altri due livelli organizzativi, che sarebbero di nostra esclusiva conoscenza nei quali immettere a varie tappe coloro che abbiano dato buona prova”. Sempre nel 1990 l’ex agente della Cia Richard Brenneke, raccontò di come l’agenzia, ai tempi, avesse pagato ingenti somme a Licio Gelli affinché mettesse in moto una serie di stragi, in maniera tale da far sprofondare l’Italia nel terrore. Lui, Gelli, entrato in contatto con gli americani dopo le raccomandazioni di Lucky Luciano durante la Seconda Guerra Mondiale, è una figura chiave di questi anni. I suoi rapporti con l’Agenzia segreta vennero rinforzati dalla sua collaborazione con Ronal Rewald, fondatore dell’Istituto finanziario Bishop, Baldwin, Rewald, Dillingham & Wong con base alle Hawaii, una società della CIA che poi divenne la Banca Nugan Hand, di proprietà della CIA stessa. Al tempo stesso, Gelli fu Maestro Venerabile della lista Propaganda 2, la celebre P2.

La stretta connessione tra l’operazione Gladio e la loggia massonica la esplicò lui stesso in un’intervista del febbraio 2011, in cui dichiarò: “Io avevo la P2, Cossiga la Gladio, Andreotti l’Anello”.

Erano, tutti e tre, apparati “segreti”, anelli di congiunzione tra la società civile e gli 007. Sulla figura di Gelli si concentrò anche il giudice bolognese Libero Mancuso, secondo cui, in Italia, operava un’unica centrale criminale, una sorta di holding in grado di mettere d’accordo tutti, raccogliendo fondi e investendo in aree, settori e uomini. In questo contesto, l’imprenditore si configurava come l’uomo di raccordo tra tutti i protagonisti: servizi segreti, mafia, massoneria, Vaticano, estremismo neofascista. Il potere di Gelli, in continua crescita, venne bruscamente interrotto nel 1979. I Servizi segreti americani scaricarono il massone, ormai troppo influente, inserendo, al suo posto, un faccendiere romano legato agli 007, Francesco Pazienza, anch’egli iscritto alla P2. Il tutto rientrava in un piano di preparazione in vista del 1980, quando, secondo la Cia, si sarebbe verificata una vera e propria rivoluzione, a cui Gladio avrebbe dovuto rispondere potenziandosi e modificandosi. Si parlava, cioè, del golpe di Michele Sindona. Raccomandato dal boss Luciano esattamente come Gelli, Sindona fu uno dei più potenti e corrotti massoni coinvolti nel “ Gioco Grande”. I suoi primi guai cominciarono nel 1967, quando, dopo aver comprato la Banca Privata Finanziaria, l’Interpol lo segnalò come implicato nel riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di stupefacenti, gestito da Cosa Nostra americana: numerosi boss, d’altronde, erano suoi soci. Nel 1969 Sindona s’associò alla banca vaticana, lo Ior, e, attraverso essa, fece trasferire enormi somme in Svizzera. Nel frattempo, tramite una serie di libretti al portatore, trasferì 2 miliardi di lire nelle casse della Democrazia Cristiana, mentre parecchi milioni di lire transitarono attraverso la CIA, la Franklin Bank e il SID per finanziare, secondo la commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti, la campagna elettorale di 21 politici italiani. Nonostante fosse stato più volte definito da Giulio Andreotti “il salvatore della Lira”, Sindona, nel 1974, spinse la Banca Privata Italiana in bancarotta per frode e cattiva gestione. Per questo venne ordinato un commissario liquidatore, Giorgio Ambrosoli, che assunse la direzione dell’istituto e, nel frattempo, esaminò tutte le trame occulte e criminose con cui il finanziere Sindona aveva cercato, negli anni, di salvare il banco. Un’indagine che gli costò la vita: nel ’79 venne ucciso dal sicario legato a Cosa Nostra americana William Jospeh Aricò (accusato di aver freddato, cento giorni prima, il giornalista Mino Pecorelli) su mandato di Michele Sindona. L’intento del finanziere era quello di nascondere le tracce di come avesse investito il denaro sporco di boss mafiosi della portata di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Rosario Spatola.

Gli stessi con cui, nello stesso 1979, il finanziere tentò il golpe: si recò in Sicilia cercando di convincere le cosche a scindere l’isola dal resto dell’Italia, per consegnarla in mano alle famiglie mafiose e alla P2, dove trovava spazio anche Umberto Ortolani, membro del consiglio interno dei Cavalieri di Malta, e considerato “il grande apri porta Vaticano”. Sindona era collegato a un’altra figura di spicco, di questi anni: Roberto Calvi, direttore del Banco Ambrosiano, una banca privata, strettamente legata allo Ior. Proprio grazie a Gelli e Sindona, Calvi entrò nella P2. Quando, al finire degli anni ’70, il Banco si trovò ad affrontare una crisi di liquidità, Calvi domandò aiuto a Eni e a Bnl, che finanziarono circa 150 milioni di dollari. Nel 1980, a una seconda crisi, l’uomo pagò tangenti a Claudio Martelli e a Bettino Craxi affinché la Eni tornasse a erogare stanziamenti per il Banco Ambrosiano. Nel 1981 esplose il caso della P2; Calvi, ormai in rotta anche con Sindona, rimase senza protezione e, nell’estremo tentativo di appianare il debito del Banco Ambrosiano, strinse rapporti con Flavio Carboni, finanziere legato a personalità del calibro di Gelli, Pippo Calò e i membri della banda della Magliana. Amicizie pericolose, che giocarono un grosso peso nel suo destino. Nel 1982, il banchiere venne ritrovato impiccato a Londra, appeso sotto il ponte dei Frati Neri, apparentemente suicida. Secondo la vedova, il vero capo della P2 era Andreotti, il quale avrebbe fatto uccidere l’uomo. Effettivamente, prima di partire per Londra, Calvi incontrò il politico, ma al riguardo non si sa altro.

Nel frattempo, in Italia, fu aperta un’inchiesta, basata sulle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia. Tra queste, quella di Francesco Marino Mannoia, il quale sostenne che Calvi e Gelli avevano investito denaro sporco nello Ior e nell’Ambrosiano per conto del boss mafioso. Al riguardo dichiarò: “Calvi fu strangolato da Francesco Di Carlo su ordine di Pippo Calò. Calvi si era impadronito di una grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e, quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era dimostrato inaffidabile.” Una versione contestata da Francesco Di Carlo, il quale negò di essere l’assassino, pur ammettendo che gli fosse stato domandato. Ma, sottolineò il pentito, “la questione venne risolta con i napoletani”. Antonino Giuffrè, un altro pentito, sposò questa tesi, spiegando come i camorristi legati ai Corleonesi - di cui Calò curava gli interessi - si fossero affidati a Calvi per i propri investimenti, e che dunque, una volta perso tutto, volessero vendicarsi. E ancora, il collaboratore Pasquale Galasso raccontò di come l’esecutore materiale dell’omicidio fosse Vincenzo Casillo, che doveva un favore a Pippo Calò, mentre Antonio Mancini, membro della banda Magliana, specificò che, oltre al boss mafioso, l’altro mandante dell’assassinio era Flavio Carboni. Non di poca rilevanza, inoltre, è il fatto che Roberto Calvi, su richiesta del Vaticano, finanziò “paesi e associazioni politico-religiose” in America Latina “allo scopo di contrastare la penetrazione e l’espandersi di ideologie filomarxiste”. Cioè, collaborava parallelamente all’operazione Sunrise voluta dalla Cia. Un altro membro della potente loggia fu Eugenio Cefis. Fu lui, dal suo ruolo di presidente dell’Eni, ad aiutare Roberto Calvi quando l’Ambrosiano riversava in gravi condizioni economiche. Imprenditore potentissimo, fu al centro di un libro inchiesta di Pier Paolo Pasolini. In questo volume, il regista, poco prima della misteriosa morte, ipotizzò che Cefis avesse avuto un ruolo nello stragismo legato alle trame internazionali. Inoltre, Pasolini lo indicò come principale sospettato nell’ambito della morte del suo predecessore e fondatore dell’Eni, Enrico Mattei. Sulla morte di Mattei ritorna ancora la Cia, così come Cosa Nostra. L’onorevole Oronzo Reale affermò come il mandante dell’assassinio fosse Cefis, dopo che Mattei scoprì che era manovrato dagli agenti segreti americani. Ma, al tempo stesso, un’altra ipotesi è stata mossa negli anni, ossia quella che vede nel fondatore dell’Eni un nemico per le “sette sorelle”, le compagnie petrolifere più ricche del mondo che domandarono dunque a Cosa Nostra di eliminare il rivale. Una tesi sostenuta da pentiti di mafia come Gaetano Iannì e Tommaso Buscetta, nonché da un agente del KGB di stanza in Italia negli anni ’60, Leonid Kolossov. Anche un eventuale intervento della Cia pare non poter essere preso sotto gamba: l’agenzia, proprio nei giorni in cui si verificò l’attentato contro Mattei, era impegnata in una fase cruciale della Guerra Fredda e, di conseguenza, aveva buone ragioni per sperare nella morte dell’imprenditore, che con la Russia aveva allestito una linea commerciale, rompendo di fatto l’embargo politico. Quel che è certo è che, il 27 ottobre 1962, il più potente manager di stato italiano venne ucciso dall’esplosione di una bomba sull’aeroplano privato su cui viaggiava. Venne aperta un’inchiesta, condotta dal pm Vincenzo Calia, il quale, durante le indagini, rintracciò anche un appunto del Sismi, nel quale veniva illustrato il ruolo di Cefis nella P2: ne era il fondatore. Precedentemente Pasolini, anche il giornalista Mauro De Mauro si interessò alla morte di Mattei, prima di sparire nel nulla.

Ufficialmente è stato ucciso dalla mafia, come almeno altri due personaggi noti che si occuparono del caso: Boris Giuliano e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quest’ultimo, nel particolare, prima di essere ucciso da Cosa Nostra, si era occupato, tra gli altri casi, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, il quale aveva sollevato seri dubbi su ciò che Gladio compieva in Italia, tanto da citare l’organizzazione nei suoi memoriali. E non stupirà sapere che le carte relative al sequestro del politico, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, sparirono inspiegabilmente dopo l’attentato che gli strappò la vita. Dopo Moro e Dalla Chiesa, un altro personaggio si interessò all’unità “stay behind” italiana: Giovanni Falcone. Il magistrato voleva approfondire l’incidenza di Gladio nei delitti politici di Palermo degli ultimi anni, tra cui quello di La Torre, di Reina e di Mattarella. Aveva inoltre supposto che dietro la morte del giornalista Mauro Rostagno potessero celarsi gli agenti segreti, visto e considerato che, durante le sue indagini, il cronista si era imbattuto in verità scottanti riguardo il contrabbando di droga e di armi con l’Africa. Verità talmente sconvolgenti da aver persino richiesto, prima di morire, un colloquio con Falcone, presumibilmente riguardante la base operativa Centro Scorpione, una propaggine di Gladio, a Trapani, creata nell’87. Per l’omicidio di Rostagno, avvenuto nell’88, fu sospettato come mandante il boss trapanese Vincenzo Virga, colui che, pochi anni dopo, fu incaricato dal boss Riina di procurare gli esplosivi per le stragi e da Marcello Dell’Utri di trattare il recupero di un credito di Publitalia con la Pallacanestro Trapani. Lo stesso mafioso è anche mandante della strage di Pizzolungo. E’ interessante notare come Rostagno avesse scoperto casualmente i traffici verso il Continente Nero, laddove, pochi anni dopo, nel marzo 1994, sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose Ilaria Alpi. Inviata in Somalia a seguire in prima persona la guerra civile e per indagare sul traffico d’armi e di rifiuti tossici illegali, probabilmente scoprì che nella questione erano coinvolti anche i servizi segreti, come confermato successivamente da alcuni pentiti. Altresì, riveste i contorni di oscuro presagio il fatto che, nel novembre precedente, era stato ucciso, sempre in Somalia, l’informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, capo del Centro Scorpione. Scrisse Alfio Caruso: “Che bel mistero quel Centro Scorpione, ufficialmente incaricato di contrastare dal basso Mediterraneo l’arrivo dell’Armata Rossa, viceversa invischiato in combinazioni poco chiare, talmente cieco – ma è possibile? – da non accorgersi che da Trapani per otto anni sono transitati tutti i carichi di missili, di esplosivo, di mine, di granate diretti verso l’Iran e l’Iraq, impegnatissimi a scannarsi vicendevolmente.” Falcone iniziò a sospettare qualcosa. Ritenne che esistessero strutture segretissime all’interno di Cosa nostra “con finalità ancora ignote ma certamente di enorme portata”. Trovò prove inoppugnabili di come la mafia fosse stata interpellata per salvare Aldo Moro, nonché collegamenti tra omicidi celebri e massoneria: su tutti Pierluigi Concutelli, assassino di Occorsio, tessera 4070 della Loggia Camea di Palermo. Ma, quando il giudice provò ad indagare sul Centro Scorpione di Trapani, gli venne impedito. Il procuratore Pietro Giammanco gli comunicò che avrebbe preferito condurre lui quell’inchiesta e il magistrato si trasferì a Roma, divenendo direttore degli affari penali, accettando il posto offerto da Martelli. Non per questo smise di interessarsi a Gladio e al Centro Scorpione. Fu la sua ultima indagine, sebbene non ufficiale. Conservò tutti gli appunti sul suo computer, forse arrivò veramente vicino alla verità. Così tanto che divenne impellente la necessità di eliminarlo. Il 23 maggio 1992, a Capaci, Falcone venne ammazzato e, con lui, la moglie e alcuni uomini della scorta. Nei cieli volava anche un piper sconosciuto, probabilmente dei Servizi. Poche ore dopo, qualcuno s’introdusse nell’ufficio del magistrato e manomise i dati su Gladio.

"La mafia braccio armato dell'altra massoneria". I rapporti inediti della stagione delle stragi: uomini di Cosa nostra infiltrati nelle logge siciliane, scrivono Francesco La Licata e Guido Ruotolo su “La Stampa”. Novembre del 2002. Documento della Dia, Divisione investigativa antimafia, alla Procura antimafia di Firenze che indaga sulle stragi del ‘93. «Cosa nostra, storicamente, per raggiungere determinati obiettivi essenziali - condizionamento dei processi e realizzazione di grossi arricchimenti - si è sempre mossa attivando da una parte referenti politico-istituzionali, dall’altra ponendo in essere azioni delittuose, alla bisogna, anche estreme. Altra determinante leva di pressione è stata sicuramente quell’alleanza con una parte della massoneria deviata, incarnata nelle logge occulte, riferibile, tra le altre, alla loggia del Gran Maestro della Serenissima degli Antichi Liberi Accettati Muratori-Obbedienza di Piazza del Gesù - Maestro Sovrano Generale del Rito Filosofico Italiano - Sovrano Onorario del Rito Scozzese Antico e Accettato, di origini palermitane, di stanza a Torino, il noto prof. Savona Luigi, particolarmente sentito nel decennio Ottanta, in seno a Cosa nostra, per il suo profondo legame con la cosca mazzarese, intrecciato attraverso il mafioso Bastone Giovanni, personaggio di primo piano nel panorama criminale torinese nel periodo succitato, che come si vedrà più avanti ha avuto un ruolo non certo insignificante nella vicenda relativa alla collocazione di un ordigno, non volutamente fatto brillare, nel giardino di Boboli a Firenze». Il rapporto della Dia si dilunga sui rapporti di Savona con i mafiosi della famiglia Lo Nigro, e più in generale della massoneria deviata con Cosa nostra: «Questo particolare aspetto relazionale deviante della massoneria, viene definito “mafioneria”; una sorta di ordinamento composto da mafiosi e massoni, che trova ambiti ben definiti in un’area oscura della politica, connotata da una perversa logica di potere». C’è un passaggio dell’informativa della Dia del 2002 che richiama alle polemiche di questi giorni sulla strategia stragista finalizzata a favorire la discesa in campo di nuovi soggetti politici: «L’avvio di una trattativa, nella logica pragmatica mafiosa, con le Istituzioni non poteva che prevedere l’apporto e l’intervento di soggetti asserviti a Cosa nostra... in questo quadro si inserisce il ruolo svolto dall’indagato Vincenzo Inzerillo, ex senatore Dc (poi la sua posizione è stata archiviata nell’ambito del fascicolo sui mandanti delle stragi di Firenze, Roma e Milano, ndr), collegato con la famiglia dominante del quartiere Brancaccio di Palermo, capeggiata all’epoca dai fratelli Graviano, cui l’Inzerillo era asservito». Inzerillo (condannato in Appello, l’11 gennaio del 2010, a 5 anni e 4 mesi per concorso in associazione mafiosa) in quell’autunno del ‘93 è impegnato nella nascita di un partito politico, Sicilia Libera. «La possibilità di poter disporre di una forza politica da inserire poi in un più ampio raggruppamento, che fosse espressione di un vero soggetto politico, avrebbe consentito a Cosa nostra, secondo il suo progetto, di poter realizzare direttamente e senza alcuna mediazione quegli affari abbisognevoli di appoggi di natura politica, ma anche di poter condizionare con subdoli interventi l’andamento dei processi avviati contro i propri sodali». Sempre la Dia, ma dieci anni prima (10 agosto 1993). Un documento corposo analizza scenari e moventi all’indomani delle stragi di luglio di Roma e Milano: «Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia, ma ha lasciato altresì intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa». Si sofferma sul punto il rapporto della Dia: «Si potrebbe pensare a una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergano finalità diverse. Un gruppo che, in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata. Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano». Infine un accenno alla massoneria: «Recenti indagini - si legge nel rapporto Dia del 10 agosto 1993 - hanno evidenziato la presenza di uomini di “cosa nostra” nelle logge palermitane e trapanesi, senza dimenticare il ruolo chiave svolto alla fine degli anni ‘70 da Michele Sindona nei contatti tra gli ispiratori di progetti golpisti ed elementi di spicco della mafia siciliana». Un salto di un anno. Siamo al 4 marzo del 1994. Questa volta si tratta di una informativa all’autorità giudiziaria da parte della Dia. Settanta pagine corpose. Un capitolo importante è dedicato al regime carcerario, al 41 bis: «Solo alcuni giorni prima degli attentati di Milano e Roma, il ministro di grazia e giustizia aveva disposto il rinnovo dei provvedimenti di sottoposizione al regime speciale per circa 284 detenuti appartenenti a organizzazioni mafiose. La logica che ha fatto considerare vincente l’attuazione di una campagna del terrore deve aver avuto alla base il convincimento che, dovendo scegliere se affrontare una situazione di caos generale o revocare i provvedimenti di rigore nei confronti dei mafiosi, le Autorità dello Stato avrebbero probabilmente optato per la seconda soluzione, facilmente giustificabile con motivazioni garantiste o, come avvenuto in passato, affidando all’oblio, agevolato dall’assenza di nuovi fatti delittuosi eclatanti, una normalizzazione di fatto».

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, scrive Salvo Palazzolo. "Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta. "L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconoscimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge. Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani". Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, attuale capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta. Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970. Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina. Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo. Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni.

Massoneria, poteri criminali, finanza e magistratura. Libro "La Massoneria smascherata" di Giacinto Butindaro. Fratelli nel Signore, ecco un altro mio libro confutatorio: si intitola ‘La massoneria smascherata: contro l’infiltrazione e l’influenza di questa diabolica istituzione nelle Chiese Evangeliche’. E’ un libro particolare, diverso per certi aspetti da tutti gli altri, e capirete il perchè leggendolo e studiandolo. La sua lettura e il suo studio vi richiederanno parecchio tempo e impegno, ma sappiate che questo è un libro molto importante che ognuno di voi deve leggere. Vi avverto da subito che questo è un libro che contiene informazioni e notizie che produrranno in voi sbigottimento, e tanta rabbia e tristezza. Ma nello stesso tempo sono sicuro che esso vi farà gioire ed esultare nel Signore e vi farà ringraziare Dio perchè smaschera una delle più potenti ed efficaci macchinazioni di Satana contro la Chiesa dell’Iddio vivente e vero, colonna e base della verità. Un’ultima cosa: molti di voi leggendo questo libro scopriranno di essere stati MASSONIZZATI, in quanto la Chiesa o la Denominazione o l’Associazione di cui fanno parte è sotto l’influenza o il controllo della Massoneria. A costoro dico: Ravvedetevi e separatevi immediatamente da coloro che vi hanno MASSONIZZATI. La grazia del nostro Signore Gesù Cristo sia con coloro che lo amano con purità incorrotta. Amen. Ho deciso di introdurre in questo mio libro anche una parte dedicata ai rapporti tra la Massoneria e i poteri criminali, perchè credo che sia importante conoscere a grandi linee le collusioni tra Massoneria e criminalità organizzata in Italia, per avere un quadro il più possibile chiaro sulla Massoneria. Citerò soprattutto delle informazioni presenti nel libro Fratelli d’Italia scritto dal giornalista Ferruccio Pinotti, che ritengo molto utile per capire questo aspetto della Massoneria, o meglio di una parte della Massoneria perchè non tutti i Massoni accettano o sono d’accordo con la presenza di criminali mafiosi nella Massoneria anche perchè l’ingresso di un criminale o di un mafioso nella Massoneria viola uno dei requisiti essenziali che deve avere il ‘profano’ per entrare nella Massoneria, cioè quello di essere di buoni costumi, che nel linguaggio massonico significa che il ‘profano’ per essere ammesso nella Massoneria ‘deve essere buon genitore, buon cittadino, rispettoso delle leggi, della morale comune e della libertà altrui; avere uno stile morale di vita, se non irreprensibile, almeno superiore alla media quanto a serietà, saggezza, discrezione e prudenza. Insomma non l’uomo perfetto, ma un uomo che mediamente, nel giudizio dei più, in una certa società ed in un determinato periodo, sia considerato persona onesta ed affidabile, corretto nelle relazioni umane, rispettoso delle leggi e degli altri. Dovrebbe essere questo l’individuo di “buoni costumi” del quale dobbiamo andare in cerca. Tratterò anche brevemente i legami della Massoneria con la finanza, perchè esistono e sono anche forti. Ed infine farò un accenno anche ai legami che esistono tra la Massoneria e certi ambienti della magistratura.

Cosa nostra. I rapporti tra massoneria e mafia risalgono già al periodo della seconda guerra mondiale, quando il ‘pastore’ protestante Frank Bruno Gigliotti, massone ed agente dell’OSS (poi CIA), preparò lo sbarco in Sicilia degli alleati attraverso i rapporti con la mafia e la massoneria. Quindi la massoneria siciliana ha avuto un ruolo fondamentale, insieme a elementi della mafia, nel preparare lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Ma questi rapporti sono proseguiti nel tempo e si sono rafforzati. L’ex Gran Maestro del GOI Giuliano Di Bernardo racconta che mentre era Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Armando Corona (1982-1990), siccome Corona fece riscrivere i regolamenti interni, le costituzioni del GOI, trasformando – come dice lui – la massoneria in una specie di società per azioni in cui la giunta è diventata un consiglio d’amministrazione, avvenne che la massoneria americana tolse il riconoscimento al GOI, e a questo punto rivela dei particolari a dir poco inquietanti: ‘La riforma della costituzione massonica voluta da Corona fece perdere al Grande Oriente il riconoscimento da parte della massoneria americana. I gran maestri regionali, soprattutto del Sud, che erano molto irritati, avevano rapporti molto stretti con la Gran Loggia di New York. Quindi anche con la mafia, infiltrata nella famosa loggia Garibaldi: un concentrato di esponenti dell’area grigia tra massoneria e malavita. Ricordo che una volta, quando andai in visita a quella loggia, pensai di avere intorno a me tutti i capi di Cosa nostra in America. Altre concrete prove sui rapporti tra Massoneria e Mafia provengono dal processo sull’omicidio di Roberto Calvi, infatti nella requisitoria del pubblico ministero Luca Tescaroli al processo "Omicidio di Roberto Calvi", si legge a proposito di Angelo Siino, ex «ministro dei lavori pubblici» di Cosa nostra ed ora collaboratore di giustizia: «Gran Maestro dell’Oriente di Palermo della loggia massonica Camea, con il grado di trentatré, Angelo Siino ha riferito di aver incontrato per caso Roberto Calvi a Santa Margherita Ligure all’interno della sede della loggia, una chiesa sconsacrata, adibita a tempio massonico, mentre stava parlando con l’allora Gran Maestro della loggia, Aldo Vitale, personaggio importante in quella zona, medico condotto. Siino si era recato a Santa Margherita con Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate, massone parimenti appartenente alla loggia Camea». Siino descrisse quell’incontro in questa maniera: "Aldo Vitale, sempre espansivo, gentile ed accogliente nei suoi confronti, gli aveva detto di ‘aspettare un attimo”. Si era meravigliato ed aveva domandato al suo accompagnatore “ma chi è questo che è in compagnia di Vitale?". Questi gli aveva risposto che era Calvi, un banchiere di Milano un personaggio importante, anche perchè gestisce dei soldi nostri. Aveva usato il plurale maiestatis per fargli intendere che gestiva dei soldi di Cosa nostra. Nell’occasione, aveva detto che gestiva anche denaro di altri. Aveva usato l’espressione ‘e non solo’. Si era meravigliato del fatto che Aldo Vitale conoscesse Roberto Calvi. Era, però, un personaggio importante, anche amico di Licio Gelli, circostanza che aveva potuto constatare personalmente. Oltre al Siino, anche un altro ex mafioso ora collaboratore di giustizia che si chiama Gioacchino Pennino è un massone, infatti nella requisitoria si legge a suo proposito: «Uomo d’onore riservato, medico specialista, Gioacchino Pennino ha fatto parte di una loggia appartenente all’obbedienza di Palazzo Giustiniani e, prima ancora, sin dagli anni Sessanta, all’ordine di Rito Scozzese antico e accettato di cui era Gran Sovrano il principe Giovanni Alliata di Monreale, che aveva sede a Roma, in via del Gesù, e che si rifaceva alla loggia del Mondo di Washington. Negli anni Sessanta aveva ricevuto il titolo massonico di ‘dumitis’ dell’Ordine del gladio e dell’aquila, ed ha rivelato delle cose sulla massoneria che vale la pena trascrivere: "Il principe Gianfranco Alliata è appartenuto alla famiglia mafiosa di Brancaccio e, al contempo, ha rivestito il ruolo di Grande Sovrano della massoneria di piazza del Gesù, con il ruolo di sovrano dell’ordine di Rito scozzese antico ed accettato, che aveva come riferimento il duca di Kent, la Gran Loggia Unita di Inghilterra e, in America, la loggia del Mondo di Washington. E’ stato uno dei mandanti della strage di Portella delle Ginestre per conto del partito monarchico e della massoneria. Facevano parte di questa massoneria Michele Sindona e Antonino Schifando; ed era frequentata da alcuni associati a Cosa nostra, quali Angelo Cosentino, responsabile della famiglia di Santa Maria del Gesù a Roma, con il ruolo di capo decina; da Giuseppe Calò e Luigi Faldetta. Aveva appreso le circostanze sull’appartenenza e le frequentazioni massoniche di questi boss nel corso degli anni, da Stefano Bontate e dal cognato Giacomo Vitale, entrambi defunti e massoni. Non era in grado di precisare a quale massoneria apparteneva Bontate. Giacomo Vitale, dapprima, apparteneva alla massoneria di piazza del Gesù e, successivamente, aveva aderito alla Camea, loggia di origine ligure, con alcune logge in Sicilia e a Palermo soprattutto. Gianfranco Alliata aveva presentato Michele Sindona a Stefano Bontate". E proseguiamo, perchè di prove ce ne sono altre molto importanti. Infatti nell’aprile del 1986 la squadra mobile di Trapani fece irruzione nel Centro, situato in via Carreca, sequestrando gli elenchi di sette logge massoniche (circa 200 gli iscritti). Dopo un attento esame si scoprì che una delle sette logge era ‘coperta’ e i suoi quasi cento affiliati non erano presenti in alcun elenco o registro ufficiale. Dopo qualche settimana emersero i primi nomi degli affiliati segreti: funzionari del comune e della provincia, un burocrate della prefettura, imprenditori edili, commercianti, un famoso deputato della Democrazia Cristiana, e boss mafiosi. Il giornalista Attilio Bolzoni scrisse allora su La Repubblica: «Alcuni fratelli, ammette un investigatore, oltre ad essere in buoni rapporti con i boss, occupano posti importanti nella Pubblica amministrazione. Altri, forse, hanno anche in mano le chiavi della città … Un sospetto inquietante. Di quel Centro si occupò pure la Commissione parlamentare antimafia. Nel resoconto stenografico della seduta del 4 dicembre 1992, che era presieduta dall’onorevole Luciano Violante si legge: "Nell’aprile del 1986 la magistratura trapanese dispose il sequestro di molti documenti presso la locale sede del Centro studi Scontrino. Il centro studi, di cui era presidente Giovanni Grimaudo – con precedenti penali per truffa, usurpazione di titolo, falsità in scrittura privata e concussione – era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d’Alcamo, Cafiero ed Hiram. L’esistenza di un’altra loggia segreta, trovò una prima conferma nel rinvenimento, in un’agenda sequestrata al Grimaudo, di un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C"; tra questi quello di Natale L’Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d’Alcamo risultano essere stati affiliati: Fundarò Pietro, che operava in stretti rapporti con il boss mafioso Natale Rimi; Pioggia Giovanni, della famiglia mafiosa di Alcamo; Asaro Mariano, imputato nel procedimento relativo all’attentato al giudice Carlo Palermo". La relazione della Commissione antimafia dice ancora quanto segue: «Nel procedimento trapanese contro Grimaudo vari testimoni hanno concordato nel sostenere l’appartenenza alla massoneria di Mariano Agate; dagli appunti rinvenuti nelle agende sequestrate al Grimaudo risultano poi collegamenti con i boss mafiosi Calogero Minore e Gioacchino Calabrò, peraltro suffragati dai rapporti che alcuni iscritti alle logge intrattenevano con gli stessi. Alle sei logge trapanesi ed alla ‘loggia C’ erano affiliati amministratori pubblici, pubblici dipendenti (comune, provincia, regione, prefettura), uomini politici (l’onorevole Canino ha ammesso l’appartenenza a quelle logge, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati), commercialisti, imprenditori, impiegati di banca. Gli affiliati a questo sodalizio massonico interferivano sul funzionamento di uffici pubblici, si occupavano di appalti e di procacciamento di voti in occasione delle competizioni elettorali, tentavano di favorire posizioni giudiziarie e di corrompere appartenenti alle forze dell’ordine amici. Il Grimaudo risulta aver chiesto soldi agli onorevoli Canino (Dc) e Blunda (Pri) per sostenerne la campagna elettorale; la moglie di Natale L’Ala ha testimoniato che, su richiesta del Grimaudo, il marito si attivò per favorire l’elezione degli onorevoli Nicolò Nicolosi (Dc) e Aristide Gunnella (Pri)», e riferisce pure: «Particolare rilevanza assume, infine, nel contesto descritto, il rapporto di Grimaudo con Pino Mandalari. Mandalari fu arrestato nel 1974 per favoreggiamento nei confronti di Leoluca Bagarella e nel 1983, fu imputato con Rosario Riccobono. E’ legato a Totò Riina e socio fondatore nel 1974, con il mafioso Giuseppe Di Stefano, della società Stella d’Oriente di Mazara del Vallo, della quale fece parte dal 1975 Mariano Agate. Della società facevano parte parenti del boss camorristico Nuvoletta, membro di Cosa nostra. Mandalari è un esponente significativo della massoneria e riconobbe, nel 1978, le logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo». Il giornalista Antonio Nicaso definisce il Mandalari "il commercialista di Totò Riina" e "Gran Maestro dell’Ordine e Gran Sovrano del Rito scozzese antico e accettato, un uomo al centro di mille sospetti e di altrettanti misteri". Anche negli atti del processo Dell’Utri emergono collusioni tra la Massoneria e la Mafia, infatti nella lunga requisitoria pronunciata dai pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nico Gozzo nel corso di diverse udienze viene detto dai pm: «Il tema della massoneria è centrale in questa parte della requisitoria che riguarda la fine degli anni ’70. E’ fondamentale per l’associazione mafiosa, e specie per Bontate, che voleva svezzare Cosa nostra ed introdurla ancora di più negli ambienti che contano. Tramite la massoneria viene acquisita una serie di contatti [...]. La massoneria – ed in particolare proprio Licio Gelli, fondatore della loggia massonica coperta Propaganda 2 – in quel periodo si trova al centro di una serie di interessi, che avevano come propri terminali associati mafiosi». Ed in effetti, come dice Ferruccio Pinotti, in Sicilia, tra il 1976 e il 1980, i mafiosi fanno a gara per entrare nella massoneria. Cosa nostra offre ai massoni l’efficacia della propria macchina militare, ma soprattutto una formidabile carta di pressione politica: il denaro. I massoni offrono ai boss i canali legali per riciclare e investire i soldi, i contatti politici giusti per concludere grandi affari e i magistrati adatti per l’«aggiustamento» dei processi.

Le logge, negli anni Ottanta, fioriscono. Solo a Palermo, dopo la Camea, la Armando Diaz, la Normanni di Sicilia. Nella sola Sicilia all’epoca si contano più di centosettanta logge. Questa commistione tra Massoneria e Mafia è stata confermata dal collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, l’ex capo mafioso di Castelvetrano (Trapani). Ecco infatti cosa riporta la requisitoria del PM Tescaroli (nel processo sull’omicidio di Calvi) sulle sue dichiarazioni in merito ai rapporti tra mafia e massoneria: «Appare utile, per poter apprezzare l’attendibilità delle sue dichiarazioni dibattimentali, riportare quanto ha riferito Calcara sui temi d’interesse del presente processo. In data 2.12.1992, ha riferito: «Voglio adesso parlare di un argomento del quale avevo già iniziato a parlare con il Giudice Borsellino ma solo a voce. E con il quale avevamo rimandato la verbalizzazione di tali fatti. Esiste infatti un grosso collegamento tra la Loggia Massonica di Castelvetrano, Campobello e Trapani e l’organizzazione mafiosa che milita in quella zona. Infatti il Vaccarino è un massone, e anche l’avv. Pantaleo di Campobello. Voglio essere molto preciso nel parlare di queste cose perchè chiaramente sono cose molto delicate. So per certo che molti uomini d’onore delle famiglie di cui ho parlato sono appartenenti alle Logge Massoniche. Una volta il Vaccarino parlando di tale argomento, mi disse che la Massoneria era una cosa grande, più grande di noi. E mi disse che il suo piacere era che io facessi parte di tale organizzazione. Fu lo stesso Vaccarino a dirmi che lo Schiavone è massone e nell’ambito delle famiglie si diceva che anche il giudice Carnevale era massone. Ricordo, che una volta mi recai a Roma e lì andai a trovare lo Schiavone il quale mi accompagnò a Montecitorio perchè io dovevo consegnare per conto di Pantaleo una grande busta sigillata, da consegnare a mano all’on.le Miceli dell’Msi. A Montecitorio la Segreteria dell’on.le Miceli mi disse che l’onorevole non era in sede. Io allora uscii da Montecitorio (fuori mi aspettava lo Schiavone) e chiamai per telefono il Pantaleo che mi aveva consegnato la busta. Questi mi disse di consegnarla allo Schiavone. Di tali fatti chiesi spiegazione al Vaccarino che mi disse: ‘Cose di Massoni’ e in quell’occasione aggiunse che parlavano di una cosa più grande di noi. Sono argomenti estremamente difficili e delicati perchè di difficile riscontro. Bisogna anche considerare che i probabili anzi più che probabili elenchi dopo tutti questi fatti siano stati occultati. Ricordo che il giorno prima che Borsellino morisse, conversammo, per telefono; Borsellino in quella occasione mi disse che dovevamo vederci presto per parlare di quelle ‘cose importanti’ e chiaramente intendeva riferirsi a quei discorsi sulla Massoneria che insieme avevamo fatto. Voglio aggiungere sull’argomento che ho anche sentito dire che l’on.le Culicchia era massone e comunque ribadisco che moltissimi uomini d’onore delle famiglie di cui ho parlato fanno parte della Loggia Massonica e ciò perchè per la realizzazione di determinati traffici tale condizione li aiutava, e anche per quello che è la vita sociale in genere. Voglio però precisare che non intendo affermare che, per quanto a mia conoscenza, il semplice fatto di essere massone significhi essere legato all’organizzazione mafiosa. Certo è comunque, come ho già detto, che i mafiosi che fanno parte della Loggia Massonica evidentemente ne ricevevano i loro vantaggi». Come ha scritto giustamente un giornalista su La Repubblica: «Le affiliazioni massoniche offrono all’organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere per ottenere favori e privilegi in ogni campo, sia per la conclusione di grandi affari sia per l’aggiustamento di processi, come hanno rilevato numerosi collaboratori della giustizia». E io aggiungo, non solo all’organizzazione mafiosa, ma anche a quei pastori evangelici corrotti che si affiliano alla massoneria – non importa se a logge ufficiali o coperte – per ricevere aiuti dai criminali, che poi loro puntualmente presenteranno alle loro Chiese come aiuti provenienti da Dio! E di cosa bisogna meravigliarsi sapendo quanta corruzione e malvagità esiste nelle denominazioni evangeliche e che ci sono pastori in esse che si alleerebbero pure con il diavolo in persona per perseguire i loro interessi personali? Questi sono tra quei pastori amici di malfattori, che cercano il loro proprio interesse e non ciò che è di Cristo, e di cui il profeta Isaia dice: “I guardiani d’Israele son tutti ciechi, senza intelligenza; son tutti de’ cani muti, incapaci d’abbaiare; sognano, stanno sdraiati, amano sonnecchiare. Son cani ingordi, che non sanno cosa sia l’esser satolli; son dei pastori che non capiscono nulla; son tutti vòlti alla loro propria via, ognuno mira al proprio interesse, dal primo all’ultimo. ‘Venite’, dicono, ‘io andrò a cercare del vino, e c’inebrieremo di bevande forti! E il giorno di domani sarà come questo, anzi sarà più grandioso ancora!’” (Isaia 56:10-12). Guai a loro! La commistione tra Massoneria e mafia in Sicilia è tale che dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, avvenute nel 1992, in cui furono uccisi dalla mafia i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il professor Orazio Catarsini, uno dei massimi esponenti del mondo accademico, presidente del collegio dei Maestri Venerabili, sottopone ai confratelli delle logge un documento di condanna delle stragi, ma il documento non passa. L’ex Gran Maestro del GOI Giuliano Di Bernardo, a tale proposito, ‘ha raccontato al Procuratore di Palmi che, in una riunione del Collegio dei Gran Maestri delle logge siciliane, il 26 luglio 1992, il suo presidente, il professor Catarsini «aveva ritenuto opportuno far approvare un documento che attestasse la presa di posizione della massoneria rispetto alla mafia, anche alla luce dei gravi fatti accaduti con l’uccisione di Falcone e Borsellino. Subito dopo la riunione, Catarsini mi telefonò alle Canarie» ricorda Di Bernardo «dove mi trovavo in vacanza, comunicandomi, turbato, la mancata approvazione del documento, che lo aveva disorientato e non sapeva come interpretare». Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante: "Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti: - intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra; - nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia; - all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore".

‘Ndrangheta. C’è commistione anche tra la Massoneria e la ‘ndrangheta calabrese, una delle più potenti organizzazioni criminali in Italia, anzi la più potente secondo l’ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna che l’ha definita «la mafia più potente, l’agente monopolistico nel traffico degli stupefacenti. Ha collegamenti internazionali in Germania e in Francia e con logge massoniche coperte che non appartengono alla massoneria ufficiale: centri di interessi, di incontri, di agevolazioni». Nel 2007 Giancarlo Bregantini, il vescovo cattolico romano di Locri, in un convegno ha dichiarato che «la mafia è diventata ancora più insidiosa perchè ora è meno evidente e stringe sempre più i rapporti con la massoneria». Sui rapporti tra Massoneria e ‘ndrangheta il giornalista Mario Guarino – esperto in rapporti tra massoneria e criminalità – ha scritto: «Mentre i manovali del crimine eseguono dunque il lavoro sporco eliminando gli avversari, e mentre i capicosca trattano per accaparrarsi appalti e per concludere affari su enormi quantitativi di droga, ci sono Maestri della massoneria che, al riparo dei loro ‘centri studi’ o dei propri uffici commerciali o notarili, tessono la tela con pezzi del potere politico, finanziario o giudiziario. Essi rappresentano il ‘volto istituzionale’ delle ‘ndrine. E’ un passaggio obbligato, perchè attraverso la massoneria la ‘ndrangheta da organizzazione avulsa dalla società civile assume un’altra sembianza per diventare mafia imprenditrice». Anche il giornalista Antonio Nicaso – che risiede a Toronto perchè molti anni fa lasciò la Calabria e andò in Canada dietro suggerimento del magistrato Giovanni Falcone che praticamente gli disse: ‘Vattene, altrimenti ti uccideranno …’ – afferma sostanzialmente la stessa cosa: «La ‘ndrangheta ha modificato il suo assetto organizzativo per favorire l’ingresso dei suoi esponenti di vertice nelle logge coperte. Una sorta di enclave paramassonica in seno alla ‘ndrangheta è servita a favorire il dialogo diretto con esponenti delle istituzioni, della finanza, senza più delegare questo delicato compito ai politici. In Calabria, il processo di integrazione con gli ambienti eversivi e paramassonici avvenne nel 1979 quando, durante la latitanza a Reggio Calabria del terrorista nero Franco Freda, venne costituita la cosiddetta ‘Superloggia’, un organismo segretissimo con diramazioni a Messina e Catania, collegato alla Loggia dei Trecento, l’organizzazione massonica di Stefano Bontate. Alla Superloggia, oltre ai più importanti capibastone della ‘ndrangheta, avrebbero aderito esponenti della destra eversiva, ‘fratelli’ già affiliati alla P2 e ad altre logge coperte, uomini politici, rappresentanti delle forze dell’ordine e del mondo imprenditoriale, magistrati». Il magistrato Nicola Gratteri, che lavora presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria e che è un profondo conoscitore dei rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria, ha affermato che «massoneria, ‘ndrangheta, camorra e mafia si giovano del ‘trasversalismo’ che ormai impera anche nei rapporti tra politica e crimine organizzato, un trasversalismo che coinvolge sinistra, destra e centro senza distinzioni, da Forza Italia ai Ds», e traccia delle analogie tra la ‘ndrangheta e la massoneria che secondo lui favoriscono una sorta di riconoscimento reciproco. Tra queste analogie c’è quella del giuramento, dice infatti il magistrato: «Anche nella ‘ndrangheta, come nella massoneria, agli affiliati è richiesto un giuramento di fedeltà, che prevede di recitare una formula, che tradotta in italiano suona: ‘Giuro su quest’arma e di fronte a questi nuovi fratelli di Santa di rinnegare la società di sgarro e qualsiasi altra organizzazione, associazione e gruppo e di fare parte della Santa Corona e di dividere con questi nuovi fratelli di Santa la vita e la morte nel nome dei cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso. E se io dovessi tradire dovrei trovare nello stesso momento dell’infamia la morte». Comunque, per Gratteri la doppia appartenenza sia alla ‘ndrangheta che alla massoneria è possibile, in quanto «la doppia appartenenza è particolarmente utile quando si tratta di operazioni di un certo livello, di sedersi al tavolo della pubblica amministrazione per decidere gli appalti». Nel 1992 il procuratore di Palmi Agostino Cordova avviò una inchiesta sui rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria, e chiese al Grande Oriente d’Italia gli elenchi dei massoni calabresi. Allora era Giuliano Di Bernardo a capo del GOI. Il Di Bernardo mostrò un atteggiamento collaborativo, nonostante le pressioni interne, perchè si convinse che il lavoro di Cordova era fondato basandosi su elementi concreti. A tale riguardo, ecco dei particolari interessanti raccontati dal Pinotti sempre nel suo libro Fratelli d’Italia in cui intervista il Di Bernardo: "Di Bernardo, in quel momento, si sente in dovere di opporre resistenza all’inchiesta, ma qualcosa lentamente lo convince che il lavoro di Cordova non è infondato, che l’inchiesta del magistrato si basa su elementi concreti. E’ il passaggio più difficile del suo racconto. «Un giorno mi sono recato a incontrare Cordova in un luogo segreto. Ricordo ancora vividamente quell’incontro. Il Magistrato mi guardò fisso e mi apostrofò con queste parole: ‘Professore, lei lo sa di essere un fiore su una palude? Lo sa di rappresentare delle realtà con le quali lei non ha nulla a che fare?’ Cordova disse proprio così». Come valutò il professore quelle parole? «Inizialmente reagii male: ‘Come si permette di dire cose del genere? Le può dire solo se è in grado di dimostrarle’». Ma poi qualcosa mutò il suo atteggiamento. Di Bernardo spiega che Cordova gli produsse vasta evidenza empirica dei fatti, che le indagini sulle connessioni tra mafia, ‘ndrangheta e massoneria si basavano su denunce che provenivano addirittura dagli stessi massoni, cioè da liberi muratori onesti preoccupati del dilagare dei comitati d’affari e delle collusioni pericolose con ambienti malavitosi. Di fronte a queste rivelazioni, avvenute nell’incontro «segreto», Di Bernardo restò senza parole, ammutolito da una realtà molto più complessa di quella che poteva immaginare. Gli addebiti dell’inchiesta Cordova non erano fantasie, ma provenivano addirittura dall’interno del Grande Oriente. Non si trattava delle persecuzioni di un magistrato; ma di «fratelli» onesti, che erano stanchi di essere affiancati a disinvolti affaristi. Di Bernardo deve affrontare un grosso dilemma morale: collaborare con la magistratura, dando così ai «fratelli» l’impressione di averli traditi, o assumere un atteggiamento di cieca difesa, tradendo così la propria coscienza? Il Gran Maestro, in cuor suo, sente che non può ignorare quanto il magistrato gli sta dicendo; che il suo interlocutore ha delle ragioni serie per indagare. Sceglie così di collaborare con la giustizia, difendendo allo stesso tempo le ragioni della parte pulita della massoneria. Ma è una linea troppo sottile per essere compresa. Attorno a Di Bernardo si scatena un violento scontro, che non può essere percepito dall’esterno ma che scuote dalle fondamenta l’istituzione massonica". Questa sua collaborazione con Cordova fece dunque infuriare il GOI, che gli si rivolta contro e lo lascia solo per indurlo a dimettersi, e difatti il 20 marzo 1993 durante una assemblea il Di Bernardo quando prende la parola lancia accuse. Accuse contro gli istigatori dell’ormai evidente progetto. Contro coloro che ne erano diventati portavoce. Contro tutti quelli che si erano riuniti la sera precedente. Contro il governo dell’Ordine. Contro i Gran Maestri Onorari. Di Bernardo precisa e rilancia nuove accuse. Dichiara di essere stato lasciato solo.

Isolato. Di non avere avuto alcun appoggio per le richieste di epurazione di alcuni fratelli. Di essere stato ostacolato nel suo progetto di trasparenza. Le accuse sono forti e cadono precise.

Nella sala il silenzio è assoluto. Nel libro Oltre la cupola si legge a proposito di quegli eventi: "E dentro al Goi si scatena la bagarre. Il Gran Maestro Di Bernardo propone l’operazione trasparenza, ma nessuno lo segue su questo terreno. Anzi, gli fanno poco alla volta le scarpe. Al Vascello, la grande casa del Goi tra villa Pamphili e il Gianicolo, si apre una lotta senza esclusione di colpi. Armando Corona si mette alla testa dei rivoltosi, non perdona a Di Bernardo di essere stato morbido con Cordova. La battaglia si svolge per qualche settimana alla pari, ma il timore di sbragare di fronte ai giudici sposta definitivamente l’ago della bilancia a favore dei ribelli". Ma quel violento scontro scoppiato all’interno della Massoneria contro il Di Bernardo è fatto anche di gravissime minacce che ricevono sia il Di Bernardo che la sua famiglia, minacce che lo porteranno a decidere di dimettersi e di uscire dal Grande Oriente d’Italia. Egli infatti il 14 Aprile 1993 convoca una riunione dei membri di Giunta del Grande Oriente, in cui afferma: «Volevo comunicarvi le mie decisioni. Ho ricevuto minacce gravissime e con me tutta la mia famiglia. Ho visto mia madre piangere per l’inquietudine che avevano suscitato in lei quelle minacce. Ne hanno ricevute mia moglie e i miei figli. La mia famiglia è spaventata e vive in constante angoscia. Ho quindi deciso di dimettermi». Ma che fine ha fatto poi quell’inchiesta di Cordova?

Innanzi tutto proseguì tra tanti ostacoli. Lo stesso Agostino Cordova – come si legge nel libro Oltre la cupola – il 9 luglio 1993 davanti alla Commissione antimafia denunciò che alla sua inchiesta stanno mettendo i bastoni fra le ruote. «Il fatto più allarmante è che sembra esservi una generale riluttanza ad eseguire le indagini. Abbiamo scritto pressoché a tutti gli organi di polizia giudiziaria – Digos, comandi provinciali dei carabinieri, guardia di finanza, eccetera – illustrandone l’oggetto. E’ raro però che vengano eseguite. Numerosi organi di polizia rispondono dicendo di non conoscere, nel loro territorio, l’esistenza di logge massoniche, talvolta anche in centri dove tali logge pullulano. Normalmente le indagini consistono nella spedizione di elenchi anagrafici di coloro che risultano iscritti alle varie logge. Quasi sempre gli elenchi li mandiamo noi, ma ad essi non segue nessuno sviluppo degli elementi acquisiti e ci si limita a mandare le generalità, notizie sull’attività svolta, qualche volta la denuncia dei redditi dell’ultimo anno e se quelle persone abbiano avuto “pregiudizi penali”, con ciò intendendo giudiziari. Ma questa è una attività che potremmo benissimo svolgere noi collegandoci all’anagrafe comunale e tributaria, o al terminale del ministero degli Interni. Questa degli organi di polizia è una strana indisponibilità, strana. La stranezza è subito spiegata. Negli elenchi in possesso di Cordova innumerevoli sono gli ufficiali (esercito, CC, Finanza e Ps) appartenenti alle logge. Moltissimi anche i generali. Ma essa proseguì anche tra tanti attacchi contro il magistrato, infatti sempre in Oltre la cupola si legge: ‘Nel frattempo il senatore Cossiga, sempre lui, viene a conoscenza del rapporto riservato che Cordova aveva inviato al Csm e reagisce in maniera furibonda. «Fascista. Paleostalinista. Modestissima persona. Ma chi ti ha fatto entrare in magistratura? Meno male che non lo feci nominare Superprocuratore antimafia», è solo qualche assaggio della vulgata cossighiana. Il senatore è infuriato per i riferimenti ai suoi rapporti con Armando Corona contenuti nella relazione. «Nel 1987», si legge nel rapporto «Corona, tramite l’onorevole Sergio Berlinguer (segretario generale del Quirinale), raccomandò a Cossiga il maresciallo De Lisa perchè fosse trasferito al Sismi.» L’ex capo dello Stato è «intervenuto molte volte in difesa della Massoneria, e Corona fu invitato all’insediamento di Cossiga e si recò da lui centinaia di volte». Nel caso di inviti improvvisi «Corona veniva prelevato all’aeroporto dagli autisti del Quirinale». Se ce ne fosse ancora bisogno, ecco un’ulteriore prova di interferenza della massoneria nei pubblici poteri: il capo dei massoni che raccomanda al capo dello Stato uno 007. Ma a Cossiga non pare così: «Cordova è andato a raccogliere spazzatura negli angiporti di qualche confidente delle forze di polizia» dirà ai giornalisti. La polemica non finisce lì, il senatore è fermamente intenzionato a dare una spallata decisiva all’inchiesta. Telefona al presidente Scalfaro e gli segnala una presunta illegalità del dossier Cordova, a cui fa seguire una interpellanza urgente al presidente del Consiglio e ai ministri di Grazia e Giustizia e dell’Interno dove adombra il sospetto di essere stato spiato da Cordova in maniera abusiva. Cossiga si sente perseguitato, tanto da sostenere di nutrire dubbi sulla sua incolumità e di avere bisogno di una scorta. Chiede persino che la Procura di Roma apra una indagine su chi lo avrebbe intercettato, visto che la raccomandazione di Corona gli arrivò per telefono.

Questo dimostra di quanto sia difficile persino ad un magistrato indagare su questo fronte così delicato. Poi Agostino Cordova nell’ottobre 1993 fu trasferito a Napoli. Dice il giornalista Guarino: «Sperando che la smetta di occuparsi di questioni tanto destabilizzanti per la politica e la massomafia, i Palazzi del potere già da tempo avevano deciso di isolare Cordova, attraverso giornali ed emittenti amiche. La sua candidatura a Procuratore antimafia nazionale era stata bocciata, ma poichè il magistrato aveva le carte in regola, ecco il trasferimento-promozione alla Procura di Napoli, il 6 ottobre 1993. Un modo come un altro per far sì che non si impicciasse più di massomafia-politica. Prima di trasferirsi a Napoli, Cordova ha avuto la soddisfazione di assistere a una manifestazione popolare in suo favore». Poi le indagini vennero trasferite – per «incompetenza tecnica» della Procura di Palmi a occuparsi della materia – alla Procura di Roma nel giugno del 1994.

Il procedimento rimase pressoché fermo per quasi sei anni, e poi nel dicembre 2000, il giudice per le indagini preliminari dispose l’archiviazione dell’inchiesta, nonostante nel corso degli anni fossero stati raccolti ottocento faldoni e ci fossero sessantun indagati.

Finanza. La Massoneria ha forti legami con l’alta finanza, l’economia e gli affari (legami che ovviamente determinano anche scelte e indirizzi politici sia a livello nazionale che internazionale); e questo perchè da sempre la libera muratoria rappresenta le élites, il mondo dell’establishment. Prima di parlare di questi legami però è bene tenere presente che la massoneria ha avuto un ruolo fondamentale nell’unità d’Italia, in quanto dietro Garibaldi e Cavour c’era la Massoneria inglese, che infatti finanziò la spedizione dei Mille condotta da Giuseppe Garibaldi, lui stesso massone (anzi ‘Primo massone d’Italia’). Ed inoltre bisogna considerare che i primi passi dell’Italia unita furono guidati da un Parlamento costituito in gran parte da massoni ed è cosa risaputa che i Massoni si aiutano tra di loro per cui i politici massoni spesso e volentieri aiutano e favoriscono i finanzieri e imprenditori massoni e viceversa.

D’altronde è stato provato che persino nella magistratura i giudici massoni non sono imparziali, in quanto favoriscono i loro fratelli massoni nei processi. Tra i numerosi parlamentari che erano massoni ricordiamo i seguenti. Bonaventura Mazzarella (1818-1882). Il 27 gennaio 1861, quando si tennero le consultazioni elettorali per scegliere il primo Parlamento del Regno d’Italia, fu eletto nel collegio di Gallipoli. Nel gennaio 1863 riprese la sua attività di magistrato dopo essere stato richiamato dal ministro di Giustizia a svolgere le funzioni di consigliere presso la corte d’appello di Genova. La nomina a magistrato lo costrinse a dimettersi da deputato fino alle elezioni del 22 ottobre 1865, quando entrò alla Camera, dove sarebbe rimasto anche per le successive legislature schierato nelle fila dell’estrema Sinistra. Carlo Pellion di Persano (1806-1883). Deputato nelle legislature VII e VIII per il collegio della Spezia, divenne Ministro della Marina nel primo governo Rattazzi e fu nominato senatore l’8 ottobre 1865. Agostino Depretis (1813-1887). Fu presidente del Consiglio dei ministri italiano ben nove volte tra il 1876 e il 1887. Michele Coppino (1822-1901). Nel 1860 venne eletto nell’ultima legislatura del Regno di Sardegna, e rieletto nel 1861 nella prima legislatura del Regno d’Italia. Da allora fece parte del Parlamento quasi ininterrottamente per quarant’anni, e fu più volte Presidente della Camera dei deputati. Ministro della pubblica istruzione nel primo e nel secondo governo Depretis (1876-1878), nel 1877 varò la riforma (Legge Coppino) che rese obbligatoria e gratuita la frequenza della scuola elementare. Fu nuovamente ministro dell’istruzione nei governi Depretis e Crispi tra il 1884 e il 1888. Francesco Crispi (1818-1901). Fu presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia dal luglio 1887 al febbraio 1891 e dal dicembre 1893 al marzo 1896.

Giuseppe Zanardelli (1826-1903). Fu per alcune volte presidente della Camera; ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Depretis del 1876 e ministro della Giustizia nel governo Depretis del 1881. Fu inoltre Presidente del Consiglio dei ministri dal 1901 al 1903. Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la massoneria ebbe un ruolo importante nel decollo economico e finanziario del Nord Italia, infatti la Banca Commerciale Italiana (Comit) – che è stata una delle prime e più importanti banche italiane – fu fondata nel 1894 dal massone Otto Joel (insieme a Federico Weil) il quale ne fu direttore centrale tra il 1894 e il 1908, e successivamente ne fu amministratore delegato. Sarà proprio Otto Joel a chiamare in Italia il potente banchiere massone Giuseppe Toepliz nel 1891, il quale avrà grande parte nello sviluppo del Nord industriale italiano negli anni a venire. Terminata la prima guerra mondiale, la Comit contribuì alla riconversione postbellica dell’apparato produttivo. Nel corso degli anni venti, la banca – guidata da Giuseppe Toeplitz – fu sempre più coinvolta nel finanziamento dei grandi gruppi industriali, diventandone in molti casi azionista di maggioranza. Nello stesso periodo la Comit proseguì la sua espansione all’estero, soprattutto nell’Europa Centrale, Orientale e balcanica, fino alla Turchia e all’Egitto. La grande economia – spiega lo storico Aldo Mola – era in mano allora a uomini della finanza di appartenenza massonica: ‘Giuseppe Volpi, Otto Joel, Giuseppe Toepliz, vale a dire l’alta banca privata, Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia e membro autorevole della ‘Dante Alighieri’, e numerosi altri esponenti di prima fila del mondo finanziario, largamente rappresentato tra le colonne dei Templi massonici oltre che presso Borse, Camere di commercio, consigli d’amministrazione di società finanziarie, commerciali, industriali, erano andati ultimamente imprimendo fiduciosa e dinamica baldanza alla politica estera italiana» (Aldo Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 393-394). Tra gli imprenditori massoni che in quel periodo contribuirono a far decollare l’economia dell’Italia Unita, segnaliamo il potente imprenditore Luigi Orlando che apparteneva alla Loggia segreta Propaganda, che era stata creata nel 1877 per accogliere importanti personaggi della vita politica, economica e finanziaria del paese. Luigi Orlando (1862-1933) comprò nel 1902 da un gruppo di francesi la Società Metallurgica Italiana (SMI) che era una società metallurgica con tre stabilimenti situati a Limestre, Livorno e Mammiano. Nel 1905 poi Orlando fondò la SELT – Società Ligure Toscana di Elettricità con il sostegno del gruppo industriale degli Odero di Genova e della Banca Commerciale Italiana. Nel primo dopoguerra la massoneria finanziò il movimento fascista aiutandolo ad andare al potere, e questo perchè ‘nel primo dopoguerra la massoneria, composta in prevalenza di elementi della piccola e media borghesia, sebbene si ispirasse a un patriottismo democratico di origine risorgimentale e coltivasse in larga misura propensioni progressiste, fu coinvolta dalla paura del bolscevismo e dall’ansia del ristabilimento dell’ordine. «Si spiega così come mai alcune logge vedessero con favore il movimento fascista fin dalle origini e molti massoni partecipassero a questo e poi al Pnf» …. «Questi massoni fascisti appartenevano in parte a logge dipendenti dal Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, di cui era Gran Maestro Domizio Torrigiani, e in parte forse maggiore alle logge scissioniste di tendenza conservatrice, dipendenti dalla Gran Loggia di piazza del Gesù di cui era Gran Maestro Raoul Palermi, che a Mussolini, già incontrato alla vigilia della marcia su Roma, conferì in seguito la sciarpa e il brevetto di 33° grado». Il rapporto tra fascismo e massoneria, quindi, per alcuni anni fu tutt’altro che conflittuale. E’ così, a cominciare dal finanziamento offerto da alcune logge milanesi alle squadre fasciste che si apprestavano a marciare su Roma. L’andata al potere del fascismo, del resto, fu auspicata da Palazzo Giustiniani fin dal 19 ottobre del 1922, pur con l’avvertimento che i massoni sarebbero insorti a difesa della libertà, qualora venisse imposta all’Italia una dittatura o un’oligarchia. Tra i finanziatori del nascente fascismo vi furono gli industriali massoni Cesare Goldmann e Federico Cerasola e il ‘fratello’ Napoleone Tempini, poi perseguitati dallo stesso Mussolini. Il fascio di Milano fu fondato da Mussolini il 21 marzo del 1919 al numero 9 di piazza San Sepolcro, grazie a Cesare Goldmann, che mise a sua disposizione il salone dell’Alleanza industriale e commerciale di Milano. Fra gli intervenuti c’erano i ‘fratelli’ Eucardio Momigliano, Camillo Bianchi e Pietro Bottini; Michele Bianchi, affiliato a piazza del Gesù; Ambrogio Binda, medico personale di Mussolini e massone di piazza del Gesù; Federico Cerasola, presidente del Collegio dei venerabili delle logge milanesi obbedienti a Palazzo Giustiniani; Roberto Farinacci, iscritto alla massoneria di Palazzo Giustiniani nel 1915 e passato a quella di piazza del Gesù nel 1921; Decio Canzio Garibaldi, Mario Giampaoli e il citato Cesare Goldmann; Luigi Lanfranconi, massone di piazza del Gesù; Giovanni Marinelli; Umberto Pasella, affiliato a piazza del Gesù; Guido Podrecca, direttore de ‘L’Asino’; Luigi Razza, affiliato a piazza del Gesù: e Cesare Rossi’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 327-329). Ricordiamo peraltro che l’economista massone Alberto Beneduce (1877-1944), conoscitore e manovratore dei meccanismi finanziari, lavorò nell’ombra per lunghi anni con Benito Mussolini (che aveva grande stima di lui) e il suo ruolo fu essenziale nella ristrutturazione dell’economia italiana successiva alla crisi mondiale del 1929. Il Beneduce fu infatti tra gli artefici della creazione dell’IRI e suo primo presidente. L’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) è stato un ente pubblico italiano, istituito nel 1933 per iniziativa dell’allora capo del Governo Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929. Nel secondo dopoguerra, alla ricostruzione dell’economia italiana ha dato un forte impulso oltre che la Comit anche Mediobanca, un istituto di credito italiano fondato nel 1946 per iniziativa di Raffaele Mattioli (allora Presidente della Banca Commerciale Italiana che ne fu promotrice insieme con il Credito Italiano) e di Enrico Cuccia (che ne fu il Direttore Generale dalla fondazione al 1982). ‘Mediobanca fu costituita per soddisfare le esigenze a media scadenza delle imprese produttrici e per stabilire un rapporto diretto tra il mercato del risparmio e il fabbisogno finanziario per il riassetto produttivo delle imprese, reduci dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale’. Ebbene, il banchiere Enrico Cuccia (1907-2000), era un massone membro della loggia massonica segreta ‘Giustizia e Libertà’ (cfr. Aldo Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 744), ed è stato uno degli uomini più potenti d’Italia (ed anche d’Europa) fino alla sua morte. Raffaele Mattioli, stando alla biografia ufficiale, non era massone, ma sul sito del Grande Oriente democratico si dice di lui che di Massoneria ed Esoterismo se ne intendeva assai. In merito al ruolo della Comit e di Mediobanca nella ricostruzione economica postbellica, è interessante quello che dice lo storico Silvano Danesi: «Il piano Marshall era uno strumento economico strettamente connesso con la Nato, ossia con la partecipazione a un’alleanza difensiva che legava tra loro le due sponde dell’Atlantico. Gli Americani, quando pensarono al nostro Paese, delegarono in buona sostanza il governo della nazione ai cattolici, che avevano il consenso della maggioranza della popolazione e una rete diffusa di presidi (le parrocchie) sul territorio; mentre la gestione dell’economia fu affidata alla finanza laica che, nella fattispecie, era incarnata da Comit e da Mattioli. Mattioli, la Comit, Mediobanca e Cuccia sono stati, dunque, gli interlocutori e i garanti di una ricostruzione che doveva avvenire all’interno di un patto, quello atlantico, che scaturiva dalla sconfitta del fascismo e del nazismo. [...] Mattioli fu il garante di quel patto sul versante finanziario, così come De Gasperi lo fu su quello politico. [...] La Comit e Mediobanca, indipendentemente dal fatto che Cuccia fosse massone, sono state, in primo luogo, la cabina di regia della ricostruzione dell’economia reale e del capitalismo italiani all’interno di uno schema atlantico».

Veniamo ora alla FIAT che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo economico dell’Italia nel dopoguerra. Dice Ferruccio Pinotti che i padroni della Fiat hanno sempre avuto rapporti di simpatia e frequentazione con il mondo massonico [....]. Tutto l’ambiente in cui si muovono gli Agnelli, sin dalla fine dell’Ottocento, è di impronta massonica (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 351). Giovanni Agnelli senior (1866-1945), che fu tra i fondatori della casa automobilistica FIAT nel 1899 e ne fu amministratore delegato e presidente, aveva come stretto collaboratore di alto livello il professore Attilio Cabiati, che era un massone. Peraltro, nel 1908 la massoneria venne in aiuto a Giovanni Agnelli – che era imputato di illecita coalizione, aggiotaggio e falso in bilancio – infatti Vittorio Emanuele Orlando, che era l’allora ministro della Giustizia e che era un importante massone, esercitò un’ingerenza nei confronti della magistratura torinese e affermando che «un’azione penale nei confronti di Agnelli avrebbe avuto conseguenze negative sulla nascente industria nazionale, in particolare piemontese». E così con la benevola attenzione del ministro Vittorio Emanuele Orlando e attraverso ricorsi vari, Agnelli riuscì a rinviare il processo sino al 21 giugno 1911, e poi il 22 maggio 1912 il Tribunale assolse Agnelli, e a nulla servì il ricorso del pubblico ministero. Giovanni Agnelli nel 1921 chiamò alla Fiat come direttore centrale il massone Vittorio Valletta, che poi seguirà e affiancherà Giovanni Agnelli junior per alcuni decenni. Giovanni Agnelli assieme a Vittorio Valletta saranno tra i primi membri italiani del Bilderberg Group, che è un potente circolo finanziario paramassonico mondiale sorto ufficialmente nel 1954 ma le cui prime riunioni informali si tennero già nel 1951. Alla morte di Giovanni Agnelli senior, Valletta assumerà la presidenza della FIAT e ne rimarrà presidente fino al 1966 quando poi verrà nominato senatore a vita. Il suo posto lo prenderà Gianni Agnelli «l’avvocato» (1921-2003), che, secondo il giornalista Roberto Fabiani, conobbe la massoneria su incitamento dell’allora presidente della Fiat e massone Vittorio Valletta  e secondo Licio Gelli faceva parte di una loggia «coperta», la loggia di Montecarlo, il che non meraviglia affatto visto che l’appartenenza a logge coperte o segrete di importanti personaggi italiani dell’economia e della finanza è una cosa molto diffusa da molto tempo, in quanto ciò serve a proteggere questi importanti personaggi ‘da pressioni indebite da parte di altri «fratelli», parole queste di Giuliano Di Bernardo ex Gran Maestro del GOI, come anche non meraviglia che questa loggia a cui apparteneva Gianni Agnelli fosse all’estero, visto che l’affiliazione all’estero pare essere una prassi per i personaggi molto importanti della finanza, dell’economia e della politica. Peraltro Gianni Agnelli è stato uno dei fondatori della Commissione Trilaterale che collaborò con David Rockefeller. Non sorprende quindi affatto venire a sapere (lo ha dichiarato lo stesso Agnelli ai giudici, e la cosa è stata confermata dall’ex Gran Maestro del GOI Giuliano di Bernardo) che la FIAT ha finanziato abbondantemente il Grande Oriente d’Italia all’epoca quando era Gran Maestro Lino Salvini. Oltre a Gianni Agnelli, un altro noto imprenditore e finanziere massone che ha avuto un ruolo importante nell’economia e nella finanza in Italia è Carlo De Benedetti. Anche lui infatti – come Gianni Agnelli – risulta affiliato alla Massoneria, in quanto risulta essere entrato nella Massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, «regolarizzato nel grado di Maestro il 18 marzo 1975 con brevetto n. 21272». L’anno prima, De Benedetti era diventato presidente dell’Unione Industriali di Torino. Nel 1978 entrò in Olivetti, di cui divenne presidente. In questa azienda pose le basi per un nuovo periodo di sviluppo, fondato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vide aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Però a causa di una grave crisi della Olivetti, nel 1996 decise di lasciare l’azienda, (di cui rimase presidente onorario fino al 1999) dopo aver fondato la Omnitel. Nel 1987, attraverso la CIR, De Benedetti entrò nell’editoria acquisendo una partecipazione rilevante nella Arnoldo Mondadori Editore e, attraverso di essa, nel gruppo Espresso-Repubblica. Nel 1997 l’Espresso incorporò Repubblica e assunse l’attuale denominazione di Gruppo Espresso. E veniamo all’imprenditore Silvio Berlusconi, l’ex presidente del Consiglio, che è uno degli uomini più ricchi e potenti in Italia, perchè anche lui è massone, in quanto risulta essersi iscritto alla Loggia P2 – anche questa una loggia coperta come quella di Montecarlo – di cui Licio Gelli era il Maestro Venerabile. Berlusconi fu iniziato alla Loggia massonica P2 (Tessera n° 1816, Fascicolo 0625) nel 1978. Per quale ragione Berlusconi è entrato nella Massoneria, ce lo dice Gioele Magaldi del Grande Oriente Democratico: «…. l’adesione di Berlusconi alla Massoneria non fu soltanto il desiderio di entrare a far parte di un network nazionale e internazionale molto potente: in lui c’era anche un desiderio filosofico autentico di percorrere un sentiero iniziatico di perfezionamento spirituale. Certo, la sua idea della Via massonica era e resta un’idea elitaria, gerarchica, oligarchica, in nome della quale dei Gruppi ristretti di Maestri (presunti) Illuminati hanno il diritto-dovere di manipolare le masse, asservendole ai loro disegni superiori». E sempre il Magaldi ci spiega come la Massoneria ha aiutato Berlusconi ad arrivare alla sua posizione dominante nel campo dei mezzi di comunicazione e ad entrare nel mondo della politica, infatti dice: Grazie alla protezione di Gelli e di altri potenti Fratelli Massoni piduisti, negli anni ’70 innanzitutto Berlusconi fu “sdoganato” dallo status di semplice imprenditore brianzolo a quello di player autorevole nel mondo dei media. I Fratelli Massoni consentirono al titolare della tessera P2 n.1816 di diventare un autorevole opinionista sul Corriere della Sera “piduista”, mentre iniziava l’acquisizione azionaria del Giornale di Indro Montanelli. Dopo di che, già dagli anni 1978-80, i dirigenti della P2 pianificarono che Berlusconi potesse essere il loro “cavallo di Troia” per la costituzione progressiva di un gruppo televisivo privato al servizio dei loro interessi, secondo quanto prevedeva il cosiddetto “Piano di rinascita democratica” stilato pochi anni prima. Non bisogna dimenticare, però, che a partire dalla primavera 1981, dopo il blitz di Castiglion Fibocchi del 17 marzo 1981 che dette origine al cosiddetto “scandalo P2”, il Fratello Berlusconi iniziò a “guardarsi intorno” in cerca di nuove protezioni. Che trovò immediatamente e in modo clamoroso proprio nel principale avversario di Licio Gelli nel G.O.I: l’ex Presidente della Corte Centrale (massonica) e Gran Maestro di Palazzo Giustiniani a partire dal 1982, Fratello Armando Corona. Proprio negli anni dal 1982 al 1990 Berlusconi verrà supportato in modo formidabile a incrementare e conservare lo status di semi-monopolista della televisione privata italiana, con importanti “sortite” industriali anche all’estero. E sarà supportato dalla Massoneria italiana e internazionale così come dal PSI craxiano a grande densità massonica. Ma dal 1982 al 1990 (anni della Gran Maestranza del G.O.I. di Armando Corona) i Fratelli che aiutarono Berlusconi a diventare dominus nel campo dei media non erano per la gran parte piduisti. Erano Massoni importanti, semmai, come il Gran Maestro Corona, che insieme al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (dal 1985 al 1992), all’Onorevole Giuseppe Pisanu, a Flavio Carboni e ad altri, si riunivano spesso e volentieri per dei summit strategici con il Fratello Silvio Berlusconi . Sempre in merito a questo legame tra massoneria e finanza, ricordiamo che nel mese di Marzo del 2007 partì dalla Procura di Catanzaro, guidata dal sostituto procuratore Luigi De Magistris, un’inchiesta sui rapporti tra politica corrotta, massoneria, lobby d’affari e malavita organizzata. Il sistema affaristico indagato da De Magistris sarebbe stato tenuto, secondo l’ipotesi accusatoria, da una loggia massonica coperta con sede a San Marino: un comitato d’affari che avrebbe influito sulle scelte di amministrazioni pubbliche sia per l’utilizzo di finanziamenti europei che per l’assegnazione di appalti. Ed a conferma di questo stretto legame, nel libro Fratelli d’Italia di Ferruccio Pinotti c’è una testimonianza molto interessante fatta ad un banchiere di cui viene occultato il vero nome (come vengono occultati altri nomi per ragioni legali) e che viene chiamato Fabrizio Girelli, il quale racconta una storia reale – ambientata nel mondo bancario del profondo Nord – sostenuta da documenti depositati presso uno studio legale. Trascrivo una parte di questa testimonianza. «Sono stato assunto alla Banca Popolare nel 1994 dopo alcuni mesi di indecisione sulle mie future scelte professionali. Ero infatti in procinto di trasferirmi a Londra per Banque Paribas dopo aver sostenuto con successo il colloquio di selezione presso la sede inglese della banca d’affari. La decisione di scegliere l’istituto anziché Londra è stata presa per ragioni familiari; era infatti dal 1986 che la mia vita si svolgeva lontano da casa e vedevo la soluzione Banca Popolare come un’opportunità di avvicinamento.

Non era facile per le mie caratteristiche professionali trovare un lavoro soddisfacente vicino a casa. Avevo lavorato esclusivamente in istituzioni finanziarie internazionali (Goldman Sachs, Merrill Lynch e ING) e la professionalità maturata in molti anni di lavoro con esperienze anche all’estero non rendevano facile una collocazione in una banca italiana. Dovetti accettare un ridimensionamento professionale ed economico significativo in cambio di una scelta di vita e mi sono rimesso in gioco. D’altronde pensavo che gestire la fase di ristrutturazione di un istituto di credito, anche se piccolo, avrebbe potuto creare delle opportunità e una nuova esperienza che poteva anche riuscire interessante.». Gli inizi furono un pò faticosi, per il giovane banchiere. «I primi mesi furono molto difficili perchè non riuscivo ad adeguarmi ai lenti ritmi di lavoro e la mentalità era un pò troppo arretrata. Dopo un mese circa di assoluta inattività iniziai a cercare di capire almeno i numeri della tesoreria per sapere come la banca gestiva il portafoglio titoli di proprietà e quali erano i risultati che si prospettavano per fine anno. Insomma, non si sapeva se si guadagnava o si perdeva e non c’erano strumenti di monitoraggio adeguati per valutare le posizioni d’investimento. Con mia enorme sorpresa, fu difficilissimo ottenere i dati relativi a un portafoglio titoli che era di quasi 600 miliardi nel 1994 e incontrai un certo ostruzionismo da parte di alcune persone che vedevano il mio interessamento come un’intrusione in affari altrui.» Quando chiese il perchè di questa strana difficoltà ad avere i dati, Fabrizio incontrò le prime allusioni alla massoneria e ad altri giri di potere occulto che alcune persone esercitavano nella banca, scoprendo che alcuni percorsi di carriera all’interno dell’azienda sembravano, per alcune persone, già tracciati e accettati dai più come cose fatte. «Ma non volli fermarmi a quelle voci e mi impegnai ancora di più nel lavoro. Con l’aiuto di un bravo impiegato del settore si iniziò la ricostruzione manuale di tutta la posizione in titoli che richiese più di un mese. Alla fine emerse con enorme stupore che la banca stava perdendo circa 150 miliardi ma nessuno lo sapeva, o almeno si cercava di non farlo sapere. 150 miliardi erano l’intero patrimonio di allora e quando me ne resi conto fui preso dal panico. Avevo deciso di venire a lavorare in un istituto dove avrei dovuto giocarmi tutto il mio passato e il mio futuro e ora mi accorgevo che la mia scelta era stata un gravissimo errore perchè la banca era virtualmente fallita. Tutto poteva finire in poche settimane nel peggiore dei modi. Potevo già immaginare una imminente aggregazione con un altro istituto dove avrei dovuto spiegare che io non c’entravo nulla e che avevo trovato una situazione disastrosa. La banca sarebbe fallita su errati investimenti in titoli e io ero il responsabile, seppure da pochi mesi, proprio di quel settore. Le voci su interferenze massoniche proseguivano, ma non sapevo che peso veramente attribuire a tali indiscrezioni e come valutarle. Cercai di tenere duro.» Fabrizio Girelli spiega: «In ogni caso non potevo tornare più indietro e mi diedi da fare per informare la direzione e cercare di uscire dalla tragica situazione. Il nuovo direttore generale Ramada dovette correre in Banca d’Italia per informare la vigilanza e dopo alcune titubanze gli fu concesso un anno per sistemare le cose. Con un pò di fortuna e una serie di operazioni azzeccate uscimmo da tale situazione; e nell’arco di un anno eravamo ancora in corsa per la possibilità di iniziare a esplorare nuove esperienze manageriali, nuove strategie e nuove iniziative. La banca era ripartita e i risultati erano veramente incoraggianti. Da parte mia ero riuscito a creare un gruppo di persone veramente affiatato e molto motivato. Quando ero arrivato mi avevano assegnato un ufficio di tre persone. Alla fine del 1999 avevo una intera direzione con oltre 60 persone e il 50 per cento dei ricavi dell’istituto provenivano direttamente e indirettamente dal settore finanziario. Tutto andava per il meglio fino a quando nell’estate del 1999 la direzione generale decise di acquistare una rete di promotori finanziari». Di nuovo il giovane banchiere non capisce, sente che c’è qualcosa di strano. «Quella decisione non venne motivata. E di nuovo iniziarono i rumors che parlavano di pressioni massoniche dell’ambiente romano per effettuare quella acquisizione. Purtroppo tale acquisto si rivelò una decisione sciagurata perchè la rete rilevata celava una serie di pesantissime minusvalenze sul portafoglio titoli e questa situazione era stata tenuta nascosta dai venditori alla direzione. Non essendo stata effettuata alcuna due diligence [verifica tecnica basata su parametri bancari specifici] sulla composizione delle attività finanziarie in essere sui clienti, nessuno si era accorto che la rete era ingestibile e che le perdite sui titoli della clientela avrebbero compromesso qualsiasi possibilità di ottenere reddito da tale acquisizione, anche perchè il portafoglio dei clienti avrebbe potuto rimanere immobilizzato per anni in attesa che i titoli obbligazionari strutturati, che erano stati collocati a suo tempo, tornassero al valore di emissione. Le minusvalenze complessive si quantificavano in circa 80 miliardi su un portafoglio di 500 miliardi circa. Una cifra enorme per una piccola banca del Nord come la nostra, dove tutti i ricavi di un anno (il margine lordo d’intermediazione), in quel periodo, assommavano a 200 miliardi di lire. Fui io a constatare il disastro in seguito ad alcune verifiche che avevo fatto fare da un collaboratore e informai con urgenza la direzione generale». Ma fu così che iniziarono i problemi di Fabrizio Girelli, che fu costretto a dimettersi nel 2002 perchè – con le sue prese di posizione contrarie alla filosofia aziendale – si era rifiutato di entrare nel giro dei grembiulini che dominava dentro e fuori la banca, e una volta uscito fu investito da una vasta ondata di diffamazione, infatti tra le altre cose la direzione cercò di far capire ai suoi ex colleghi che Girelli era stato licenziato perchè aveva provocato pesanti perdite alla banca. Girelli passò un periodo difficile pensando più volte al suicidio a causa del profondo stato di angoscia e depressione nel quale si trovava. Poi alla fine però, grazie all’intervento della magistratura con la quale il Girelli collaborò come persona informata dei fatti sul dissesto di Banca Popolare, magistratura che fece emergere connessioni criminali e giri pericolosi in cui era coinvolta l’ex banca di Girelli, venne fuori la verità, e lui ‘ha visto riconosciute le ragioni delle sue scelte coraggiose e contro corrente; in qualche modo ha «vinto» la sua lunga guerra. Ma il prezzo pagato è stato alto. Dal lungo racconto che fa il Girelli nell’intervista dunque emerge in maniera evidente che nel sistema bancario e finanziario italiano esistono forti pressioni massoniche. Stesso discorso ovviamente per quello internazionale. Esiste un forte rapporto tra finanza massonica e finanza Vaticana, che secondo l’ex direttore finanziario dell’Eni Florio Fiorini, ‘che conosce come pochi i rapporti tra finanza e poteri occulti, i canali sotterranei attraverso i quali si decidono le sorti del denaro (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 370), si è venuto a creare con Giovanni XXIII (che fu eletto papa nel 1958), che risulta infatti essere stato affiliato alla massoneria. Dice Fiorini: ‘La finanza vaticana è stata più o meno stabile fin tanto che non è arrivato al soglio pontificio Giovanni XXIII. Prima di lui, ad avere in mano la finanza vaticana era la cosiddetta ‘nobiltà nera’, la quale era imparentata sia coi francesi – basti citare Paolina Bonaparte, che aveva sposato il principe Borghese – sia con gli inglesi, pensiamo al legame dell’ammiraglio Nelson con Napoli. Quindi la finanza vaticana, gestita dalla nobiltà romana, era infiltrata da elementi di contatto con la massoneria francese e inglese, che fungevano da ‘sponde’ internazionali in Europa. Tutto cambiò con Giovanni XXIII il quale, da buon figlio di contadini, non si sentiva legato a questo mondo della nobiltà romana ed europea. Era invece un uomo che aveva viaggiato e che come nunzio apostolico aveva conosciuto molte realtà. In particolare, fu il primo Papa a orientare la finanza vaticana verso gli Stati Uniti, e il tramite per operare quel cambiamento fu il potente cardinale di New York Francis Spellman, il «gran protettore» dei Cavalieri di Malta, il quale era vicino alla massoneria e attivo negli USA dal 1927, e che aveva intensi rapporti con l’ingegnere Bernardino Nogara, il noto amministratore delle finanze vaticane che lo Spellman definì ‘dopo Gesù Cristo la cosa più grande che è capitata alla Chiesa cattolica’, e questo perchè dopo che il Vaticano concluse i Patti Lateranensi con il Governo di Mussolini nel 1929, fu proprio Nogara ad amministrare i soldi che il Vaticano ricevette dallo Stato Italiano e a farli fruttare grandemente. Per cui si può dire che i mezzi finanziari che lo Stato italiano diede al Vaticano costituirono il fondamento su cui venne costruito quell’impero finanziario che il Vaticano costituisce oggi. Entriamo un pò nel merito per spiegare cosa avvenne. Il giorno stesso in cui l’accordo con Benito Mussolini fu ratificato Pio XI creò una nuova agenzia finanziaria, la Amministrazione Speciale della Santa Sede e ne nominò suo direttore e manager Bernardino Nogara. Costui accettò la proposta del papa perché il papa soddisfece le sue richieste tra cui c’erano queste: che tutti gli investimenti che egli scegliesse di fare fossero totalmente e completamente liberi da qualsiasi considerazioni religiose o dottrinali; che egli fosse libero di investire i fondi del Vaticano dovunque nel mondo. E così Nogara si mise in moto. Martin Malachi, Gesuita ex-professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, nel suo libro Rich Church, Poor Church (Chiesa Ricca, Chiesa Povera) edito nel 1984, dice: ‘Fedele ai suoi piani iniziali, i primi maggiori acquisti di Nogara in Italia furono attuati nel ramo del gas, dei tessili, nella costruzione pubblica e privata, nell’acciaio, nell’arredamento, negli alberghi, in prodotti minerari e metallurgici, prodotti dell’agricoltura, energia elettrica, armi, prodotti farmaceutici, cemento, carta, legname da costruzione, ceramica, pasta, ingegneria, ferrovie, navi passeggeri, telefoni, telecomunicazioni e banche. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale il Vaticano acquisì il controllo di molte compagnie e banche sia in Italia che all’estero e in molte altre compagnie invece riuscì ad avere una partecipazione minore ma sostanziale. Verso gli anni ‘30 il Vaticano possedeva circa 3 milioni e 716.000 metri quadrati di beni immobili a Roma, e col tempo sarebbe diventato il maggior proprietario terriero in Italia dopo lo stesso governo italiano.

Quando Mussolini ebbe bisogno di armamenti per l’invasione dell’Etiopia nel 1935 una sostanziosa parte di essi fu provveduta da una fabbrica di munizioni che Nogara aveva acquisito in nome del Vaticano. Il 27 giugno 1942 Pio XII, su proposta di Nogara, fondò una nuova società finanziaria nel Vaticano chiamata Istituto per le Opere Religiose (IOR). La proposta di Nogara era stata questa: ‘Stabilire una società ecclesiastica centrale per la Chiesa Universale, una società dotata dello status di una banca all’interno dello Stato sovrano della Città del Vaticano e che avesse il vantaggio di appartenere al papato e al Vaticano; una società che si specializzasse nell’investire e nel negoziare i fondi e le risorse degli enti ecclesiastici della Chiesa intera. Tramite lo IOR i vari organismi ecclesiastici erano in grado di investire il loro denaro in tutta segretezza ed esenti da tasse. Dopo la seconda guerra mondiale, sempre sotto Nogara, l’impero finanziario vaticano continuò a crescere. Quando Bernardino Nogara morì nel 1958 – lo stesso anno in cui salì al soglio pontificio Giovanni XXIII – lasciò un Vaticano enormemente ricco. Ma anche dopo la morte di Nogara le finanze continuarono a crescere, appunto tramite Giovanni XXIII (che fu papa dal 1958 al 1963) che orientò la finanza vaticana verso gli USA. Anche sotto Paolo VI (che fu papa dal 1963 al 1978), che era massone come il suo predecessore, il Vaticano continuò ad arricchirsi grandemente. Verso la metà degli anni sessanta, le agenzie finanziarie del Vaticano controllavano la metà delle agenzie di credito in Italia. Molte industrie avevano dietro denaro del Vaticano. L’Istituto Farmacologico Serono di Roma per esempio era di proprietà Vaticana. Nel 1968, secondo quanto dichiarò l’allora ministro delle Finanze Preti, la S. Sede possedeva titoli azionari italiani per un valore di circa 100 miliardi, con un dividendo che oscillava dai tre ai quattro miliardi l’anno. Anche all’estero il Vaticano possedeva titoli azionari per molti miliardi. Esso aveva pacchetti azionari in diverse grandi compagnie internazionali tra cui la General Motors, la Shell, Gulf Oil, General Electric, Betlehem Steel, International Business Machines (IBM), e TWA. Nel 1971 Paolo VI nominò Paul Marcinkus (anche lui massone) presidente dello IOR, e sotto la sua direzione lo IOR risultò coinvolto in alcuni scandali finanziari a motivo di manovre finanziarie illegali da esso compiuto con l’aiuto del finanziere siciliano Michele Sindona (massone) – il mandato di cattura spiccato contro Sindona parlava "di prove documentali di operazioni irregolari effettuate da Sindona per conto del Vaticano" -, e di Roberto Calvi (anche lui massone), presidente del Banco Ambrosiano. Per tornare agli investimenti del Vaticano negli USA, essi hanno delle implicazioni massoniche perchè dopo il 1945 gli USA espressero la loro politica estera in Italia anche attraverso la massoneria, e il Vaticano sfruttò questi canali per i suoi investimenti negli USA. E così oggi la Chiesa Cattolica Romana americana è tra le cinque potenze immobiliari negli USA. Ovviamente il Vaticano è una potenza immobiliare anche in Italia. In un articolo dal titolo ‘San Mattone’ apparso su Il Mondo nel maggio 2007 e scritto da Sandro Orlando si legge per esempio: Un quarto di Roma, a spanne, è della Curia. Partendo dalla fine di via Nomentana, all’altezza dell’Aniene, dove le Orsoline possiedono un palazzo di sei piani da oltre 50 mila metri quadri di superficie, mentre le suore di Maria Ripatrarice si accontentano di un convento di tre piani; e scendendo a sud est per le centralissime via Sistina e via dei Condotti, fino al Pantheon e a piazza Navona, dove edifici barocchi e isolati di proprietà di confraternite e congregazioni si alternano a istituzioni come la Pontificia università della Santa Croce. E ancora, continuando giù per il lungotevere e l’isola Tiberina, che appartiene interamente all’ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio. E poi su di nuovo per il Gianicolo, costeggiando il Vaticano fino sull’Aurelia Antica dove si innalza l’imponente Villa Aurelia, un residence con 160 posti letto, con tanto di cappella privata e terrazza con vista su San Pietro, che fa capo alla casa generalizia del Sacro Cuore. È tutto di enti religiosi. Un tesoro immenso che si è accumulato nei decenni grazie a lasciti e donazioni: più di 8 mila l’anno scorso nella sola area di Roma città. Ma non c’è solo la Capitale. La Curia vanta possedimenti cospicui anche nelle roccaforti bianche del Triveneto e della Lombardia: a Verona, Padova,Trento. Oppure a Bergamo e Brescia, dove gli stessi nipoti di Paolo VI, i Montini, di mestiere fanno gli immobiliaristi. «Il 20-22% del patrimonio immobiliare nazionale è della Chiesa», stima Franco Alemani del gruppo Re, che da sempre assiste suore e frati nel business del mattone. Senza contare le proprietà all’estero. «A metà degli anni ‘90 i beni delle missioni si aggiravano intorno ai 800-900 miliardi di vecchie lire, oggi dovrebbero valere dieci volte di più», osserva l’immobiliarista Vittorio Casale, massone conclamato che all’epoca era stato chiamato dal cardinale Jozef Tomko a partecipare ad un progetto di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fide, il ministero degli Esteri del Vaticano.

Magistratura. Alcune parole ora sui rapporti tra Massoneria e magistratura. Innanzi tutto va detto che affiliarsi alla Massoneria non è reato, in quanto la Massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l’articolo 18 (Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare); tuttavia ‘il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato con chiarezza l’incompatibilità fra affiliazione massonica e l’esercizio delle funzioni di magistrato, perchè le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezioni a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell’immagine e del prestigio del magistrato e dell’intero ordine giudiziario»; e secondo la Cassazione, il giudice massone può essere ricusato dall’imputato, in quanto l’appartenenza a logge preclude «di per sè l’imparzialità» del magistrato (La Cassazione, 5a sezione penale n° 1563 / 98), in altre parole, perchè – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l’unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi ad interessi individuali nell’ emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia. Esistono allora magistrati che sono massoni? Sì. Per esempio ecco cosa si legge nell’articolo dal titolo "E sui magistrati massoni indagherà anche Conso" a firma di Franco Coppola e apparso su La Repubblica il 15 luglio 1993: Smentiscono, querelano, minacciano fuoco e fiamme. Ma i loro nomi sono lì, negli atti giudiziari raccolti dalle procure di Palmi e di Torino. Sono le toghe incappucciate, i magistrati sparsi per il territorio nazionale che hanno giurato fedeltà alla Costituzione e al credo massonico, qualcuno addirittura aderendo alle logge segrete, quelle espressamente vietate anche a chi non fa parte dell’ ordine giudiziario. Per ora sono usciti fuori 36 nomi, due o tre dei quali appartenenti a personaggi ormai in pensione che hanno appeso nell’armadio dei ricordi le toghe da magistrati ma forse non i grembiulini e i cappucci da massoni. E così ora di loro si occupano non più soltanto il Consiglio superiore della magistratura, che può trasferirli d’ufficio ad altra sede o ad altra funzione, ma anche il ministro della Giustizia Giovanni Conso e il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi che, come titolari dell’azione disciplinare, possono avviare un procedimento disciplinare, le cui conseguenze potranno essere, a seconda dei casi, blande o particolarmente severe.

Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.

Tutt'altra storia è il caso di Paolo Ferraro. Espulso dalla magistratura per aver “inventato” la presenza in Italia di sette e poteri occulti. C’è una storia di ordinaria ingiustizia, che rimbalza sulla rete ma non ottiene visibilità negli “autorevoli media” nazionali e che riguarda il dottor Paolo Ferraro, un giudice già attivo in battaglie esemplari quali la riconquista della nostra sovranità monetaria e della nostra indipendenza nazionale, oggetto delle attenzioni della casta e al quale si vuole, praticamente, togliere la dignità di cittadino ed essere umano. Contro Paolo Ferraro, espulso di recente dalla Magistratura con provvedimento del CSM perché accusato di essersi “inventato” la presenza e l’attività in Italia di massonerie e sette sataniche, sta andando avanti a tappe forzate una “damnatio”. Il Csm ha proposto innanzi al Tribunale di Roma un’istanza per porre Ferraro, addirittura, sotto ad “amministrazione di sostegno e cure farmacologiche”. In sostanza una richiesta di revoca di capacità giuridica di agire. Secondo Paolo Ferraro si tratta in sostanza di un accerchiamento da più lati (ci sono di mezzo le iniziative legali della coniuge separata) per bloccare la sua attività di denuncia e politica. “Per il 14 marzo 2013 – scrive Paolo Ferraro – sono stato convocato in udienza dinanzi al giudice tutelare di Roma (presidente della sezione Tribunale) per la “nomina di amministratore di sostegno” non alla mia anziana madre o alla signora terminale in ospedale… ma a me…Chi sa capisce quanto grave sia questa iniziativa che significa togliere a un soggetto autonomia capacità di agire ed in crescendo intrappolarlo rapidamente .. nella direzione finale che è stata evidentemente tracciata dall’odio di chi credeva di poter mettere tutto a tacere”. Paolo Ferraro svolgeva la funzione di sostituto pm presso la Procura di Roma ed era definito anche dai colleghi come un magistrato preparato, attento, scrupoloso e molto affidabile che ha sempre portato a termine in modo ottimale i suoi compiti. In ogni caso, verso la fine del 2008 formalizzava una denuncia in Procura assumendo che nella sua abitazione, nel quartiere romano della Cecchignola, nei tempi in cui lui non era in casa, avvenivano rituali satanici, pratiche sessuali in condizioni di ipnosi e comunque sotto l’effetto di sostanze alteranti, che vedevano coinvolti adulti, bambini e quale vittima posta in stato di incoscienza l’allora sua compagna. Una denuncia suffragata da registrazioni audio ambientali. Il sospetto di quanto potesse accadere a danno della sua donna e dei minori conduceva il dott. Ferraro ad intraprendere “ingenuamente e inconsapevolmente comprendendone i tasselli, legami e ruoli solo molto tempo dopo” – sue parole – una lunga e tortuosa attività di studio e approfondimento personali che, a suo dire, lo portavano a scoprire trame occulte e deviate tra i poteri istituzionali dello Stato, gli alti gradi militari (che trovavano nel quartiere della Cecchignola abitazione), psicologi, psichiatri e altri professionisti compiacenti, massoneria e sette sataniche. Perciò le sue “denunce”, inizialmente passavano per i canali “ufficiali e istituzionali”. Ciò l’avrebbe portato a “scoprirsi” e a divenire obiettivo da neutralizzare per tali poteri deviati. Così si spiegherebbero, dal suo punto di vista, un TSO convertito in ricovero volontario nel maggio/giugno 2009, con forzata assunzione di neurolettici; due procedure di dispensa dalle sue funzioni, avviate presso il CSM nel 2009 e 2010 su segnalazione delle Procure di Roma e Perugia e concluse con l’archiviazione; un’aspettativa per infermità di più di un anno (agosto 2011- dicembre 2012), seguita dalla delibera di dispensa dalle sue funzioni assunta per motivi di salute dal CSM lo scorso 06.12.2012 (che intende impugnare al TAR). La notifica del ricorso del Procuratore Capo di Roma per la nomina di un amministratore di sostegno che dovrà acconsentire in sua vece alla somministrazione a lui di psicofarmaci gli è giunta il 7 marzo. Come nota Armando Manocchia, giornalista di imolaoggi, “al di là della fondatezza o meno della sue tesi, va però tutelato il suo diritto individuale di libertà a decidere del suo stato di salute ed, eventualmente, la sua libertà di curarsi o meno; la nomina di un amministratore di sostegno, in assenza di condizioni di pericolosità alcuna, è una violenza per lui e violazione dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo che non può venire tollerata. Non di meno il gravissimo fatto che lo sta coinvolgendo lede la fondamentale libertà di espressione e manifestazione del pensiero”. Un magistrato denuncia progetti di controllo mentale in Italia e l’esistenza di una setta occulta che coinvolgerebbe alte cariche militari, con legami nella giustizia, nella politica, nella psichiatria e nella massoneria deviata. Difficile individuarli. Coperti da corporazioni, lobby e governi, di destra e di sinistra, manipolano l’opinione pubblica e condizionano le menti di reclute, politici, malati psichici, giovani donne e bambini per avere il controllo sull’agenda mondiale e sulla storia. Il sostituto procuratore aggiunto di Roma Paolo Ferraro è stato ascoltato dai pubblici ministeri che indagano sulla morte di Melania Rea. Ferraro dopo avere raggiunto la procura è stato trasferito nella sede del comando provinciale dei carabinieri di Teramo, nella caserma Porrani per il colloquio con i pm Davide Rosati e Greta Aloisi ai quali lui stesso aveva chiesto di essere sentito sul delitto. L’udienza è durata circa tre ore. Ferraro ha parlato della sua indagine sulla presunta presenza di sette sataniche all’interno delle caserme italiane, partendo da quanto accertato, sempre secondo le sue affermazioni, nella caserma romana della Cecchignola. Il magistrato è stato di recente sospeso dal Consiglio superiore della magistratura, in via cautelativa per quattro mesi, per presunta infermità mentale. L’ex sostituto è stato poi sottoposto a due perizie psichiatriche che hanno stabilito essere sano di mente. Avrebbe riferito che le sue disavventure sono iniziate dal momento in cui fu resa nota la sua indagine su presunte presenze massoniche e di sette sataniche all’interno delle caserme italiane. L’ipotesi è che tali sette potrebbero essere state presenti anche nella caserma di Ascoli Piceno nella quale Parolisi prestava servizio come addestratore di reclute ed essere in qualche modo in relazione con l’atroce delitto di Melania Rea. A proposito di Melania lo stesso ex sostituto avrebbe dichiarato di averla notata o di aver notato una donna molto simile alla vittima, qualche tempo prima della sua scomparsa, negli uffici della procura di Roma.

Ma la Massoneria non e’ solo magistratura: è pure politica. Se a livello nazionale la polemica tra iscritti al Pd e massoneria crea imbarazzo, a livello locale molto meno, perlomeno laddove è tradizione consolidata. A Perugia, per esempio, dove più di qualcuno ha iniziato a fare “outing”. Mario Valentini, ex sindaco Psi negli anni Novanta e fondatore del Pd perugino, oggi ricorda: “L’esperienza della massoneria, della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città.

Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino”. Il legame tra massoneria e Pd non un mistero in città, ma ora dopo il recente scandalo, il segretario locale invita alla calma: “Quella della massoneria è una questione sensibile – spiega Giacomo Leonelli -. Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente, altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti”. Sono soprattutto gli ex socialisti, ora confluiti nel Pd, ad avere dimestichezza con grembiuli e cappucci. Ma non tutti sono disposti ad ammettere di essere massoni. Cesare Fioriti dice: “Non sono massone, però difendo la massoneria. E poi i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee”. Angelo Pistelli, altro esponente Pd ex socialista, dopo la polemica non si sente più a suo agio nel partito: “In effetti del Pd ormai non condivido più tanto. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, a noi resta ben poco. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe”. A tal proposito uscì un articolo: I grembiulini del Pd di Perugia di Marco Sarti su “Il Riformista”. Il Pd e la massoneria.

Due realtà inconciliabili? Mentre in Italia infuria la polemica, a Perugia il tema non appassiona più di tanto. La sintesi tra squadre, compassi e militanza politica di sinistra, qui esiste da decenni. E nessuno si stupisce più. Perché se il capoluogo umbro è un feudo elettorale del Partito democratico, è anche vero che solo nelle vie del centro si contano almeno 19 logge. E così, nella nuova casa massonica perugina, in un antico palazzo a Corso Cavour, c'è persino chi si indigna di fronte all'ipotesi che qualche fratello possa venire epurato dal Pd. «Ma quale polemica… - si sfoga un responsabile del Collegio Venerabile - Nessuno ha mai fatto caso che ogni volta che c’è una crisi si tira fuori questo argomento? I nostri luoghi di ritrovo sono pubblici. Già nel lontano 1985 abbiamo sistemato una targa fuori dalla sede di Palazzo Giustiniani. Allo stesso modo abbiamo messo bene in chiaro i nostri riferimenti sull’elenco telefonico. Qualcuno si scandalizza se non viene resa pubblica anche l'identità dei nostri fratelli? Eppure mi sembra che persino gli elenchi degli iscritti a partiti e associazioni siano riservati». «I massoni del Pd? - racconta un anonimo militante - Vengono tutti dal Partito socialista». In effetti, a Perugia, il movimento storicamente più vicino al Grande Oriente è proprio quello un tempo guidato da Bettino Craxi. La gente ancora ricorda una storica seduta del Consiglio comunale, nei primi anni 90, quando il sindaco Mario Valentini (eletto nelle liste del Psi, poi fondatore del Pd perugino) rivendicò con orgoglio la sua appartenenza a un'influente loggia cittadina. «L'esperienza della massoneria - racconta oggi Valentini - della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. E non mi riferisco solo al periodo post-fascista, parlo anche della Perugia laica dopo il governo papalino. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Una vicenda fatta da uomini esempio di vita e rettitudine nel governo della cosa pubblica. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino». Che tra i quadri del Pd perugino, ancora oggi qualcuno si cimenti con cappucci e grembiule non è un mistero.

Solo che, dopo il recente scandalo, nessuno è disposto a parlare.

Giacomo Leonelli, segretario del Partito democratico della città, predica calma: «Quella della massoneria è una questione sensibile. Sono temi dove ognuno esprime le proprie idee secondo convinzioni personali. Per carità, sono convinto che chi si iscrive al Pd lo fa perché crede nel nostro progetto politico, non per altri fini».

A scanso di equivoci, il segretario si appella allo statuto. «Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente. Altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti». Eppure sembra che fare politica tra Piazza Morlacchi e Corso Vannucci non possa prescindere da certi riferimenti. «Quando si governa a Perugia - conclude Leonelli - è normale entrare in contatto con determinate realtà cittadine». Contattati al telefono, i componenti della piccola pattuglia socialista nel Pd non si stupiscono di certi accostamenti.

Ma negano, con cortesia, qualsiasi coinvolgimento personale.

Cesare Fioriti fa parte del direttivo del Pd di Perugia. Ex capogruppo del partito socialista in consiglio comunale, qualche anno fa è riuscito a fare intitolare una via alla memoria di Vittor Ugo Bistoni, storico esponente del Psi cittadino, presidente del Collegio umbro dei Maestri Venerabili e fondatore della Loggia “Guglielmo Miliocchi”. «Certo che è strano - ripete anche Fioriti - questa vicenda della massoneria viene fuori a orologeria. Secondo me serve a spostare il baricentro dell’opinione pubblica altrove, rispetto a temi come la crisi. Ricordo un altro scandalo simile: accadde nei primi anni 90, ai tempi di Tangentopoli». Fioriti non è legato ad alcuna loggia: «No, non sono massone - precisa subito -. Però difendo la massoneria. La penso esattamente come Voltaire (altro “illuminato”, ndr) “Anche se disapprovo quello che dite, difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. I consiglieri comunali devono avere piena libertà di espressione, quindi anche di associazione. E poi scusi, i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee». Squadra e compasso non creano alcun imbarazzo. «Il fine della massoneria è l’evoluzione del pensiero - continua Fioriti -. Mi spieghi lei come fa il Pd a condannare un’organizzazione del genere». Angelo Pistelli è un altro esponente del Pd umbro. Anche lui di provenienza socialista, fino a poco tempo fa era nell'esecutivo regionale. Dopo le ultime polemiche sulla massoneria non si trova più molto a suo agio nel partito. «In effetti del Pd ormai non condivido tanto - ammette Pistelli -. Ma io mi sento di sinistra e non ci sono altri partiti in cui potrei militare. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, e a noi resta ben poco».

Sembra quasi che Pistelli sia pronto a fare coming out, quando corregge il tiro. «Specifico che non sono un massone. Diciamo che difendo ogni espressione personale. Credo che anche all’interno del partito ognuno debba essere libero di aderire a quello che gli pare. Non vogliono i massoni? Allora io dico che non voglio l’adesione di tutti quelli che provengono dal Pci. Hanno calcolato che in Italia ci sarebbero 4mila iscritti legati alla massoneria. A occhio e croce non mi sembrano mica tanti. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe».

E’ spuntato in internet ed ha già attirato la curiosità di molti. E’ il file in formato excel dove sono riportati i nomi dei 26.409 iscritti alla Massoneria italiana. Con tanto di data di nascita, residenza, e professione. Il percorso è presto detto: si parte da Google e, una volta inserita nella stringa la parola chiave “elenco massoni” ecco che al primo posto (su un totale di 58.500 voci) fa bella figura di sè il “files.meetup.com/207935/pidue.xls”. Basta un click e il gioco è fatto. Il documento non è di per sè una novità: si tratta di una lista datata, vecchia almeno di più decenni, già in parte pubblicata da quotidiani. Nel 1998 ci provò anche la rivista “Cuore” a pubblicare, a puntate, tutta quella massa di dati, ma l’esperimento si fermò al terzo numero. Nel 2004 il file arrivò alla redazione di Macchianera che non lo pubblicò perchè ormai era già disponibile nei siti peer to peer. Ma è evidente che chi oggi l’ha messa in rete, ha voluto gettare benzina sul fuoco del sempre tanto discusso e dibattuto tema della fratellanza: non fosse che lo stesso file, in chiusura, è stato ribattezzato “pidue”, quando nessuno dei 26mila risultava iscritto in quello della P2 di Licio Gelli che finì nel mirino della magistratura. Perchè, vale ricordarlo, essere iscritti ad una loggia non è reato. Diverso fu il caso della P2 i cui affiliati finirono coinvolti in diverse inchieste di eversione, stragi, depistaggi e tentato colpi di Stato. Ma torniamo al file. Alcuni di quella lista sono morti. Un centinaio infatti sono quelli che oggi avrebbero più di 100 anni. Non furono pochi quelli che, all’indomani dell’inchiesta del procuratore Agostino Cordova, uscirono dalla massoneria. “E’ fu un bene – dicono dagli ambienti ternani – molti erano entrati non perchè credessero nei nostri valori, ma perchè convinti che avrebbero potuto beneficiare di chissà quali favori. Chi ci credeva e ci crede è rimasto e alla fine quella indagine si rivelò una fortuna per l’onorabilità della massoneria”. Quelli rimasti hanno proseguito il loro ‘percorso’. A guardare quell’elenco c’è chi ha avuto fortuna. Ma c’è anche a chi non è andata affatto bene. Eccoli tutti insieme, tutti e 26.409: docenti, medici, impiegati, avvocati, commercianti, ferrovieri, geometri, ingegneri, agricoltori, bancari, farmacisti, architetti.

LE LOGGE: Tre i principali Ordini massonici. Il Grande Oriente d’Italia (GOI), il più numeroso con i suoi 30mila iscritti, la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) e la Gran Loggia d’Italia, l’unica a concedere l’accesso alle donne. Tutte hanno il loro sito internet al quale hanno affidato persino gli indirizzi delle loro strutture. Un po’ più difficile avere la lista degli iscritti (per quanto gli elenchi sono pubblici e dunque consultabili presso i rispettivi uffici). Grazie ad un iscritto ad una loggia di Perugia è possibile tracciare un quadro più aggiornato sugli iscritti in Umbria.

G.O.I: è la più antica, nata nel 1805 (il primo Gran Maestro fu Eugenio De Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte), e la più numerosa. Attualmente è presieduta dall’avvocato Gustavo Raffi. 29 in tutto le logge umbre, 24 in provincia di Perugia, 5 in quella di Terni. Perugia: La loggia storica per eccellenza è la “Francesco Guardabassi” (n. 146), una delle 18 logge perugine che vantano ca. 1.300 affiliati. Seguono “Fede e Lavoro”, “Riccardo Granata”, “Mario Angeloni”, “I Figli di Horus” (che si richiama al rito egizio di Memphis e Misraim), “Fratelli Bandiera”, “Concordia”, “Ver Sacrum”, “Bruno Bellucci”, “Luca Mario Guerrizio”, “Francesco Baracca”, “La Fermezza”, “Guglielmo Miliocchi”, “Humanitas”, “La Fenice”, “Quatuor Coronati”, “XX Giugno 1859” e “Enzo Paolo Tiberi” (la più recente, n. 1.325). Città di Castello: 150 i “muratori” che compongono le 4 logge presenti a Città di Cstello, ribattezzate “XI settembre”, “I Liberi”, “Armonia” e “Atlantide”. A Foligno sarebbero una trentina gli affiliati alla “Domenico Benedetti Roncalli” mentre un po’ di meno quelli alla “Luigi Pianciani” di Spoleto. Terni: cinque le logge per circa 200 iscritti. La prima ad essere aperta è la ‘Tacito’ seguita dalla “Giuseppe Petroni”, “Paolo Garofoli”, J.W. Goethe” e “Alessandro Fabri”.

G.L.R.I.: fondata da Giuliano Di Bernardo a seguito dello scisma nel 1993 dal GOI. Attualmente è presieduta dal dottr Fabio Venzi. In Umbria vanta un centinaio di iscritti e 4 logge: la “Luigino Marra” di Spoleto, Piero della Francesca” e “San Bevignate” di Perugia e la “Braccio Fortebraccio” di Umbertide. Tutte operano nel capoluogo di regione dove gli iscritti si ritrovano, a cadenza settimanale, in una nota struttura ricettiva.

G.L.I. (Obbedienza di Piazza Del Gesù Palazzo Vitelleschi): E’ un “Ordine iniziatico di uomini e donne”, l’unica infatti ad aprire le porte anche alle donne. Fondata nel 1910 è oggi retta dal professor Luigi Pruneti. La sede umbra (per gli Orienti di Terni e Perugia) è presso il Centro Sociologico Italiano in Via Valentini a Perugia. Gli iscritti sarebbero una cinquantina.

I massoni di Perugia: questa persecuzione deve finire. Dall’archivio de “Il Corriere della Sera” l’inchiesta di Bruno Tucci. LA CAPITALE DEI VENERABILI. Mille affiliati. Li accusano di condizionare la città e loro: "Siamo eredi dei laici che hanno sconfitto il Papa Troppe calunnie, quel magistrato viola il codice. Mille iscritti alle logge sparsi per la provincia: tutti nelle stanze dei bottoni. Ospedali, banche, università e poi ancora in magistratura, negli ordini professionali, tra gli avvocati, i medici, gli ingegneri fino alle istituzioni. La mappa della massoneria in questo lembo del Paese raggiunge percentuali da capogiro. Perugia si sente afflitta e condizionata? "Non diciamo eresie", esclama il presidente del collegio venerabile, Giancarlo Zuccaccia. "Chi ha conquistato posti importanti nella società non lo deve certo a noi, ma esclusivamente alla propria professionalità". Eppure, le accuse sono specifiche: vengono da un giudice calabrese che punta il dito contro i massoni e cerca di inchiodarli con elementi e prove inconfutabili. Lo avrete capito: il magistrato in questione è Agostino Cordova, procuratore di Palmi, il quale sta combattendo una battaglia personale in un campo così delicato e difficile. Le parole di Cordova non ammettono dubbi di sorta. In Umbria, e specificamente nella provincia di Perugia, i massoni sono tanti, troppi e condizionano la vita della città. Tutto passa attraverso il controllo delle logge: assunzioni, promozioni, avvicendamenti, scatti di carriera. Come mai? Semplice: al timone della barca ci sono loro e soltanto loro. "Fandonie, fesserie, calunnie", risponde a tono Giancarlo Zuccaccia, presidente dell' Ordine degli avvocati dall'ottobre del 1992. Sibila: "Sono stato eletto con 250 voti. Dovrebbero avere tutti una stessa etichetta, secondo Cordova. Ed invece, non è così, glielo posso assicurare. La verità è che questo magistrato ha preso di mira la massoneria. Ha sguinzagliato per tutta Italia i suoi scherani e siccome non è riuscito a trovare un bel nulla, allora tira fendenti alla cieca. Ma, attenzione, sta violando il codice penale". Un' accusa pesante, avvocato... "Già, è vero. Allora non la scriva. Però, rimane il fatto che noi siamo alla gogna, criminalizzati per episodi che non esistono. Siamo stanchi, mi creda, perché ne dobbiamo sopportare di tutti i colori". Dunque, non avete stretto tra di voi patti di alleanza spartitoria? Insomma, una specie di lottizzazione massonica? "Non scherziamo. Chi di noi raggiunge risultati professionali lo deve soltanto alla bravura ed all'onestà. Il resto sono chiacchiere che non stanno né in cielo, né in terra". Il presidente venerabile si difende, ammette che in Umbria ci sono 24 logge tra Perugia, Terni, Spoleto e Città di Castello, ma non vuole sentir parlare di favoritismi e di clientelismo. Sono parole sconosciute nel vocabolario dei massoni. Ma chi sa e conosce Perugia e dintorni non è d'accordo. Legge delle indagini condotte da Agostino Cordova e si frega le mani. "Finalmente! Era ora", grida qualcuno. "Questa storia, prima o poi, doveva pur finire. Speriamo si faccia in fretta, perché i giovani non ne possono più di un simile condizionamento". Parlano i perugini che non hanno niente a che spartire con la massoneria, però si trincerano dietro l'anonimato.

Hanno paura di tarparsi le ali, di non poter combinare più nulla in futuro, se dovessero essere scoperti. Con tale premessa vanno avanti nel racconto e confessano al cronista che chi non sta dalla parte dei massoni incontra grossi ostacoli. I favoritismi sono a senso unico. Un esempio: se vuoi assicurarti un posto o se desideri compiere un salto di qualità, non hai altra scelta se non rivolgerti a quelli che contano. E, guarda caso, nelle stanze dei bottoni ci sono soltanto loro. Così è all' università, nelle banche, in ospedale, negli enti pubblici, dappertutto. "Noi agiamo alla luce del sole", replica Giancarlo Zuccaccia. "Non siamo un partito, abbiamo sempre combattuto la lottizzazione", aggiunge un altro "fratello perugino", l'avvocato Giacomo Borrione. "Anzi, sa che cosa le dico? E' vero il contrario: abbiamo sofferto l'infiltrazione dei partiti. Noi interveniamo soltanto quando un "fratello" è in stato di bisogno. E chi aiuta non appare, rimane tutto avvolto nel segreto". La voce di popolo grida a gran voce l'esatto contrario. Cita nomi, cognomi di affiliati: gente di potere che solidarizza solo con chi è iscritto. Ad esempio, la famiglia De Megni, sulla quale sono stati spesi fiumi di parole. "Alle cene annuali in casa loro partecipa il fior fiore della massoneria, il vertice delle logge umbre". Non si salva nessuno, nemmeno il rettore dell'Università, alcuni commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri. Chiacchiere? "Se sono bugie, lo vedrete il giorno in cui Cordova avrà completato la sua inchiesta", rispondono i perugini. Giancarlo Zuccaccia va su tutte le furie: "Io ai pranzi di De Megni non ci sono mai stato. Se mi chiedete se sono massone, rispondo di sì. Sono apparso in gonnellino pure alla tv. Ma non andiamo oltre, parlando di sette, di logge segrete, di clientelismo. Il venerabile Licio Gelli (come lo chiamate voi) lo abbiamo espulso nel 1976, avete capito?". Ed allora perché tanti massoni a Perugia o in Umbria, se preferisce? "E' semplice: perché siamo laici ed abbiamo subito la dominazione pontificia per 400 anni. Lo sa che il 20 giugno, puntualmente, Perugia festeggia la cacciata dei papalini?

Ed è una festa a cui partecipa tutta la città, comune compreso.

Questa persecuzione di Cordova deve finire. Io ho subito minacce telefoniche e sono in allarme per la mia incolumità". In Corso Vannucci, la strada dello struscio, scuotono la testa e commentano: "I massoni? Se non stai con loro, è meglio che emigri. Sono forti, fortissimi ed hanno tutte le leve del potere. Quindi..."

Ma nella massoneria esistono anche avvocati, cancellieri, docenti di materie giuridiche, ufficiali giudiziari, e così via, che sono affiliati alla massoneria. Tutto ciò si evince ancora dal libro "La Massoneria smascherata" di Giacinto Butindaro. Ed ovviamente tutti costoro, in virtù del loro giuramento massonico (che recita tra le altre cose: ‘…. prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Libera Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato; prometto e giuro di prestare aiuto ed assistenza a tutti i Fratelli Liberi Muratori sparsi su tutta la superficie della Terra….’), devono anche loro aiutare i loro fratelli massoni, per cui è ovvio che quando un massone si troverà indagato o imputato in un processo, egli al ‘momento giusto’ riceverà una qualche forma di aiuto dai suoi fratelli che sono nella magistratura (o nella politica) che si muoveranno come sanno fare loro in questi casi. Un esempio di inchiesta giudiziaria contro dei massoni ‘affossata’ è quello dell’inchiesta del procuratore di Palmi Agostino Cordova da lui avviata nel 1992, a cui abbiamo accennato prima, che dopo che Agostino Cordova fu trasferito-promosso alla Procura di Napoli nel 1993 e che le indagini vennero trasferite (per «incompetenza tecnica» della Procura di Palmi a occuparsi della materia) alla Procura di Roma nel giugno del 1994, rimase pressoché ferma per quasi sei anni, e poi nel dicembre 2000, il giudice per le indagini preliminari dispose l’archiviazione dell’inchiesta, nonostante fossero stati raccolti centinaia di faldoni e tantissime fonti di prova sulle attività illecite di logge italiane con decine di indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano i proventi derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale. Per capire la portata dell’inchiesta di questo coraggioso magistrato consiglio di leggere Oltre la cupola: massoneria, mafia, politica, scritto da Francesco Forgione e Paolo Mondani, pubblicato da Rizzoli Editore nel 1994. Un esempio invece di processo in cui erano imputati dei massoni con evidenti prove di colpevolezza contro di essi, e che si è concluso con la loro assoluzione, è quello del "golpe Borghese". Il "golpe Borghese" fu un colpo di Stato tentato in Italia durante la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 e organizzato e guidato da Junio Valerio Borghese (ex comandante della X Mas nella repubblica sociale italiana, e leader dell’organizzazione neofascista Fronte nazionale), allo scopo di impedire l’accesso del Partito Comunista al governo. Il nome del colpo di stato aveva come nome in codice ‘Operazione Tora Tora’, in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Tra i golpisti c’erano oltre che uomini dei servizi segreti e fascisti, anche massoni e mafiosi. In vista del ‘golpe Borghese’ infatti, la Massoneria aveva chiesto l’aiuto di Cosa nostra e della criminalità organizzata calabrese per averne un appoggio armato. La sera del 7 dicembre 1970, i congiurati – in gran parte armati, e provenienti da varie regioni d’Italia – si concentrarono nei vari punti prestabiliti della Capitale. Il piano eversivo prevedeva tra le altre cose, l’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, e l’irruzione al Quirinale di una squadra di congiurati armati comandati da Licio Gelli (capo della loggia massonica segreta P2) per sequestrare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Ma ecco che poco dopo la mezzanotte ai congiurati arriva improvviso il contrordine: l’azione golpista è sospesa e rinviata. L’inchiesta giudiziaria che ne seguì non riuscirà a chiarire le circostanze dell’improvviso contrordine impartito ai congiurati. Secondo alcuni, la sospensione del golpe è da attribuire alla defezione di un importante personaggio che avrebbe reso impossibile l’attuazione dell’aspetto strategico del golpe. Secondo altri, il golpe non fu attuato, benchè avallato dagli USA, a causa dell’imprevista presenza della flotta russa nel Mediterraneo la notte tra il 7 e l’8 dicembre. Comunque il tentato golpe ci fu. In merito al procedimento giudiziario e il processo che si tenne contro coloro che furono coinvolti nel ‘Golpe Borghese’, ecco cosa dice il senatore Sergio Flamigni, che ha fatto parte della Commissione Parlamentare sulla Loggia P2: ‘Nel procedimento giudiziario scaturito dal «golpe Borghese» risulteranno coinvolti piduisti di primo piano: il generale Vito Miceli, promosso capo del Sid per intervento di Licio Gelli presso il ministro della Difesa Mario Tanassi (il cui segretario particolare, Bruno Palmiotti, e il cui fratello, Vittorio Tanassi, sono affiliati alla Loggia segreta); Giuseppe Lo Vecchio, colonnello dell’Aeronautica; Giuseppe Casero, ufficiale dell’Aeronautica; Giovanni Torrisi, ufficiale di Marina; Giovambattista Palumbo, Franco Picchiotti e Antonio Calabrese, ufficiali dei Carabinieri; Giuseppe Santovito, ufficiale dell’Esercito; il banchiere Michele Sindona; l’alto magistrato Carmelo Spagnuolo; il consigliere regionale andreottiano Filippo De Jorio (consigliere di Andreotti a Palazzo Chigi anche dopo il suo coinvolgimento nel tentato golpe). Tutti costoro risulteranno affiliati alla Loggia P2 nel gruppo Centrale, cioè in diretto collegamento con Gelli. Nella «Operazione Tora Tora» risulteranno coinvolti anche altri massoni, tra i quali: Duilio Fanali (capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che nel tentato golpe aveva il compito di insediarsi nel ministero della Difesa e impartire ordini a tutto l’apparato militare); il costruttore romano Remo Orlandini; Sandro Saccucci (deputato nelle liste del Msi, nel 1972, per avvalersi dell’immunità parlamentare); Salvatore Drago (ufficiale medico della Polizia, fedelissimo del piduista Federico Umberto D’Amato); Gavino Matta e Tommaso Rook Adami (massoni appartenenti alla Comunione di Piazza del Gesù); Giacomo Micalizio. [....] Benchè nella «Operazione Tora Tora» abbia avuto un ruolo centrale, Licio Gelli non viene coinvolto nel processo seguito al «golpe Borghese». Il Venerabile gode infatti di particolari coperture e di ferree protezioni.

Nel luglio 1974, nello studio privato del ministro della Difesa Giulio Andreotti, si tiene una riunione alla quale partecipano, oltre al ministro: il nuovo capo del Sid ammiraglio Mario Casardi il comandante dei Carabinieri generale Enrico Mino, il capo dell’ufficio D del Sid generale Gianadelio Maletti (piduista), e gli ufficiali del Sid colonnello Sandro Romagnoli e capitano Antonio Labruna (piduista). Oggetto della riunione è un dossier compilato dai Servizi sul «golpe Borghese», da inviare alla magistratura. Il dossier giunto al ministro Andreotti è già stato sottoposto a numerosi tagli; infatti il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Eugenio Henke, ha disposto la cancellazione di ogni riferimento ad alcuni collaboratori del Sid. Ma a questo punto è Andreotti che suggerisce a Maletti di «sfrondare il malloppo e di eliminare i dati non riscontrabili». Così dal rapporto scompare il nome di Gelli [....]. Il processo per il «golpe Borghese», celebrato presso il Tribunale di Roma, consentirà di accertare una serie di gravissimi fatti. Ma tutti gli imputati piduisti, anche grazie al sotterraneo attivismo di Licio Gelli, verranno assolti.

[....]. I gravissimi fatti culminati nel tentato golpe della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 subiranno in fasi processuale un inopinato ridimensionamento. Benchè si sia trattato di un preciso piano eversivo sostenuto da ampi settori dei vertici militari in collegamento con gruppi armati di civili ramificati in tutto il Paese, a conoscenza dei comandi Nato e con la partecipazione di Cosa nostra e della ‘ndrangheta calabrese, nel corso dei vari gradi di giudizio il processo si risolverà in un progressivo insabbiamento, tra proscioglimenti e archiviazioni, fino alla generale assoluzione degli imputati superstiti da parte della Corte di Cassazione. [....] Le sentenze della Corte di assise di Roma del 14 novembre 1978 e della Corte di assise d’appello del 27 novembre 1984, affermando l’insussistenza del delitto di insurrezione armata, predisporranno la Corte di cassazione a trasformare il tentato golpe in un semplice «complotto di pensionati», e ad assolvere tutti gli imputati. Molti anni dopo, il giudice istruttore del Tribunale di Milano Guido Salvini scriverà infatti che «una vasta e continuativa trama golpista, corroborata sul piano probatorio anche da numerosi elementi documentati, [è stata] così ridotta ai progetti velleitari di qualche anziano Ufficiale nostalgico e di poche Guardie forestali. Certamente non è stato così». Il giudice citerà una serie di documenti e testimonianze, prove di un’ampia articolazione eversiva di forze: alti ufficiali delle Forze armate e Massoneria, P2 e servizi segreti, mafia siciliana e ‘ndrangheta calabrese, strutture clandestine di militari e civili e gruppi della destra eversiva e neofascista, con sullo sfondo i comandi della Nato.

A conferma che anche nella magistratura si muove la mano della Massoneria dal libro "La Massoneria smascherata" di Giacinto Butindaro vi propongo una parte di un interessante scritto dal titolo «Fratellanza giuridica». "I magistrati e la massoneria" a cura di Solange Manfredi, pubblicato sul blog di Paolo Franceschetti il 20 luglio 2010, che credo renda bene l’idea di questo intreccio, che spiega il perchè certe indagini che coinvolgono massoni vengono ostacolate o affossate, e dei processi contro esponenti della massoneria finiscono con l’assoluzione degli imputati. [....]. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina: “Fratellanza Giuridica” Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolto, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L’esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazione” avvocati – cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico. Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un’indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all’interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro… avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l’occasione fa l’uomo ladro. La frequentazione, l’amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste “logge” possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l’occasione fa l’uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l’affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro?

Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere “Fratellanze” costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui “deviazioni” potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

A.G.D.G.A.D.U.
GRAN LOGGIA NAZIONALE
DEI LIBERI MURATORI D’ITALIA
“GRANDE ORIENTE D’ITALIA”
*
STATUTO
DELLA
“FRATELLANZA GIURIDICA”
(Approvato a Roma, il 21 settembre 1968)

1. La Fratellanza Giuridica è costituita da Fratelli attivi e quotalizzanti nelle rispettive Logge della Comunione italiana, appartenenti alle seguenti categorie professionali, e che ne facciano domanda: avvocati e procuratori legali –cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri – ufficiali giudiziari.

2. La Fratellanza Giuridica ha come principali finalità: a) Dare, quando richiestane, pareri giuridici al Grande Oriente o ai vari Organi massonici, attraverso la Gran Segreteria; b) Promuovere lo studio dei problemi interessanti i vari aspetti del diritto, internazionale e nazionale, e quelli delle singole categorie iscritte alla Fratellanza; c) Consentire una più fraterna collaborazione, nell’ambito di ciascuna categoria, per l’esercizio dell’attività degli iscritti; d) Indicare nominativi di difensori d’ufficio, se richiestane dai Tribunali massonici; e) Curare la raccolta della giurisprudenza delle decisioni degli organi giudiziari massonici, anche comparata con l’opera giudiziaria delle altre Comunioni regolari; f) Studiare ed approfondire ogni altra questione attinente all’esercizio professionale degli iscritti, nel rispetto delle leggi e delle tradizioni massoniche.

3. La Fratellanza Giuridica ha sede presso il suo Presidente effettivo. Essa può essere sciolta in qualunque momento, o per decisione del Gran Maestro, previo il parere favorevole del Consiglio dell’Ordine, o per decisione dell’Assemblea degli iscritti. Le elezioni e le decisioni dei vari Organi della Fratellanza Giuridica sono valide a maggioranza semplice ed impegnano anche gli assenti e, per il caso di scioglimento, con il voto favorevole di almeno due terzi degli iscritti. Le cariche non sono rinunciabili ed impegnano gli eletti sino a quando non siano accettate eventuali loro dimissioni, da inoltrarsi al Consiglio Direttivo.

4. Sono Organi della Fratellanza Giuridica:

a) L’Assemblea degli iscritti;

b) Il Consiglio Direttivo;

c) L’Ufficio di Presidenza;

d) Ufficio di Segreteria e Tesoreria.

5. L’Assemblea degli iscritti è convocata dall’Ufficio di presidenza almeno una volta l’anno, entro il 31 marzo, o quando appaia opportuno, ovvero quando gliene faccia richiesta la maggioranza semplice del Consiglio Direttivo oppure almeno un quinto degli iscritti. Alla Assemblea sono demandate tutte le decisioni comunque riguardanti la Fratellanza Giuridica, anche nelle materie di spettanza dei singoli Organi.

6. Il Consiglio Direttivo è composto dai Delegati circoscrizionali, che durano in carica tre anni e sono rieleggibili. I Delegati circoscrizionali vengono eletti, anche mediante schede inviate per posta, dagli iscritti alla Fratellanza Giuridica, nell’ambito delle circoscrizioni regionali massoniche. Il Consiglio Direttivo si riunisce per convocazione dell’Ufficio di Presidenza, almeno due volte l’anno, ovvero quando ne faccia richiesta, allo stesso Ufficio di Presidenza, almeno un terzo dei suoi membri.

7. Le riunioni del Consiglio Direttivo sono valide con la presenza di almeno la metà dei suoi componenti. In caso di parità di voti prevale quello del presidente.

8. Ciascun delegato circoscrizionale deve promuovere riunioni di iscritti, iniziative e attività varie, nell’ambito della propria circoscrizione, in armonia con le leggi massoniche, con le finalità della Fratellanza Giuridica, con le deliberazioni dell’Assemblea e del Consiglio Direttivo.

9. L’Ufficio di Presidenza è composto:

a) Dal Gran Maestro;

b) Dal presidente effettivo, che viene eletto dal Consiglio Direttivo;

c) Da un Vice-Presidente.

Al Presidente effettivo (o, in caso di suo impedimento o assenza, al Vice-Presidente) spettano la rappresentanza, la direzione, le decisioni di ordinaria amministrazione della Fratellanza Giuridica.

10. L’Ufficio di Segreteria è composto:

a) Dal Gran Segretario;

b) Da un Segretario o da un Vice-Segretario, nominati dal Consiglio Direttivo, ai quali spetta la tenuta degli schedari, dei verbali, della corrispondenza della Fratellanza Giuridica. L’Ufficio di Segreteria effettua il controllo annuale della regolare appartenenza alle Logge della Comunione di tutti gli iscritti della Fratellanza.
Il Segretario o il Vice-Segretario possono essere eletti anche al di fuori del Consiglio Direttivo, nel qualcaso vi partecipano senza diritto di voto.

11. Il Tesoriere è nominato da Presidente effettivo, anche non fra i Delegati circoscrizionali, nel qual caso partecipa al Consiglio Direttivo senza diritto di voto. Il Tesoriere cura l’amministrazione, la contabilità, la riscossione delle quote e degli eventuali contributi volontari, e quant’altro attiene alla economia della Fratellanza Giuridica. Il Tesoriere redige, entro il 31 dicembre di ciascun anno il bilancio consuntivo degli incassi e delle spese, ed un bilancio preventivo per l’anno successivo, da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea.

12. Per far fronte alle spese di organizzazione e funzionamento della Fratellanza Giuridica, tutti gli iscritti devono versare una quota annuale.

13. Entro il 31 maggio di ciascun anno il Consiglio Direttivo:
a) Predispone ed approva bilanci consuntivi e preventivi redatti dal Tesoriere da sottoporre all’Assemblea;

b) Fissa l’ammontare della quota annuale obbligatoria a carico degli iscritti;
c) Redige una relazione morale sull’attività compiuta nell’anno precedente che, se approvata dall’Assemblea, viene inviata alla Gran Maestranza;

d) Delibera la destinazione delle somme pervenute per contributi volontari dai vari iscritti.

14. Ogni notizia relativa agli elenchi degli iscritti potrà essere chiesta e fornita dai rispettivi Delegati circoscrizionali, a ciascuno dei quali tali elenchi verranno consegnati, ovvero, in mancanza, dall’Ufficio di Segreteria.

15. Il presente Statuto potrà essere modificato con delibera di almeno un terzo degli iscritti, i Assemblea.

16. E’ demandata al Consiglio Direttivo la formulazione del regolamento di attuazione del presente Statuto.

Note: Come rivela una sentenza a sezioni unite del Tribunale massonico del 28/X/1978, per il principio n. 1 Cap. IV degli Antichi Doveri” il massone anche se a conoscenza di un reato non può neanche minacciare di denunciare un fratello a quello che viene definito “Tribunale Profano”, ovvero l’organo giudiziario previsto dalla Costituzione italiana, pena l’immediata espulsione dalla loggia. Peraltro, vorrei anche dire che quando un magistrato (o un politico e così via) afferma: «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», e non prova in alcuna maniera questa sua affermazione, quello che intende dire è che in effetti lui non ha lasciato la Massoneria, ma soltanto che si è messo ‘in sonno’, che nel linguaggio massonico significa che un massone ha deciso per sue esigenze personali di autosospendersi dai lavori rituali e dalla vita dell’ordine, ma egli rimane a tutti gli effetti un massone obbligato ad osservare il giuramento massonico, pena gravissime conseguenze per la sua vita; e questa sua condizione di ‘dormiente’ è revocabile in qualsiasi momento e quando uscirà dal suo stato di ‘sonno’ i suoi fratelli massoni faranno festa.

Massoneria e mafia, la vera storia occulta del generale Ganzer. Un reportage  di Paride Leporace. La ricostruzione di una storia italiana dopo la clamorosa condanna a 14 anni del generale dei Ros: i misteri d’ Italia, i processi ai movimenti, le trame. Rinasce la P3, il solito Dell’Utri, il coordinatore di Forza Italia, il vecchio faccendiere Carboni. Siamo abituati. Un po’ meno al fatto che un generale dei carabinieri, capo dell’ineffabile Ros, sia duramente condannato a 14 anni in primo grado per aver messo in piedi una rete che acquista cocaina in Colombia per far meglio carriera. Il generale Ganzer non ha fatto una piega. Aspetta le motivazioni di una sentenza del processo meno raccontato dai media italiani.

Eppure i protagonisti e i fatti meritavano approfondimenti. Ma oggi nel Belpease chi si mette a scrivere delle ombre del reparto operativo più osannato nella lotta al crimine? A Milano hanno condannato anche ufficiali e sottoufficiali del Ros e un alto generale. Si chiama Mauro Obinu. Vice di Ganzer. Ma anche imputato in altri processi poco raccontati. A Palermo fa coppia sul banco degli imputati con il generale Mori. Sono accusati di non aver catturato Binnu Provenzano. In quel periodo attraverso i Ciancimino avevano avuto anche il mandato di trattare con Cosa Nostra invece di pensare ad arrestare boia e mandanti delle stragi che uccisero Falcone, Borsellino e le loro scorte. Obinu sta all’Aise. Che non è un’azienda di elettrodomestici ma una delle sigle dei nostri straordinari servizi segreti che ogni tanto cambiano sigla per rinverdire il brand. Il capo di Obinu è Gianni De Gennaro condannato in Appello ad un anno e quattro mesi per la macelleria messicana della scuola Diaz di Genova quando era il capo della polizia italiana. Poi richiamo alla vostra memoria che il comandante generale della Guardia di Finanza,Roberto Speciale era stato condannato ad un anno e mezzo per peculato ed è stato ricompensato con una nomina a senatore del partito berlusconiano.

Vogliamo aggiungere Niccolò Pollari direttore del Sismi salvato dalle accuse per il rapimento di Abu Omar con il segreto di Stato e ricompensato con una qualifica di Consigliere di Stato. Vi meravigliate? Io ho poco disincanto forse perché essendo un direttore di giornale ho potuto verificare che in favore di Pollari con dossier mirati si muovevano strani personaggi calabresi in odor di massomafia. Non avete mai incontrato uomini delle istituzioni che si sentono Stato più Stato degli altri? Spesso in rapporto stretto con giornalisti di grido dotati di ottimi fonti e che nelle redazioni possono far emergere titoloni su quel personaggio o capaci di far circolare dossier molto documentati contro avversari interni o esterni. Anche loro P3? Chissà. Stiamo ai fatti senza troppo dietrologia e comprendiamo chi è il generale Ganzer condannato a 14 anni da un Tribunale di quello Stato che doveva servire. Accademia Militare di Modena. Capitano e allievo del generale Dalla Chiesa tiene il fortino strategico di Padova dove coordina il blitz contro l’Autonomia. Si tratta del processo «7 aprile» ovvero quando l’inquisizione politica consente l’eclisse del Diritto. Il dossier che arriva al giudice Calogero porta le firma di Ganzer. Sul fronte della criminalità cattura la banda dei giostrai. Poi infiltra uno dei suoi uomini nella “Mafia del Brenta” di Felice Maniero. Pochi ricordano che un pm indaghi l’ufficiale dei carabinieri per falsa testimonianza a difesa dell’infiltrato. La circostanza è citata da Fiorenza Sarzanini del Corsera che la elogia in positivo chiosando : “preferì finire sotto processo piuttosto che tradire un collaborante”. Carabinieri su una linea d’ombra. Stato nello Stato. Ma ci sono anche magistrati che non fanno sconti. Parte da lontano la vicenda che ha visto condannare il capo Dei Ros ad una pesantissima condanna a 14 anni di carcere. A Ganzer è andata male perché ha trovato un mastino sulla sua strada. Lo stesso magistrato che ha indagato sul Sismi di Pollari. Un pm tostissimo. Armando Spataro della Procura di Milano. Che si fida ciecamente di Ganzer. Ma quelli come Spataro non si bevono tutto come oro colato. Anche se ti chiami Ganzer. Il pm riceve la richiesta di un’ autorizzazione a ritardare il sequestro di una partita di droga. Questo il racconto del pm dagli atti processuali:«Mi disse che il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l’arrivo nel porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Era destinata alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i destinatari della merce». Spataro firmò il decreto di ritardato sequestro. Ma i piani del Ros cambiarono: l’operazione infatti fu effettuata. Ma, dopo aver compiuto l’operazione, il Ros non diede più informazioni. Insospettito, Spataro si presentò negli uffici romani del Raggruppamento operativo speciale e chiese notizie attorno al sequestro dei due quintali di cocaina. Gli fu mostrata della droga conservata in un armadio. Quando, molti mesi dopo, Ganzer gli prospettò l’ipotesi di vendere quella droga a uno spacciatore di Bari, Spataro decise di informare il capo della procura e alcuni suoi colleghi. E ordinò la distruzione della droga. Un copione che sarebbe poi stato ricalcato molte altre volte. Secondo l’accusa, gli stessi carabinieri erano diventati protagonisti del traffico e le brillanti operazionì non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi all’ opinione pubblica. Anche Fabio Salomone pm bresciano indaga sul Ros. Quello di Bergamo. I carabinieri reclutano giovani pusher su piazza. Trovano i clienti e vendono la coca. Un gruppo di carabinieri fa carriera con operazioni dove i soldi spariscono e che hanno una sorta di regia etorodiretta.

Un esponente della malavita, Biagio Rotondo, detto «Il Rosso» racconta al pm Salomone che nel 1991 due carabinieri del Ros lo avvicinarono in carcere e gli proposero di diventare un confidente nel campo della droga. In realtà, secondo l’accusa, questi confidenti (tra il 1991 e il 1997 ne furono reclutati in gran numero) venivano utilizzati come agenti provocatori, come spacciatori, come tramiti con le organizzazioni dei trafficanti. «Il Ros – scrivono i giudici nel rinvio a giudizio – instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere nè alla loro identificazione nè alla loro denuncia… ordina quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro». «Si tratta – annota la Procura di Milano – di istigazione ad importare in Italia sostanze stupefacenti». I sottoufficiali indagati nascondono microspie ambientali e registrano l’interrogatorio del Pm. Per Ganzer è un gioco facile denunciare Salomone per abuso alla procura di Venezia e paralizzare per lungo tempo l’inchiesta.

Un’inchiesta, nata a Brescia nel 1997 (pm Fabio Salamone) passata poi a Milano (pm Davigo, Boccassini e Romanelli) perchè coinvolgeva un pm bergamasco, salvo poi essere mandata a Bologna (per un episodio a Ravenna), restituita da Bologna a Milano, girata a Torino e rispedita a Bologna, che sollevò conflitto di competenza in Cassazione, la quale stabilì infine la competenza di Milano. Un giro d’Italia che ha ritardato la fine di un processo durato un’eternità e che a quello di piazza Fontana gli fa un baffo per quanti tribunali ha visitato nel silenzio generale. E Biagio Rotondo detto “Il Rosso”? Il testimone che ha permesso di scoprire i giochi del Ros è morto suicida in carcere a Lucca il 29 agosto nel 2007. Cinque giorni prima la squadra mobile lo ha arrestato nell’ambito di un’inchiesta su delle rapine avviata con delle intercettazioni. Fuori dal ristorante dove lavora è stata trovata avvolta in un tovagliolo una vecchia pistola di strana provenienza e che ha giustificato il fermo per porto d’armi abusivo. Nella sua ultima lettera indirizzata anche ai magistrati che hanno gestito la sua collaborazione c’è scritto: “Confermo che tutto quello che ho detto corrisponde a verità. E’ un momento tragico per la mia vita, sono fallito come tutto e ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è per me insopportabile…Vi chiedo scusa per questo insano gesto”. C’è un’altra presunta mela marcia in questa storia. E’ il magistrato Mario Conte che a Bergamo offre la copertura legale al supermarket carrierista della droga. E quando l’inchiesta Salomone decolla Conte si fa trasferire a Brescia acconto alla stanza di Salomone. Per motivi di salute la sua posizione è stralciata e si trova in attesa di giudizio. Si vedrà. Per il momento una sentenza di primo grado ci dice che il metodo Ganzer nella lotta alla droga ha permesso l’ arresto di molti pesci piccoli, sono aumentate le finanze di molti narcos ed è aumentato il volume della cocaina nel nostro Paese. Senza dimenticare le violazioni del diritto e la deviazione delle istituzioni. Chissà se vi è capitato di assistere in televisione a vedere i servizi di quelle operazioni antidroga come “Cobra” o “Cedro” e che nulla altro sarebbero state che delle recite a soggetto. I Ros di Ganzer avrebbero anche installato una finta raffineria a Pescara per rendere più brillante l’operazione. Ma tutto questo non era un’associazione a delinquere secondo il Tribunale di Milano. Resta con la prescrizione una zona d’ ombra anche per un carico arrivato dal Libano di 4 bazooka,119 kalasnikov, 2 lanciamissili in quel caldissimo 1993 italiano e che secondo l’originario capo d’accusa i Ros avrebbero venduto alla cosca dei Macrì-Colautti. I soldi dell’affare non si trovano. Solo qualche traccia bancaria sbiadiata. Guadagni forse personali e qualche conto off shore che l’inchiesta non è stata in grado di trovare.

Ganzer e Obinu sapevano quello che combinavano i sottoposti.

Sono stati tutti condannati insieme al loro tramite libanese Jean Ajai Bou Chaya che dovrà scontare 18 anni di carcere. Intanto a Milano per arrivare a questa sentenza sono stati escussi trecento testimoni (a favore di Ganzer la difesa ha anche chiamato l’ex procuratore nazionale Vigna) e accorpati centoquaranta fascicoli. Tenute 163 udienze in cinque anni, 28 tra requisitorie e arringhe, 8 giorni di camera di consiglio. Nessuno ha seguito il processo fatto salvo rinvio a giudizio, richiesta pena e cronache sulla sentenza. L’unica eccezione è rappresentata da un articolo dell’Unità apparso in pagina il 25 febbraio del 2009 a firma di Nicola Biondo. Il generale Ganzer in tutto questo trambusto è diventato capo del Ros dal 2002 con beneplacito di destra e sinistra. A Mario Mori sotto processo a Palermo succede Ganzer condannato ieri a Milano. Allievi di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nucleo speciale. Molti ufficiali e poca truppa.

Investigazione speciale e segreta. I magistrati sono stati spesso al loro guinzaglio, intercettazioni invasive e operazioni nella terra di mezzo con il confidente. Una strana miscela che ha fatto esplodere conflitti esplosivi come quello tra il colonnello Riccio e Mori in Sicilia. Anche per Riccio condotte illegali nelle indagini antimafia gli sono costate una condanna in Appello a 4 anni e 10 mesi. Chi è più Stato dello Stato? I Ros di Ganzer oggi gestiscono le inchieste sui fondi neri a Finmeccanica, i ricatti a Marrazzo, tutte le nobile gesta della cricca, l’asse calobro-lombarda delle ndrine e gli affari della Camorra. Può il generale rimanere al suo posto? Secondo il ministro dell’Interno leghista e per il Comando generale dell’Arma non ci sono dubbi, dall’opposizione non vola neanche una mosca. L’ attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, da ministro dell’Interno vide lungo e chiese che alcune competenze dei reparti speciali italiani andassero ai comandi territoriali. Il Gico della Guardia di Finanza e lo Sco della Polizia hanno ottemperato alla disposizione. Tranne il Ros dei carabinieri che con le sue ventisei sezioni dislocate nelle Procure distrettuali restano delle monadi impenetrabili. Da quei reparti vengono uomini come Angelo Jannone, Giuliano Tavaroli, Marco Mancini e finiti tutti nello scandalo dei dossier illegali Telecom-Sismi. E gli ex Sismi accusano gli ex Ros di avere contatti proprio con Ganzer che con il Ros di Roma va a Palermo a disarticolare l’ufficio di Genchi subito sospeso dall’incarico senza essere formalmente indagato mentre il generale resta al suo posto mancando solo la promozione di generale di brigata. I Ros sono quelli che arrestarono a Milano il calabrese Daniele Barillà, sette anni di carcere innocente risarcito con soldi e la fiction di Beppe Fiorello “L’uomo sbagliato”.

Potremmo narrarvi tante storie sul Ros. Ma io che sono un cronista di provincia ricordo che il Ros di Ganzer si occupò anche dei No Global di Cosenza e della Rete del Sud ribelle dopo i fatti di Genova. E dal mio archivio pesco un documentato articolo di Peppino D’Avanzo che su Repubblica ci svelava questa trama: «ACCADE che il Raggruppamento Operazioni Speciali (Ros) dell’Arma dei Carabinieri si convinca che dietro i disordini di Napoli (7 maggio 2001) e di Genova (21 luglio 2002) non ci sia soltanto il distruttivo, nichilistico furore di casseur europei o il violento spontaneismo delle teste matte (e confuse) di casa nostra, ma addirittura un’associazione sovversiva. Concepita l’ipotesi, gli investigatori dell’Arma intercettano, spiano, osservano, pedinano. In assenza di contraddittorio, s’acconciano come vogliono cose, frasi, dialoghi, eventi, luoghi edificando una conveniente e coerente cabala induttiva. È il sistema che più piace agli addetti: “lavorare su materia viva, a mano libera”. Organizzato il quadro, occorre ora trovare un pubblico ministero che lo prenda sul serio. Alti ufficiali del Ros consegnano il dossier, rilegato in nero, di 980 pagine più 47 di indici e conclusioni ai pubblici ministeri di Genova. Che lo leggono e concludono che ‘quel lavoro è del tutto inutilizzabile’. Gli investigatori dell’Arma non sono tipi che si scoraggiano. Provano a Torino. Stesso risultato: “Questa roba non serve a niente”. Il dossier viene allora presentano ai pubblici ministeri di Napoli. L’esito non è diverso: il dossier, da un punto di vista penale, è aria fritta.

Finalmente gli ufficiali del Ros rintracciano a Cosenza il pubblico ministero Domenico Fiordalisi. Fiordalisi si convince delle buone ragioni dell’Arma dei Carabinieri. Ora rendere conto delle buone ragioni del Ros che diventano buone ragioni per il pubblico ministero e il giudice delle indagini preliminari, Nadia Plastina, è imbarazzante per la loro e nostra intelligenza». Nadia Plastina è stata promossa, Fiordalisi è diventato pm in una procusa sarda e vive sotto scorta per le minacce ricevute. I militanti arrestati nell’operazione No global sono stati tutti assolti nel processo di primo grado e devono affrontare quello d’appello. Il generale Ganzer è stato condannato da un tribunale dello Stato e resta al suo posto di comandante del Ros.

L'inchiesta a Bergamo di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Le toghe a tavola fanno festa coi boss del narcotraffico. Spuntano le foto di tre magistrati bergamaschi con Patrizio e Massimo Locatelli: finiti in carcere dopo il papà per traffico di droga.  Della famiglia di malavitosi parla Roberto Saviano nel suo ultimo libro "ZeroZeroZero". «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno». Lo scrive Roberto Saviano nel suo ultimo libro, ZeroZeroZero, in cui parla di cocaina e spiattella la storia del boss bergamasco Pasquale Claudio Locatelli. Attualmente è in carcere: poco dopo il suo arresto finirono in cella pure i due figli Patrizio e Massimiliano. Saviano si sorprende che nessuno, neanche nella provincia lombarda, avesse sentito puzza di bruciato quando i rampolli facevano fortune con un’industria edile come la Lopav Spa, mentre il papà-boss era già in galera con accuse pesantissime e il sospetto di legami con i clan di mezzo mondo, tra cui quello camorristico dei Mazzarella. Saviano ha ragione: nessuno sembrava sospettare. Neanche i magistrati bergamaschi. Tanto che alcuni di loro, tra i più seri e brillanti, facevano festa e pranzavano proprio con i figli del narcotrafficante. Facendosi addirittura fotografare per una rivista locale. Era infatti successo che poco prima di essere arrestati per ordine del gip di Napoli, i due ragazzi avessero organizzato un evento per riunire i 150 dipendenti e le relative famiglie. Era domenica 19 settembre 2010. Alle Ghiaie di Bonate, oltre ai titolari e agli operai, c’erano parecchi ospiti vip.

Qualche politico. Alcuni religiosi, come l’arcivescovo Gaetano Bonicelli. E soprattutto tre magistrati: Carmen Pugliese, Angelo Tibaldi, Mario Conte. Non erano soli. C’era anche un ispettore di polizia in servizio in Procura. Questo dicono le fotografie. In più, alcuni dei presenti ricordano di aver visto pure il direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino e un sottoufficiale della Guardia di Finanza. Circa un mese dopo, Patrizio e Massimiliano Locatelli finiranno in manette con l’accusa di concorso in traffico di stupefacenti e riciclaggio. Gli hanno sequestrato beni per circa 10 milioni. Già questo avrebbe dell’incredibile. Ma il peggio è che il padre, Pasquale Claudio, era un fuoriclasse della malavita. Saviano lo racconta bene nel libro. Quando aveva vent’anni si dedicava al furto di auto di grossa cilindrata. Locatelli - scrive Saviano - è furbo e inizia a imparare le lingue per allargare i suoi interessi. Austria. Francia. Poi Spagna. S’inventa parecchi soprannomi e si stabilisce in una villa nei dintorni di Saint-Tropez. Viene arrestato nel 1989. In casa gli trovano 41 chili di coca colombiana. Finito nel carcere di Grasse per scontare una decina di anni, si rompe un braccio. Gli agenti lo trasportano a Lione. Quando arriva a destinazione, un commando attacca la scorta e scappa col boss. È fuga. Va in Spagna e si fa chiamare «Mario di Madrid». Come racconta Saviano, è l’uomo di riferimento dei narcos colombiani in Europa e proprietario di una flotta navale per il traffico internazionale di cocaina. Non proprio un pesce piccolo, insomma. Lo scrittore lo definisce un «broker della polvere». E scrive: «Ha intuìto che l’eroina come mercato di massa stava finendo, mentre il mondo ne consumava ancora tonnellate». Nel 1991 riuscirà a scappare da una villa nel Bresciano, dove era andato dalla sua compagna Loredana. Pochi anni più tardi verrà pizzicato con un avvocato e il sostituto procuratore di Brindisi: nel processo il magistrato riuscirà a dimostrare di non sapere chi fosse Pasquale Locatelli e verrà prosciolto. Evidentemente, qualche boccone con le toghe sono un vizio di famiglia. Dopo anni di galera in Spagna, il boss torna nella prigione di Grasse (quella dell’evasione), ma nel 2004 devono estradarlo a Napoli. Una sentenza della Corte di cassazione gli ridà la libertà. E Locatelli senior torna in Spagna, dove fa dentro e fuori da galera distribuendo false identità. Intanto i due figli sono rimasti in Italia e mettono in piedi la Lopav Spa, che si occupa di pavimentazioni. Vincono pure un appalto da 500mila euro all’Aquila. Oltre a quello per il nuovo centro commerciale di Mapello, Bergamo, che a fine 2010 verrà scandagliato per la scomparsa della 13enne Yara Gambirasio, inghiottita nel buio di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e trovata cadavere tre mesi dopo. Nel maggio 2010 Pasquale Locatelli finisce in carcere, dopo che gli inquirenti avevano pedinato proprio il figlio che lo stava raggiungendo in Spagna. Pochi mesi dopo, anche i rampolli subiranno lo stesso trattamento. Nel corso delle indagini su Yara, era emerso che il padre della ragazza, Fulvio Gambirasio, aveva avuto rapporti di lavoro con la Lopav. Per Saviano, aveva addirittura testimoniato in un processo contro Pasquale Locatelli. Ma la pista di un possibile collegamento con la scomparsa della 13enne è stata abbandonata in fretta. Erano tanto sicuri di sé, i rampolli Locatelli, da invitare a pranzo dei magistrati. Angelo Tibaldi fu tra i più giovani ed efficaci sostituti procuratori che indagarono sugli episodi di corruzione che, nell’era di Tangentopoli, riguardavano anche Bergamo. Da anni è giudice del tribunale civile. Carmen Pugliese è attualmente il sostituto procuratore di maggior anzianità della Procura orobica. Si è occupata di più settori: dallo spaccio di droga alla pedofilia. Mario Conte, già sostituto procuratore a Bergamo e oggi giudice del tribunale civile, negli anni ’90 ha lavorato anche a Milano con Di Pietro. Recentemente è stato assolto dalla Corte d’assise di Milano dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti nel procedimento che lo vedeva imputato per i suoi rapporti con i carabinieri del Ros del generale Giampaolo Ganzer. Questa volta ha ragione Saviano. «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno».

Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

FREDIANO MANZI UN GESTO ESTREMO CONTRO L'ABBANDONO DEGLI USURATI.

Si è dato fuoco, davanti alla sede milanese della Rai, Frediano Manzi, presidente dell’associazione SOS Racket e Usura. Un gesto disperato, estremo, compiuto per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle tante, troppe, vittime del pizzo, dei soldi prestati a strozzo. Attività monopolio della criminalità organizzata per la quale non esiste crisi. Manzi ha lasciato comunque una lettera in cui spiega le ragioni del gesto e avanzerebbe alcune richieste: “Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno”; “rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura”. L’uomo avrebbe riportato ustioni di terzo grado su tutto il corpo, specie alla braccia e al torace. L’episodio è avvenuto poco dopo le 20.30 del 5 febbraio 2013 in corso Sempione. Dopo essersi cosparso il corpo di benzina il coordinatore di SOS Racket e Usura, secondo i giornalisti presenti, ha detto: “Tra 5 minuti mi do fuoco per tutte le vittime di usura. Addio”. Poi ha tirato fuori un accendino e si è dato fuoco. Ad intervenire per primo, mentre Manzi era avvolto dalle fiamme, è stato un autista del tram numero 19 che vedendo la scena è sceso dal mezzo pubblico con l’estintore e l’ha scaricato addosso a Manzi, che altrimenti rischiava davvero la morte o comunque conseguenze ancora peggiori di quelle in cui si trova adesso. L’autista ha raccontato: “Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato. Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l’estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva”. Il 4 gennaio 2013 Manzi si era già tagliato le vene denunciando di trovarsi in una situazione economica disperata e di aver dovuto chiudere due attività. Sotto minaccia da parte dalla criminalità organizzata (“per la ‘ndrangheta sono un morto che cammina”) a fine 2011 aveva scioccato tutti dicendo di aver commissionato due attentati a una della sue attività, un negozio di fiori. Perché? Per attirare l’attenzione su Sos Racket e Usura. Per questo finì indagato a Milano e Busto Arsizio e la sua credibilità, inevitabilmente, subì un duro colpo. Manzi aveva patteggiato un anno e otto mesi di reclusione dopo aver confessato di aver commissionato per 1.200 euro al pluripregiudicato Alberto Marcheselli un finto attentato a un suo chiosco di fiori a Parabiago, per poi denunciare che si trattava di un atto di intimidazione contro l'attività della sua associazione. Ciò non toglie che grazie all’attività dell’associazione da lui presieduta e alle sue denunce sono state aperte diverse inchieste, come nel 2010 quando a Milano erano state arrestate alcune persone per il racket sulle case popolari. Era stato sempre Manzi a sporgere denuncia contro l’ex prefetto di Napoli Carlo Ferrigno, che due anni fa per le accuse di millantato credito e prostituzione minorile ha patteggiato una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. Manzi aveva chiesto di parlare ai giornalisti che si occupavano del telegiornale e quando gli addetti alla portineria lo hanno invitato ad allontanarsi ha minacciato di darsi fuoco. Poco dopo, si è cosparso di liquido e ha dato corpo alla sua minaccia. L'uomo è stato soccorso da un tramviere dell'Atm. "Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato", ha raccontato il soccorritore. "Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l'estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva". Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che si sono fatti consegnare la lettera lasciata da Manzi agli uscieri e che cominciava così: "Ho deciso di darmi fuoco per portare l'attenzione delle istituzioni su tutte le vittime dell'usura". Prima di cospargersi di benzina e appiccare le fiamme a se stesso con un accendino, Manzi ha consegnato alla tv di Stato una lettera in cui ribadisce il motivo del suo gesto, accompagnandolo con delle richieste, disperate tanto quanto lui. «Per le vittime dell’usura che nessuno aiuta», si legge nel foglio, scritto a mano. Poi alcune richieste, quelle degli ultimi 10 anni di lotte. «Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno», o «rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura». In realtà Frediano Manzi da tempo versava in uno stato di profonda prostrazione, e aveva recentemente già tentato il suicidio tagliandosi le vene. Dopo i clamori seguiti alle importanti inchieste che le denunce della sua associazione (che negli anni è diventata un punto di riferimento per le vittime del racket) avevano fatto partire, nell’ambito non solo dell’usura ma dell’intreccio tra la criminalità organizzata e gli enti locali, lui stesso era scivolato nel baratro finendo a sua volta denunciato per aver simulato un attentato a uno dei suoi negozi di fiori. Così era inevitabilmente cominciato il declino della sua credibilità. Una situazione che, insieme ai suoi problemi economici e alle continue minacce della criminalità organizzata, lo avevano minato profondamente spingendolo ormai a una vita border line. 

Povero Frediano Manzi. Non sa che per essere finanziato e sostenuto basta santificare i magistrati ed essere di sinistra?

IN CARCERE PER AVER DIFESO LA GIUSTIZIA.

Lui non si chiama SALLUSTI... è PIETRO PALAU GIOVANETTI presidente di AVVOCATI SENZA FRONTIERE... sta per finire in carcere in ITALIA  per avere difeso i diritti dei cittadini... 

«Se potete vi prego di fare qualcosa è assurdo che mi mettano in carcere per avere denunciato la corruzione giudiziaria. Pensate che ieri abbiamo scoperto che la Procura Generale di Brescia ha omesso di trasmettere alla Cassazione il Ricorso per incidente di esecuzione che mi nega sia la prescrizione sia la continuazione sia l'errore di calcolo della pena residua. Lo Stato di diritto è morto....» Pietro Palau Giovannetti.

Tra le altre cose questo signore ha scritto sul suo sito questo pezzo.

QUANDO IL P.M. FA L'AVVOCATO DEGLI IMPUTATI: LO SCANDALOSO CASO MASTROGIOVANNI

Udienza 2 ottobre 2012, Vallo della Lucania. Per l'omicidio preterintenzionale di Francesco Mastrogiovanni, come prevedibile il P.M. Martuscelli ha chiesto di derubricare i reati più gravi, smontando l'impianto accusatorio del precedente P.M., Francesco Rotondo, "promosso" per impedirgli di concludere il processo, scrive “La Voce di Robin Hood”.

La Segreteria di Avvocati senza Frontiere, mentre è ancora in corso la requisitoria, rende noto che, a seguito della mancata astensione del P.M. Renato Martuscelli che ha ignorato la richiesta del difensore della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood, costituita parte civile con l'Avv. Michele Capano del Foro di Salerno, ha inviato un circostanziato Esposto al C.S.M. e al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Salerno per procedere in sede disciplinare nei confronti del P.M. Martuscelli e per valutare la rilevanza penale delle gravi e molteplici violazioni procedimentali che si sono verificate nell'ambito del processo in corso da oltre tre anni. Dopo aver sottoposto ad attenta disamina lo svolgimento del processo, nonché le attività svolte dalle parti, i legali dell'Associazione si sono resi conto dell'intollerabile assenza del P.M. che in spregio alle sue funzioni istituzionali ha assunto in maniera sfacciata, senza mezzi termini, la difesa degli imputati, cercando di minimizzare le gravi responsabilità degli stessi, rivolgendo, viceversa, le proprie attività d'accusa nei confronti della vittima, nel precipuo scopo di alleggerire le condotte dei medici e del personale ospedaliero, nonché delle stesse forze dell'Ordine che hanno eseguito con modalità illegittime, il brutale fermo di una persona assolutamente sana di mente e pacifica che implorava di non venire portato presso il lager psichiatrico del San Luca di Vallo della Lucania, preavvertendo con grande lucidità che sarebbe stato ucciso. A riguardo, i legali di Avvocati senza Frontiere hanno ricordato la pregressa attività persecutoria del P.M. nei confronti del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni, quando il povero Mastrogiovanni era ancora in vita, sottoponendolo, ingiustamente, già anni orsono, alla misura della custodia cautelare per oltre 9 mesi, per fatti del tutto insussistenti di pretesa "resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale", dai quali l'odierna vittima è stata poi assolta con formula ampia dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo l'abuso da parte delle Forze dell'Ordine, e condanna dello Stato Italiano da parte della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo di Strasburgo, per l'ingiusta detenzione.
L'esposto prosegue denunciando l'anomalo comportamento endoprocessuale e l'assoluta inerzia investigativa del P.M. Martuscelli, anche nel connesso procedimento R.G.N.R. 1799/09, nell'ambito del quale ha richiesto nelle scorse settimane l'archiviazione nei confronti dei medici che avevano disposto il TSO di Mastrogiovanni, risultando perciò evidentemente incompatibile e impensabile che potesse oggi sostenere la Pubblica Accusa, sostituendo l'originario P.M. che aveva svolto in maniera ineccepibile le indagini e disposto i rinvii a giudizio, venendo infine rimosso, mediante promozione: "promoveatur ut amoveatur" (noto brocardo latino, la cui traduzione è "sia promosso affinché sia rimosso", usato per esprimere la necessità di liberare un ruolo chiave dell'organigramma dalla persona che lo occupa, promuovendola ad un qualunque altro ruolo di rango superiore, quale unico mezzo per poterlo "legalmente" allontanare dalla posizione occupata, ritenuta scomoda agli interessi dei poteri dominanti). Ciò non bastando, anche le stesse condotte endoprocessuali tenute dal Dr. Martuscelli nel corso del dibattimento hanno rivelato la sua manifesta parzialità, animosità e acrimonia verso la persona del defunto Mastrogiovanni, nei cui confronti giungeva addirittura ad infierire con diffamanti e false insinuazioni, dipingendolo come pericoloso sovversivo, spingendo i testimoni ad esprimere valutazioni negative e del tutto inconferenti alla illegittima prolungata contenzione che ne ha provocato la morte. D'altro canto, il Martuscelli rivelava prevenzione e grave inimicizia, omettendo qualsiasi attività, quale rappresentante della Pubblica Accusa, neppure ravvisando la necessità di sollevare eccezione di inammissibilità circa l'ammissione della testimonianza della Dr.ssa Di Matteo, in quanto indagata nel parallelo procedimento connesso R.G.N.R. 1799/09, relativo al TSO, giungendo, infine, ad omettere di richiedere l'acquisizione del video integrale delle oltre 83 ore di tortura con mani e piedi legati, senza acqua nè cibo, da cui si poteva, altresì, accertare la presenza del primario che invece la difesa sosteneva in ferie. Ragioni per cui prima di conoscere l'esito della requisitoria del P.M. che si è poi appreso aver richiesto la derubricazione dei reati più gravi, premonitoriamente il comunicato stampa di Avvocati senza Frontiere avanzava l'ipotesi che vi erano fondati motivi per ritenere che il Martuscelli avrebbe richiesto l'assoluzione del primario del lager psichiatrico e pene miti nei confronti dei terzi imputati aventi causa. In effetti, l'anomala Pubblica Accusa è andata ben oltre, ritenendo insussistente il reato di sequestro di persona, contestato in origine dal P.M. rimosso, a tutti i 18 imputati tra medici ed infermieri, ha fatto cadere l'imputazione di cui all'art. 586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto), sostenendo la mancanza dell'elemento doloso del delitto, chiedendo, infine, la derubricazione ad omicidio colposo. Attraverso tale capzioso percorso argomentativo, insultando il buon senso e l'intelligenza del popolo italiano che ha visto il video integrale dell'atroce agonia inflitta ad un uomo sano, libero e in pieno possesso della sue facoltà mentali, il P.M. Martuscelli, ritenendo la contenzione che ha provocato l'atroce morte della vittima, come "blanda e irrilevante", ovvero (sic!) un "atto medico dovuto", anzichè barbara tortura medievale, ha chiesto lievi pene comprese tra i due anni e i due anni e 7 mesi per il personale medico e sanitario in servizio la notte tra il 3 e il 4 agosto 2009. La difesa di Avvocati senza Frontiere anticipa che nella propria arringa richiederà anche ai sensi dell'art. 523 c.p.p., la visione del filmato integrale, sottolineando che, senza l'acquisizione agli atti di tale basilare prova, nessun giusto verdetto potrà scaturire all'esito del processo. E' da ritenersi infatti che l'anomalo P.M. non si mai neppure peritato di esaminare integralmente il filmato, in quanto ove avesse trovato il coraggio di farlo, posto di fronte alla consapevolezza dei fatti e a quali atroci sofferenze e' stata ininterottamente sottoposta la vittima di tali disumani trattamenti, definiti del tutto incoscientemente "atti medici dovuti" non avrebbe di certo avuto l'ardire di definire la contenzione praticata "blanda e irrilevante", nè tantomeno di coprire le ben più gravi responsabilità penali e sarebbe giunto a ben diverse ipotesi, contestando invece l'omicidio preterintenzionale.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Per il pubblico ministero decade dunque il capo d'imputazione principale contestato ai sanitari, e di conseguenza anche quello ad esso collegato, la morte come conseguenza di altro delitto. Martuscelli ha così derubricato quest'ultima imputazione, chiedendo invece la condanna per omicidio colposo dei soli medici e infermieri in servizio il 3 agosto del 2009, l'ultimo giorno di agonia del maestro cilentano (che muore alle 2 di notte del 4 agosto). Nel dettaglio: tre anni di reclusione per Michele Di Genio, il primario del reparto; due anni e sei mesi per Americo Mazza e Rocco Barone e due anni e sette mesi per Anna Ruberto (i tre medici in servizio quel giorno). Il pm ha contestato l'omicidio colposo anche ai sei infermieri in servizio il 3 agosto (Antonio De Vita, Antonio Tardio, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Raffaele Russo), per i quali ha chiesto la condanna a due anni. In sostanza Martuscelli sostiene che chi era di turno l'ultimo giorno di vita di Mastrogiovanni avrebbe dovuto accorgersi del peggioramento delle sue condizioni. E che l'unica colpa penalmente rilevante dei sanitari di quel reparto sia questa. Viene invece confermata per tutti i medici l'accusa di falso in atto pubblico, per non aver registrato la contenzione sulla cartella clinica: Martuscelli ha chiesto condanne per un anno e due mesi di carcere (oltre che per i tre medici sopra citati, anche per Michele Della Pepa e Raffaele Basso), eccezion fatta per il primario Di Genio (la richiesta è di un anno e quattro mesi). Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla 'cattura' avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la 'storia sanitaria' di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto". Il processo continuerà il 16 ottobre, con l'arringa di Caterina Mastrogiovanni, l'avvocato dei familiari della vittima, e dei legali delle altre parti civili. A seguire ci saranno le arringhe dei difensori degli imputati, fino alla pronuncia della sentenza, prevista per il 30 ottobre.

CHI E’ PIETRO PALAU GIOVANNETTI.

Sono Pietro Palau Giovannetti, presidente del Movimento per la Giustizia Robin Hood e della rete "Avvocati senza Frontiere", nonché direttore responsabile del giornale on line www.lavocedirobinhood.it, Enti no profit che dirigo da oltre 25 anni, battendomi in prima persona per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera da mafie, partiti, logge massoniche e corruzione. Mi permetto di richiedere la solidarietà di tutti gli spiriti liberi e le persone oneste, perché tra qualche giorno sarò tratto ingiustamente in arresto, senza aver mai commesso alcun reato, se non quello che non può certo considerarsi tale, di aver denunciato, sin dai tempi di "mani pulite", la dilagante corruzione politico-giudiziaria e gli abusi nei confronti dei soggetti più deboli che non hanno mezzi o stuoli di avvocati prezzolati, in grado di condizionare le istituzioni, ostacolando il regolare corso della Giustizia. Se nei prossimi giorni il P.G. di Brescia riterrà di arrestarmi, sono pronto ad andare in carcere a testa alta, perché credo in una Legge molto più grande di quella umana, controllata da logiche perverse e dalle varie mafie che soffocano la legalità. Sono intimamente convinto che in uno «Stato-mafia», come quello in cui viviamo che imprigiona ingiustamente i deboli e lascia deliberatamente impuniti colletti bianchi, criminali politici e mafiosi, "anche una prigione sia un luogo adatto per un uomo giusto", come affermava Henry David Thoreau, grande pensatore del Rinascimento americano, il quale nel saggio "Disobbedienza civile", sosteneva tra l'altro che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell'uomo, ispirando cosi i primi movimenti di protesta e resistenza non violenta. A fronte del mio incessante impegno civile e lotta alla "massomafia", ho subito oltre 750 procedimenti penali, di cui ben 114 solo in Cassazione, con le accuse più disparate per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle mie stesse denunce, ritenute assurdamente "corpi di reato", o dagli articoli pubblicati sui siti web dell'Associazione. Procedimenti da cui sono sempre stato per lo più assolto, per manifesta infondatezza delle notizie di reato. Ma ciò nonostante, dal 1986, sono stato fatto continuamente oggetto di rinvii a giudizio e addirittura di ripetute richieste di perizie psichiatriche, come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est, costringendomi a difendermi, senza sosta, in ogni sede, per gran parte della mia vita. Solo attraverso una ferrea difesa e la mia fede nella vera Giustizia sono riuscito a contrastare questa impressionante mole di attività persecutorie che non trovano precedenti nella storia del diritto internazionale, anche tenuto conto dell'enorme dispendio di risorse pubbliche impiegate per l'istruzione di svariate migliaia di udienze e centinaia di procedimenti penali, privi di qualsiasi consistenza, rilevanza e interesse sociale. Per l'abnormità delle procedure adottate il mio caso richiama quello del pacifista nonviolento, Danilo Dolci, che dagli anni '50, in Sicilia, dedicò la sua vita alla causa degli ultimi, lottando per l'emancipazione dalla povertà e dall'ignoranza, venendo, come me, ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca, tutt'oggi, purtroppo, ancora, asservita agli interessi della politica e della "massomafia", cioè di quel regime occulto trasversale ai partiti che da oltre 150 anni governa il Paese. La sua condanna venne infatti scandalosamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato Premi Nobel ed intellettuali di fama mondiale del calibro di Carlo Levi, Erich Fromm, Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Padre David Turoldo, Don Zeno, etc., e l'arringa fosse stata pronunciata da Piero Calamandrei, tra i padri fondatori della nostra amata Costituzione. Oggi anch'io rischio il carcere, stante la definitività di alcune inique condanne per oltre 5 anni di reclusione, confermate dalla Cassazione per reati di pretesa "diffamazione, calunnia, oltraggio, resistenza", nei confronti di magistrati, avvocati e altri infedeli rappresentanti delle istituzioni, seppure, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza - che qui cito testualmente - i cosiddetti "precedenti penali" a me ascritti: "concernono sostanzialmente situazioni e contesti legati ad iniziative sociali quali quelle patrocinate dal Movimento per la Giustizia Robin Hood". Ma ciò nonostante mi vogliono mandare in galera dopo avermi perseguitato per oltre un quarto di secolo, neanche rappresentassi un pericolo pubblico! Le condanne inflittemi non colpiscono infatti un pericoloso delinquente, bensì un Human Rights Defender che, da oltre 25 anni, si adopera a tutela della legalità, denunciando gli abusi del potere e l'impunità di cui godono gli affiliati ai vari comitati d'affari e logge massoniche, che hanno occupato lo Stato, soffocando la democrazia, attraverso il controllo capillare delle istituzioni, dell'economia, dei media e della cultura, garantendosi in tal modo il «controllo sociale» e una forma di governo parallelo, che Ernst Fraenkel denominò "Doppio Stato". Cioè, la compresenza nell'assetto statuario di "normatività" e "discrezionalità", dove a fianco di un sistema apparentemente democratico, convive un ordine perverso, che applica, come ai tempi della Germania nazista, la discrezionalità sistematica nell'applicazione e nel rispetto delle leggi, allo scopo di intimidire, reprimere e sopprimere ogni forma di dissenso, perpetuando proprio grazie a questa autoreferenziale contraddizione di sistema, l'organizzazione del consenso e il dominio sui governati, dove le istituzioni sono invase da politici, pubblici amministratori e magistrati corrotti, in simbiosi con banchieri, massoni e mafiosi, mentre una parte sana ma minoritaria e priva di mezzi dello Stato e della Società civile, cerca di contrastarli, a rischio della propria stessa vita o di venire delegittimati, come fu per Falcone, Borsellino, Cordova, De Magistris, Ingroia e tanti altri fedeli servitori dello Stato. A riguardo, sin dagli anni '80, ho infatti inascoltatamente segnalato, anche con grandi manifesti, che la mafia aveva messo le mani sulla città, denunciando l'imperversante speculazione edilizia e gli abusi ambientali nei quartieri metropolitani milanesi, da parte dei vari comitati d'affari che, già da allora, all'ombra di illecite protezioni, spadroneggiavano impunemente, controllando il territorio e i gangli vitali delle istituzioni, attraverso quella che i P.M. di "mani pulite" definirono come "corruzione ambientale", senza poi però riuscire ad andare sino in fondo. Denunce, occorre ricordare, che hanno permesso alla Procura di Milano di portare alla luce massicci episodi di corruzione nella Guardia di Finanza e nella stessa magistratura, portando all'arresto, tra gli altri, del Generale Giuseppe Cerciello, e dell'allora insospettato Presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò, entrambi da me denunciati, sin dal 1989, venendo io, però, dapprima, incriminato per diffamazione e calunnia, nonché preso per "visionario", fino al loro arresto e alla definitiva condanna degli stessi per fatti di corruzione (quest'ultimo, come molti ricorderanno, in relazione alla megatangente Enimont e al lodo Mondadori). Il Movimento per la Giustizia Robin Hood, spezzando in parte l'azione ostruzionistica nei suoi confronti, ottenne poi il riconoscimento quale Onlus nella sezione civile del Registro del Volontariato della Regione Lombardia, con effetto retroattivo dal 1998, in forza di due sentenze del T.A.R., di cui una per obblighi di fare. Nonostante l'alto valore sociale di tali attività, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza, lo scorso 15/1/13, i giudici bresciani che avevano precedentemente sospeso il processo, rinviandolo a nuovo ruolo, in attesa dell'esito dei giudizi pendenti in Cassazione per incidente di esecuzione e avanti la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - che se accolti comportano la revisione automatica del processo "non equo" -, hanno invece cambiato indirizzo, riservandosi sulla revoca del mio affidamento ai Servizi Sociali, cosa che implicherà nei prossimi giorni l'obbligo di arresto per scontare una pena residua di 2 anni, 8 mesi, 17 giorni, dopo aver già espiato anni 1, mesi 5 e giorni 7 di reclusione, oltre ad 1 anno di Libertà controllata, neanche fossi un mafioso o un criminale, per un totale di ben oltre 5 anni di carcerazione! Taluni media falsamente garantisti quando si tratta di coprire i potenti, sicuramente cercheranno di gettare altro fango, insinuando ogni sorta di dubbio e calunnia nei miei confronti, a partire da il Giornale di Sallusti, che ho già avuto modo di denunciare per il contenuto diffamatorio dell'articolo: "Il nuovo eroe antipremier? E' in realtà un bancarottiere condannato per calunnia", articolo apparso in data 14/5/11, in occasione del processo Mills e del mio fermo illegale avanti al Tribunale di Milano, ad opera della Digos, che molti forse ricorderanno, avendo destato anche presso la stampa estera, notevole indignazione e scalpore per le modalità brutali e la manifesta ingiustizia. Voglio quindi si sappia che, al di là delle calunnie della stampa di regime, non ho mai subito alcuna definitiva condanna per reati societari come il padrone di Sallusti e che l'unica vera ragione dell'accanimento di settori deviati della magistratura nei miei confronti, risiede nel fatto che ho denunciato, per primo, l'esistenza di poteri esterni allo Stato, ovvero di un «Regime occulto», in grado di condizionare l'intero arco parlamentare, media, forze dell'ordine e organi giurisdizionali, sino alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, mettendo in luce il ruolo di subalternità delle mafie agli apparati dell'alta finanza e dello Stato e, quel che, sicuramente, più disturba, alla Massoneria internazionale, secondo la stessa prospettiva investigativa di Giovanni Falcone, che partendo dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta aveva capito, sin dal 1984, come la Massoneria rappresenti il «collante» dei vari poteri criminali con la politica, le istituzioni e i servizi segreti. Non credo perciò di meritare di andare in carcere per le mie denunce, come non lo meritava neppure Sallusti, seppure coltivasse ragioni diametralmente opposte alle mie, perché in un Paese veramente libero nessuno può venire incarcerato per le proprie idee. Grazie di cuore per la Vs. attenzione e per il Vs. sostegno nelle forme che più riterrete opportune.

Pietro Palau Giovanetti secondo “Il Giornale”. E meno male che Sallusti sa cosa vuol dire essere perseguito per reato di opinione. Le urla, «vergogna, vergogna», gli spintoni, la polizia che arriva e trascina via il contestatore: il tutto sotto gli obiettivi delle telecamere, che documentano in diretta l'ennesimo caso di repressione del dissenso. La scena accade davanti al tribunale di Milano, blindato dale forze dell'ordine per la nuova udienza a carico di Silvio Berlusconi. Protagonista della protesta solitaria, racconteranno le cronache e le telecronache, un avvocato: un professionista indignato per le malefatte del capo del governo, e deciso a manifestare il suo sostegno a Ilda Boccassini e ai suoi colleghi. Ma alle 15.36 di ieri pomeriggio un comunicato dell'Ordine degli avvocati milanesi costringe a rivedere la faccenda: «A seguito dei recenti fatti di cronaca divulgati in data 9 maggio 2011 in relazione allo svolgimento del processo Mills, in occasione del quale si è riferito di un contestatore, Pietro Palau Giovannetti, indicato dalla stampa come avvocato, si comunica che tale Pietro Palau Giovannetti non risulta iscritto negli elenchi professionali tenuti dal consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano». E quindi? Se non è un avvocato, come hanno scritto i giornali, chi è il signore alto e robusto che i carabinieri hanno trascinato via mentre urlava «vergognatevi buffoni» ai militanti del Pdl in attesa di Berlusconi sotto il tribunale? L'aspirante icona della sinistra (emulo di Pietro Ricca, che nel 2003 urlò «buffone» a Berlusconi in tribunale e su questo costruì una carriera) è in realtà un personaggio di cui le cronache giudiziarie si sono dovute occupare in più di un'occasione. Titolare di una piccola azienda di auto d'epoca, la Classic Cars, Palau finisce gambe all'aria all'inizio degli anni Novanta e viene inquisito per bancarotta fraudolenta. A quel punto si trasforma in un implacabile accusatore della magistratura che - a suo dire - lo avrebbe ingiustamente inquisito. Attraverso l'associazione «Robin Hood» di cui è presidente, segretario e unico militante lancia la sua crociata contro le malefatte dei giudici. Se la prende in particolare con il procuratore Francesco Saverio Borrelli, che accusa di malefatte di ogni genere: querelato dal capo di Mani Pulite, Palau viene condannato per calunnia. Ma non si arrende, anzi. E qui la faccenda si fa interessante. Il nome di Palau Giovannetti viene infatti citato in una intervista al Corriere, nel maggio 1997, dal pm Piercamillo Davigo. Si parla del misterioso «dossier Achille», un documento attribuito al Sisde in cui si ipotizzavano tra l'altro infiltrazioni ebraiche e massoniche nel pool Mani Pulite. Ed ecco cosa dice Davigo: «Per carità, io posso fare solo un'ipotesi. L'unica cosa che mi viene in mente è la valanga di denunce presentate da Pietro Palau Giovannetti... La conosce la sua storia? Quel signore abitava in uno stabile di un immobiliarista milanese, Virginio Battanta. Ricevuto lo sfratto, Palau lo ha denunciato. Poi, quando è finito sotto inchiesta per due fallimenti, ha cominciato a presentare esposti a Brescia contro i pm di Milano che, a suo dire, non avrebbero indagato. Di lì è nato un groviglio di inchieste a catena, con decine o forse centinaia di denunce incrociate, penso che ora se ne occupi Trento ma non escludo che prima o poi, passando da una Procura all'altra, finisca tutto a Trieste. Ecco, ricordo che una delle tante denunce di Palau fu indirizzata al procuratore Cordova (all'epoca procuratore di Palmi), che all'epoca era titolare della maxi-inchiesta sulle logge coperte. Che io ricordi, quella è l'unica denuncia che abbia mai ipotizzato infiltrazioni giudaico-massoniche, espressione forse usata in senso generico, approssimativo, tra i magistrati di questa Procura». Sono passati quattordici anni. E lunedì scorso il bancarottiere che allora accusava la Procura milanese di essere un covo di massoni riemerge all'improvviso, trasformandosi in «avvocato» e incarnando per mezza giornata la nuova icona del popolo filo-giudici.

Marco Travaglio a riguardo ha qualcosa da dire.

HANNO AVUTO IL CORAGGIO DI CHIAMARLA "GUERRA TRA PROCURE", QUANDO L'UNICA VERA GUERRA E' QUELLA MOSSA DAI POTERI OCCULTI ALLA PARTE SANA DELLA MAGISTRATURA PER INSABBIARE LE INDAGINI SUGLI INTRECCI TRA MAFIA, STATO E MASSONERIA. IL TRISTE EPILOGO ALL'ITALIANA DELLE INCHIESTE SCIPPATE ALLA PROCURA DI SALERNO E I PROVVEDIMENTI CONTRO IL PROCURATORE APICELLA E GLI ALTRI MAGISTRATI CHE INDAGAVANO SUI FILONI DI DE MAGISTRIS NE SONO LA PIU' CHIARA DIMOSTRAZIONE. STATO E C.S.M. HANNO DATO L'ENNESIMA PROVA DI STARE DALLA PARTE DELL'ILLEGALITA', INSIEME AL PRESIDENTE NAPOLITANO CHE AL DI LA' DELLE SOLITE DICHIARAZIONI RETORICHE DI FINTA EQUIDISTANZA NON HANNO SAPUTO FAR ALTRO CHE DIFENDERE I PERVERSI INTERESSI DELLA POLITICA E DI CHI VUOLE METTERE LE MANI SULLA GIUSTIZIA.

Di seguito pubblichiamo sul tema un intervento di Marco Travaglio tratto dal Blog Voglio Scendere: "Scontro finale tra politica e magistratura".

"Buongiorno a tutti.

Non so se avete notato la miseria di questo dibattito sulla questione morale.

Il ritorno del dibattito sulla questione morale: i giornali pullulano di interviste dei vari Pomicini, De Michelis, Di Donato.

Vari parenti di Craxi... persino Capezzone che dice che Veltroni dovrebbe chiedere scusa a Bettino Craxi.

La questione morale, come al solito, viene usata per buttarsi addosso a vicenda le proprie vergogne anziché guardarle e possibilmente cancellarle.

Tant'è che il massimo di risposta che sono riusciti a partorire i vertici del PD, quando Berlusconi ha visto la questione morale - ovviamente soltanto la loro e non la sua che è talmente gigantesca che non riesce nemmeno più a vederla, data la statura fra l'altro - è stata: "ma tu hai portato in Parlamento inquisiti e condannati".

Naturalmente hanno dimenticato i propri.

Il massimo che possono dire è "noi ne abbiamo di meno", come se ci si potesse difendere o addirittura attaccare dicendo "noi abbiamo meno inquisiti e meno condannati di te".

Bisognerebbe poter dire "noi non ne abbiamo".

Quando Grillo e tanti altri hanno proposto questa legge di iniziativa popolare per cacciare i condannati dalle liste elettorali, anche se le firme raccolte questa volta erano quelle giuste e nessuno ha potuto metterle in discussione, nemmeno Carnevale, il Parlamento se l'è presa comoda, tant'è che non siano ancora nemmeno arrivati a una discussione sul tema.

Lasciamo perdere queste menate di partiti che ormai stanno chiaramente disfacendosi, sfarinandosi, dissolvendosi senza nemmeno che se ne rendano conto, e vediamo di parlare dell'altro grande titolo che campeggia sui giornali da quasi una settimana.

Cioè da mercoledì scorso, quando la procura di Salerno è scesa a Catanzaro per sequestrare gli atti dell'indagine Why Not e comunicare a un bel po' di magistrati calabresi e lucani che sono indagati per il mega complotto ipotizzato contro Luigi De Magistris.

Il titolo che è andato in edicola e in onda a reti unificate e a edicole unificate è "Guerra fra procure", "Guerra fra PM", "Scontro fra procure, interviene Napolitano".

Questo è l'unico dato costante.

La prima riga del titolo serviva a giustificare la seconda: se c'è effettivamente una guerra fra procure deve intervenire qualcuno a spegnare l'incendio, e quindi meno male che c'è il Capo dello Stato.

La domanda è: ma davvero c'è una guerra fra procure? Davvero c'è uno scontro fra PM? Davvero Salerno e Catanzaro stanno sullo stesso piano e si attaccano vicendevolmente, ma abusivamente tanto da giustificare l'intervento del pompiere del Quirinale e dei pompieri del Consiglio Superiore della Magistratura?

Vediamo. I fatti sono questi.

Qualche mese fa, De Magistris viene trasferito dalle funzioni che occupa e dalla sede che occupa, cioè da Pubblico Ministero e da Catanzaro, dal Consiglio Superiore che stabilisce come lui non possa più fare il Pubblico Ministero e non possa più fare il magistrato a Catanzaro.

Quindi viene trasferito alla giudicante a Napoli.

Nel frattempo arrivano in pellegrinaggio alla procura di Salerno decine di suoi inquisiti o di suoi superiori o colleghi che vogliono denunciarlo per enormi nefandezze da lui commesse durante i tre anni di procura a Catanzaro.

Soprattutto, si concentrano sulle tre indagini importanti che De Magistris aveva fatto e che, secondo questi denuncianti in processione, sono tutte quante viziate da ogni sorta di nequizia.

L'indagine Poseidone, sui depuratori che si dovevano fare in Calabria e che sono stati finanziati dall'Unione Europea con 800 milioni di euro e non se n'è mai visto uno, di depuratore.

L'indagine sulle toghe lucane, per i comitati d'affari che collegano magistrati della Basilicata, sui quali è competente a indagare Catanzaro e per questo se ne stava occupando De Magistris.

Eppoi l'indagine Why Not, quella che, oltre a vari faccendieri, ex piduisti, ufficiali dei servizi segreti, della Guardia di Finanza, politici, giornalisti collusi, qualche mafiosetto di passaggio, aveva come principale imputato questo Antonio Saladino, capo della Compagnia delle Opere che è il braccio finanziario-affaristico di Comunione e Liberazione.

E, al suo fianco, una lobby trasversale di uomini politici che coinvolge personaggi che stanno intorno all'allora presidente del Consiglio Prodi, che viene lui stesso indagato ma non perché sia accusato di avere fatto qualcosa lui personalmente, ma perché c'era uno di questi del suo giro coinvolto nei rapporti poco chiari con Saladino, che utilizzava un cellulare in uso anche a Prodi.

Per vedere come veniva usato questo cellulare viene indagato Prodi, proprio per poter chiedere al Parlamento l'autorizzazione a utilizzare e indagare su quei tabulati.

Poi Mastella, l'ultimo degli indagati perché appena viene indagato, allora ministro della Giustizia - siamo all'ottobre del 2007 - De Magistris si vede togliere anche questa indagine.

Bene, queste tre indagini, secondo tutti questi processionari che vanno a Salerno, sarebbero viziati da gravi reati commessi da De Magistris: fughe di notizie, abusi.

Perché vanno a Salerno a denunciare De Magistris? Perché Salerno è competente a indagare sugli eventuali reati commessi da magistrati di Catanzaro.

Per fortuna i magistrati di Catanzaro non possono indagare su se stessi, indaga Salerno.

Se poi Salerno ha commesso irregolarità, indaga Napoli. Su Napoli indaga Roma, su Roma indaga Perugia e così a catena.

Una volta c'erano le competenze incrociate tra le procure: Perugia indagava su Roma e Roma su Perugia.

Brescia indagava su Milano e Milano su Brescia.

Genova su Torino e Torino su Genova.

Catanzaro indagava su Salerno e Salerno su Catanzaro.

Ma se io indago su Beppe Grillo e Beppe Grillo indaga su di me, alla fine può capitare che, se siamo due poco di buono, ci mettiamo d'accordo: io non indago su di te, tu non indaghi su di me, una mano lava l'altra e così continuiamo a fare le nostre porcherie, indisturbati.

Ecco perché, nel 1998, furono cancellate le competenze incrociate e quindi si stabilì che se io indago su Grillo, lui non può indagare su di me: su di me deve indagare una terza persona, in modo che così non ci possiamo mettere d'accordo perché non abbiamo il do ut des.

Quindi Salerno è competente per indagare sui reati dei magistrati di Catanzaro, e lì arrivano coloro che vogliono denunciare De Magistris per quello che ha fatto a Catanzaro.

Ma anche De Magistris a Salerno fa delle denunce: denuncia a sua volta i sui superiori e alcuni suoi imputati, avvocati di suoi imputati, giornalisti al seguito dei suoi imputati o dei suoi superiori, che secondo lui lo avrebbero screditato, calunniato, isolato, espropriato delle sue inchieste.

Insomma, avrebbero creato i presupposti per levare prima le inchieste e poi lui.

Quindi i magistrati di Salerno non possono fare altro, perché ricevono queste denunce, di De Magistris e contro De Magistris, essendo competenti devono approfondirle per vedere quali sono fondate e quali no.

La legge glielo impone, è obbligatoria l'azione penale.

Ricevi una denuncia, devi verificarla.

Quindi cominciano a lavorare, per mesi e mesi, nessuno ne sa niente, di quello che succede a Salerno.

Lavorano in silenzio, nessuno li ha mai visti in televisione, nessuno li ha mai sentiti parlare, nessuno sa nemmeno che faccia abbiano i pubblici ministeri Gabriella Nuzi e Dionigi Verasani e il loro capo che si chiama Luigi Apicella.

A un certo punto, questi tre magistrati di Salerno vengono sentiti dal Consiglio Superiore: la prima volta nell'ottobre dell'anno scorso, quattordici mesi fa, l'altra volta il 9 gennaio di quest'anno, undici mesi fa.

Vennero sentiti perché, fermo restando che loro si occupano delle questioni penali, se ci sono reati negli uffici giudiziari di Catanzaro, il CSM si occupa dei profili disciplinari e di incompatibilità.

Anche se non c'è un reato da parte di un magistrato, se si scopre che un magistrato ha violato le regole deontologiche della sua professione deve essere punito.

Se invece è in condizioni di incompatibilità, cioè non può stare in quel posto, non per colpa sua ma perché magari è parente di qualche avvocato, amico di qualche avvocato, fidanzato di qualche avvocato, fidanzato o parente o amico di qualche indagato... non è colpa sua ma non è bene che stia lì, ma da un'altra parte.

Trasferimento per incompatibilità ambientale oppure procedimento disciplinare nel caso in cui un magistrato, pur non commettendo reati, abbia fatto delle scorrettezze di tipo professionale.

Quindi, il CSM sente i magistrati di Salerno per capire che cosa sta emergendo.

Anche perché il CSM, in quel momento, deve decidere sul trasferimento proposto dal procuratore generale della Cassazione in seguito alle ispezioni ministeriali disposte prima da Castelli e poi, soprattutto, da Mastella contro De Magistris, per incompatibilità ambientale con Catanzaro e funzionale con il ruolo di PM.

Vogliono capire che cosa sta emergendo per poter farsi un'idea di qual è il caso De Magistris e, nello stesso tempo, farsi un'idea se ci sono altri, a Catanzaro, che è meglio mandare via oppure sanzionare.
I pubblici ministeri di Salerno raccontano, per ore e ore, quello che sta emergendo dalle loro indagini.

E quello che raccontano è clamoroso: dicono che le denunce contro De Magistris si sono rivelate totalmente infondate.

Cioè non risulta che De Magistris abbia fatto nessuna scorrettezza, anzi dicono: "le indagini di De Magistris sono corrette, non emergono reati a carico di De Magistris" e quindi tutte le denunce che sono state presentate contro di lui, erano decine e decine, saranno archiviate.

E infatti, pochi mesi dopo, arriva l'archiviazione per tutte le indagini su De Magistris che viene liberato da ogni sospetto.

Le sue indagini erano doverose, tutto quello che ha fatto l'ha fatto bene, in buona fede.

Anche l'iscrizione di Mastella sul registro degli indagati era doverosa, si imponeva in base agli elementi che erano venuti fuori, niente da eccepire.

Il CSM dovrebbe prendere atto del fatto che, comunque, di è stabilito che De Magistris si è comportato correttamente.

Il CSM se ne infischia e lo trasferisce con dei cavilli, che non sto qui a spiegare ma poi vi dico, se volete approfondire, quali libri potete trovare che lo spiegano.

Invece, i magistrati di Salerno, sempre nell'audizione al CSM del 9 gennaio di quest'anno, raccontano anche che cosa sta emergendo sull'altro tipo di denuncia, quella fatta da De Magistris contro quel comitato trasversale, quello che lui chiama la nuova P 2.

Non c'è più Licio Gelli, ci sono alcuni piduisti.

Ma non è un problema di ex iscritti alla P2, il problema è un network di persone che dovrebbero controllarsi le une con le altre e che invece stanno pappa e ciccia e si coprono a vicenda.

E quando arriva qualche magistrato che sta fuori dal network, libero e indipendente come De Magistris, si coalizzano per andargli addosso e fare in modo che se ne vada.

Quindi è necessario che ci siano magistrati, giornalisti, politici, avvocati, faccendieri, imprenditori, qualche bel mafiosetto... eccetera.

Tutti insieme contro di lui, questa è la denuncia di De Magistris.

Queste denunce, secondo i magistrati di Salerno, si sono rivelate fondate.

Tant'è che dicono e rimane scritto nel verbale che firmano nell'audizione al CSM, che De Magistris è stato costretto a lavorare "in un contesto giudiziario fortemente condizionato da interessi extragiurisdizionali, talvolta illeciti, perché ci sono magistrati legati ad avvocati, imputati" che poi ricevono dei favori, moltissimi favori.

Per esempio hanno ricevuto magistrati da Saladino, che ha fatto assumere loro amici, parenti, nelle sue società e quindi ha un credito di riconoscenza, e questi magistrati hanno un credito, e infatti si sono dedicati tutti a interferire nel lavoro di De Magistris che su Saladino stava indagando.

Viene fuori, quindi, un quadro gravissimo.

Fermo restando che la procura di Salerno deve occuparsi dei reati di questi magistrati di Catanzaro, il CSM dovrebbe prendere immediatamente la palla al balzo per punire disciplinarmente o trasferire da Catanzaro tutti quelli che risultano incompatibili.

Chi ha ricevuto favori, a Catanzaro, da un imprenditore calabrese come Saladino, indagato in questa inchiesta, come minimo deve essere cacciato e mandato da un'altra parte.

Invece il CSM non fa nulla: cioè trasferisce De Magistris, la vittima del presunto complotto, ma gli autori del presunto complotto li lascia tutti al loro posto.

Tant'è che, l'altro giorno, i magistrati di Salerno sono andati a perquisirli e a notificargli che sono indagati e li hanno trovati tutti al loro posto, a Catanzaro.

Pensate, se il CSM avesse fatto il suo dovere di mandarne via qualcuno, di sospenderne qualcuno e di punirne qualcuno, l'altro giorno quando c'è stato il blitz, avrebbe potuto dire "ma noi avevamo già provveduto, avevamo già risolto il problema, adesso vedete se hanno commesso anche reati".

Paradossalmente, anche se il CSM ritiene che De Magistris meritasse di andare via, anche gli altri dovevano andare via.

Se è vero che quando c'è una contesa si mandano via tutti, se questa è la prassi che adotta il CSM, mandassero via anche quelli che hanno ostacolato De Magistris.

Invece no, sono rimasti tutti al loro posto e così l'effetto del blitz di Salerno a Catanzaro è stato dirompente, perché stavano tutti lì, nell'esercizio delle loro funzioni.

Come se nulla fosse stato detto a gennaio dai magistrati di Salerno, che avevano avvertito il CSM di come stavano andando le indagini e quale direzione avrebbero preso.

Questo è l'antefatto.

Noi abbiamo una procura che, per legge, deve indagare su quelle denunce e se le ritiene fondate deve perseguire i reati commessi da questi magistrati di Catanzaro.

Quindi cosa fanno? A un certo punto, dato che si stanno anche occupando dell'insabbiamento delle indagini di De Magistris perché l'ipotesi d'accusa è che sia stato privato delle sue indagini perché venissero date a colleghi più malleabili, i quali con i soliti giochi di prestigio, stralci, archiviazioni, parcellizzazione del materiale alla fine hanno insabbiato tutto.

Voi sapete che a De Magistris l'indagine Poseidone sui depuratori l'ha tolta il suo capo, non appena ha indagato l'On. Pittelli di Forza Italia.

Pittelli è anche l'avvocato del procuratore capo, amico del procuratore capo dell'epoca, Lombardi, il quale ha una seconda moglie che ha un figlio da un altro uomo.

Il figlio della seconda moglie di Lombardi è socio in affari dell'On. Pittelli.

Possibile che il procuratore capo tolga a De Magistris l'indagine appena indaga Pittelli che è socio del figlio della sua convivente?

Questo, per esempio, è il primo caso scandaloso.

Secondo caso: non appena viene indagato Mastella, il procuratore generale Dolcino Favi, facente funzioni perché lui era l'avvocato generale dello Stato, toglie a De Magistris anche l'indagine Why Not, dove sono indagati Prodi, Mastella, Saladino e gli altri.

Con quale argomento?

Dicendo che dato che Mastella gli ha mandato gli ispettori e poi ha chiesto al CSM di trasferirlo, allora De Magistris non può indagare su Mastella perché vuol dire che ce l'ha con lui, è in conflitto di interessi.

In realtà è troppo comodo: è un po' come sostenere che nella favola del lupo e dell'agnello ha ragione il lupo, che sta a monte e accusa l'agnello di intorbidargli l'acqua a valle.

Lì non era Mastella vittima di De Magistris, era De Magistris vittima di Mastella.

Non è che De Magistris ce l'aveva con Mastella, era Mastella che ce l'aveva con De Magistris perché stava lavorando su di lui e quindi ha chiesto di trasferirlo prima di essere indagato.

Poi De Magistris l'ha indagato e il procuratore generale gli ha detto che non poteva indagare perché ce l'hai con Mastella!

Il ribaltamento totale della logica.

Tolta anche l'indagine Why Not, gli restava toghe lucane sul malaffare politico-affaristico-giudiziario in Basilicata, dirompente anche questa perché è un'indagine che coinvolge addirittura un ex big del CSM, cioè l'On. Bucicco, sindaco di Matera, parlamentare di AN, un avvocato importante.

Anche lui indagato.

Quell'indagine, toghe lucane, insieme al fatto che coinvolge un sacco di magistrati della Basilicata, De Magistris riesce a portarla a termine ma non proprio fino alla fine.

Quando lo trasferiscono da Catanzaro a Napoli, ormai l'inchiesta è finita e allora fa gli avvisi di chiusura delle indagini, cioè avvisa gli indagati che le indagini sono finite e hanno venti giorni di tempo per chiedere un supplemento istruttorio.

Dopodiché, farà le richieste di rinvio a giudizio e chiuderà il suo lavoro in quell'indagine.

Bene, gli impediscono anche di fare quei venti giorni per poter scrivere le richieste di rinvio a giudizio.

Lo cacciano da Catanzaro, fisicamente, un attimo prima che lui sia riuscito a scrivere le richieste di rinvio a giudizio.

Nessuna, quindi, delle tre indagini clamorose si è conclusa con la firma di De Magistris.

Perché dico questo? Perché il CSM sapeva che i magistrati stavano scoprendo che queste indagini gli erano state tolte per brutti fini.

Sapeva che secondo la procura di Salerno competente, aveva ragione De Magistris e torto i suoi avversari.

Sapeva soprattutto, il CSM, perché la procura di Salerno lo informava, che da mesi la procura di Salerno stava chiedendo a quella di Catanzaro la copia degli atti delle indagini Why Not sulla quale si stava, appunto, indagando per verificarne l'eventuale insabbiamento.

Una volta l'hanno chiesta, due volte, tre, quattro... sette volte la procura di Catanzaro rifiuta a quella di Salerno l'invio delle copie di questa indagine.

Ecco perché l'altro giorno c'è stato il blitz: perché quelli di Salerno, che ormai aspettavano da quasi un anno quegli atti e se li vedevano negare illegalmente - non puoi rifiutarti di esibire un atto che un magistrato competente ti chiede - sono andati a prenderseli.

Con la polizia giudiziaria sono andati lì, hanno spazzolato tutto ciò che c'era nelle cassaforti, cassetti, uffici e anche nelle abitazioni.

Nei computer privati dei magistrati.

Dice: "ma uno è stato denudato".

A parte che quelli di Salerno dicono che non è vero, ma in ogni caso se uno è in pigiama e si cerca un pen drive e non lo si trova, per evitare che se lo sia messo nelle mutande è giusto perquisirlo anche corporalmente, è una cosa che succede a chiunque venga perquisito quando si cerca non un transatlantico ma un temperino!

I magistrati sono soggetti alla legge come tutti gli altri.

Quello era un magistrato indagato, quello che è stato forse perquisito anche nel pigiama.

Se gli davano le carte, non andavano a prenderle. Non gliele hanno date: sono andati a prendersele.

Illegalmente? No, con un provvedimento di sequestro perfettamente motivato.

Sono 1700 pagine. Se qualcuno ha voglia di farsi un'idea precisa su questo caso, gli suggerisco di perdere una giornata e di leggersi almeno le parti sottolineate di questo decreto di perquisizione, che è rintracciabile sul blog di Carlo Vulpio, giornalista valoroso del Corriere - che infatti non viene più fatto scrivere su questa storia, carlovulpio.it, e sul nostro www.voglioscendere.it.

Se la leggete scoprite un sacco di cose scandalose, delle quali i giornali, salvo rare eccezioni, non parlano.

Perché parlano di guerra fra procure, che non esiste.

Salerno legittimamente va a prendersi le carte e a fare le perquisizioni, è competente.

Catanzaro fa una cosa che non potrebbe fare: il procuratore generale di Catanzaro se ne va in TV a dire che l'atto di Salerno è eversivo e in realtà compie lui un atto che se non è eversivo sicuramente è poco regolare.

Perché incrimina lui i colleghi di Salerno che lo hanno incriminato, come se fosse competente lui!

A parte che lui è un procuratore generale e non può indagare, può farlo il procuratore capo.

Ma soprattutto lui è procuratore generale di Catanzaro e i reati di Salerno li valuta Napoli, quindi se voleva denunciare dei reati di Salerno doveva fare un esposto a Napoli.

Poi se sei parte in causa, addirittura indagato, come puoi pensare di indagare sui tuoi indagatori!

C'è un conflitto di interessi clamoroso, e infatti per legge chi è parte in causa, da magistrato, deve astenersi in un processo.

Non c'è una guerra fra due cattivi: c'è un atto legittimo e doveroso della procura di Salerno al quale si risponde con atti abusivi e abnormi da parte di quella di Catanzaro.

E' questa che viene definita la guerra fra procure, perché bisogna fare pari e patta.

Allora come si fa a controbilanciare l'abominio di quello che ha fatto Catanzaro? Bisogna addebitare qualcosa a Salerno.

E dato che Salerno non ha fanno nulla di male, ecco che ci si inventa il fatto che li hanno fatti denudare, anche se non è vero - c'è stata forse una perquisizione corporale di un indagato in pigiama, visto che erano le 7 del mattino -, si inventa che sarebbe abnorme il decreto di sequestro degli atti solo perché è di 170 pagine.

Perché, c'è una legge che stabilisce quante pagine deve avere un decreto?

Se ne facevano due, di pagine, avrebbero detto "son due paginette, non c'è niente, è tutto campato per aria".

Se lo motivi bene, con 1700 pagine, non va bene lo stesso.

E poi dicono: "sono andati a sequestrare l'originale di un fascicolo giudiziario in corso, bloccando l'attività di indagine".

A parte che languivano per conto loro da mesi, da quando le avevano tolte a De Magistris, ma è chiaro che il sequestro serviva a fare le fotocopie, cioè ad avere quella copia che Catanzaro non aveva mai mandato.

Non è che bloccavano per sempre le indagini.

Bene, per queste quisquilie il Capo dello Stato ha addirittura chiesto gli atti dell'indagine a Salerno, prima di fare lo stesso con Catanzaro.

Come se Salerno dovesse rendere conto al Capo dello Stato di quello che fa.

Questo sì è un atto inaudito, mai visto, mai sentito: il Capo dello Stato che chiede degli atti a una procura.

Come si deve sentire un magistrato di Salerno se il Capo dello Stato gli chiede gli atti quando lui sta facendo semplicemente il suo mestiere, il suo dovere previsto dalla legge?

Apoteosi finale: il CSM nel giro di 24 ore - non so come abbiano fatto a leggersi 1700 pagine in 24 ore, io ci sto provando da giorni e ancora non sono riuscito a finire - valuta il tutto con la rapidità della luce e propone al plenum di trasferire sia il procuratore generale di Catanzaro, quello che ha detto che i suoi colleghi erano eversori, sia quello di Salerno che ha fatto semplicemente il suo dovere!

Pari e patta, guerra fra procure.

Ecco perché i giornali e i politici hanno detto "guerra fra procure", perché dovevano coprire un atto incredibile come quello commesso dal Capo dello Stato, mai visto, e uno altrettanto incredibile fatto dal CSM.

Facciamo finta che De Magistris abbia torto, che abbia sbagliato tutto, che sia un incapace come ci viene raccontato.

Allora, per quale motivo non si lascia che concluda le sue indagini?

E non si lascia che Salerno, competente su quella faccenda, concluda le sue?

Se è un incapace e viene sempre smentito dai giudici, dai GIP, dai tribunali del riesame, lasciate che finisca le sue indagini, che finisca davanti a un GIP o a un riesame che gliele bocci.

Così fa brutta figura De Magistris!

Perché, invece, gliele tolgono sempre prima in modo da consentirgli di dire che gliele hanno impedite di concludere?

Allora vuol dire che hanno paura che non sia così incapace. Hanno paura che abbia scoperto delle cose molto gravi, altrimenti se uno deve andare a sbattere lascialo andare a sbattere, no?

Allo stesso modo, se ha torto, si lasci che concluda la procura di Salerno. Se poi la procura di Salerno ha a sua volta torto, ci sarà un GIP, un tribunale del riesame, un tribunale normale, una corte d'appello, una Cassazione che darà torno a Salerno.

Perché impedire a Salerno di andare avanti con questi atti violenti, trasferimento del capo, ispezioni ministeriali del solito Alfano, avvertimenti strani del Capo dello Stato, CSM scatenato, politici e giornali pure?

Viene persino il dubbio che loro l'abbiano capito chi aveva ragione e chi aveva torto.

Però devono continuare a raccontarci che sono tutti uguali, che c'è una guerra fra bande così hanno la scusa per mettere le mani sulla giustizia.

Una volta si pensava alla Berlusconi che le mani sulla giustizia le potesse mettere la politica contro il volere della magistratura, adesso si sta cercando di coinvolgere una parte, la peggiore, della magistratura, il peggior CSM che si sia mai visto, e un Capo dello Stato che sicuramente non sta brillando per le sue funzioni di garanzia, proprio perché collaborino tutti quanti alla normalizzazione di quei pochi magistrati e quelle poche procure che ancora fanno il loro dovere senza guardare in faccia a nessuno.

Per fortuna la verità è più forte di qualunque pressione, per cui chiusa una porta esce dalla finestra, chiusa la finestra la verità rompe il vetro.

Quindi, chi pensava di archiviare il caso De Magistris e quello collegato della Forleo, adesso è di nuovo preoccupato perché cacciati i due magistrati, la verità sta tornando fuori più prepotente che mai.

Per chi la vuole conoscere fino in fondo suggerisco, per Natale, dei libri: Roba Nostra di Carlo Vulpio, pubblicato da Il Saggiatore; Il caso De Magistris, di Antonio Massari pubblicato da Aliberti; Il caso Forleo, sempre di Antonio Massari pubblicato sempre da Aliberti.

Poi c'è il nostro vecchio Toghe Rotte di Bruno Tinti, che spiega i meccanismi, e c'è il nostro Mani Sporche dove c'è l'inizio del caso De Magistris. Poi tutti gli sviluppi li trovate in un libro che sta per uscire, Per chi suona la banana, pubblicato per Garzanti, che raccoglie gli articoli che ho dedicato anche a questi casi sull'Unità.

Vi saluto e come al solito, dopo la lettura, passate parola!"

MASSONI. QUEGLI UOMINI IN NERO NASCOSTI TRA POLITICA, MAGISTRATURA ED AFFARI.

La massoneria? «Conta davvero molto più di quanto si immagini». Parola di Cesare Geronzi, ultimo "banchiere di sistema", tranne il superstite Giovanni Bazoli. E se allora si provasse a ribaltare la vulgata che vuole la politica unica responsabile dello scandalo del Monte dei Paschi di Siena e si guardasse un po' più nel capitalismo feudal-relazionale percorso da solidi intrecci di esoterismo massonico, che può tingersi di rosso e anche di bianco? Si chiede Alberto Statera su “La Repubblica”. Nessuno negherà che a Siena la rossa la politica sceglie da sempre attraverso la Fondazione i manager del Monte. Ma chi è il Leone e chi la Volpe, la politica o l'economia? Il Centauro che combina insieme forza e astuzia a Siena ha un timbro platealmente iniziatico persino nella toponomastica. Ma è in tutta l' Italia senza borghesia e con pochi princìpi che si annodano in nome del potere e del denaro legami e solidarietà trasversali. Tra l'alta burocrazia e la finanza, tra gli alti gradi delle forze armate e l'università, tra i servizi segreti e le grandi imprese, tra i gabinetti ministeriali, i tribunali amministrativi, naturalmente la politica e persino le sacre stanze vaticane. Racconta Geronzi, campione per un trentennio dei poteri trasversali nelle memorie consegnate a Massimo Mucchetti: «Una volta andai a trovare nel suo nuovo ufficio in Vaticano un importante prelato che era appena stato elevato alla porpora cardinalizia. Nell'avvicinarmi alla sua scrivania rimasi di sale. Sul montante lungo era applicato un tondo che recava in bassorilievo i simboli massonici». Curioso, peraltro, lo stupore dell'ex banchiere "di sistema" visto che il suo sodale Gianni Letta è il trait d'union tra chiesa, Opus Dei e massoneria, ruolo che per tre lustri ha svolto con passione da Palazzo Chigi e che ha continuato a svolgere imponendo alcuni catto-massoni nel governo di Mario Monti. Il quale ha dovuto smentire la sua affiliazione: «Non sono massone e non so neanche bene cosa sia la massoneria». Sarebbe un torto all'intelligenza credere che davvero il presidente del Consiglio, ex presidente della Bocconi, ex commissario europeo e grande consulente della finanza internazionale da decenni, frequentatore di tutti i consessi del potere mondiale, a cominciare da Bilderberg, non sappia che cos'è la massoneria. Ma il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi si era forse spinto un po' troppo oltre quando aveva dichiarato: «Mario Monti è un gran galantuomo, potenzialmente ha tutte le carte in regola per essere un ottimo fratello». Il Grande Oriente d' Italia, 22 mila fratelli e 762 logge, centinaia di "bussanti" che per entrare devono attendere i passaggi di fratelli anziani all' Oriente eterno è la maggiore "obbedienza" italiana, ma tante altre, regolari e irregolari, pullulano quasi sempre in lotta tra loro, dilaniate da lotte intestine, travolte dall'indebolimento del "fondamento iniziatico" e dalla "profanizzazione". Raffi, avvocato ravennate con antichi rapporti professionali col Monte dei Paschi di Siena, Gran Maestro da quattordici anni, è al centro di una combattiva opposizione interna, che ha portato alla costituzione di una sorta di corrente, come nei partiti politici, denominata Grande Oriente d'Italia Democratico. Per accrescere il suo prestigio, vorrebbe parlare inglese perché la Gran Loggia Unita d' Inghilterra, è la madre di tutte le massonerie mondiali. Ma non può perché il Grande Oriente d'Italia non è più riconosciuto da Londra. Fu espulso per volontà del duca di Kent dopo l'ultima scissione del 1993, dodici anni dopo lo scandalo della P2 di Licio Gelli, quando il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo fondò la Gran Loggia Regolare d' Italia, invocando la revoca del riconoscimento al GOI e ottenendolo per sé. Non contento, ha fondato anche l'Accademia degli Illuminati, che si richiama agli Illuminati di Baviera e si riunisce una volta l'anno a Roma. Trai suoi adepti, Di Bernardo colloca più o meno esplicitamente, come ha confessato al giornalista Ferruccio Pinotti, anche il presidente di Intesa San Paolo Giovanni Bazoli, oltre a Vincenzo De Bustis, il banchiere considerato vicino a D'Alema che portò al Monte dei Paschi per un prezzo considerato allora esorbitante la Banca del Salento. E poi ancora Carlo Freccero, ex Fininvest e poi Rai, Rubens Esposito degli Affari legali Rai, Sergio Bindi, ex consigliere Rai e antico portaborse del democristiano Flaminio Piccoli, Severino Antinori, specialista della fecondazione assistita, il filosofo Vittorio Mathieu, il generale Bartolomeo Lombardo, ex Sismi. Banche, informazione, medicina, cultura, Servizi segreti, non manca niente. Ma la Rai sembra un luogo privilegiato di coltura della massoneria se è vero, come testimonia il professor Aldo Mola, che a un certo punto al Grande Oriente giunse in dote una Loggia coperta, retta dal Venerabile Giorgio Ciarocca, di cui facevano parte Cesare Merzagora, Eugenio Cefis, Giuseppe Arcaini dell'Italcasse, nonché Guido Carli, Enrico Cuccia, Raffaele Ursini, Michele Sindona e Ettore Bernabei, notoriamente soprannumerario dell'Opus Dei. Anche la Gran Loggia d' Italia, obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, al contrario di Di Bernardo, non gode di buona reputazione a Londra perché il 30 per cento dei fratelli sono sorelle, unica obbedienza tra le grandi famiglie massoniche italiane che ammette la presenza femminile, trascurando la tradizione britannica che concepisce invece la massoneria come un club esclusivamente maschile. «Certo - spiega Alessandro Meluzzi, ex deputato di Forza Italia, massone, ma anche diacono della comunità di Pierino Gelmini - la Loggia implica un' iniziazione solare, mentre le donne rappresentano la metà lunare del cielo, le stelle d' oriente e non di occidente». «L' idiota religione massonica è roba da diciottesimo secolo», disse Benedetto Croce. E in certi casi come dargli torto? Ma è possibile che grandi banchieri e uomini d' affari misurino le loro mosse sui binari dell' ortodossia massonica? È escluso, ma non è affatto escluso che utilizzino per i loro scopi più o meno commendevoli la miriade di confraternite del potere che impiombano questo paese. Di certo «non è vero che tutti i massoni sono delinquenti, ma non ho mai conosciuto un delinquente che non fosse anche un massone», disse il massone Felice Cavallotti prima di essere ucciso in duello da un suo fratello massone.

MASSONERIA: GLI INSOLITI NOTI CHE SONO IN MEZZO A NOI.

E' ricomparso in questi giorni su Repubblica.it il personaggio di una gag televisiva de "Il caso Scafroglia", il fortunato programma tv di Corrado Guzzanti. Era il lontano 2002 e Guzzanti impersonava il "massone", un incappucciato nero con tanto di compassi e squadre, che si esprimeva in uno sgrammaticato napoletano, che ammetteva cose indicibili, quali quella di essere a un passo dal regime, ieri, in Italia, e negava cose scontate, quali la tendenza del nuovo sistema informativo a ... disinformare, appunto. Così  scrive Francesco Specchio su “Eco Costiera”. Oggi viene usato, il personaggio, per contribuire alla battaglia civile contro la cosiddetta legge bavaglio sulle intercettazioni, la legge figlia prediletta dei figli prediletti della massoneria (deviata?) italiana. Una cosa però ce la dobbiamo pur chiedere: come mai, visto che a parlarne possono essere solo i degnissimi eredi della tradizione dei cantastorie medioevali (gli unici minimamente autorizzati a criticare i potenti, seppure sotto la forma dello sberleffo), a tenere costantemente il bavaglio sono tutti gli altri, giornalisti compresi, intorno a fatti, progetti, persone, alleanze, soprattutto vittorie della massoneria italiana? Eppure questi fratelli massoni sono proprio in mezzo a noi, se ne stanno tranquilli, tutte persone per bene (loro), non danno mai nell'occhio, sono noti ma insolitamente poco vistosi, per un'Italia rumorosa ed appariscente. Se poi decidono di delegare qualcuno a rappresentarli pubblicamente, lo scelgono tra i più irrefrenabili, tra i meno affidabili in fatto di riservatezza, e, dopo averlo messo in sonno, si dice così tra di loro, lo tengono lì come un burattino, prigioniero del silenzio, e della trama dei loro interessi indescrivibili. Il prode Mussolini fece approvare una legge contro di loro, che però sarebbe servita contro gli anti-fascisti, e a sbugiardarlo in aula, a Montecitorio, in una delle ultime sedute vere, fu proprio Antonio Gramsci, indicando l'autentico obiettivo-bersaglio di quella legge, e sostenendo che l'autentico partito della borghesia, appunto la massoneria, avrebbe provveduto a cooptarli, lui ed i suoi accoliti fascisti, e ad usarli a dovere. Così come in effetti avvenne. Ma furono bravi, i fratelli massoni italiani, anche a nascondere i rinnovati legami instaurati dalle nuove autorità italiane con le potentissime logge nordamericane, già con la liberazione della Sicilia da parte delle prime truppe alleate, Non riuscì altrettanto bene per i contatti, comprovati storicamente già dopo una decina di anni, tra i servizi segreti alleati e la mafia siciliana: eppure in quel caso l'attitudine alla segretezza sarebbe dovuta essere totale. No, la mafia non è altrettanto brava dei fratelli cattivi, da sempre, tanto è vero che oggi a squarciare il velo della ignobile trattativa tra lo stato repubblicano e la mafia stessa, quella che fu anticipata, accompagnata e chiusa dalle stragi del '92, hanno provveduto adepti dell'organizzazione criminale siciliana, mentre quelli che l'avevano ordita, la trama, e l'avevano chiuso, l'accordo politico, sulla pelle di Borsellino, continuano a starsene zitti e, non tanto oggi, tranquilli, coperti non dai loro grembiulini, ma dai loro ermellini, dalle loro scrivanie ultra-accessoriate (soprattutto di apparecchiature elettroniche), dai loro intrecci inestricabili, e poi dai loro palazzi romani. In altri Paesi la massoneria esaurisce l'intero sistema politico, come succede in Argentina, dove spazia dalla destra fascista alla sinistra guerrigliera (quella che furono i montoneros), ma lo fa apertamente, persino quando organizza un colpo di stato militare, con i suoi generali felloni e sanguinari. Negli Stati Uniti è lo stesso sistema istituzionale ad essere pervaso dai suoi miti, dal suo spirito, dalle sue stesse leggi, eppure anche lì è quasi tutto pubblico, fino al punto di conoscere la loggia a cui è iscritto l'ultimo, il più atipico, il nero, il progressista Obama. E se no, come avrebbe potuto anche sognare la presidenza USA? Da noi no, deve rimanere tutto segreto, o poco credibile, o fantasioso. Chi ne parla, nelle riunioni politiche, quelle dei consessi democratici, ovviamente, si vede attribuire giudizi che oscillano tra il folle visionario e il fissato un pò romantico. Mai che si accetti di discutere dei fatti, e delle relative responsabilità, si incomincia sempre a parlare di altro, un altro meno scomodo. In Italia la massoneria sembra essere tutto un sogno, e così continua ad essere l'incubo della democrazia. Su quanto sta emergendo, del patto scellerato stato-massoneria, era già tutto scritto, in ultimo nel ponderoso libro Il caso Genchi, tutto: fatti, date, personaggi, eppure era Genchi, o chi prima di lui, ad essere il pazzo. Sul fatto che la P2 non si fosse mai sciolta lo aveva affermato e preventivato la lungimirante Tina Anselmi (partigiana, madre della Repubblica e sua leale servitrice), nel suo ruolo di coraggiosa Presidente della Commissione parlamentare sulla P2. Ma allora c'era un Presidente della Repubblica vero, un altro partigiano avvezzo alle battaglie a viso aperto, anche contro i poteri occulti, i più pericolosi. Da quanto oggi si viene a sapere della cricca, una delle tante camere stagne della rinnovata P2, si riscopre un personaggio singolare, un po' defilato, ma pur sempre un sottosegretario del Governo nazionale, che, si badi bene, venne ampiamente citato e sanzionato sia nella relazione di maggioranza (Anselmi), che in quella di minoranza (Matteoli, si, proprio lui, allora esponente di AN, antimassone, e oggi folgorato sulla via dei governi Berlusconi), indicato dalla Commissione come il "messaggero" della P2. E che dire dei rapporti ormai comprovati tra le compagnie religiose della Lombardia e le massonerie-"ndranghete della lontana Calabria: tutto già scritto, già analizzato da Cordova prima e da De Magistris poi. Per entrambi e per loro inchieste uguale responso: pazzi loro e fantasie irresponsabili agli atti. Volendo seguire le successive esperienze partenopee del Procuratore Cordova, verremmo pure a scoprire che anche lì diventò improvvisamente scomodo, anche per i salotti democratici e progressisti della città, che pure in un primo tempo lo avevano osannato, non appena incominciò a lavorare su alcune collusioni in grembiulino. Non era cambiato lui; erano cambiati, o si erano scoperti i frequentatori dei salotti.

Insomma in Italia, non appena qualcuno sparla, o anche solo parla di massoneria, cade in disgrazia.

Qualche volta succede che, come da tutte le chiese, si conceda la dispensa. Ed è successo, questo evento, per una giornalista televisiva, cui è spettato il compito, professionale, sia chiaro, di lasciar trasparire, anzi far apparire l'immagine della buona massoneria, o l'immagine buona della massoneria, questo onestamente non lo sapremmo dire. Fatto sta che da una parte ci sono nobili parole, e nobili dichiarazioni di principio, antenati illustri e fulgidi esempi di rettitudine ed eroismo, passati, elenchi specchiati e specchiabili, oggi, dall'altra parte c'è tutt'altro. Ora, è vero che la massoneria italiana se l'è dovuta vedere, storicamente, non solo con sovrani e principi, reazionari e retrivi, ma anche con papi e cardinali, scaltri e disincantati, nonchè sanguinari (essendo pur vero, sempre storicamente, l'intreccio e il reciproco inquinamento tra le due chiese), ma quanto ancora e per quanto tempo dovrà pagare, questo nostro Paese, per colpe sicuramente non attribuibili al suo popolo?

Forse è proprio venuto il tempo che questo popolo conquisti il diritto a sapere. A sapere sulle sue sorti passate, e quindi sul suo torbido presente.

Come tutti i diritti, il diritto a sapere va però conquistato, sul campo della battaglia politica democratica. Ho sempre considerato la massoneria un mondo a me estraneo, spiega Roberto Galullo. Non per altro: in democrazia mi sembrano paradossali e buffi i vincoli di segretezza e fratellanza che talvolta degenerano in patti esclusivi per affari e prodigiose scalate al potere. Potere tout court da girare e rigirare tra “fratelli” in ogni settore, talvolta a scapito dei migliori. O degenerano in ben altro: ricordate lo scandalo P2? Di massoni sono pieni le banche, i partiti (tutti), il Parlamento, le assemblee elettive, i vertici ministeriali, la Rai, i media televisivi, i giornali e poi ci sono giudici, prefetti, professori universitari, avvocati, commercialisti, gli ordini professionali, le associazioni, le imprese, la sanità, il mondo dello spettacolo e tutto quanto fa classe sociale: esclusiva e spesso intoccabile. E la Chiesa? Beh, lasciamo perdere…Ora direte, cari amici di blog, perché ce ne parli proprio ora. Chissenefrega dei massoni te lo ha mai detto nessuno? E come no! Soprattutto i massoni che conosco ma che non sanno che io so…E si, perché la segretezza (che poi viene violata se a saperlo sono già in due e nelle logge due non sono mai) è sacra: perché poi? Se non c’è da vergognarsi escano allo scoperto… Come ho fatto io, quando esattamente 16 anni fa fui avvicinato da un conoscente, alto dirigente (ancora oggi) di un’importantissima associazione che mi voleva far conoscere le meraviglie della fratellanza. Io, che un fratello già ce l’ho, ed è un capitano dell’Esercito (a proposito, le Forze dell’Ordine sono zeppe di massoni) ho risposto picche. “Ma ti aiuta nella carriera” mi disse. E chissenefrega risposi. Punto e a capo (per fortuna sono stato apprezzato lo stesso e di questo ringrazio il mio attuale gruppo editoriale che, cambiando manager e direttori, non ha mai cambiato atteggiamento nei miei confronti). I motivi per cui ne scrivo ora sono tanti. Il mensile la “Voce delle Voci” della “Voce della Campania”, ha appena finito di (ri)pubblicare un elenco sterminato di oltre 26mila massoni iscritti alle logge ufficiali. Sarà forse per questo che il 3 dicembre il suo sito è stato devastato dagli hacker? Comunque le liste pubblicate mi sembrano – lo dico sinceramente – ampiamente incomplete e datate, forse datatissime: alcuni risultano ancora iscritti come impiegati della Sip. Chi di voi si ricorda cos è la Sip? Ve lo dico io: la vecchia compagnia telefonica di Stato, sì quella dei telefoni con il dito da infilare nei buchi per girare la ghiera e comporre i numeri. Ah, bei vecchi tempi andati. Bene, quella lista mi ha sorpreso non tanto perché vi ho ritrovato persone che conosco (e che, sarà un puro caso, hanno fatto carriera nelle loro professioni anche se secondo me avrebbero meritato di essere cancellate dalla vita lavorativa) ma soprattutto per le persone che “non” ho trovato, compreso quel mio conoscente che voleva farmi indossare un grembiulino (ma vi pare! un grembiulino, come alla scuola materna, suvvia!). Non saranno massoni allora, penserete voi. Beata ingenuità: mai sentito parlare di logge coperte? E veniamo a noi (non nel senso fascista del termine). La massoneria mai come adesso va di gran moda. Un successone “venerabile”. Per chi volesse fare due conti vi elenco una serie di episodi su cui riflettere. Alla fine le somme le tirerete voi. Partiamo da Sanremo, dove martedì 9 dicembre 2008 il Casinò ospiterà nei “martedì letterari” Licio Gelli, il Venerabile, che presenterà un libro sulla P2 (è un suo diritto, lo premetto, siamo in democrazia). “Dal 1983 – scrivo riportando testualmente quel che compare nel sito del Casinò - in oltre venti anni di vita i martedì letterari hanno ospitato più di mille scrittori di caratura nazionale e internazionale. Si è spaziato dai temi filosofici a quelli scientifici, da quelli religiosi agli argomenti storici”. Ecco, ora conosciamo i motivi dell’invito: la caratura nazionale e internazionale dello scrittore Gelli, accolto in un’elite di mille, non a caso come quelli di Giuseppe Garibaldi (Gran Maestro massone, ma altra epoca). Gelli – che scrive, compare in tv e richiama ancora oggi folle come un tempo, chissà perché - parla con tutti tranne che con i magistrati, come i pm della Dda di Palermo Roberto Scarpinato, Fernando Asaro e Paolo Guido che il 4 novembre sono partiti di Palermo e sono arrivati ad Arezzo (nella sua residenza Villa Wanda) per interrogarlo sull’intreccio tra Cosa Nostra e massoneria. Il Venerabile si è avvalso della facoltà di non rispondere. La gola e l’ugola, evidentemente, vanno preservate per le occasioni pubbliche. Ebbene – a parte qualche pasdaran ligure e alcune associazioni che lo aspetteranno al varco davanti al Casinò – pochissimi hanno notato l’appuntamento e lo hanno criticato (nel bene e nel male). Magari per chiedergli conto del perchè il Venerabile-scrittore non risponde ai magistrati. O meglio: il Pd imperiese ha stigmatizzato l’episodio ma il giorno in cui Gelli visiterà il Casinò per parlare alle folle, a Sanremo gli amministratori locali del Pd invece che darsi appuntamento davanti al Casinò saranno chiamati alle 21 presso il Centro Melograno (raccomandata la puntualità, come si legge sul sito del Pd di Imperia) a dibattere su un ordine del giorno che prevede la “problematica rifiuti” (manco fossero in Campania) e la conferenza programmatica provinciale. Vitale! Prima però, alle 18, tutti nella sede di Arma di Taggia per discutere del tesseramento. Impegnati! Quando la situazione stava scappando di mano a molti, il Consiglio Provinciale di Imperia nella seduta di martedì 25 novembre ha dato mandato al presidente Gianni Giuliano di esprimere al Presidente del Casinò di Sanremo, di cui la Provincia è azionista di minoranza, le perplessità del Consiglio sull'invito a Licio Gelli per i "martedì letterari". Il dibattito si è aperto in seguito ad una richiesta dei consiglieri Giovanni Trucco di Sinistra Democratica e Sergio Scibilia del Partito Democratico, alla quale hanno aderito gli altri consiglieri di minoranza. Gli altri: partiti, Chiesa e società civile, zitti e mosca. Ma forse è per questo che – secondo la classifica sulla felicità pubblicata dal mio giornale il 17 dicembre 2007 – gli imperiesi sono i più felici in Italia! Toda gioia toda beleza!

Da Imperia a Catanzaro c’è un bel viaggio (soprattutto da Salerno in avanti e non solo per l’autostrada) ma noi atterriamo subito in Calabria. Bene bene bene. Avete presente Luigi De Magistris, il magistrato a cui hanno avocato l’inchiesta sulla cupola affaristico-politico-mafiosa-massonica? Bene, quando lo intervistai oltre un anno fa a Catanzaro, mi disse una cosa che non scrissi per il quotidiano del quale sono inviato, il Sole-24 Ore, perché era un’accusa vaga. Ora non più e assume un altro sapore, che vi invito a gustare. “I massoni – mi confidò – nella Procura di Catanzaro e non solo, sono sopra, sotto, a destra e a sinistra”. Non fece nomi anche se lo invitai a farli – allora sì che sarebbe diventato interessante scriverlo - ma nisba. Certo che quel “sopra” a mio giudizio parla chiaro ma oltre non vado, lo lascio alla vostra immaginazione, così come si va forse corroborando da quello che sta accadendo in queste ore sull’“autostrada politico-mafioso-affaristico-massonico” Salerno-Catanzaro (strano, nessun magistrato della Procura di Catanzaro è presente nelle logge ufficiali i cui nomi sono stati pubblicati dalla “Voce delle Voci”). E ora andiamo alle dichiarazioni di due personaggi agli antipodi: il giudice Clementina Forleo e Angela Napoli. «Avevo capito – si legge nel libro-intervista a Forleo “Un giudice contro", appena editato da Aliberti e scritto da Antonio Massari - che il nervo scoperto non erano tanto le inchieste Why Not e Poseidone, quanto quella sulle Toghe Lucane, che apriva uno squarcio sui malanni del terzo potere dello Stato, il potere giudiziario. De Magistris, a mio avviso, a prescindere dai singoli indagati in Toghe Lucane, stava affondando le mani in un contesto ben preciso: le infiltrazioni nella masso-mafia meridionale, ed era incappato in magistrati che rivestivano ruoli direttivi (...)”. Chiaro? E ora veniamo all’onorevole Angela Napoli, fuggita da An e membro della Commissione parlamentare antimafia. In un’intervista rilasciata il 3 dicembre a Traiano Bertolini dell’”Opinione”, giornale diretto da Arturo Diaconale, si legge tra l’altro:

Onorevole Napoli quale idea si è fatta della gestione politica nella sua regione?

«Lo scenario attuale e la materia delle inchieste in corso confermano la validità degli allarmi che ho lanciato a più riprese in merito al connubio esistente in Calabria tra mondo criminale, in particolare 'ndrangheta, mondo politico ed imprenditoriale. Non dobbiamo sottovalutare nel contempo anche l'importanza della massoneria deviata, che ha contribuito a confondere e ad insabbiare le attività illegali esistenti nella regione, rendendo difficile l'attività investigativa e il normale corso delle inchieste della magistratura.»

Perché fa riferimento alla massoneria deviata?

«La massoneria deviata è al vertice assoluto in Calabria. E' ormai comprovato che uomini delle principali cosche della 'ndrangheta, ripuliti ed in possesso di un titolo di studio, i cosiddetti colletti bianchi, si sono infiltrati nella massoneria e le inchieste, come "Why not", seppur frammentate in diversi filoni ed in diverse procure, stanno facendo emergere un sistema di collusioni e di malaffare, che è alla base del mancato sviluppo della regione»”.

Ora è chiaro l’incrocio tra massoneria (deviata, per carità, ed è sacrosanto riconoscerlo) e quello che sta accadendo in tutta Italia, a partire dalla Calabria? No, e allora proviamo a fare un altro ragionamento sui fratelli massoni calabresi. Sapete chi c’è nell’elenco degli iscritti calabresi alla massoneria così come riportato dalla “Voce delle Voci”? Vittorio Zupo. E chi è? direte voi. Calma: è un commercialista cosentino, bocciato nel ’94 alle elezioni politiche per il Senato dove si presentava nel centro-destra, che cura gli affari di una grande fetta del mondo imprenditoriale calabrese. E che, insieme a F.I., altro commercialista (quest’ultimo indagato proprio nell’inchiesta Why Not ma poi la sua posizione è stata archiviata nel corso delle indagini preliminari a distanza di circa due anni) e Vincenzo Gatto (fratello di Tonino Gatto, presidente della Despar, da una vita sotto i riflettori dei magistrati antimafia), l’11 agosto ‘99 figurava nel cda di G.H.N. S.A., Soci.t. Anonyme. Siege social: L-2449 Luxembourg, 26, boulevard Royal. R. C. Luxembourg B 54.579, società anomima lussemburghese. Per carità, questo non vuol dire nulla, non è un reato (anche se su molte cose la magistratura continua a indagare). A me – semplicemente - tutto ciò che suona di segretezza, fratellanza, anonimato, mi suona strano ed estraneo. Chissà perché poi, ci trovo radici comuni che non sono e non saranno mai le mie.

Le inchieste "Why Not", "Poseidone" e "Toghe Lucane", dovevano essere fermate ad ogni costo, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. I personaggi a vario titolo coinvolti, erano "eccellenti" e "potenti". C'erano politici, massoni, magistrati, imprenditori in odor di mafia e tanto altro. E su tutto questo ci fu anche il "silenzio" del presidente della Repubblica Napolitano, "nonostante avessi pubblicamente auspicato un suo intervento". Queste le accuse che il pm Luigi De Magistris, titolare di quelle inchieste ha consegnato ai colleghi di Salerno in numerosi interrogatori. "Le indagini "Why Not" - racconta De Magistris ai magistrati di Salerno - stavano ricostruendo l'influenza dei poteri occulti. In particolare si stavano ricostruendo i contatti intrattenuti da Giancarlo Elia Valori, Luigi Bisignani, Franco Bonferroni ed altri e la loro influenza sul mondo bancario ed economico finanziario. Elia Valori pareva risultate, dagli accertamenti preliminari che stavamo svolgendo con la massima riservatezza, ai vertici della massoneria "contemporanea". Elia Valori si è occupato spesso di lavori pubblici. Nel recente passato, agli inizi del 2000 ha trovato anche una sponda rilevante a sinistra, all'interno del governo D'Alema, in Marco Minniti. E si era anche interessato di telefonia, - settore in cui, come poi dirò, si è interessato anche il professor Francesco Delli Priscoli, figlio del pg della Cassazione Mario (che aveva promosso l'azione disciplinare nei confronti di De Magistris ndr). Non posso però non tenere conto dei seguenti elementi, pur se non si volesse mettere in discussione onestà e serenità di giudizio delle persone elencate: sul vice presidente del Csm, Nicola Mancino (che presiede la sezione disciplinare che dovrà giudicarmi) che ha già fatto intendere in una intervista che avrei violato il codice etico della magistratura, del consigliere togato, Fabio Roja, del giudice Luerti attuale presidente dell'Anm che ha stretti rapporti con la Compagnia delle Opere".

MAGISTRATI ED AVVOCATI MASSONI?

Magistrati e avvocati massoni? Dalle intercettazioni pare proprio di sì. Quei magistrati che il Gip di Salerno lascia al loro posto, scrive Franco Venerabile su “L’Indipendente Lucano”. Non ci sarebbe nulla di male, sia beninteso. Lo stesso presidente Napolitano usa esprimere familiari auguri e sentimenti cordiali al Gran Maestro di turno. Ma sarebbe utile capire, avere qualche risposta a questioni che aleggiano da alcuni anni. Almeno dal 2007, da quando, in una telefonata intercettata tra un giornalista di cui il PM Annunziata Cazzetta ed il Gip Angelo Onorati erano all'affannosa ricerca delle fonti, qualcuno disse che Vincenzo Autera (magistrato della Corte d'Appello di Potenza) ed Emilio Nicola Buccico (avvocato materano) erano in forza ad una loggia estera. La fonte, in quel caso, era un appartenente alla Massoneria noto per questa sua legittima adesione, ma nessuno ritenne di approfondire la questione e tutto rimase in un nastro ed in qualche foglio di trascrizione. Sembra che solo a nominarla, la Massoneria crei imbarazzo. Poi, molto poi, si accertò che tutte quelle intercettazioni, Cazzetta ed Onorati le avevano disposte e tenute illecitamente e nel giugno 2012 un giudice stabilì di trasferire il procedimento a Catanzaro. Anche lì, Vincenzo Autera aveva un precedente: indagato per associazione mafiosa dal 2007 al 2009 (ma l'iscrizione originaria, a Firenze, era del 2005), procedimento archiviato. In quei quattro anni, nessuno aveva comunicato l'iscrizione di una ipotesi di reato così grave alla Procura presso la Corte di Cassazione. Il che è gravissimo, pare! Anche Cazzetta era ben nota a Catanzaro, alcune decine di procedimenti la vedevano indagata per reati anche gravissimi. Quasi tutti definiti con archiviazione, alcuni pendenti. Ma tutti senza alcuna attività d'indagine, almeno tutti quelli tenuti dal PM Paolo Petrolo: più che un magistrato inquirente si potrebbe definire un magistrato paragnosta. Tranne che per l'identità degli indagati (se magistrati), che suole iscrivere nell'imminenza della formulazione della richiesta di archiviazione, per il resto i fascicoli appaiono scevri di qualsivoglia attività ma motivati da potenti precognizioni. Significativo il caso in cui si accertò la mancanza di oltre cento faldoni che, secondo il Gip, non avrebbero potuto contenere alcun elemento utile a modificare la decisione di archiviare. Quasi che quegli atti d'indagine che nessuno aveva potuto visionare fossero carta straccia. Che a Catanzaro la preveggenza non sia una virtù, lo si scopre attraverso una recentissima inchiesta della Procura di Salerno. "La 'ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria. Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari", la frase è di un noto boss della 'ndrangheta ed è intercettata dalle microspie dei Carabinieri del ROS di Salerno. Il collante è proprio l'appartenenza alla massoneria. Massone è anche il magistrato /Gip) Giancarlo Bianchi che di favori, secondo la Procura di Salerno, ne distribuisce più d'uno. E qui ritroviamo il PM Paolo Petrolo, parte de "l'ingranaggio" a disposizione della 'ndrangheta. Un sistema di contatti, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. Per questi tre magistrati, il PM di Salerno aveva chiesto l'interdizione: negata! Se fossero stati semplici poliziotti sarebbero stati arrestati ma non tutti nascono col cappuccio. Resta un'ultima domanda, questa al Dr. Paolo Petrolo: scusi, lei è massone?

In ogni città vi è un gruppo di malavitosi comuni, organizzati o meno, che si dedica alle più svariate attività illegali. I componenti fanno capo a ben distinte famiglie-clan criminali, a cui si aggiungono gli affiliati. Fanno notizia e sono perseguiti solo coloro i quali commettono reati di mediatica utilità o contro la sicurezza pubblica: omicidi, rapine, spaccio di droga e per il sol fatto di associarsi.

In ogni città vi è un sistema di potere non meno criminale, organizzato o meno, fatto da stimati insospettabili, che si dedica illegalmente ai destini istituzionali, politici ed economici della comunità. Questa cupola è composta dalle famiglie più note, blasonate e rispettate, che da sempre ricoprono i posti chiave della società. In loco caste, lobby, mafie e massonerie decidono chi e come deve diventare magistrato, avvocato quotato, parlamentare di rango, ecc.. Spesso sono i figli dei notabili del posto a ricoprire gli incarichi dei padri. Per fare ciò serve una rete di connivenze, di servilismo e di omertà. Per ricoprire certi ruoli non serve la raccomandazione: basta il nome. I reati commessi da costoro sono spesso attinenti l’amministrazione della cosa pubblica o l’economia. Essi intaccano le libertà dei cittadini, per questo sono più gravi e più subdoli, ma sono taciuti ed impuniti, essendo gli stessi autori ad occuparsene.

Molte volte tra clan criminali e le cosiddette buone famiglie vi è commistione negli affari, specialmente quando si tratta di spartirsi e gestire i miliardi di euro in opere pubbliche che piovano dai finanziamenti dello Stato e della Comunità europea.

A livello centrale vi è l'oligarchia degli alti burocrati. Secondo Galli della Loggia: Una invisibile supercasta.

Non è vero che il contrario della democrazia sia necessariamente la dittatura. C’è almeno un altro regime: l’oligarchia. E tra i due regimi possono esserci poi varie forme intermedie. Una di queste è quella esistente da qualche tempo in Italia. Dove ci sono da un lato un Parlamento e un governo democratici, i quali formalmente legiferano e dirigono, ma dall’altro un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali. I frequenti casi scoperti negli ultimi anni e nelle ultime settimane hanno aperto squarci inquietanti su tale realtà.

Non si tratta solo dell’alta burocrazia dei ministeri, cioè dei direttori generali. A questi si è andata aggiungendo negli anni una pletora formata da consiglieri di Stato, alti funzionari della presidenza del Consiglio, giudici delle varie magistrature (comprese quelle contabili), dirigenti e membri delle sempre più numerose Authority, e altri consimili, i quali, insieme ai suddetti direttori generali e annidati perlopiù nei gabinetti dei ministri, costituiscono ormai una sorta di vero e proprio governo ombra. Sempre pronti peraltro, come dimostra proprio il caso del governo attuale, a cercare di fare il salto in quello vero.

È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese). Designati dalla politica con un grado altissimo di arbitrarietà, devono in misura decisiva il proprio incarico a qualche forma di contiguità con il loro designatore, alla disponibilità dimostrata verso le sue esigenze, e infine, o soprattutto, alla condiscendenza, all’intrinsichezza — chiamatela come volete — verso gli ambienti e/o gli interessi implicati nel settore che sono chiamati a gestire. Ma una volta in carriera, l’oligarchia — come si è visto dalle biografie rese note dai giornali — si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.

Sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all’altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che possono diventare autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto d’interessi. E che attraverso doppi e tripli stipendi e prebende varie servono a realizzare redditi più che cospicui, a fruire di benefit e di occasioni, ad avere case, privilegi, vacanze, stili di vita da piccoli nababbi.

Se i politici sono la casta, insomma, l’oligarchia burocratico- funzionariale italiana è molto spesso la super casta. La quale prospera obbedendo scrupolosamente alla prima (tranne il caso eccezionale della Banca d’Italia non si ricorda un alto funzionario che si sia mai opposto ai voleri di un ministro), ma facendo soprattutto gli affari propri.

Chi ha cercato di indagare sul sistema parallelo criminale in Italia, infiltrato in tutti i gangli del potere Legislativo, Giudiziario ed Amministrativo, ha fatto una brutta fine: Falcone e Borsellino uccisi; Cordova e De Magistris allontanati. Io, Antonio Giangrande, cerco di riportare i fatti sottaciuti attinenti una realtà fatta da tante mafie. Non ho paura, mi hanno già ucciso, condannato, affamato. Cerco di parlarne ai posteri, perché i contemporanei mi hanno isolato.

LOTTA ALLA MAFIA: IPOCRISIA E DISINFORMAZIONE, OSSIA LOTTA DI PARTE O DI FACCIATA.

Secondo Filippo Facci su “Libero quotidiano” i soliti quattro scemi attendono la venuta di una nuova normativa anti-corruzione come se il problema stesse tutto lì, in una legge: e non in chi dovrebbe applicarla. Eppure uno come Piercamillo Davigo, che in genere viene citato per bastonare la classe politica, ha già evidenziato dei dati sorprendenti nel suo libro «La corruzione in Italia» scritto a quattro mani con Grazia Mannozzi. L’ex pm di Mani pulite ha spiegato che negli ultimi decenni la maggior parte delle condanne per corruzione sono intervenute a Milano, Torino, Napoli e - molto distanziata - Roma, che pure ha una giurisdizione vastissima; mentre in ben tre corti (Cagliari, Caltanissetta e Reggio Calabria) il dato è inferiore alle dieci condanne. «Stando alla rappresentazione giudiziaria», ha scritto, «la corruzione in alcune regioni d'Italia non esiste e non è mai esistita, e ciò mentre si susseguono, al riguardo, denunce circostanziate e precise».

Questo evidenzia due cose, forse. Una è che indagare dove c'è la criminalità organizzata è senz'altro più difficile. Ma la seconda è che la magistratura, oltreché della soluzione, fa parte del problema, fa parte del Paese, talvolta fa parte addirittura della corruzione. La quale abbonda non tanto dove ci sono le inchieste che la scoprono, come accade in Lombardia e dove pure indagano con le vecchie e care leggi; abbonda dove la pace regna sovrana. Molte competenze sono variate con l’istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958, che ha sottratto al ministro di Grazia e Giustizia, tutti i poteri in relazione al reclutamento, nomina, trasferimento, promozioni, sanzioni disciplinari e dimissioni dei magistrati, tanto ordinari che onorari. Per combattere non contro i mulini a vento come don Chisciotte, ma contro la ‘ndrangheta, i colletti bianchi, la borghesia mafiosa, la zona grigia, l’imprenditoria collusa e corrotta, i servizi segreti deviati, la massoneria. Agostino Cordova, procuratore capo della Repubblica di Palmi ci provò: firmò, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata.

Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni. Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Fioccarono come la neve a Madonna di Campiglio le interrogazioni parlamentari e le interpellanze, luogo comune, e venne… “promosso” alla Procura di Napoli, quarta città d’Italia; scusate se è poco. Promoveatur ut amoveatur (sia promosso affinchè sia rimosso). E dovette mollare barca, vela ed ormeggi. Ma il Gran Maestro venerabile, Giuliano Di Bernardo, lasciò il Grand’Oriente denunciandone le deviazioni. Il gip Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, archiviò tutta la sua indagine per l’assenza di “elementi significativi e concludenti in merito ai reati ipotizzati”. Una pietra tombale su nomi e vicende. Strumentale allontanamento dalla Procura di Palmi, ben documentato in “Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica” di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con la prefazione di Stefano Rodotà e una postfazione di Agostino Cordova, edito da Rizzoli (1994). Tutto bene in Campania, finchè non mise il naso nella tangentopoli napoletana… Finchè non si mise contro il “re di Napoli” Antonio Bassolino, sindaco di sinistra, protetto da giornali di sinistra, politici di sinistra, giudici di sinistra“; finchè non fece quelle famigerate dichiarazioni all’Antimafia sui colleghi della Procura e dell’ufficio Gip …”Andai avanti, non me ne curai molto. Nel 2000, il Csm mi diede atto della “mia notevolissima capacità professionale”. Che avevo condotto “la Procura di Napoli a un’efficienza organizzativa mai raggiunta in passato” e che ero “un magistrato inquirente insensibile a pressioni condizionamenti o attacchi di qualsiasi tipo e genere”. Eppure un anno dopo, partì il trasferimento e fui espulso”. Defenestrato. Silurato. Epurato, in nome della “incompatibilità ambientale”, da quello stesso CSM, che prima lo aveva osannato con un elogio cerchiobottista. Quello stesso CSM, che lo…”promuoverà” Consigliere di Cassazione e lo trasferirà a Roma.

Un altro giudice (come il padre, il nonno ed il bisnonno) Luigi de Magistris, fu accolto in Calabria a Catanzaro, riverito, omaggiato, ringraziato ed idolatrato. Bravo, bravissimo, illuminato, terzo, obiettivo, lungimirante, deciso, fermo e risoluto, campione della legalità ed altra aggettivazione altisonante. Ma quando decise di mettere il naso nelle logge massoniche, nelle cupole mafiose, nei comitati d’affari, (Poseidone, Why Not, Toghe Lucane, SbP), un terremoto giudiziario simile ad una tangentopoli, invischiati: premiers, generali, ministri, segretari nazionali dei partiti, Governatori, avvocati, magistrati, imprenditori, funzionari ecc. fece la fine di Cordova. Anzi peggio, perché fu pure inquisito e rinviato a giudizio. Difeso a spada tratta dal Movimento “E adesso ammazzateci tutti”, galvanizzato da Aldo Pecora. Fecero epoca e cronaca gli scontri fra le Procure di Catanzaro e di Salerno con uno tsunami bis. Trasferito anche lui a Napoli, per incompatibilità ambientale, su richiesta del ministro della Giustizia, in illo tempore, Clemente Mastella; che combinazione! Come pure il procuratore capo della Repubblica di Catanzaro, Mariano Lombardi, trasferito a Messina e rinviato a giudizio, ma non prese mai servizio. Preferì di mettersi in pensione. E poco dopo morì, ma per un male, ribelle ad ogni cura. Aveva 76 anni. Era stato alla guida della procura calabrese per circa 40 anni. Luigi De Magistris, fu eletto dapprima sindaco della città partenopea e poi europarlamentare nientemeno, (secondo candidato più votato d’Italia, dopo Silvio Berlusconi, con 415.646 preferenze); magari fra poco, anche deputato o senatore. Luigi De Magistris, intanto, pure rinviato a giudizio, si è dimesso dalla magistratura. Valle di lacrime anche per un altro giudice in gonnella, pure lui, anzi lei, trasferita, alla procura di Cremona, come giudice ordinario, per incompatibilità ambientale.

Donna di grande coraggio, che assurse alla cronaca con la famosa inchiesta sulle scalate bancarie dell’estate 2005. Unipol, che faceva capo a Consorte e Sacchetti; personaggi vicini all’ex Pci-Pds-Ds, che tentò la scalata a Bnl. Assieme a Fiorani, presidente della Bpi; appoggiato dell’allora governatore di Bankitalia Fazio.Il segretario dei Ds,del tempo, Piero Fassino si lasciò sfuggire la battuta galeotta, “Finalmente abbiamo una banca”, che scatenò l’inchiesta. Ma poi, dopo le palate di fango e tre anni d’inferno, il CSM, si è dovuto rimangiare tutto e restituirle l’onore e le funzioni di Gip a Milano. Giusta decisione e sentenza del TAR e del Consiglio di Stato. Clementina Forleo, che ospite della trasmissione tv ‘Annozero’ affermava: «Quando il re è nudo e si ha il coraggio di denudarlo, dove per re intendo i poteri forti, il potere politico, il potere economico e lo stesso potere giudiziario, il giudice è solo. “Chi tocca i fili muore”» -  alludendo al potere politico: Latorre, D’Alema (che si fece scudo dell’immunità di europarlamentare), Fassino?. Un brutto film… “La Prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, delibera all’unanimità l’apertura della procedura per incompatibilità ai sensi dell’art. 2 della Legge sulle Guarentigie nei confronti della dott.ssa Maria Clementina Forleo, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano. In relazione a situazioni di grave disagio determinatesi nell’ambiente nel quale ella svolge le proprie funzioni giudiziarie e a dichiarazioni pubbliche rese dal magistrato relativamente ad interferenze ed intimidazioni istituzionali subìte, che non hanno trovato riscontro nell’istruttoria svolta”. Il Vicepresidente della Commissione, prof. Letizia Vacca, disse alla stampa … “Le sue dichiarazioni hanno creato preoccupazione negli ambienti giudiziari e sono state lesive dell’immagine dei magistrati di Milano, che si sono sentiti offesi. La situazione appare completamente diversa da come è stata rappresentata da Forleo: non risulta nessun complotto e nessuna intimidazione”. Tutti segnali chiari, al di là di questa o quella storia, che dicono, che oltre un certo livello non si possa indagare. Chi lo fece, giudici coraggiosi, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita. Ma non si sfugge alla Giustizia Divina. Là, non ci sono coperture, nepotismi, raccomandazioni, minacce e pressioni o Logge di Stato che tengano. La società civile? C’è, ma non si vede. Collusa o codarda, subisce e tace.

Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica su “Il Giornale”  affermano che  il verbale al Copasir dell’ex braccio destro di De Magistris tira in ballo toghe e giornalisti per fughe di notizie "letali". Le accuse di Genchi colpiscono anche Annozero e i fratelli Ruotolo. L’audizione segretata al Copasir del super esperto informatico Gioacchino Genchi, a processo per abuso d’ufficio insieme all’ex pm Luigi De Magistris (la storia è quella dei tabulati telefonici di otto parlamentari controllati senza autorizzazione del parlamento) è una bomba. Rivela una vicenda di presunte, diaboliche, commistioni fra magistrati antimafia, protagonisti dello scandalo Telecom e giornalisti autori di scoop che Genchi definisce devastanti, letali, per le indagini sulla ’ndrangheta (strage di Duisburg, omicidio Fortugno, eccetera). L’ex braccio destro del pm De Magistris tira la croce addosso al numero due dell’Antimafia nazionale, Alberto Cisterna, ai pm calabresi Mollace e Macrì, scomoda e coinvolge giornalisti esperti come i fratelli Ruotolo, Guido (La Stampa) e Sandro (Annozero, poi Servizio Pubblico), e Paolo Pollichieni, ex direttore di Calabria Ora. Li mette tutti insieme nel frullatore e poi aziona l’interruttore. La miscela è esplosiva, con accuse da brivido di cui Genchi ripete di prendersi la piena responsabilità. A Genchi viene chiesto conto del perché vennero controllati anche i tabulati del procuratore Piero Grasso. L’esperto informatico parte da lontano, dall’inchiesta Poseidone, dalla teste Merante e dagli articoli che Pollichieni manda in edicola, col risultato che i traffici telefonici del cronista finiscono nel fascicolo. «Dal tabulato di Pollichieni viene fuori una serie di rapporti continui, quasi osmotici, con Cisterna. Con il dottor Mollace, con utenze della Dna, e tra Macrì e Mollace». Normale. «Ma vi è di più: lo scambio di cellulari, almeno quattro o cinque della procura nazionale antimafia con Pollichieni. Per scambio intendo che si sono scambiati le sim, i telefoni o entrambe le cose. È un rapporto telefonico che vi invito ad analizzare perché altamente preoccupante». Alcuni pm della Dda, prosegue Genchi, erano preoccupati dalle fughe di notizie sul pentimento di Novella nel caso Fortugno. Dai tabulati di Pollichieni, aggiunge Genchi, «emerse sostanzialmente questo rapporto continuo (coi magistrati) nelle fasi dinamiche dell’acquisizione della notizia del pentimento». E così anche per le fughe di notizie nelle indagini per la strage di Duisburg «che ha determinato l’interruzione di tutte le intercettazioni su persone di San Luca che si dovevano arrestare, che sono state rese latitanti e che probabilmente sono state uccise per intempestività di un’azione giudiziaria che è stata violentemente e bruscamente interrotta da quella fuga di notizie, di cui il protagonista ancora una volta è Pollichieni». La tecnica delle fughe di notizie, insiste Genchi, avveniva con la pubblicazione di anticipazioni su altri giornali «di chi le aveva recepite perché alcune giornalisti non hanno accettato il regalo, tipo l’immaginetta della santa che pubblica il giorno prima Ruotolo su La Stampa in un asse perfetto che ha collegato i due giornalisti di nome Ruotolo, e vi dirò moltissime cose sull’argomento. (...). In particolare a Ruotolo, che ritengo sia uno dei soggetti principali di questa vicenda, a tutto ciò che ha ruotato intorno all’asse Ruotolo come persona fisica della Stampa e il fratello, e questo anche il perfetto raccordo sincronico dell’articolo “Il Palazzo nelle mani del giudice” con la puntata di “Annozero” che era stata programmata. A questa trasmissione - continua il super consulente - io, il dottor Ingroia e altri amici abbiamo implorato De Magistris di non andare, per non prestarsi a quella che era una strumentalizzazione, anche dei giornalisti, per loro finalità, probabilmente anche nobili (quelle di Ruotolo sicuramente non lo erano, perché intendevano “realizzare”). Vi siete mai chiesti come mai il dottor Genchi non sia andato ad Annozero, nonostante tutte le volte che è stato invitato (solo una settimana dopo, il 5 febbraio 2009, Genchi sarà invece presente nella trasmissione di Michele Santoro)» mentre «non ho paura di andare a Matrix perché conosco l’onestà di Mentana, che so da che parte sta, non ho paura nemmeno dei mafiosi, perché so da che parte stanno. Ho paura di quelli che non sanno da che parte stare, mi spiego?». Genchi non si ferma. «Rutolo (Guido) c’entra perché è in rapporto organico con Pollichieni come fornitore di informazioni». Poi si lascia andare a incomprensibili considerazioni antropologiche: «Un medico mi ha spiegato che i gemelli, pur avendo due corpi e una struttura cerebrale autonoma, nel momento delle sinapsi mobili, ossia quando si realizza la massima evoluzione, hanno bisogno di essere insieme come nel grembo materno». E quando ti aspetti l’affondo finale per alcuni imprecisati «soggiorni in Calabria», Genchi torna sui suoi passi: «Secondo me i Ruotolo sono due persone per bene». Del giudice Mollace, il consulente dice che «ha utilizzato decine di cellulari (60-70, non conosco il numero preciso) ha poi denunciato il furto di uno di questi e se ne è fatti assegnare non so quanti dal Comune di Reggio Calabria». Guido Ruotolo, rintracciato dal Giornale, si dice incredulo. «È un delirio, sono cose insensate. Non voglio commentare. Domani mi tocca leggervi, poi andrò dall’avvocato e cercherò di capire come stanno effettivamente le cose». Pollichieni è più loquace: «È vero, facendo il giornalista ho rapporti con i magistrati e nessun rapporto con la ’ndrangheta. Le mie notizie non hanno rovinato alcuna indagine posto che per l’omicidio Fortugno/pentimento Novella (e lo scoop peraltro fu della Gazzetta del Sud, non mio) sono stati comminati 4 ergastoli, per Duisburg 6. Non sono mai stato imputato di nulla, mai ho ricevuto un avviso di garanzia, mentre lui si ritrova sotto processo. L’ho già citato in giudizio, ogni commento è assolutamente superfluo».

Ed ancora su “il Giornale” i rapporti ravvicinati di un certo tipo tra giornalisti e magistrati. Rapporti pericolosi che s’intersecano con fughe di notizie pilotate, scoop «criminali» e scambi di atti giudiziari, coperti dal segreto e non. Dal verbale bomba del superconsulente Gioacchino Genchi, segretato al Copasir, spuntano i nomi di Ilda Boccassini, del procuratore antimafia Piero Grasso, del suo vice Cisterna, dei pm calabresi Mollace e Macri, dell’ex capo degli ispettori Miller, di tante altre toghe controllate via tabulati. Rivelazioni devastanti quelle dell’esperto informatico Gioacchino Genchi che il 17 aprile 2012 sarà alla sbarra a Roma insieme all’ex pm Luigi De Magistris per rispondere dell’accusa di aver prelevato e utilizzato senza apposita autorizzazione i tabulati telefonici di Prodi, Mastella, Pittelli, Minniti, Pisanu, Gentile, Gozi e pure di Rutelli che quel 30 maggio 2009 guida l’audizione di Genchi in quanto presidente del comitato di controllo sui servizi segreti. Relazioni pericolose tra PM e giornalisti. L’anticipazione del sito Dagospia delle indiscrezioni raccolte dal settimanale Tempi invitano a spulciare nelle 150 pagine di audizione custodite in cassaforte. Nell’affrontare l’imbarazzante capitolo del perché si arrivò a controllare il traffico telefonico dell’ex capo dei Servizi segreti militari, Nicolò Pollari, Genchi si contrappone spesso ai presenti. Giura di non aver mai saputo che quell’utenza corrispondesse al numero uno dell’intelligence nonostante un preciso indizio uscisse, per tempo, dall’agenda elettronica del generale della guardia di finanza, Walter Cretella, perquisito da De Magistris. Gli domandano: «Quando lei ha visionato, come esperto della procura, la rubrica del generale Cretella e ha letto “Gen. Pollari” non le è venuto il dubbio che si trattasse del generale Pollari del Sismi?». Risposta lapidaria: «No». Seguita da altra singolare puntualizzazione: «Ho saputo che il tabulato era il suo solo quando l’hanno scritto i giornali». E nel mentre la discussione prosegue, da un lato, sul perché ci si concentrò tanto sul numero uno di Forte Braschi che nulla c’entrava con Why Not («non ho avuto niente contro Pollari e anzi, sulla base di altre risultanze processuali, ho maturato un sentimento di profonda ammirazione nei suoi confronti anche per le vicende di cui è oggetto») e dall’altro si dibatte di una sua vecchia intervista a Repubblica dove affermava che tutto sommato i tabulati di Pollari erano repliche dei tabulati già acquisiti dalla procura di Milano (il pm Spataro all’epoca lo smentì), Genchi tira in ballo cronisti amici che gli avrebbero passato carte sottobanco: «Mi sono procurato tramite alcuni amici giornalisti di avere i provvedimenti di Milano dai quali risultava il numero di Pollari nell’indagine Abu Omar. Volevo difendermi dagli attacchi...». Lì per lì Genchi non fa i nomi. Ma quando passa a parlare di oscure trame fra indagini di ’ndrangheta, fughe di notizie pilotate e scandalo Telecom, cita Lionello Mancini del Sole 24 ore, amico di Gianni Barbacetto del Fatto. Nell’anticipazione di Dagospia su Tempi si azzarda: «Chi fossero questi “amici giornalisti” non c’è scritto nella relazione del Copasir. Lo si può sospettare solo quando Genchi, nel vortice di un’audizione deragliata al caso Telecom-Tavaroli, riferirà ai commissari di una - a suo dire - misteriosa triangolazione telefonica riguardante un aspetto di quella storia». Nel verbale, riprendendo retroscena collegati a Mancini, il consulente afferma: «Posso anche dirvi chi è stato. Gianni Barbacetto (perché io ho molti amici giornalisti) che ho conosciuto a Palermo molti anni fa, il quale mi disse di essere amico di Ilda Boccassini, con cui sarebbero andati a casa sua». Barbacetto, contattato dal Giornale, cade dalle nuvole: «Così come si legge dal verbale non è chiaro quel che vuole dire Genchi. Io non ho mai preso documenti dalla Boccassini da girare a Genchi al quale, al massimo, posso aver detto di aver conosciuto Lionello Mancini (che a un certo punto si mise a scrivere contro Genchi «e Gioacchino era molto preoccupato») a una festa a casa della Boccassini, dove andai con mia moglie, ma anni e anni prima rispetto ai fatti di cui si parla e in un periodo in cui Ilda era ancora socievole coi giornalisti. Ere geologiche precedenti a questa». E Genchi? «L’ho conosciuto a Palermo, ma più recentemente per scrivere delle note inchieste che seguiva con De Magistris. Ma di Pollari non avevo né carte né numeri. Al massimo posso avergli girato qualche atto giudiziario vecchio, pubblico, in possesso di qualsiasi cronista».

A tal proposito Stefano Zurlo interviene sempre su “Il Giornale”. Qualcuno li considera pubblici ministeri di complemento. Giornalisti che non devono bussare in procura, perché vantano amicizie o liason con i magistrati titolari di delicatissimi fascicoli. Ma la verità è più sfumata: procuratori e opinionisti spesso hanno rapporti alla pari, s’influenzano a vicenda e alimentano un unico circuito mediatico-giudiziario, com’è normale fra persone che si stimano e si frequentano. Caso classico, da manuale, è il legame fra due big del giornalismo e della magistratura: Marco Travaglio e Antonio Ingroia. Travaglio ha firmato la prefazione del saggio di Ingroia «C’era una volta l’intercettazione » e l’ha incensato spiegando che «il libro è uno strumento per capirci qualcosa nella giungla delle leggi vergogna del regime berlusconiano», Ingroia si è presentato al forum di lancio del quotidiano travagliesco il Fatto, oggi imperdibile per la sinistra girotondina e giustizialista. Una cortesia, in sè un episodio quasi banale, che però ha acceso le micce della diffidenza dalle parti del centrodestra, abituato a duellare con Ingroia da sempre, come in un celebre racconto di Conrad. Nessuno, invece, ha notato che fra le leggi di Berlusconi, non importa se sacrosante o della vergogna, non c’è proprio quella sulle intercettazioni, fermata dal fuoco di sbarramento dell’apparato di cui Ingroia e Travaglio sono esponenti di punta. Se n’è andato il Cavaliere, il libro, pur se con il titolo declinato all’imperfetto, è ancora in circolazione. Insomma, la lobby intellettuale esercita un fascino e un potere di seduzione straordinari e che non possono essere misurati a colpi di verbali pubblicati da questa o quella gazzetta. E la premiata coppia Travaglio-Ingroia non è stata ammaccata nemmeno dall’infortunio capitato a uno stretto collaboratore del pm, il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro che andò anche in vacanza insieme ai due. Si è scoperto che l’insospettabile sottufficiale, esempio classico di un certo mimetismo tutto italiano, era la talpa alla Direzione distrettuale antimafia di personaggi poco raccomandabili. Così mafia e antimafia hanno convissuto finché Ciuro è stato condannato a 4 anni e 8 mesi. La solita claque dei benpensanti, a parte i puntuti articoli di Repubblica, ha metabolizzato con disinvoltura il guaio. Ma la stessa benevolenza non sempre è stata accordata a toghe e firme della carta stampata, sfiorate da inchieste su P varie o da voci e sussurri malevoli. In Italia non c’è un clima di tolleranza bipartisan e anzi i giornalisti cosiddetti progressisti si perdonano tutto quel che viene condannato se il peccato arriva dall’altra parte, magari da un cronista d’assalto della fantomatica struttura Delta. Quella che, secondo i maestri della penna rossa, fabbricherebbe complotti su scala industriale per screditare i nemici del berlusconismo. Altra coppia chic, oggetto di infinite illazioni, è quella formata dal pm Henry John Woodcock, quello di innumerevoli inchieste ad alta densità di vip, e da Federica Sciarelli, la bella conduttrice del popolarissimo programma di Rai3 Chi l’ha visto?. C’è una foto, famosa, che immortala i due mentre fanno jogging per le vie di Roma. E un’altra che li riprende in barca, nell’estate del 2009, insieme a Sandro Ruotolo, il baffuto braccio destro di Michele Santoro e fratello del cronista giudiziario della Stampa, Guido. «La mamma dei Ruotolo e la mia erano grandi amiche», ha raccontato Woodcock per spiegare questo intreccio di rapporti. Nel 2009 un esposto anonimo accreditava l’ipotesi che la Sciarelli fosse l’autrice di scoop cuciti nell’ufficio di Wooodcock. Ma l’anonimo ha fatto cilecca, anzi si è rivelato un falso. Nessun cortocircuito e invece lui firma la prefazione al libro di lei "Il mostro innocente". Altro che fughe di notizie. Semmai un salotto che diventa un’icona per la solita opinione pubblica.

Anche Paolo Bracalini sull'argomento "Fughe di notizie impunite" interviene su “Il Giornale”. Ci sono inchieste in cui «un cittadino viene, in modo repentino, processato e condannato dai media, etichettato come un “mostro” e gettato in pasto all’opinione pubblica. Tutto ciò ancor prima della conclusione della istruttoria condotta dagli organi inquirenti e del processo, vero e proprio», che magari si conclude «con l'assoluzione» e quindi con la beffa più tremenda. Una professione di garantismo a firma di Henry John Woodcock, il pm dei vip, nella prefazione al libro (Il mostro innocente) di una giornalista amica con cui è stato più volte paparazzato, Federica Sciarelli, già Telekabul e conduttrice di Chi l'ha visto? su Rai3. «Solo un'amicizia» quella tra Woody e la bella Federica (prediletta di Cossiga e ammiratissima da Tinto Brass), spiegò Woody al cronista di Di Più, settimanale di gossip, curioso delle faccende private di quel magistrato dal cognome esotico, amante del sigaro, del jogging e delle Harley-Davidson. Ecco, forse la Sciarelli è uno dei nomi della PW, la rete (solo amicizia e qualche chiacchiera) di Woodcock, pubblico ministero dalla grande fantasia investigativa, con già tre famosi brevetti all’attivo: il Savoiagate, Vallettopoli e la P4. Ai giornali patinati raccontò che furono altri giornalisti amici ad introdurlo alla Sciarelli, i fratelli Ruotolo. Il primo, Sandro, è lo storico braccio destro di Santoro ad Annozero (che si è occupato spesso delle inchieste di Potenza), l’altro, Guido, è cronista di giudiziaria alla Stampa (che per il quotidiano Fiat segue proprio l’inchiesta sulla P4). Anche loro esponenti della Pw, la rete (per carità, solo di amicizie e chiacchiere) di HJW? «Io e Federica Sciarelli ci siamo conosciuti grazie ad amici comuni, tra i quali i fratelli Sandro e Guido Ruotolo. La mamma dei Ruotolo e mia mamma erano grandi amiche», raccontò Woodcock ai cronisti rosa, per spiegare l’origine della sua amicizia con la conduttrice. Un colpo di fulmine, professionale ed intellettuale, che sbocciò all’epoca dell’inchiesta su Vittorio Emanuele di Savoia, schiaffato in carcere per sette giorni come presunto capo di una cupola malavitosa, poi assolto «perché il fatto non sussiste». La Sciarelli si presentò in redazione, a Chi l’ha visto, coi faldoni dell’inchiesta ed un entusiasmo a fior di pelle: «Aho, ma quant’è fico Woodcock, non paga il biglietto della metropolitana, lui scavarca!» fece davanti ai colleghi, dopo un incontro a Roma col pm. Da lì Chi l’ha visto? si occupò più volte dell’inchiesta su Vittorio Emanuele, che pure non era scomparso, ma ben sorvegliato agli arresti domiciliari. Il 19 giugno 2006 le agenzie rilanciano l’intervista fatta dalla Sciarelli a Chi l’ha visto al gip di Potenza Alberto Iannuzzi, che assicura: «L’inchiesta su Savoia non è una bolla di sapone». Poi la Sciarelli ci torna la puntata successiva, il 26 giugno, con un’intervista al presidente dell’associazione antiusura sulle indagini relative al Casinò di Campione e sul sindaco Salmoiraghi, accusato insieme al principe. Un’amicizia ispiratrice, forse anche troppo secondo Felicia Genovese, pm di Potenza e arcinemica di Woodcook, che produsse una relazione sulle possibili connessioni tra le inchieste della Sciarelli su Rai3, le indagini di Woodcock e quelle di un pm amico, Luigi De Magistris, un altro elemento della PW. La pm racconta tra l’altro un episodio, «nel corridoio davanti alla stanza del dott. Woodcock, quest'ultimo in compagnia del dott. De Magistris. Di fronte al mio sguardo sorpreso, il collega Woodcock si è premurato di rivolgere agli addetti alla Sua Segreteria la richiesta di alcuni atti per il dott. De Magistris, il quale è rimasto in silenzio, limitandosi a rispondere al saluto». E poi che «nelle trasmissioni condotte dalla Sciarelli nei mesi scorsi (...) si ritrova il riferimento al dott. De Magistris come magistrato catanzarese che si occupa di note vicende di cronaca verificatesi in Basilicata...». Una connection solo a parole, chiarì Woodcock: «Mai nel corso della mia frequentazione con la giornalista Sciarelli, ho rivelato notizie sulle mie indagini». Solo di colleganza anche i rapporti con De Magistris. Chi ha seguito quelle inchieste racconta però che «De Magistris si arrabbiava quando lo paragonavano a Woodcock», e che in privato abbia manifestato più d’una perplessità sui talenti investigativi del collega. Un trait d’union tra i due pm è Gioacchino Genchi (che è anche vicino all’Idv di Di Pietro e De Magistris, ospite del congresso nel 2010 a Roma, e ospiti spesso di Santoro e Ruotolo, amici di...), consulente informatico di molte Procure, che inseriamo nella PW per un’intervista ad Antimafiaduemila dove racconta di «una riunione operativa alla quale hanno partecipato Woodcock, un ufficiale di polizia giudiziaria di Woodcock, il dottor De Magistris» e infine un consulente finanziario. Una riunione «che atteneva ad altri ambiti di collegamento investigativo con le indagini di Woodcock sulla massoneria in particolare». Collaboratore di Woodcock in diverse inchieste è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, alias «Capitano Ultimo», capo del Noe (quello che ha perquisito il Giornale per la vicenda Marcegaglia, altra inchiesta Woodcock...). E chi l’ha anche visto De Caprio? La Sciarelli, che l’ha intervistato nel suo programma il 6 novembre 2009. Nella comitiva di amici che si telefonano, si chiedono e scambiano informazioni (solo innocue chiacchiere) compare anche Riaccardo Iacona (collega di Santoro, Ruotolo, amici di...), che sembra particolarmente ansioso di avere notizie in anteprima, anche riservate. E De Magistris lo riferisce in una audizione per una presunta fuga di notizie: «Mi chiede, Iacona, (...) è uscita la notizia e me lo potevi anche dire questo fatto. Ma quella è una notizia riservata, io non posso dire nulla». Tutti membri della PW, la P-Woodocock. Che è tutta un’invenzione, naturalmente. Non una cricca vera come la P4.

Sono da poco passate le 19.15 del 24 settembre 2008 all’ITC Battisti di Fano: nonostante il turno infrasettimanale del campionato di calcio, nonostante sia ora di cena e nonostante il traffico impazzito di questa sana città di provincia, l’aula magna dell’edificio scolastico è gremita in ogni ordine di posti. Il giornalista del Corriere della Sera, Carlo Vulpio, ha raccolto con entusiasmo l’invito dell’Associazione Res Publica Amici di Beppe Grillo e della Libreria Omnia a presentare il suo primo libro, “Roba Nostra”. E’ arrivato in mattinata per curare personalmente gli ultimi dettagli e aspetta insieme a noi l’arrivo dell’altro ospite illustre. Dopo pochi minuti, attorniata da tre poliziotti di scorta, si presenta Clementina Forleo, sul viso un sorriso appena accennato, affaticata da un lungo viaggio. E’ partita da Brindisi, nel primo pomeriggio, con un’autovettura non blindata, le auto di scorta erano già tutte prenotate, nonostante il suo livello di protezione sia così alto da renderne necessario l’uso per gli spostamenti sul territorio italiano. Si perché nonostante lei abbia rifiutato la scorta, lo Stato, quello stesso Stato che attraverso il CSM ha deciso la sua incompatibilità ambientale, togliendole di fatto le note inchieste sulla scalate bancarie per cui sono indagati parlamentari del PD come D’Alema, Fassino e Latorre, quello Stato le ha imposto una protezione, con le stesse modalità tipiche di una cosca mafiosa. Clementina Forleo da tempo, infatti, vive giorno e notte protetta da tre guardie di scorta, da quando cioè, svolgendo il proprio lavoro di brillante magistrato quale è, si è ritrovata in mano le intercettazioni telefoniche tra il senatore Latorre (PD) e l’ex numero uno di Unipol, Giovanni Consorte dalle quali risultò chiaro ai più, tranne che al CSM, e a tutta una pletora di politici, che i due erano non soltanto amici, ma soggetti operanti illecitamente nella scalata di Unipol alla BNL.

Ettore Marini, presidente di Res Publica introduce la serata, e chiede a Vulpio perché quel libro, perché fosse stato necessario un libro e non fosse bastata un’indagine giornalistica. «Certe faccende - replica Vulpio - non si possono scrivere sui giornali, i giornali li leggono molti italiani, e queste sono cose da tenere segrete». «Nei libri – prosegue – si può dire, ad esempio, che il presidente del Senato frequentava Nino Mandalà, mafioso e capomandamento di Villabate ("Tutti gli uomini di Cosa Nostra", di Lirio Abbate e Peter Gomez), ma nei quotidiani tutto ciò è impensabile». Vulpio è un giornalista fortunato perché a suo dire può pubblicare il 60-70% di quello che scrive, sempre dopo aver contrattato con il direttore Mieli ogni singola parola, di ogni singolo articolo.

La Forleo, pur non facendo mai menzione della sua vicenda personale, concorda con Vulpio quando, analizzando la situazione dell’informazione in Italia, la definisce in stato comatoso e completamente asservita ai poteri forti: politici, finanziari e giudiziari. Il magistrato, raccogliendo l’invito dell’ex Presidente Ciampi, seppur rivolto agli organi di informazione piuttosto che ai magistrati, ha sempre tenuto “la schiena dritta”, evitando accuratamente di iscriversi alle numerose correnti interne all’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Correnti che, come un sistema di vasi comunicanti, determinano gli equilibri del potere all’interno sia della magistratura che della politica. Una magistratura completamente da rifondare, secondo Vulpio, che è diventata organica alla politica e operante attivamente, con molti dei suoi più famosi esponenti, anche nella gestione del malaffare.

Roba Nostra”, infatti, è un “j’accuse” nei confronti del malaffare che si è fatto sistema. Non più la volgare e semplice mazzetta, data dall’imprenditore al politico, ai partiti. La nuova frontiera del malaffare ha un’etichetta di garanzia, CE, come quella stampata su tutti i prodotti che oggi circolano nella Comunità Europea. CE stavolta non è però sinonimo di sicurezza e di tutela di un prodotto manufatto e distribuito in Europa, ma il marchio infamante di una truffa ai danni dei cittadini italiani, per miliardi di Euro. Decine di miliardi di euro, scientificamente dirottati da Bruxelles nelle tasche di politici e imprenditori, con l’ausilio di prefetti, magistrati, poliziotti, carabinieri ed avvocati di tre regioni italiane, la Basilicata, la Campania e la Calabria. «“Roba Nostra” è un libro di nomi e di cognomi e luoghi geografici precisi - prosegue Vulpio - Non è assolutamente un trattato di sociologia, ma un’inchiesta di stampo anglosassone, come non se ne vedono più da decenni in Italia». Vulpio accenna alle tre inchieste sulle quali indagava De Magistris, “Why not?”, “Toghe Lucane” e “Poseidone”: «Le prime due – dice – sono state scippate dalle mani dello zelante magistrato; per la terza, visto che non potevano togliergli l’inchiesta, hanno tolto lui dall’inchiesta, chiedendone il trasferimento». Il giornalista quindi si sofferma sulla vicenda dei fidanzatini suicidi di Policoro, una storia parallela saltata fuori all’improvviso durante le indagini sui finanziamenti della Comunità Europea per costruire dei megavillaggi turistici sulla costa jonica lucana.

E’ il tragico il destino di due giovani fidanzati di 21 anni, colpevoli di sapere troppo. Nel marzo del 1988 vengono ritrovati cadaveri nella vasca da bagno: si parla di morte incidentale, dovuta al cattivo funzionamento di uno scaldabagno. Fatto strano, non viene mai eseguita l’autopsia. Otto anni dopo però i due cadaveri vengono riesumati per via di alcune rivelazioni fatte da una supertestimone e si scopre che i due sono stati brutalmente ammazzati. Si scopre poi una lettera di Marirosa in cui lei confessa a Luca di aver partecipato a festini a luci rosse e cocaina, in cui erano presenti noti professionisti tra cui, guarda caso, il pm di Matera Autera, titolare delle indagini dei fidanzatini e denunciato dei genitori delle vittime per non aver autorizzato l’autopsia sui loro cadaveri. Si scoprirà che anche l’avvocato, nonché senatore di AN Emilio Buccico - prima difensore dei genitori dei fidanzatini, poi guarda caso del Pm Autera – ed il segretario provinciale di AN Labriola, partecipavano a questi festini a base di sesso e coca. (Carlo Vulpio, Corriere della Sera 17 marzo 2007, p.25). Nel corso della ricostruzione di questo tragico evento la sala dapprima ammutolisce e poi tra i presenti si levano grida di protesta e di rabbia. Vulpio ricorda agli intervenuti che per questa vicenda è stata richiesta l’archiviazione, mentre Buccico nel 2006 faceva ancora parte della Commissione Parlamentare antimafia.

Vulpio quindi ritorna sulle modalità con cui le tre inchieste furono tolte dalle mani di De Magistris, e non ricorda nella storia d’Italia un atto analogo, nemmeno durante il fascismo. Mastella chiede il trasferimento di De Magistris, ma non quello dei magistrati inquisiti, e tutta la stampa tace su questo aspetto tutt’altro che secondario. Si riscontra cioè l’incompatibilità di un magistrato che onestamente fa il suo mestiere, ma non viene intrapresa nessuna azione disciplinare per quei funzionari dello Stato indagati dallo stesso De Magistris.

La Forleo a questo punto accenna l’unico riferimento alla sua vicenda e ricorda il giorno in cui comparve davanti al CSM e le parole della vicepresidente Letizia Vacca, che la definì un “cattivo magistrato”, dalla personalità psicolabile e fortemente emotiva. E’ inutile dire che i presenti in sala come me hanno apprezzato la forza morale e la estrema lucidità con cui la donna Forleo, il magistrato Forleo ha portato la sua testimonianza non parendoci affatto né emotiva né tantomeno psicolabile.

Pubblico il testo dell'intervista video di Claudio Messora a Clementina Forleo e Carlo Vulpio, pubblicata su You tube il 24 marzo 2009, sul tema dell'informazione. Testo dell'intervista.

Carlo Vulpio: "Le parole sono importanti, e con le parole ci imbrogliano. Un esempio è questo continuo utilizzo della parola legalità, trasformata immediatamente in giustizialismo. Cioè chiunque di noi, chiunque di voi chieda l'applicazione della legge per quel famoso Articolo 3 della Costituzione, perchè ritiene che la legalità è il potere dei senza poteri, per ciò stesso evocherebbe un intervento giustizialistico, un dispiegamento di forze giustizialiste che godono al tintinnar di manette. Ecco il primo imbroglio. Noi che stiamo qui a parlare adesso, siamo dei sovversivi. Se venisse qualcuno di questi tempi in Italia ad osservare un incontro di questo tipo e avesse sentito l'intervento della dottoressa Forleo, dedurrebbe che qui si sta lavorando alla costruzione di un covo di sovversivi, perchè si sta addirittura ponendo il problema della vigenza dell'articolo 3 della Costituzione. Niente di meno! Io l'altro giorno ho letto sul mio quasi ex giornale (Il Corriere della Sera) una filippica contro l'articolo 3 della Costituzione, e piano piano mi andavo convincendo che effettivamente anche io fossi dalla parte dei sovversivi, laddove arrivato al commento dell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, cioè quello che materialmente dovrebbe rimuovere gli ostacoli che si frappongono ad un'uguaglianza effettiva, diceva il commentatore di cui non farò il nome per non fargli pubblicità, che era troppo generico quest'articolo 3 della Costituzione, era troppo ampio, era troppo! E' fondamentale questo passaggio. Si comincia così. Si comincia a gettare il sasso nello stagno. Si comincia con il grande giornale, il grande commentatore magari un tanto al chilo, che propone un articolo di questo tipo, si dice tecnicamente 'detta l'agenda', detta l'agenda politica, del dibattito pubblico, e una volta dettata l'agenda le pecore, il pubblico, l'opinione pubblica che non esiste, è un'invenzione, l'opinione pubblica non c'è, segue. E' proprio internet, è proprio la rete che in qualche maniera ci ha salvati. Ha salvato quelli come noi: giornalisti, magistrati, lavoratori comuni che non avrebbero più potuto far sentire la loro voce, sarebbero entrati definitivamente in un cono d'ombra, se non ci fossero stati i blogger, i blog, il cosiddetto popolo della rete. E grazie alla rete si è formata un'opinione pubblica nuova, con caratteristiche totalmente inedite, che ovviamente hanno allarmato i tradizionali poteri, anche quelli che editano i giornali. Se una nuova opinione pubblica si forma sulla rete, e se la rete ci salva, allora la rete diventa pericolosa. Se la rete non ci fosse stata noi non avremmo potuto parlare adesso, così, a centinaia, migliaia, milioni di persone, e probabilmente le nostre storie sarebbero state storie eccellenti, ma sarebbero deperite in questa loro eccellente solitudine."

Clementina Forleo: "Io credo che se siamo qui, se siamo qui questa sera a parlare di queste cose, che poi sono i temi fondamentali del libro Roba Nostra, è perchè ci sentiamo un poco intrappolati, perchè purtroppo la trappola, senza accorgercene, è scattata sulle regole, sulla democrazia, sulla legalità, sulla giustizia, sull'etica... cioè è scattata su quelli che dovrebbero essere i termometri di una democrazia moderna. E allora dobbiamo cercare di evitare di fare la fine appunto di quel famoso topolino di un altrettanto famosa metafora, il quale appunto preso in una trappola, ai suoi amici intenti a liberarlo diceva che non si lamentava poi della trappola, ma si lamentava della cattiva qualità del formaggio. E allora leggendo i giornali, soprattutto negli ultimi tempi, io ho paura appunto di questo, del fatto che ci stiamo convincendo che tutto sommato stiamo meno male di quanto si può stare. La rete ci salva e ci salverà. Io fino a poco tempo fa avevo una speranza. Avevo la speranza che alcune testate conservassero dei margini di libertà. Purtroppo mi sono resa conto che anche in questo campo sono stata un po' ingenua, e che ultimamente le testate più libere si sono un po' asservite, probabilmente perchè i tempi sono difficili e bisogna assecondare i poteri forti, dove per poteri forti in questo caso intendo i potentati economici e politici che sorreggono le grosse testate. Quindi i blog, internet e la rete, nell'immediato quanto meno (mi auguro che nel medio e lungo termine le cose possano cambiare) sono destinati a sostituire la classica informazione, che è un'informazione deviata, un'informazione deviante, un'informazione che non ci passa le cosiddette notizie."

Carlo Vulpio: "In Italia siamo, per libertà di informazione, agli ultimi posti in tutte le classifiche europee e mondiali. Questo non è un fatto grave in sè, è un fatto grave perchè attraverso l'informazione che è uno snodo strategico, passano mille altre cose, alcune delle quali fondamentali per il destino di un paese. Pensate a come è stata trattata la giustizia."

Clementina Forleo: "Sul caso Salerno - Catanzaro, per esempio, è stata forse volutamente fatta passare l'opinione, attraverso un'informazione non sempre fedelissima, l'idea di questo scontro, di questa guerra tra Salerno e Catanzaro. A mio avviso non si è trattato di uno scontro, perchè uno scontro presuppone due corpi in movimento. In questo caso Salerno aveva legittimamente, come è stato appurato dal Tribunale del Riesame, disposto una perquisizione e un sequestro di atti nei confronti appunto di Catanzaro. Catanzaro non poteva replicare con un contro-sequestro per il semplice motivo che i reati ipotizzati da Catanzaro dovevano essere denunciati all'autorità competente, cioè appunto un'altra autorità, perchè evidentemente i magistrati di Catanzaro non potevano autodifendersi. Quindi non tanto la politica ma la stessa magistratura ha voluto consegnare al potere dei magistrati che stavano facendo onestamente il proprio lavoro e avevano toccato, come aveva toccato poi in fondo Luigi de Magistris, dei nervi scoperti che toccavano anche lo stesso potere giudiziario in Calabria, e che avevano aperto uno squarcio sul terzo potere dello Stato, e che poteva poi far saltare dei nervi anche in altri territori dello Stato."

Carlo Vulpio: "Pensate a come è stata trattata l'economia, pensate a come è stato trattato il lavoro dall'informazione. Un'informazione addomesticata, un'informazione orientata non serve. Per entrare davvero in Europa noi abbiamo bisogno di una informazione a livelli europei. L'Italia ai livelli europei, da questo punto di vista, non è ancora arrivata. Tutto quello che accade nella sfera pubblica è affare nostro. Se noi non ce ne occupiamo, qualcun altro farà in modo di occuparsene al posto nostro."

Ecco il testo integrale della lettera contenuta sul Blog di Carlo Vulpio con cui il giudice Guido Salvini denuncia le riunioni segrete nel Palazzo di giustizia di Milano per far fuori il gip Clementina Forleo. Il Csm ha aperto un procedimento disciplinare sui presunti “congiurati”, Salvini è stato convocato per essere sentito, nessuna procura d’Italia ha aperto alcun procedimento per eventuali reati commessi e tutti i giornali e le tv, sebbene sappiano tutto, non danno la notizia.

“Caro Cosimo e cari colleghi,

anch’io sono contento, anche sul piano umano, per la sentenza del Consiglio di Stato (quella che conferma la pronuncia del Tar del Lazio e annulla la decisione del Consiglio superiore della magistratura di trasferire da Milano a Cremona, per “incompatibilità ambientale”, il gip Clementina Forleo, che quindi ora può tornare a Milano – ). Non conosco a fondo il caso UNIPOL e dintorni ma avevo letto la sentenza redatta dal consigliere Fabio Roia e l’avevo trovata povera sul piano giuridico e riferita a fatti del tutto inconferenti per un giudizio di “incompatibilità ambientale” che per un giudice è quasi la morte civile. Una sentenza di quattro paginette, concepita con la supponenza con cui di frequente il CSM motiva decisioni importanti ritenendo di aver comunque sempre ragione. Aggiungo che sono stato testimone diretto dello sviluppo dell’azione “ambientale” contro la collega (cioè, la Forleo) dato che all’epoca ero anch’io GIP presso il Tribunale di Milano. Ho assistito a scene desolanti quali l’indizione con passa parola di riunioni pomeridiane in alcune stanze per discutere la “strategia” contro la collega, guidate dai maggiorenti dell’ufficio tra cui un paio di colleghi “Verdi” più rancorosi di tutti, come spesso accade, anche se del tutto estranei al caso. Da simili iniziative, che mi ricordavano le “Giornate dell’odio” descritte da George Orwell nel romanzo “1984″, mi sono dissociato.

Non ci si comporta così tra magistrati ed è facile e privo di rischi accerchiare una persona in un ufficio e magari in questo modo anche portarla a sbagliare, visto anche il carattere poco “diplomatico” della vittima. L’incompatibilità ambientale, che si ignora cosa in realtà sia di preciso, e che spesso è semplicemente l’accanimento dell’ “ambiente” contro una singola persona, è quasi sempre una procedura barbara e prettamente inquisitoria. Il suo raggio d’azione, per fortuna, con le modifiche che conosciamo, si è ridotto, ma dovrebbe esserlo ancora di più, sopratutto nella pratica, sino a quasi scomparire come dovrebbe scomparire la prassi, in qualche modo speculare, delle ”pratiche a tutela”.

Un caro saluto a tutti

Guido Salvini (domenica 19 giugno 2011, 23:09) 

PARLIAMO DI MAFIA E MASSONERIA: FACCE DI UNA STESSA MEDAGLIA.

PARLIAMO DI MASSONERIA

In internet un file ‘anonimo’ con tutti i dati. Ma non è aggiornato. 32 logge in Umbria fra Perugia, Terni, Spoleto, Foligno, Castello e Umbertide.

E’ spuntato in internet ed ha già attirato la curiosità di molti. E’ il file in formato excel dove sono riportati i nomi dei 26.409 iscritti alla Massoneria italiana. Con tanto di data di nascita, residenza, e professione. Il percorso è presto detto: si parte da Google e, una volta inserita nella stringa la parola chiave “elenco massoni” ecco che al primo posto (su un totale di 58.500 voci) fa bella figura di sè il “files.meetup.com/207935/pidue.xls”. Basta un click e il gioco è fatto.

Il documento non è di per sè una novità: si tratta di una lista datata, vecchia almeno di più decenni, già in parte pubblicata da quotidiani. Nel 1998 ci provò anche la rivista “Cuore” a pubblicare, a puntate, tutta quella massa di dati, ma l’esperimento si fermò al terzo numero. Nel 2004 il file arrivò alla redazione di Macchianera che non lo pubblicò perchè ormai era già disponibile nei siti peer to peer. Ma è evidente che chi oggi l’ha messa in rete, ha voluto gettare benzina sul fuoco del sempre tanto discusso e dibattuto tema della fratellanza: non fosse che lo stesso file, in chiusura, è stato ribattezzato “pidue”, quando nessuno dei 26mila risultava iscritto in quello della P2 di Licio Gelli che finì nel mirino della magistratura. Perchè, vale ricordarlo, essere iscritti ad una loggia non è reato. Diverso fu il caso della P2 i cui affiliati finirono coinvolti in diverse inchieste di eversione, stragi, depistaggi e tentato colpi di Stato. Ma torniamo al file. Alcuni di quella lista sono morti. Un centinaio infatti sono quelli che oggi avrebbero più di 100 anni. Non furono pochi quelli che, all’indomani dell’inchiesta del procuratore Agostino Cordova, uscirono dalla massoneria. “E’ fu un bene – dicono dagli ambienti ternani – molti erano entrati non perchè credessero nei nostri valori, ma perchè convinti che avrebbero potuto beneficiare di chissà quali favori. Chi ci credeva e ci crede è rimasto e alla fine quella indagine si rivelò una fortuna per l’onorabilità della massoneria”. Quelli rimasti hanno proseguito il loro ‘percorso’. A guardare quell’elenco c’è chi ha avuto fortuna. Ma c’è anche a chi non è andata affatto bene. Eccoli tutti insieme, tutti e 26.409: docenti, medici, impiegati, avvocati, commercianti, ferrovieri, geometri, ingegneri, agricoltori, bancari, farmacisti, architetti.

LA LISTA UMBRA: nel 1992 erano poco più del 4% gli umbri iscritti alle varie logge. 845 quelli residenti nella provicnia di Perugia, 232 in quella di Terni. La parte del leone la facevano i nati nel capoluogo di regione (562), seguiti da Terni (156), Città di Castello (65), Foligno (35), Gubbio (17), Spoleto (16), Bastia Umbra (13), Assisi (11), Amelia (7) etc..

LE LOGGE: Tre i principali Ordini massonici. Il Grande Oriente d’Italia (GOI), il più numeroso con i suoi 30mila iscritti, la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) e la Gran Loggia d’Italia, l’unica a concedere l’accesso alle donne. Tutte hanno il loro sito internet al quale hanno affidato persino gli indirizzi delle loro strutture. Un po’ più difficile avere la lista degli iscritti (per quanto gli elenchi sono pubblici e dunque consultabili presso i rispettivi uffici). Grazie ad un iscritto ad una loggia di Perugia è possibile tracciare un quadro più aggiornato sugli iscritti in Umbria.

G.O.I: è la più antica, nata nel 1805 (il primo Gran Maestro fu Eugenio De Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte), e la più numerosa. Attualmente è presieduta dall’avvocato Gustavo Raffi. 29 in tutto le logge umbre, 24 in provincia di Perugia, 5 in quella di Terni. Perugia: La loggia storica per eccellenza è la “Francesco Guardabassi” (n. 146), una delle 18 logge perugine che vantano ca. 1.300 affiliati. Seguono “Fede e Lavoro”, “Riccardo Granata”, “Mario Angeloni”, “I Figli di Horus” (che si richiama al rito egizio di Memphis e Misraim), “Fratelli Bandiera”, “Concordia”, “Ver Sacrum”, “Bruno Bellucci”, “Luca Mario Guerrizio”, “Francesco Baracca”, “La Fermezza”, “Guglielmo Miliocchi”, “Humanitas”, “La Fenice”, “Quatuor Coronati”, “XX Giugno 1859” e “Enzo Paolo Tiberi” (la più recente, n. 1.325). Città di Castello: 150 i “muratori” che compongono le 4 logge presenti a Città di Cstello, ribattezzate “XI settembre”, “I Liberi”, “Armonia” e “Atlantide”. A Foligno sarebbero una trentina gli affiliati alla “Domenico Benedetti Roncalli” mentre un po’ di meno quelli alla “Luigi Pianciani” di Spoleto. Terni: cinque le logge per circa 200 iscritti. La prima ad essere aperta è la ‘Tacito’ seguita dalla “Giuseppe Petroni”, “Paolo Garofoli”, J.W. Goethe” e “Alessandro Fabri”.

G.L.R.I.: fondata da Giuliano Di Bernardo a seguito dello scisma nel 1993 dal GOI. Attualmente è presieduta dal dottr Fabio Venzi. In Umbria vanta un centinaio di iscritti e 4 logge: la “Luigino Marra” di Spoleto, Piero della Francesca” e “San Bevignate” di Perugia e la “Braccio Fortebraccio” di Umbertide. Tutte operano nel capoluogo di regione dove gli iscritti si ritrovano, a cadenza settimanale, in una nota struttura ricettiva.

G.L.I. (Obbedienza di Piazza Del Gesù Palazzo Vitelleschi): E’ un “Ordine iniziatico di uomini e donne”, l’unica infatti ad aprire le porte anche alle donne. Fondata nel 1910 è oggi retta dal professor Luigi Pruneti. La sede umbra (per gli Orienti di Terni e Perugia) è presso il Centro Sociologico Italiano in Via Valentini a Perugia. Gli iscritti sarebbero una cinquantina.

L'INCHIESTA di  CURZIO MALTESE su “La Repubblica”: Chi comanda nelle città. Perugia, il potere soft tra Medioevo e futuro.

Un viaggio in Umbria è sempre un viaggio nel tempo, in molti sensi. Anzitutto, non bisogna aver fretta. Il cuore d'Italia ha il battito lento, la terra dove "la calma si trova a due passi dalla passione" (De Musset) attira più pellegrini che turisti. Non solo ad Assisi. In fondo anche i milioni di visitatori di Umbria Jazz, di Eurochocolat, di "Cantine Aperte" e della marcia della Pace, a modo loro sono in pellegrinaggio verso santuari laici. Disposti a perdersi nell'incanto dei paesaggi, nelle valli belle come la Toscana, ma meno oleografiche, più ruspanti e segrete. Di gran moda fra le star, come Sting e Bruce Springsteen, che hanno appena traslocato famiglie e clan dal Chiantishire a Montone. Ed è un viaggio nelle epoche, in una regione sospesa fra Medioevo e futuro. Come la pittura umbra, che salta dal Perugino a Burri. Perugia, l'"Oxford italiana" di Indro Montanelli, con la sua università antica di sette secoli, le mura alte e perfette, la Rocca Paolina, è un museo vivente ma anche il laboratorio sociale di un felice "melting pot" all'italiana, con una popolazione di immigrati fra le più alte e un indice di criminalità fra i più bassi. Non esiste consiglio comunale che non abbia consiglieri immigrati ed è palestinese il deputato di Perugia, Ali Rashid di Rifondazione. L'università per gli stranieri è il miglior ponte culturale fra Italia e Cina, per non dire l'unico, visto che qui studia la metà degli studenti cinesi presenti nel nostro Paese. L'euforia di un'aria pulita, il carezzevole tratto degli orizzonti, lo splendore dell'arte, il profumo stordente dei fiori e delle utopie, tutto rende questa terra a prima vista paradisiaca. Perfino la globalizzazione in Umbria è stata dolce. E' arrivata prima che altrove, con i due colossi industriali, la Buitoni-Perugina e le acciaierie di Terni, finite nelle mani di Nestlè e Krupp. In compenso la perugina Colussi è diventata una multinazionale e fa shopping nel mondo dei marchi (Misura, Liebig, Sapori, Flora) e le medie imprese innovative si sono organizzate per rispondere con guizzi di originalità e oggi c'è chi vende frigoriferi agli eschimesi, legno ai canadesi, energia solare agli spagnoli, cioccolata agli svizzeri, cashmere agli indiani, jazz agli americani.  Medioevo e futuro s'intrecciano nelle strutture del potere. Perugia è un groviglio di circoli chiusi, impenetrabili come fortezze, con una massiccia presenza della massoneria: trentaquattro logge in una città di 160 mila abitanti. Il tradizionale legame fra università e massoneria si attiva molto in queste settimane di campagna elettorale per i rettorati. Sono favoriti gli uscenti, il microbiologo Francesco Bistoni all'università per italiani e l'italianista Stefania Giannini agli stranieri, ma si combatte a colpi di comizi e riunioni. E' la vera campagna elettorale perugina. Le altre si chiudono di fatto quando i Ds locali comunicano i nomi dei candidati alle poltrone di sindaco, presidenti di provincia e regione, seggio alla Camera e al Senato. E' diviso in feudi anche il potere nell'informazione, con i due giornali di Perugia, il Giornale dell'Umbria e il Corriere dell'Umbria, in mano a due cementieri, entrambi eugubini, il gruppo Colaiacovo (colosso con tremila dipendenti) e il concorrente Barbetti, che li usano per farsi la guerra, in omaggio a un vecchio adagio umbro: "Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte". Con una netta prevalenza di Carlo Colaiacovo, al centro di un sistema di potere che comprende anche tre tv locali, la presidenza dell'associazione industriali e della fondazione bancaria, senza farsi troppi scrupoli di conflitto d'interessi. Eppure nel Medioevo umbro si aprono squarci di modernità. Non c'è forse un'altra regione in Italia, per esempio, dove s'incontrino altrettante donne nei posti di comando. Tutte nipotine di Luisa Spagnoli, la pioniera che nel 1907 fondò la Perugina, inventò il celebre "Bacio", si dice per amore di Francesco Buitoni, e poi la celebre catena di negozi, oggi gestita con talento dalla pronipote Nicoletta. Sono le sorelle Maria Grazia e Teresa a mandare avanti la Lungarotti, colosso del vino. Una quarantenne di Foligno, Catia Bastioli, amministratore delegato della Novamont, ha progettato una plastica biodegradabile e per questo è candidata al premio di inventore europeo dell'anno. Sono donne i sindaci di Todi e Città di Castello, la rettore dell'università degli stranieri e naturalmente lei, la "regina dell'Umbria", la presidente Maria Rita Lorenzetti. Contraria alle "quote rosa" perché non ne ha mai avuto bisogno. A meno di trent'anni era sindaco di Foligno, a trentacinque presidente della commissione parlamentare dell'ambiente, a quaranta (nel 2000) prima e unica governatrice d'Italia, riconfermata nel 2005 con un plebiscito, il 63,2 per cento, record nazionale. A conferma di una regione al femminile, come testimonial della Regione Umbria si è offerta Monica Bellucci, nata a Città di Castello. La popolarità della "regina" Lorenzetti si spiega con la ricostruzione dopo il terremoto del 1999 e con la fama di politico più antiberlusconiano d'Italia per via di alcune clamorose polemiche con l'ex presidente del Consiglio, sulla marcia Perugia-Assisi, sul 25 aprile e appunto sul terremoto. "Quando crollò quella scuola in Molise, Berlusconi ebbe il coraggio di dire: non faremo come l'Umbria. Perché non viene adesso a vedere come sono stati restaurati i borghi, più belli di prima?". Tutto vero, con qualche eccezione. Per esempio il centro storico di Nocera Umbra, ancora in macerie. "Guarda caso, l'unico dove c'è un sindaco di destra", risponde pronta. "Siamo circondati da una fama di regione vecchia, bella ma immobile. I problemi ci sono, a partire dall'invecchiamento della popolazione, duecentomila pensionati su ottocentocinquantamila abitanti. Ma guardi Perugia, il modo in cui ha integrato gli stranieri, eliminato il traffico cittadino con le scale mobili che ci copiano da tutto il mondo, inventato manifestazioni di successo nel mondo. Provi a visitare i nuovi distretti tecnologici verso il Trasimeno, a parlare con i giovani imprenditori e vedrà che stiamo vivendo una piccola rivoluzione". Seguo il consiglio e a una decina di chilometri da Perugia, vicino Corciano, visito quella che è forse la più piacevole fabbrica del mondo, la Cucinelli. Un borgo del '300, Solomeo, del tutto restaurato, dove le operaie lavorano nei casolari, all'ombra degli affreschi, guadagnano il doppio delle colleghe dei maglifici senza mai fare un'ora di straordinario e mangiano in una mensa da Gambero Rosso. Brunello Cucinelli, 43 anni, è il re del cashmere, esporta in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, ora in Cina e India, ma è l'esatto contrario dell'esangue e manierato stilista. Figlio di contadini, un passato di estremista, ha l'aria del francescano di sinistra e ricorda da vicino Mario Capanna. La sua rivoluzione l'ha fatta con i colori e il cashmere, ma ora si preoccupa "di restituire alla società una parte della mia fortuna". Ha salvato Solomeo dalla distruzione, adesso pensa a costruire un teatro neoclassico, che Luca Ronconi dovrebbe inaugurare, parchi per la meditazione religiosa, fondazioni benefiche. Cita Sant'Agostino, San Benedetto e Aristotele molto più di quanto non parli del bilancio consolidato o delle sfilate milanesi. In maniera perfino sospetta per uno che aumenta il fatturato del 20 per cento all'anno. E' presidente dei quindici teatri umbri, uno più bello dell'altro, e direttore dello Stabile di Perugia. Come quasi tutti gli industriali umbri, coltiva ulivi e vigne. "L'amore per il territorio era un lusso e oggi è diventato un marchio di garanzia nei mercati internazionali". Un altro imprenditore filosofo è Gianluigi Angelantoni, erede di Giuseppe, a capo di un'altra fabbrica-convento, sullo splendido Cimacolle davanti a Todi, che è un gioiello della tecnologia italiana. L'Angelantoni è specializzata in ingegneria del freddo, ha costruito simulatori ambientali usati in cinque continenti, il più avanzato simulatore per testare i satelliti, venduto all'India e inaugurato nel febbraio scorso a Bangalore durante il viaggio di Prodi, il sistema per conservare l'Uomo di Similaun e altro ancora. La prossima scommessa di Gianluigi Angelantoni è il progetto Archimede, in collaborazione col premio Nobel Rubbia. "E' un nuovo sistema di produzione di energia solare mutuato dallo stesso concetto degli specchi ustori di Archimede" spiega. "Sarà destinato ad abbattere i costi dell'energia solare. Gli spagnoli l'hanno già prenotato su vasta scala. In Italia, come sempre, siamo molto prudenti...". La terza tappa dell'Umbria Jazz Economy mi porta in una specie di giardino dell'Eden, a Montefalco, la terra del Sagrantino. Le industrie Caprai, settore tessile, hanno trasformato in business il tradizionale hobby degli industriali umbri per la vinificazione. Marco Caprai ha investito sul Sagrantino, vino originalissimo e fra i migliori d'Italia, quando nessuno ci credeva. Il risultato è un boom paragonabile a quello del Brunello negli anni Novanta. E' appena tornato dalla California, dove due produttori gli hanno chiesto una consulenza per riprodurre il Sagrantino: "Avevo soltanto capito che prima o poi la gente si sarebbe stufata di bere soltanto Merlot, Cabernet e Chardonnay, bastava aspettare e resistere". Al ritorno a Perugia incontro Eugenio Guarducci, 42 anni, autentico mito nascente dell'imprenditoria umbra. E' l'uomo che ha inventato Eurochocolate, un milione di visitatori, una sagra della cioccolata moltiplicata per mille. "Sono uno che ha inventato l'acqua calda" dice lui. "Che cosa ci voleva? Perugia è la città dei baci di cioccolata, la capitale della dolcezza. La città è bellissima e gli stranieri ci vengono sempre volentieri. Bastava soltanto mettere i manifesti". Peccato che nessuno ci avesse pensato prima. Dopo il successo di Eurochocolate, anche gli svizzeri si sono accorti di non averci pensato prima e hanno chiamato Guarducci per organizzare la festa europea della cioccolata. Intanto a Perugia, con gli incassi della fiera, ha aperto un centro congressi e una catena di alberghi tematici, uno dedicato naturalmente alla cioccolata, un altro al vino e il terzo, appena inaugurato, al jazz. Grazie ai Cucinelli, Angelantoni, Caprai, Guarducci, alla vivacità dell'imprenditoria al femminile, l'Umbria cresce più del resto d'Italia e ha l'indice di disoccupazione più basso al di sotto della pianura padana. Qualche anno fa Ernesto Galli della Loggia, in un lungo dialogo con il deputato diessino Stramaccioni, dedicò un pamphlet ("Rossi per sempre") all'Umbria come metafora del declino nazionale. Se questo è il declino, ci possiamo stare.

I massoni di Perugia: questa persecuzione deve finire. Dall’archivio de “Il Corriere della Sera” l’inchiesta di Bruno Tucci. LA CAPITALE DEI VENERABILI. Mille affiliati. Li accusano di condizionare la città e loro: "Siamo eredi dei laici che hanno sconfitto il Papa Troppe calunnie, quel magistrato viola il codice. Mille iscritti alle logge sparsi per la provincia: tutti nelle stanze dei bottoni. Ospedali, banche, università e poi ancora in magistratura, negli ordini professionali, tra gli avvocati, i medici, gli ingegneri fino alle istituzioni. La mappa della massoneria in questo lembo del Paese raggiunge percentuali da capogiro. Perugia si sente afflitta e condizionata? "Non diciamo eresie", esclama il presidente del collegio venerabile, Giancarlo Zuccaccia. "Chi ha conquistato posti importanti nella società non lo deve certo a noi, ma esclusivamente alla propria professionalità". Eppure, le accuse sono specifiche: vengono da un giudice calabrese che punta il dito contro i massoni e cerca di inchiodarli con elementi e prove inconfutabili. Lo avrete capito: il magistrato in questione è Agostino Cordova, procuratore di Palmi, il quale sta combattendo una battaglia personale in un campo così delicato e difficile. Le parole di Cordova non ammettono dubbi di sorta. In Umbria, e specificamente nella provincia di Perugia, i massoni sono tanti, troppi e condizionano la vita della città. Tutto passa attraverso il controllo delle logge: assunzioni, promozioni, avvicendamenti, scatti di carriera. Come mai? Semplice: al timone della barca ci sono loro e soltanto loro. "Fandonie, fesserie, calunnie", risponde a tono Giancarlo Zuccaccia, presidente dell' Ordine degli avvocati dall'ottobre del 1992. Sibila: "Sono stato eletto con 250 voti. Dovrebbero avere tutti una stessa etichetta, secondo Cordova. Ed invece, non è così, glielo posso assicurare. La verità è che questo magistrato ha preso di mira la massoneria. Ha sguinzagliato per tutta Italia i suoi scherani e siccome non è riuscito a trovare un bel nulla, allora tira fendenti alla cieca. Ma, attenzione, sta violando il codice penale". Un' accusa pesante, avvocato... "Già, è vero. Allora non la scriva. Però, rimane il fatto che noi siamo alla gogna, criminalizzati per episodi che non esistono. Siamo stanchi, mi creda, perché ne dobbiamo sopportare di tutti i colori". Dunque, non avete stretto tra di voi patti di alleanza spartitoria? Insomma, una specie di lottizzazione massonica? "Non scherziamo. Chi di noi raggiunge risultati professionali lo deve soltanto alla bravura ed all'onestà. Il resto sono chiacchiere che non stanno né in cielo, né in terra". Il presidente venerabile si difende, ammette che in Umbria ci sono 24 logge tra Perugia, Terni, Spoleto e Città di Castello, ma non vuole sentir parlare di favoritismi e di clientelismo. Sono parole sconosciute nel vocabolario dei massoni. Ma chi sa e conosce Perugia e dintorni non è d'accordo. Legge delle indagini condotte da Agostino Cordova e si frega le mani. "Finalmente! Era ora", grida qualcuno. "Questa storia, prima o poi, doveva pur finire. Speriamo si faccia in fretta, perché i giovani non ne possono più di un simile condizionamento". Parlano i perugini che non hanno niente a che spartire con la massoneria, però si trincerano dietro l'anonimato. Hanno paura di tarparsi le ali, di non poter combinare più nulla in futuro, se dovessero essere scoperti. Con tale premessa vanno avanti nel racconto e confessano al cronista che chi non sta dalla parte dei massoni incontra grossi ostacoli. I favoritismi sono a senso unico. Un esempio: se vuoi assicurarti un posto o se desideri compiere un salto di qualità, non hai altra scelta se non rivolgerti a quelli che contano. E, guarda caso, nelle stanze dei bottoni ci sono soltanto loro. Così è all' università, nelle banche, in ospedale, negli enti pubblici, dappertutto. "Noi agiamo alla luce del sole", replica Giancarlo Zuccaccia. "Non siamo un partito, abbiamo sempre combattuto la lottizzazione", aggiunge un altro "fratello perugino", l'avvocato Giacomo Borrione. "Anzi, sa che cosa le dico? E' vero il contrario: abbiamo sofferto l'infiltrazione dei partiti. Noi interveniamo soltanto quando un "fratello" è in stato di bisogno. E chi aiuta non appare, rimane tutto avvolto nel segreto". La voce di popolo grida a gran voce l'esatto contrario. Cita nomi, cognomi di affiliati: gente di potere che solidarizza solo con chi è iscritto. Ad esempio, la famiglia De Megni, sulla quale sono stati spesi fiumi di parole. "Alle cene annuali in casa loro partecipa il fior fiore della massoneria, il vertice delle logge umbre". Non si salva nessuno, nemmeno il rettore dell'Università, alcuni commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri. Chiacchiere? "Se sono bugie, lo vedrete il giorno in cui Cordova avrà completato la sua inchiesta", rispondono i perugini. Giancarlo Zuccaccia va su tutte le furie: "Io ai pranzi di De Megni non ci sono mai stato. Se mi chiedete se sono massone, rispondo di sì. Sono apparso in gonnellino pure alla tv. Ma non andiamo oltre, parlando di sette, di logge segrete, di clientelismo. Il venerabile Licio Gelli (come lo chiamate voi) lo abbiamo espulso nel 1976, avete capito?". Ed allora perché tanti massoni a Perugia o in Umbria, se preferisce? "E' semplice: perché siamo laici ed abbiamo subito la dominazione pontificia per 400 anni. Lo sa che il 20 giugno, puntualmente, Perugia festeggia la cacciata dei papalini? Ed è una festa a cui partecipa tutta la città, comune compreso. Questa persecuzione di Cordova deve finire. Io ho subito minacce telefoniche e sono in allarme per la mia incolumità". In Corso Vannucci, la strada dello struscio, scuotono la testa e commentano: "I massoni? Se non stai con loro, è meglio che emigri. Sono forti, fortissimi ed hanno tutte le leve del potere. Quindi..."

Ma la Massoneria non e’ solo magistratura: è pure politica.

Se a livello nazionale la polemica tra iscritti al Pd e massoneria crea imbarazzo, a livello locale molto meno, perlomeno laddove è tradizione consolidata. A Perugia, per esempio, dove più di qualcuno ha iniziato a fare “outing”. Mario Valentini, ex sindaco Psi negli anni Novanta e fondatore del Pd perugino, oggi ricorda: “L’esperienza della massoneria, della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino”. Il legame tra massoneria e Pd non un mistero in città, ma ora dopo il recente scandalo, il segretario locale invita alla calma: “Quella della massoneria è una questione sensibile – spiega Giacomo Leonelli -. Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente, altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti”. Sono soprattutto gli ex socialisti, ora confluiti nel Pd, ad avere dimestichezza con grembiuli e cappucci. Ma non tutti sono disposti ad ammettere di essere massoni. Cesare Fioriti dice: “Non sono massone, però difendo la massoneria. E poi i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee”. Angelo Pistelli, altro esponente Pd ex socialista, dopo la polemica non si sente più a suo agio nel partito: “In effetti del Pd ormai non condivido più tanto. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, a noi resta ben poco. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe”.

A tal proposito uscì un articolo: I grembiulini del Pd di Perugia di Marco Sarti su “Il Riformista”. Il Pd e la massoneria. Due realtà inconciliabili? Mentre in Italia infuria la polemica, a Perugia il tema non appassiona più di tanto. La sintesi tra squadre, compassi e militanza politica di sinistra, qui esiste da decenni. E nessuno si stupisce più. Perché se il capoluogo umbro è un feudo elettorale del Partito democratico, è anche vero che solo nelle vie del centro si contano almeno 19 logge. E così, nella nuova casa massonica perugina, in un antico palazzo a Corso Cavour, c'è persino chi si indigna di fronte all'ipotesi che qualche fratello possa venire epurato dal Pd. «Ma quale polemica… - si sfoga un responsabile del Collegio Venerabile - Nessuno ha mai fatto caso che ogni volta che c’è una crisi si tira fuori questo argomento? I nostri luoghi di ritrovo sono pubblici. Già nel lontano 1985 abbiamo sistemato una targa fuori dalla sede di Palazzo Giustiniani. Allo stesso modo abbiamo messo bene in chiaro i nostri riferimenti sull’elenco telefonico. Qualcuno si scandalizza se non viene resa pubblica anche l'identità dei nostri fratelli? Eppure mi sembra che persino gli elenchi degli iscritti a partiti e associazioni siano riservati». «I massoni del Pd? - racconta un anonimo militante - Vengono tutti dal Partito socialista». In effetti, a Perugia, il movimento storicamente più vicino al Grande Oriente è proprio quello un tempo guidato da Bettino Craxi. La gente ancora ricorda una storica seduta del Consiglio comunale, nei primi anni 90, quando il sindaco Mario Valentini (eletto nelle liste del Psi, poi fondatore del Pd perugino) rivendicò con orgoglio la sua appartenenza a un'influente loggia cittadina. «L'esperienza della massoneria - racconta oggi Valentini - della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. E non mi riferisco solo al periodo post-fascista, parlo anche della Perugia laica dopo il governo papalino. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Una vicenda fatta da uomini esempio di vita e rettitudine nel governo della cosa pubblica. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino». Che tra i quadri del Pd perugino, ancora oggi qualcuno si cimenti con cappucci e grembiule non è un mistero. Solo che, dopo il recente scandalo, nessuno è disposto a parlare. Giacomo Leonelli, segretario del Partito democratico della città, predica calma: «Quella della massoneria è una questione sensibile. Sono temi dove ognuno esprime le proprie idee secondo convinzioni personali. Per carità, sono convinto che chi si iscrive al Pd lo fa perché crede nel nostro progetto politico, non per altri fini». A scanso di equivoci, il segretario si appella allo statuto. «Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente. Altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti». Eppure sembra che fare politica tra Piazza Morlacchi e Corso Vannucci non possa prescindere da certi riferimenti. «Quando si governa a Perugia - conclude Leonelli - è normale entrare in contatto con determinate realtà cittadine». Contattati al telefono, i componenti della piccola pattuglia socialista nel Pd non si stupiscono di certi accostamenti. Ma negano, con cortesia, qualsiasi coinvolgimento personale. Cesare Fioriti fa parte del direttivo del Pd di Perugia. Ex capogruppo del partito socialista in consiglio comunale, qualche anno fa è riuscito a fare intitolare una via alla memoria di Vittor Ugo Bistoni, storico esponente del Psi cittadino, presidente del Collegio umbro dei Maestri Venerabili e fondatore della Loggia “Guglielmo Miliocchi”. «Certo che è strano - ripete anche Fioriti - questa vicenda della massoneria viene fuori a orologeria. Secondo me serve a spostare il baricentro dell’opinione pubblica altrove, rispetto a temi come la crisi. Ricordo un altro scandalo simile: accadde nei primi anni 90, ai tempi di Tangentopoli». Fioriti non è legato ad alcuna loggia: «No, non sono massone - precisa subito -. Però difendo la massoneria. La penso esattamente come Voltaire (altro “illuminato”, ndr) “Anche se disapprovo quello che dite, difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. I consiglieri comunali devono avere piena libertà di espressione, quindi anche di associazione. E poi scusi, i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee». Squadra e compasso non creano alcun imbarazzo. «Il fine della massoneria è l’evoluzione del pensiero - continua Fioriti -. Mi spieghi lei come fa il Pd a condannare un’organizzazione del genere». Angelo Pistelli è un altro esponente del Pd umbro. Anche lui di provenienza socialista, fino a poco tempo fa era nell'esecutivo regionale. Dopo le ultime polemiche sulla massoneria non si trova più molto a suo agio nel partito. «In effetti del Pd ormai non condivido tanto - ammette Pistelli -. Ma io mi sento di sinistra e non ci sono altri partiti in cui potrei militare. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, e a noi resta ben poco». Sembra quasi che Pistelli sia pronto a fare coming out, quando corregge il tiro. «Specifico che non sono un massone. Diciamo che difendo ogni espressione personale. Credo che anche all’interno del partito ognuno debba essere libero di aderire a quello che gli pare. Non vogliono i massoni? Allora io dico che non voglio l’adesione di tutti quelli che provengono dal Pci. Hanno calcolato che in Italia ci sarebbero 4mila iscritti legati alla massoneria. A occhio e croce non mi sembrano mica tanti. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe».

La Massoneria. Erede di misteriose società segrete avvolte nella leggenda, come il Priorato e i Rosacroce, è considerata un’organizzazione di sicura esistenza anche oggi. Non è ben chiaro, però, se questa società sia da vedersi come un’erede di quelle del passato, o piuttosto come un altro volto della medesima organizzazione, perseguente sempre gli stessi scopi, ma con rituali differenti. L’origine della Massoneria sembra da collocarsi in età moderna, quando, nel 1717, la Grande Loggia dei Massoni di Londra rese pubblica la sua esistenza. Ma ci sono diverse prove che la società esistesse già precedentemente: nel 1646 l’antiquario Elias Ashmole fu iniziato alla Massoneria, mentre una poesia di Henry Adamson del 1638 vi fa riferimento. Ma ci sono anche teorie che ne fanno risalire la fondazione all’epoca antica e che costituiscono la “Leggenda della libera Muratoria”. Essa si basa su documenti pubblicati nel 1800, che collegano la Massoneria alla costruzione del Tempio di Salomone, considerato il primo Gran Maestro. L’origine della società si fa anche ricondurre ai Templari, essendo stati ritrovati simboli massonici su pietre tombali in loro castelli. Quindi, ancora una volta, l’Ordine del Tempio, che dovrebbe essere stato il supremo difensore della fede, viene messo in relazione con un gruppo dalla religiosità discutibile. I massoni, infatti, credono in una suprema divinità, che però non si specifica chiaramente se sia un dio cristiano oppure no, visto che vengono accolte persone di tutte le religioni. Nel 1738, papa Clemente XII emanò una bolla in cui proibiva ai cattolici di aderire alla Massoneria, situazione che cambiò solo nel 1976.

La Massoneria prevede un rigido rituale, a cui deve attenersi chi vuole accedere ai diversi gradi, il cui simbolismo è riassunto in alcune Tavole illustrate, nelle quali sono sempre presenti i simboli fondamentali, riconducibili alla geometria e all’architettura: il Libro Sacro, la squadra, il compasso. L’aspirante al Primo Grado è detto Apprendista e deve essere bendato, indossare un abito di lino, con un cappuccio e un cordone intorno al collo (possiamo scorgere un’analogia con il cordone usato nella cerimonia d’iniziazione dei Templari). L’apprendista deve anche giurare di non rivelare mai i segreti che gli verranno svelati, altrimenti incorrerà in una terribile pena: aver la mia gola tagliata, la mia lingua strappata alla radice, e il mio corpo sepolto nelle ruvide sabbie del mare al limite della bassa marea. Sembra che questa minaccia non sia mai stata messa in atto, ma serve comunque a definire il sapere della Massoneria come esoterico.

La Tavola del Primo Grado comprende una rappresentazione del Sole e della Luna, a sottolineare l’importanza del concetto di dualismo che governa l’universo. Di rilievo sono le due colonne, corinzia e dorica, che rappresentano il passaggio dell’Apprendista verso un altro stato, e  che pare siano quelle del Tempio di Salomone, chiamate Jachim (lo spirito attivo e creativo, ed anche la conoscenza) e Boaz (lo spirito passivo e riflessivo, ed anche l’ignoranza), i due giganti che sorreggono le colonne d’Ercole.

Nella Tavole del Secondo Grado, a cui accede chi è diventato Compagno, le colonne sono cave e possono contenere documenti segreti (ci viene in mente l’abate Saunière che a Rennes-le-Château forse trovò delle pergamene in una colonna cava). Vi è, inoltre, la rappresentazione della scala di Giacobbe che sale verso il cielo (anche nella chiesa di Rennes troviamo un richiamo a Giacobbe tramite le parole sul timpano d’entrata Terribilis est locus iste).

Le Tavole del Terzo Grado, con cui si diventa Maestro, mostrano la simbologia che accompagna uno strano rituale: viene mimato l’assassinio da parte di tre cospiratori dell’architetto del Tempio, Hiram Abif, e l’iniziato riceve tre colpi, simbolici, sul capo. I simboli che si ritrovano sulle Tavole si addicono ad un fatto di sangue: una bara e il “Teschio” ossia un teschio su due femori incrociati. Ci sono tantissimi luoghi nel mondo dove è possibile trovare nell’architettura simboli massonici. Ad esempio la cappella di Rosslyn in Scozia, già sito prediletto dai cercatori del Santo Graal: due colonne sembrano essere quelle del Primo Grado, un’immagine di una testa ferita ricorda l’uccisione di Hiram, una scultura sembra rappresentare un Templare che amministra riti massonici. Sembra che i massoni abbiano partecipato alla progettazione di intere città, come Washington D.C., progettata seguendo viali diagonali, che formano triangoli e che sono allineati secondo eventi astronomici. Il viale diagonale principale, infatti, è la Pennsylvania Avenue, che pare allineata secondo tale evento: la sera del 10 agosto il sole tramonta esattamente alla fine del viale, mentre mezz'ora più tardi nello stesso punto tramonta una costellazione che include quella della Vergine. Intorno a questa costellazione c'è un triangolo rettangolo formato dalle stelle Regolo, Arturo e Spica, che ricalca quello formato da Pennsylvania Avenue, il Mall (vasto viale diretto ovest verso il fiume) e una linea che passa lungo il Monumento a Washington. Innegabile è l'influenza della Massoneria nella storia degli Stati Uniti, essendo massoni gran parte dei firmatari della Dichiarazione d'Indipendenza ed essendo lo stesso Washington membro della Loggia Alexandria. Il monumento a Washington è costruito sul modello di un obelisco egiziano, simbolo molto usato dalla Massoneria; una statua dedicata al presidente Garfield mostra uno zodiaco; il Gran sigillo degli Stati Uniti (quello che si vede sul dollaro) raffigura una piramide sormontata dall'Occhio-che-Tutto-Vede. Anche molte associazioni universitarie utilizzano un simbolismo massonico: il più lampante esempio è la confraternita Teschio e Ossa di Yale, della quale fecero parte molti politici e personaggi in vista, tra i quali George H. W. Bush e George W. Bush. Esiste una città vicino a noi che sembra nascondere tra le sue vie ed i suoi monumenti chiari riferimenti massonici, Torino.

Il capoluogo torinese è notoriamente considerato un “città magica”, dove proliferano le sette e i sedicenti maghi. Torino sarebbe, infatti, un omphalos primordiale, un centro d’irradiazione di energia tellurica e spirituale, sorgendo su un nodo geomantico, cioè in un punto d’intersezione tra correnti enrgetiche dette leys (le stesse dove potrebbero essere sorti i luoghi di culto delle civiltà antiche, specialmente quelli dedicati alla Dea Madre). Torino farebbe, dunque, parte di un doppio triangolo magico, i cui vertici sarebbero altre città magiche del mondo: Lione, Praga, Londra e San Francisco. A Torino sono segnalati da chi si diletta di magia ed occultismo 33 punti magici, negativi e positivi. Il punto di maggiore positività si situa in piazza Castello, dove si trova la meridiana astrologica sulla prima colonna di destra del Duomo e la cancellata della Piazzetta Reale su cui sono rappresentati i Dioscuri, simboli dell’opposizione tra luce e tenebre, Sole e Luna, secondo un dualismo caro ai massoni. Il punto di maggiore negatività sarebbe Piazza Statuto, rivolta ad Ovest, dove si eseguivano le condanne capitali. Nella storia di Torino è anche rilevante il legame con l’Egitto, i cui simboli si ritrovano in alcuni rituali massonici: la città sembra, infatti, aver dato asilo al principe eretico Eridano, che avrebbe scelto questo sito per fondare una città nel XV secolo a. C., perché il Po gli ricordava il suo Nilo. Anche il nome stesso della città potrebbe essere di origine egizia, ricollegandosi al culto del Toro sacro di Menfi. La chiesa della Gran Madre di Dio (indicata come uno dei luoghi del Santo Graal) si dice sia stata costruita sulle rovine di un antico tempio di Iside. Vi è, inoltre, in Piazza Solferino, un’opera d’arte palesemente ispirata dal simbolismo massonico, la Fontana Angelica. Essa era stata progettata per essere collocata davanti al Duomo, mentre nella posizione attuale ha perduto parte del suo significato simbolico, non essendo rivolta ed est. Le statue rappresentano due figure maschili, l’Autunno e l’Inverno, che si possono identificare con Jaquim e Boaz. Essi versano l’acqua da due otri, uno a forma d’Ariete, l’altro d’Acquario. L’acqua rappresenta la conoscenza, mentre l’Ariete è il Vello d’Oro cercato dagli Argonauti, ma anche la trasformazione della materia verso la perfezione (la Massoneria è considerata depositaria di segreti alchemici); l’Acquario, invece, rappresenta l’Era dell’Acquario a cui deve tendere l’umanità. Le  due figure maschili, però, possono anche rappresentare la divinità egizia Osiride, e allora quelle femminili, la Primavera e l’Estate sarebbero la sua compagna Iside. Se poi ci si pone di fronte alla fontana si vedrà che tra l’Autunno e l’Inverno si apre un varco: quello che l’iniziato deve attraversare per giungere alla vera conoscenza. Ecco che una città dalle antiche tradizioni di magia è stata eletta da una società segreta come luogo privilegiato per esprimere i propri riti e forse svelare i propri segreti all’attento osservatore.

La Massoneria in Italia. Essa visse stentatamente fra le persecuzioni fino alla occupazione napoleonica. Si ha notizia dì qualche Loggia in Firenze, Napoli, Torino, Cremona e Milano. Il 5 marzo 1805 si costituì in Milano il primo Supremo Consiglio d'Italia, ad opera dei fratelli massoni Francesi di 33° Grado, appartenenti alla Armata Napoleonica, e furono eletti a Sovrano Gran Commendatore il Viceré d'Italia Principe Eugenio Beauharnais e Gran Cancelliere il Principe Gioacchino Murat. Nel 20 giugno dello stesso anno si formò il Grande Oriente d'Italia, pure in Milano col quale si fusero le Logge Francesi del Grande Oriente e della Divisione Militare del Regno d'Italia. Nel 1806 furono pubblicati gli Statuti della Franca Massoneria in Italia ed i Rituali dei primi tre Gradi; nel 1809 la Costituzione Generale del Grande Oriente in Italia; nel 1812 una nuova edizione degli Statuti, da cui derivano gli Statuti generali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, stampati in Napoli; nel 1820 ed ancor oggi in uso.

Dal 1806 al 1808 si ebbero nell'Italia settentrionale più di 30 Logge, composte dai migliori elementi della società del tempo, tra i quali il filosofo Romagnosi, Vincenzo Monti, ed il musicista Paganini. Nei documenti ufficiali Napoleone era chiamato " Potentissimo Fratello Protettore dell'Ordine".Nel 1808 si costituì il Grande Oriente di Napoli con Gioacchino Murat Gran Maestro; l'anno successivo fu fondato il Grande e Supremo Consiglio per le due Sicilie dei Potentissimi Grandi Ispettori Generali, con sede in Napoli e Murat Sovrano Gran Commendatore. Il Colletta riferisce che nel 1813 la Massoneria meridionale contava 94 Logge. Caduto Napoleone, il Supremo Consiglio di Milano si sciolse, mentre continuò il fervido lavoro segreto delle Logge nell’Italia meridionale. Dopo il 1848 sembra che vi fosse in Torino uno Supremo Consiglio, che però non fu molto attivo fino al 1862; nel 16 dicembre di quell'anno si costituì in Torino un Concistoro del 32° Grado, che funzionò fino al 1866, anno in cui si ebbe un Supremo Consiglio per l'Italia, che continua il suo lavoro ancora nel 1883. Nel 1861 la Massoneria funzionava ancora in Napoli, ove la Loggia "Sebezia" assumeva il titolo di Gran Loggia Madre per affermare la sua diretta discendenza dal Supremo Consiglio di Napoli; a Palermo si creavano altre due Massoneria, una delle quali si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino nel 1867, è l'altra nel 1862 eleggeva alla carica di Sovrano Gran Commendatore Giuseppe Garibaldi.Divenuta Firenze capitale del Regno, nel 1864 molti membri della Supremo Consiglio di Torino vi si trasferirono; ivi veniva fondato nel 1869 un nuovo Supremo Consiglio, che nel 1872 si trasferiva a Roma. In tale data veniva nominato Sovrano Grande Commendatore Giorgio Tamayo. Nel 1863 la situazione della Massoneria italiana era la seguente: un Supremo Consiglio a Torino con a capo il Generale Milbitz, un Supremo Consiglio a Firenze con a capo Francesco De Luca, un Grande Oriente a Napoli, un Supremo Consiglio a Palermo. Una ispezione del Potentissimo Fratello Albert G. Goodall del Supremo Consiglio di Boston dichiarava illegittimi i Supremi Consigli di Palermo e di Firenze, e regolare il solo Supremo Consiglio di Torino, cui spettò di partecipare al Congresso di Losanna del 1875. Circa nel 1869 il Grande Oriente di Napoli si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino, nel 1875 auspice Giuseppe Garibaldi si fondevano i Supremi Consigli di Roma e di Torino, creandosi un nuovo Supremo Consiglio per l'Italia con sede a Roma, al quale aderiva nel 1876 il Supremo Consiglio di Palermo. Ma varie vicende, specie per il fatto di dover trasferire la sede a Roma, rompevano l'accordo; però nel 1879, per iniziativa di alcuni Supremi Consigli esteri tutti i fratelli italiani di 33 Grado, convocati a Roma, creavano il Supremo Consiglio per l'Italia ed il nuovo Sovrano Gran Commendatore nella persona di Giorgio Tamayo. Però la Massoneria piemontese si tenne ancora in disparte, cessando di essere regolare. La fusione completa avveniva poi nel 1887 per opera di Adriano Lemmi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia in Roma: morti nel 1895 il Riboli di Torino è nel 1897 il Tamayo di Roma, veniva nominato Sovrano Gran Commendatore della Massoneria italiana il Lemmi, che tenne la carica fino alla sua morte, avvenuta nel 1906. Dopo il 1860, parallelamente al Rito Scozzese, e sul tipo della Massoneria francese, si era formata in Italia una Grande Loggia Simbolica, che non riconosceva Gradi superiori al 3°. Ne furono Grandi Maestri Costantino Nigra, Giuseppe Garibaldi, Francesco De Luca, e il Marchese Cordova. Adriano Lemmi si adoperò perché il Rito Scozzese ed il Rito Simbolico si riunissero, delegando i due poteri ad un Grande Oriente d'Italia per la sovranità sulle Logge; il patto potè dirsi perfetto nel 1882 quando Adriano Lemmi, già Sovrano Gran Commendatore, fu eletto anche Gran Maestro del Grande Oriente. Morto Adriano Lemmi nel 1906, gli succedevano come Gran Maestro Ettore Ferrari e come Sovrano Gran Commendatore Achille Ballori, il quale aveva come Luogotenente Saverio Fera. Nel 1908 la Massoneria si divise in due a causa di un conflitto sorto, essendo un gruppo di Deputati al Parlamento stato minacciato di espulsione per non essersi schierato con sufficiente energia circa un progetto di Legge sulla laicità dell'insegnamento. In sostanza, si contestava la inopportunità dell'intervento ed il diritto del Gran Maestro E. Ferrari di imporsi sulla coscienza dei massoni Deputati in questioni politiche e religiose che non toccavano direttamente l'Ordine. Perciò il Supremo Consiglio, quale tutore della regolarità delle Rito Scozzese, minacciò di demolizione il Grande Oriente. Il Sovrano Gran Commendatore A. Ballori in un primo momento si schierò contro E. Ferrari, ed in secondo tempo si alleò a questi avendo contro di sé tutto il Supremo Consiglio, lasciò la carica al Luogotenente Saverio Fera. Questi creò allora secondo gli Statuti Scozzesi una Gran Loggia Nazionale d'Italia, di cui venne nominato Gran Maestro. Si ebbero così due Massonerie, che dalle rispettive sedi furono dette Piazza della Gesù (Fera) e di Palazzo Giustiniani (Ballori). Una ispezione allora a nome dei vari Supremi Consigli Esteri ed a mezzo del Potentissimo Fratello Belga De Paepe riconobbe regolare la prima, tale decisione venne confermata dalla Conferenza di Washington del 1912; così nel mentre la Massoneria regolare di Piazza del Gesù rimaneva federata con le 56 Potenze massoniche di Rito Scozzese, quella di Palazzo Giustiniani rimaneva collegata con alcuni Grandi Orienti irregolari, fra i quali il Grande Oriente di Francia e la Gran Loggia Simbolica di New York. Morto Saverio Fera, furono Gran Maestri della Massoneria Scozzese Italiana i Sovrani Gran Commendatori Leonardo Ricciardi, William Burgess e Raoull Vittorio Palermi. La posizione delle due Massoneria venne definitivamente regolata dalla Conferenza di Losanna del 1922 il delegato di Palazzo Giustiniani non venne ricevuto, perché ritenuto irregolare, e Raoul Vittorio Palermi, delegato di Piazza delle Gesù, fu nominato Presidente della prima Sezione, ottenendo il riconoscimento da parte di tutti i Supremi Consigli rappresentati alla Conferenza, della sua regolarità. Tra il 1919 ed il 1922 le due Massoneria presero posizione contro i movimenti estremisti, che avevano fatto piombare il Paese nell'anarchia. Giunto al potere Benito Mussolini, con un programma costruttivo di disciplina nazionale, tanto il Palermi, che Domizio Torrigiani Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, gli resero pubblico omaggio, e malgrado il divieto fatto ai fascisti di essere massoni, tutti gli uomini più eminenti delle fascismo erano iscritti a Logge dell’una o dell'altra parte. A causa del delitto Matteotti e del discorso del 3 gennaio 1925, la Massoneria assunse verso il regime un atteggiamento di aperta sfiducia: mentre però il Torrigiani si chiuse in una rigida opposizione, il Palermi cercò di salvare il salvabile; ma nulla potè conseguirne, infatti fu promulgata la legge 20 novembre 1925 contro le Società Segrete. Ma la Massoneria non era morta: gruppi di massoni si tenevano in contatto nelle varie città. Alla fine del conflitto bellico le Logge servirono a far divampare la Sacra fiamma massonica che, sopita ma non spenta, brilla di luce antichissima: essa potrà e dovrà di nuovo riverberarsi nella vita italiana, riportare il contributo dello splendore dello Scozzesismo alla ricostruzione della Patria ed al suo ritorno nel Consesso delle Nazioni.

Torino capitale, covo di massoni. La città incarna le ragioni del laicismo contro quelle della chiesa. Dopo la fine del sogno rivoluzionario quarantottino, a decine di migliaia gli esuli della libertà vanno a Torino, nuova e impensabile capitale italiana. Impensabile è la parola giusta: da sempre la classe dirigente torinese ha avuto il francese come eloquio privilegiato, esclusivo per le buone occasioni. Non è un caso che Cavour abbia fatto esercitazioni di italiano prima di affrontare i dibattiti in Parlamento. Torino diventa la capitale morale d’Italia facendo proprie le ragioni del mondo civile contro quelle della barbarie medioevale, incarnate dalla Chiesa cattolica. Non solo: Torino diventa Gerusalemme. Il Paragone non sembra ardito a Roberto Sacchetti: "Torino saliva allora al colmo del suo splendore. Era stata forte e diventava grande - bella, balda di una gioia viva e seria come una sposa a cui preparano le nozze. La Mecca d’Italia diventava la Gerusalemme". A Torino, nuova capitale morale e religiosa d’Italia, si trasferiscono, e non può che essere così, tutti i liberal-massoni (Free-Mason, Franc-Maçon, Libero-Muratore, liberalismo e Massoneria sono nell’Ottocento praticamente sinonimi) del resto d’Italia. I regnanti sardi offrono ai "fratelli" italiani un’accoglienza tanto calorosa da riservare loro (a tutto discapito dei locali) alcuni dei posti più prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia, nello stesso Parlamento. Ecco come il siciliano Giuseppe La Farina, una delle più eminenti personalità massoniche emigrate a Torino, racconta l’accoglienza riservata agli esuli in una lettera alla "carissima amica" Ernesta Fumagalli Torti, spedita il 2 giugno 1848. "Arrivati appena a Torino - scrive - stavamo spogliandoci, quand’ecco il popolo preceduto da bandiere venire sotto le nostre finestre, e farci una dimostrazione veramente magnifica. Mi affacciai alla finestra, ringraziai; fui salutato con mille prove ed espressioni d’affetto. La mattina seguente, dopo essere stati da’ ministri, ritorniamo a casa; e dopo un momento, chi viene a visitarci? Tutta la Camera de’ Deputati col presidente. Onore insigne, che i parlamentari non sogliono concedere né anco ai propri re". L’accoglienza "regale" offerta alla generosa emigrazione italiana, permette ai Savoia di incassare un importante obiettivo politico: li rende preziosi e credibili alleati degli stati che contano. Offre garanzie ai liberali - protestanti e massoni di tutto il mondo - che sono intenzionati a fare sul serio. Che hanno davvero deciso di rompere con la tradizione cattolica del proprio stato e della nazione cui quello stato appartiene. I Savoia per amore di regno e quindi per furto - come scrive D’Azeglio nei suoi ricordi - diventano fautori dell’ideologia massonica e della religione protestante che apertamente combattono la cultura e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica che rende il Piemonte docile feudo della cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell’imperatore Napoleone III, i Savoia godono dell’appoggio incondizionato dell’una o l’altra di queste potenze e realizzano l’unità d’Italia sfruttando fino in fondo e con grande spregiudicatezza l’unico elemento in proprio favore: la radicale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola.

L’anima massonica del regno sardo, e in particolare del Parlamento subalpino, viene mai apertamente alla luce? No, perché l’associazione è pluri-scomunicata e perché il primo articolo dello Statuto vincola i parlamentari all’ossequio della fede cattolica definita religione di stato. L’11 novembre 1848, però, un brillante intervento del deputato Cavallera rende palpabile la "fraternità" quasi come l’aria che si respira. Si sta discutendo di sollevare le finanze dello stato, esauste per la campagna militare, ricorrendo all’esproprio e alla vendita dei beni delle corporazioni religiose. Contrario alla proposta Cavallera fa un discorso brevissimo, allusivo, singolare e sintomatico insieme, che dopo un primo momento di sconcerto suscita la generale ilarità. Ecco le poche battute del curioso intervento. Gli ordini religiosi - osserva il deputato - sono nati in Italia dove esistono da "più di dodici secoli". Bisogna dedurne che "necessariamente corrispondono ad un bisogno reale della società (rumori) [chiosa degli Atti del Parlamento subalpino]; e per conseguenza se si volessero abolire, altre se ne dovrebbero sostituire; infatti i moderni che vollero abolire i frati, vi sostituirono un’altra specie di frati: e cosa sono i circoli politici, se non vere fraterie? (Sorpresa e scoppio generale di risa prolungate). Perciò posto che non si sa stare senza frati, ai moderni preferisco gli antichi (Segue ilarità e mormorio di voci diverse)".

PARLIAMO DI MASSONERIA DEVIATA, MAFIA, SERVIZI SEGRETI E SETTE SATANICHE.

Carlo Palermo (Avellino 1947) è stato magistrato, avvocato, politico italiano, già sostituto procuratore a Trento dal 1975 al 1984 e poi a Trapani fino al 1989. Entrato in Magistratura, diventò noto al grande pubblico quando, a Trento, aprì un'indagine su un ampio traffico di armi e droga che - per il tramite del finanziere Ferdinando Mach di Palmstein - coinvolse il segretario del PSI, Bettino Craxi. Il sospetto fu che i traffici illeciti avvenissero con l'appoggio di alcuni esponenti politici, in cambio di finanziamenti illeciti. Oltre a Bettino Craxi, venne sfiorato dal coinvolgimento nell'inchiesta pure il banchiere socialista (poi parlamentare di Rifondazione Comunista e PDCI) Nerio Nesi. L'inchiesta si concluse con un nulla di fatto e, dopo una fortissima reazione degli indagati e di Craxi in particolare, culminata in una denuncia al CSM il magistrato fu trasferito nel 1985 a Trapani, dove le sue indagini si erano incrociate con il collega Giangiacomo Ciaccio Montalto ucciso nel 1983, dove intendeva continuare a indagare sui traffici di armi e droga. Nella città siciliana, dopo solo 50 giorni dal suo arrivo, la mafia reagì e tentò di ucciderlo con un'autobomba a Pizzolungo, una frazione del trapanese. Il magistrato restò ferito, poiché al momento dell'esplosione l'auto del magistrato stava superando una vettura su cui si trovavano Barbara Rizzo e i suoi due piccoli gemelli Salvatore e Giuseppe Asta, che morirono dilaniati, investiti in pieno dall'esplosione. Ma l'attentato, visto il breve tempo, non fu solo una storia di mafia. Pochi mesi dopo l'attentato Carlo Palermo si trasferì per qualche tempo a Roma al ministero, poi lasciò la magistratura e intraprese l'avvocatura, oltre a impegnarsi in politica. Per La Rete è stato dall'aprile 1992 deputato alla Camera nel collegio Trento-Bolzano, fino a quando, nel novembre 1993 fu dichiarato incompatibile.

L’inchiesta ‘armi e droga’ condotta dal giudice Carlo Palermo che fornisce spunto all’articolo di Luigi Cipriani riportato di seguito, finì come noto travolta dalle assoluzioni generalizzate per tutti gli inquisiti, descritte in calce all’articolo con altre brevi notizie e indicazioni bibliografiche per chi non avesse seguito la vicenda sulla stampa.

Luigi Cipriani, Armi e droga nell'inchiesta del giudice Palermo, in Democrazia proletaria maggio 1985. Riportata sul sito della Fondazione Cipriani.

Il traffico di eroina pura e morfina base scoperto dal giudice Carlo Palermo agli inizi del 1980, proveniente dai luoghi di produzione in Turchia, arrivava in Italia passando dall'Austria o dalla Jugoslavia. La droga veniva rilavorata in Italia e distribuita in tutto l'Occidente dalla grande mafia siculo-statunitense. Molto spesso la droga veniva scambiata con armamenti, in connessione con servizi segreti, industrie belliche, finanzieri, partiti e governi. I capi della mafia turca Abuzer Ugurlu e Bekir Celenk (entrambi padrini dell'attentatore del papa, Ali Agca) dirigevano i loro traffici dalla capitale bulgara Sofia. Entrambi, per poter agire in tranquillità, fungevano da informatori per i servizi segreti dell'est e dell'ovest, erano cioè agenti doppi. Ciò spiega anche le molte perplessità manifestate dalla Cia quando, in Italia, il giudice Martella si mise a seguire la pista bulgara in merito all'attentato al papa. Al trasporto della 'merce' via terra provvedevano Karafa Mehmet Alì (con una dozzina di autotrasportatori jugoslavi, raggiungeva le piazze di Trento, Verona e Milano) e un dirigente della narcotici turca, su auto della polizia. Al trasporto via mare, che raggiungeva gli Usa, provvedeva l'armatore Mehemet Cantas con la società panamense Sutas.

Del trasporto di eroina negli Usa via mare si occupava anche l'altro capomafia turco Cil Huseyn. L'armatore Mehemet Cantas, per gestire meglio i propri traffici, si era trasferito a Los Angeles, dove era in contatto con la mafia siciliana. Interrogato dal giudice Palermo, dichiarò di avere venduto navi sia a Bekir Celenk che al grande trafficante Henry Harsan. In Germania agiva il trafficante d'armi turco Tegmen Herten, agente della Dea (agenzia antidroga Usa) residente a Monaco di Baviera: trattava ogni tipo di armamenti in stretto rapporto coi servizi tedeschi e la Nato.

In Germania veniva anche riciclato il denaro sporco, Francesco Coll e Rodolfo Corti trasportavano la valuta da Bolzano verso la Dresdmer Bank di Monaco di Baviera, il cui direttore Kriske è stato arrestato. A Zurigo trafficava in armi, in collegamento con agenti dei servizi italiani, il finanziere Hans Kunz, che fu tra gli organizzatori dell'ultimo viaggio di Roberto Calvi. Nell'area mediorientale, sotto la copertura della società svizzera Petrocom, trafficava il fratello del presidente siriano, Hassad Rifaat, assieme ad alcuni agenti dei servizi siriani. Trafficante di armi e di droga sull'asse Berlino-Varsavia era il turco-siriano Derki Badi, anch'egli legato al trafficante milanese Arsan.

L'Italia centro del traffico mondiale di armi e di droga.

Ma il vero centro del traffico di armi e di droga è risultato essere il nostro Paese. Le richieste di ogni tipo di armamenti, dalle pistole alle tecnologie nucleari, pervenivano da ogni parte del mondo, assieme a grandissime quantità di eroina e di cocaina. Le contrattazioni internazionali fra i trafficanti avvenivano in Bulgaria all'hotel Giapponese di Sofia e all'hotel Marmara di Monaco di Baviera. Quel che sorprende, infatti, è il numero delle società commerciali italiane che operano con la Bulgaria, ben 776 contro le 800 che operano con l'intera Urss. La catena di trafficanti italiani scoperta dal giudice Palermo inizia appunto dalla frontiera est, da Bolzano. Nel giardino della villa di Herbert Hoberhofer, terrorista, 'eroe' sudtirolese, in realtà informatore del servizio segreto della nostra Guardia di finanza, sul finire del 1979, vennero ritrovati 130 chili di eroina. Centro del traffico a Bolzano era l'hotel Grifone. L'Hoberhofer venne arrestato insieme al giardiniere Meraner.

Già da allora l'inchiesta di Palermo incontrò le prime, violente reazioni. La stampa locale e le associazioni sudtirolesi fecero pressioni fin quando l'Hoberhofer venne rimesso in libertà provvisoria dal tribunale di Trento. Successivamente riarrestato dal giudice Palermo, Hoberhofer è stato condannato a diciotto anni. Nella provincia di Verona, responsabile del traffico era Giorgio Malon, anch'egli condannato a diciotto anni dal tribunale di Trento, presidente Antonino Crea. Il vero capozona del traffico di armi e di droga era però Karl Kofler di Trento. Il Kofler era collegato a Milano con i grandi trafficanti di armi e con la grande mafia che, tramite Angelo Marai e Leonardo Crimi, portava alla famiglia di Gerlando Alberti. Tramite Leonardo Crimi, legato alla mafia trapanese, Kofler si incontrava all'hotel des Palmes di Palermo con Gerlando Alberti. Va ricordato che all'hotel des Palmes venne portato Sindona dalle famiglie Gambino, Inzerillo e Spatola, all'epoca del famoso rapimento del finanziere della mafia, con lo scopo di fargli rivelare la lista dei cinquecento. A quei tempi, in particolare con Totò Inzerillo, si incontrava anche Francesco Pazienza, sempre al famoso hotel des Palmes. Kofler era quindi un testimone importante, disposto a parlare molto e, puntualmente, venne eliminato. Siamo al secondo episodio di attacco all'inchiesta Palermo: il 7 marzo 1981, nel carcere di Trento, benché sottoposto a sorveglianza stretta, Karl Kolfer fu assassinato e mai venne scoperto l'assassino. Dal carcere di Trento riuscì a fuggire un altro testimone del traffico, l'industriale turco Nehiz Hasan, in realtà boss mafioso.

Tutte le vie portano a Milano.

Karl Kofler fece al giudice Palermo il nome di una società milanese, la Stibam che, caso strano, aveva sede in una palazzina di proprietà del Banco ambrosiano di Calvi e nella quale abitava anche il vicepresidente del Banco, Rosone. Perquisendo la sede della Stibam, Palermo trovò montagne di ordini, offerte, richieste di armamenti provenienti da tutto il mondo. Molte delle operazioni si avvalevano della 'consulenza' finanziaria dell'Ambrosiano. Socio maggioritario della Stibam era un siriano residente da molti anni in Italia e, forse non casualmente, a Varese, Henry Arsan. Altri soci erano Mario Cappiello, Giuseppe Alberti ed Edmondo Pagnoni. Il siriano-milanese Arsan si rivelò essere uno dei maggiori trafficanti d'armi del mondo in combutta, come vedremo, con agenti dei servizi segreti italiani. A titolo di esempio, basti notare che in una ventina di trattative vennero smerciati 116 carri armati e 20 elicotteri per la Somalia, 238 carri armati per Taiwan, altri 10 elicotteri da combattimento antisom, missili Tow, aerei C-130, missili Arpoon e relativi lanciatori, tre fregate della classe Battista de Andrade, 100 carri Leopard, 50 elicotteri Elios, 30 carri Leopard Mk-2, 60 cannoni 155/175, 10.000 proiettili C16, 60 elicotteri Bell Ah-16 residuati dal Vietnam e destinati al Kuwait, 100 motori per carri R-16, 33 chili di plutonio e 1.000 chili di uranio. Arsan era anche un grande trafficante di droga e disponeva di due navi, la Anika e la Golden sun, acquistate dalla società panamense Sutas dell'armatore e trafficante turco Mehemet Cantas. Nel solo 1981, Arsan fece arrivare a Milano 4.100 chili di eroina purissima, sufficiente per oltre 100.000 dosi che, distribuita sul mercato, fruttò circa 400 miliardi. Eppure, nel 1981, la Criminalpol conosceva benissimo Henry Arsan: era un agente della Dea, li aveva informati fin dal 1977 il responsabile dell'agenzia antidroga Tom Angioletti, sia pure con cinque anni di ritardo, da quando, nel 1972, era diventato loro informatore. A Milano, la Stibam di Arsan è collegata ad alcune società di copertura di mafiosi turchi, come la Ital Orient di Mohamed Nabir e la Wapa, gestita da due turchi, Salah Al Din e Pannikian Onnik, che distribuiva eroina in Lombardia e in Calabria. Ma il collegamento più interessante, come vedremo, è quello fra il turco Salah Aldin Wacekas ed Angelo Marai, uomo di Gerlando Alberti, che ci condurrà alla grande mafia siciliana. Altra società che operava nel traffico d'armi a Milano era la Comin di via Canova i cui proprietari, Antonio De Mitri e il fratello, facevano la spola con la Bulgaria, smerciando carri armati e missili di fabbricazione occidentale. In Bulgaria, a trattare partite d'armi ben più consistenti, si recava anche, per conto di Arsan, un noto armiere della Valtrompia (Brescia), Renato Gamba. Con Renato Gamba, entra in scena una vecchia società, quotata alla borsa di Firenze e Milano, la Broggi Izar, specializzata nella lavorazione di metalli preziosi. Con l'ingresso di nuovi proprietari, la Broggi Izar realizzò un consistente settore bellico, acquistando piccole industrie, tra le quali quella di Renato Gamba. Dall'interrogatorio del presidente della Broggi Izar, Cesco della Zorza, emerse che i capitali erano stati investiti dalla finanziaria Cepim, legata a Vittorio Emanuele di Savoia, iscritto alla P2 e noto trafficante di armi. Responsabile del settore armi della Broggi Izar era un americano, Reginald Allas, introdotto sia al Pentagono che al Cremlino. Entrambi i dirigenti della Izar furono fatti arrestare dal giudice Palermo: in sostanza, la Broggi Izar fungeva da paravento per il traffico illegale di armi, coperto da autorizzazioni ottenute per il commercio di armamento leggero. La società Broggi Izar appare anche nella attività di investimento di uno dei quattro 'cavalieri' di Catania, il Graci, assieme all'altro 'cavaliere', il Rendo, accusati di investire i denari della mafia.

Entrano in campo i servizi segreti.

Collegati al milanese Arsan, vi erano altri trafficanti internazionali di armi, legati ai servizi segreti: il giudice Palermo li fece arrestare e cominciò a ricevere telefonate minacciose. Essi erano:

-GLAUCO PARTEL: ex ufficiale di Marina, grande esperto in missilistica, direttore di un centro di ricerca privata di Roma. Il Partel era agente del Nsa (National security agency) statunitense; contemporaneamente, egli lavorava per il ministero della Difesa a Roma, come direttore del Centro studi trasporti missilistici. Lo stesso Partel, nella sua duplice funzione di trafficante d'armi planetario ed agente dei servizi, era in grado di fornire notizie interessanti sulla funzione degli eserciti, in particolare nei Pvs. Ad esempio, durante la guerra delle Falkland, per conto dei servizi segreti britannici e tramite la P2, contattò il maresciallo di vascello argentino Alfredo Corti, iscritto alla P2, per offrirgli dei missili Exocet che non furono mai trovati, facendo perdere tempo agli argentini.

-MASSIMO PUGLIESE: monarchico, massone P2, agente del Sifar e del Sid, andato in pensione, ma rimasto collegato al generale Santovito capo del Sismi, a sua volta massone P2. Uscito dal Sid, andò a fare il consulente per alcune ditte nazionali produttrici di armi. Pugliese gestiva il traffico internazionale di armi per mano di due società, la Horus e la Promec, in quanto monarchico era in rapporti stretti con Vittorio Emanuele di Savoia. Tramite l'attore Rossano Brazzi, massone a sua volta, Pugliese ebbe la possibilità di mandare messaggi al presidente Reagan, ad esempio per favorire le concessioni di crediti alla Somalia, necessari per l'acquisto di armi. Il Pugliese, assieme al bresciano Rolando Pelizza, fondò la società lussemburghese Transpresa per la vendita del 'raggio della morte'. Tramite i servizi italiani, il 'raggio della morte' venne proposto al governo italiano: il Pugliese si incontrò con Andreotti, Piccoli, Loris Fortuna. A quanto pare, i politici si convinsero di avere messo le mani sulla superarma, visto che interessarono il governo Usa, il quale organizzò un esperimento, del cui esito si sono perse le tracce. Il giudice Palermo sottopose a lunghi interrogatori i politici citati dal Pugliese, attirandosi altre maledizioni. Tra le carte di Massimo Pugliese, venne ritrovato un dettagliato dossier sulle attività del giudice Palermo. Fin dall'inizio, l'inchiesta era seguita con molta attenzione da parte dei servizi segreti. 

-ROSSANO BRAZZI: ex attore, amico personale di Reagan, massone, in contatto col mafioso Robert Vesco, voleva fondare su un'isola deserta la 'nuova Aragona', occasione di investimento del denaro frutto del traffico d'armi. Il Brazzi è anche indicato come personaggio legato alla Oto Melara.

-CARLO BERTONCINI: proprietario della Seric di Pomezia, specializzata in strumentazione elettronica per l'esercito, agente del Sismi dal 1970, quando venne scoperto che spediva materiale elettronico ai paesi dell'est.

-ENZO GIOVANNELLI: (ex partigiano nella brigata Osoppo Friuli)  fornitore della base Usa della Maddalena in Sardegna. Il Giovannelli apre la serie degli spedizionieri (operava a Olbia) legati al traffico di armi con la copertura del Sismi di Santovito. Un dossier della Guardia di finanza indicò il Giovannelli, con suo cognato Sebastiano Sanna, ex contrammiraglio, ed altri, implicati in un traffico d'armi favorito dalla Nato (comprendente 43 caccia F-101, 10 aerei scuola Tf-104 G, quattro fregate ed alcuni simulatori di volo) in combutta con Flavio Carboni e Francesco Pazienza.

-MAURIZIO BRUNI: massone P2, operava come spedizioniere a Livorno. Di lui si serviva il trafficante Arsan per spedire armi e droga in tutto il mondo. E' stato inquisito anche dal giudice fiorentino Pierluigi Vigna.

-ALESSANDRO DEL BENE: cassiere della P2 in Toscana, grande elettore del Psi, legato al ministro della Difesa Lagorio e spedizioniere anch'egli a Livorno. Tra l'altro, il Del Bene è stato coinvolto in un traffico di congegni di puntamento segreti della Nato che, prodotti dalle officine Galileo finivano, tramite Gelli, alla Romania.

-ANGELO DE FEO: agente Sid dell'ufficio Ris, competente per la concessione del benestare di fattibilità per la vendita di armi italiane. Interrogato dal giudice Palermo, ha affermato che tutto il traffico di armi è controllato dai servizi segreti. Ad esempio, ha affermato De Feo, i ricognitori Usa scoprirono 4 carri Leopard nel deserto libico: erano stati venduti dall'Italia, con autorizzazione del contrammiraglio Martini del Sismi. Il trasporto fu controllato dal colonnello D'Agostini del Sismi, iscritto alla P2. De Feo ha denunciato anche la vendita proibita di ingenti quantità di armi (anche navi) al Sudafrica, di 300 aerei Siai Marchetti e Aermacchi alla Libia e centinaia di missili venduti alla Mauritania, trasportati sul posto da un aereo della Cia decollato da Ciampino militare. Sulla base di tutte queste deposizioni, il giudice Palermo chiese l'incriminazione del capo del Sismi generale Santovito, iscritto alla P2, a sua volta accusato dal giudice Sica insieme al colonnello Giovannone, agente del Sismi in Libano, iscritto alla P2 e cavaliere di Malta, per avere dichiarato il falso sulla scomparsa dei giornalisti Toni e Di Palo. I due giornalisti, recatisi in Libano per seguire le tracce di un traffico d'armi e droga, scomparvero nel nulla.

Come abbiamo visto, la società Stibam di Milano e il suo proprietario Arsan erano al centro di un vastissimo traffico di armi e droga. Per questo motivo l'Arsan, molto opportunamente, morì nel carcere di san Vittore a Milano nel novembre 1983: per arresto cardiaco, questa fu la diagnosi.

C'era anche Gheddafi.

Il 29 gennaio 1985, su mandato del giudice Palermo, è stato arrestato Gabriel Tannouri, finanziere libico intimo di Gheddafi e di Nixon. Tannouri venne chiamato in causa per un contratto di fornitura di materiale fissile ed attrezzature per confezionare piccole bombe atomiche, messi in vendita da due sudamericani, Diego Arias e Helio Guerrero. Sembra una favola, ma il giudice Palermo sforna pacchi di documenti autentici: il contratto venne firmato a Ginevra da Tannouri e Mared Pharaon, fratello del saudita trafficante internazionale Gait Pharaon. Il Pharaon avrebbe dovuto fornire parte dei finanziamenti per un contratto che si prospettava da un miliardo e duecentomila dollari nel 1980. In garanzia del finanziamento, 1l 23 dicembre 1980, a Lugano, di fronte al notaio Alida Andreoli, il Tannouri depositò ben 203.785 azioni da 4.000 lire e 203.478 azioni da 3.000 lire delle Assicurazioni generali. Una quota elevatissima che solo i maggiori azionisti come Mediobanca, Euralux, la Banca d'Italia, il servizio Italia della Bnl e la Comit erano in grado di esibire. Le azioni nel 1978 erano intestate alla società Claus Fin di Milano, sciolta nel 1984 e all'epoca del contratto vennero depositate dalla filiale svizzera della banca Lambert di Bruxelles. Dagli atti presso il notaio Andreoli di Lugano risultò che a depositare le azioni presso la banca Lambert furono gli italiani Achille Caproni e Flavio Briatore. Ad un certo punto il Pharaon, che ha cominciato a versare accrediti per mezzo della banca Morgan di Ginevra, prelevandoli dal Credito svizzero di Ginevra e Parigi, chiede a Tannouri maggiori garanzie. Entrano in campo i trafficanti italiani, Capogrossi, lo spedizioniere Giovannelli e l'agente della Nsa Glauco Partel. Con Partel entra in campo anche la Cia tramite l'agente australiano Eugene Bartolomeus, coinvolto nel fallimento della banca della Cia, la Nugan hand bank, trafficante d'armi legato alla mafia Usa ed australiana. Di fronte alla possibilità che le bombe finissero ai libici o ai siriani, il trasportatore e agente del Sismi Giovannelli ebbe dei problemi di coscienza ed avvertì il console d'Israele a Milano. La trattativa finì nel nulla, probabilmente si trattò di un colossale 'pacco' giocato dalla Cia alla Libia. Fatto sta che Tannouri risultò disporre proprio di un conto da 1.200.000 dollari presso la società Rexine Sa certificata dalla Deutsche bank. Molti telex rivelarono altresì contatti con altri clienti presso la Trade developement bank del Lussemburgo, spesso citata nel traffico d'armi internazionale. Molto probabilmente, giocato il 'pacco' alla Libia, la Cia dirottò il materiale fissile verso clienti più affidabili.

Da Milano alla Sicilia.

Come abbiamo visto, il duo dei trafficanti milanesi Arsan e Partel era collegato alla mafia turca tramite Salah Aldin Wacekas e a quella siciliana tramite Angelo Marai, entrambi operanti a Milano. A sua volta, Marai era collegato a Leonardo Crimi e alla grande mafia siciliana tramite Gerlando Alberti. Quest'ultimo lavorava l'eroina nei laboratori siciliani e la spediva negli Usa e ai marsigliesi incaricati di rifornire i mercati del Nordeuropa. Assieme all'Alberti, il giudice Palermo rinviò a giudizio i mafiosi Matteo Bricola, Rosario d'Agostino e Nicolò Puccio. Gerlando Alberti porta alle grandi famiglie mafiose siculo-statunitensi dei Gambino, degli Inzerillo e degli Spatola, i padrini di Sindona. La filiale trapanese delle grandi famiglie palermitane è rappresentata dai clan di Minore, Evola, Bonanno, Magaddino, originari di Trapani. Trapani è stata definita la 'Svizzera della mafia' perché, pur avendo un'economia molto debole, in essa affluisce il 40% dei depositi bancari di tutta la Sicilia. A Trapani sono presenti sei banche di interesse regionale, 28 banche provinciali ed un centinaio di casse rurali. Inutile aggiungere che gli amministratori delle banche sono tutti uomini della Dc. I Bonanno, originari di Castellammare del Golfo (Trapani) da molti anni si sono trasferiti negli Usa, entrando a fare parte delle grandi famiglie mafiose. Il giudice Ciaccio Montalto, prima di essere ucciso dalla mafia, aveva scoperto un colossale traffico di droga e di armi che, partendo da Trapani, raggiungeva il Nordafrica e gli Usa. Fiduciari del traffico per conto dei Bonanno erano i fratelli Di Chiara, originari di Castellammare del Golfo: Lorenzo operava negli Usa e Antonio in Sicilia, a Mazara del Vallo. I fratelli Di Chiara erano collegati al clan dei Minore di Trapani: ancora una volta, il cerchio delle inchieste dei giudici Palermo e Montalto si chiude intorno ai medesimi personaggi. Gli stessi nomi si riscontrano in attività di riciclaggio del denaro sporco: Leonardo Crimi, trafficante di armi e droga in società con il clan dei Minore e con i cavalieri del lavoro catanesi Rendo e Costanzo, eseguirono lavori nel Belice terremotato e nel trapanese. Cominciarono ad emergere anche nomi di insospettabili. Il giudice Palermo, indagando su un grosso traffico d'armi in partenza per l'Africa, si imbattè nella società Coprofin, controllata dal Psi e gestita dal finanziere Ferdinando Mach di Palmenstein, la quale stava trattando la vendita illegale di aerei da combattimento al Mozambico. Nello stesso tempo, dal porto di Livorno era in partenza una nave ufficialmente carica di liofilizzati destinati al Mozambico. Ad organizzare la spedizione era la medesima società di Ferdinando Mach, mentre i liofilizzati erano di proprietà di una ditta del cav. Mario Rendo di Catania. Fatto strano, ma è successo che appena il giudice Palermo ha cominciato a indagare sulle attività del finanziere del Psi Ferdinando Mach, il trasporto degli innocui liofilizzati per il Mozambico è stato annullato. Il nome di Mario Rendo è comparso anche nella truffa dei petroli come uno dei padrini del comandante della Guardia di finanza, il generale Raffaele Giudice (P2) e nel traffico di armi e petrolio con la Libia, emerso dal fascicolo segreto del Sid, il famoso Mi.Fo.Biali.

C'erano anche Pazienza e Carboni.

Francesco Pazienza iniziò il suo viaggio nei servizi segreti occidentali a partire dallo Sdece francese, passò alla Nato e al Dipartimento di Stato Usa quando il suo capo, Alexander Haig, divenne segretario di Stato di Reagan, per arrivare al Sismi del generale Santovito (P2). Fin dal 1978, il Pazienza trafficava in armi con la copertura dei servizi segreti, avvalendosi di una società lussemburghese, la Se. Debra, assieme a Nico Schaffer, ex amministraore della Fasco di Sindona e al grande trafficante arabo Kashoggi. Un rapporto del Sisde segnalò un incontro all'hotel de Paris di Montecarlo tra Francesco Pazienza e il trafficante d'armi Trapolus, il mafioso Francesco Gallo, l'ex magistrato genovese Giorgio Righetti e Licio Gelli. In qualità di amministratore dei beni della famiglia dell'ex scià di Persia, Pazienza era introdotto nelle grandi banche Usa che riciclano il denaro della mafia. Pazienza era amico di Totò Inzerillo, ucciso nel 1981, ed era in contatto con le grandi famiglie della mafia Usa: i Gambino, gli Inzerillo, gli Spatola, i Bonanno ecc. Quando costoro, nel 1979, organizzarono il finto rapimento di Sindona, il Pazienza fece numerosissimi viaggi in aereo verso Palermo e Catania, utilizzando i mezzi messi a disposizione dalla Cai del Sismi e quelli dell'Ata del mafioso milanese Carmelo Gaeta. Il super-agente si incontrava con Totò Inzerillo, probabilmente per conoscere a che punto erano le trattative per la famosa lista dei cinquecento. Sui medesimi aerei viaggiava un altro personaggio molto noto a Pazienza, don Masino Buscetta. Pazienza era legato al malavitoso romano Domenico Balducci, ucciso il 16 ottobre 1981, terminale della mafia palermitano-calabrese nella capitale, legato al cassiere della mafia Pippò Calò, arrestato recentemente. Pippo Calò investiva il denaro della mafia per mezzo del costruttore romano Danilo Sbarra in Sardegna, nelle numerose società immobiliari facenti capo alla Sofint di Flavio Carboni, legato quest'ultimo alla Dc (Roich, De Mita) e all'Opus dei, socio dell'editore dell'Espresso, organizzatore con Pazienza dell'ultimo viaggio di Roberto Calvi. Carboni era collegato al trasportatore e trafficante d'armi di Olbia, Enzo Giovannelli, che a sua volta riconduce ai grandi trafficanti Glauco Partel ed Henry Arsan di Milano.

I quattro dell'apocalisse in Sudamerica.

I quattro dell'apocalisse - Gelli, Ortolani, Marcinkus, Calvi - si affacciarono per far affari nel continente sudamericano quando questo era in preda ad una crisi disastrosa, con tassi di inflazione del 200%. Ma gli affari che essi trattavano non conoscono crisi, attraverso la P2 erano in contatto con i dittatori militari e civili del continente, notoriamente anche grandi trafficanti di armi e droga. Obiettivo dei quattro non era solo quello di fare affari, ma di sostenere regimi autoritari ferocemente antimarxisti sui quali puntano sia il presidente degli Usa che il Vaticano, impegnato in una 'nobile' battaglia contro la teologia della liberazione. Il 1 gennaio 1980, a Buenos Aires in Argentina, Roberto Calvi inaugurò la nuova sede del Banco ambrosiano de America del Sud. Nel medesimo palazzo verranno installati gli uffici del generale Massera (P2) e di Videla. Gelli e Ortolani, attraverso i loro rapporti coi gerarchi fascisti fuggiti in Argentina, erano da molti anni in rapporti di amicizia con Peron e con il capo degli squadroni della morte, Lopez Rega; lo stesso Gelli era incaricato d'affari argentino in Italia. Il generale Massera era un grande trafficante d'armi ed era in contatto con l'ammiraglio Torrisi (P2) in Italia. Grazie alla mediazione di Massera, buona parte dei 6.000 miliardi di armamenti spesi dal generale Videla, dal 1976 in avanti, sono affluiti alle industrie italiane. Ortolani aveva preceduto Calvi in Sudamerica con il proprio Banco financiero di Montevideo in Uruguay, divenuto insufficiente alla bisogna: si rendeva necessaria la rapida espansione dell'Ambrosiano, con le garanzie dello Ior del Vaticano. La prima banca ad installarsi fu la Cisalpina Overseas bank delle Bahamas, trasformata in Banco ambrosiano Overseas, seguita dalla Ultrafin di New York, Il Banco ambrosiano andino a Lima in Perù, l'Ambrosiano representacao y servicios in Brasile, l'Ambrosiano group banco commercial di Managua in Nicaragua, l'Ambrosiano group promotion a Panama. In Cile, l'Ambrosiano partecipava al più grande gruppo finanziario sostenitore di Pinochet, il Banco hypotecario, detto 'Piranas' dagli esuli cileni. Il Banco ambrosiano ha finanziato, nel 1976, la vendita di 6 fregate da parte del Cnr della Fincantieri alla Marina del Venezuela, di corvette all'Equador, di 4 fregate Lupo al Perù nonché di numerosi elicotteri Agusta, mentre i piduisti installati all'Ufficio italiano cambi e alla Sace concedevano autorizzazioni e crediti. In Guatemala, l'Ambrosiano finanziò il governo di destra del generale Vernon, ex agente Cia, legato al Dipartimento esteri Usa di Alexander Haig, attraverso la società Brisa, fondata per lo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Nel 1978 il dittatore del Nicaragua, Somoza, era in forte crisi sotto la pressione della rivoluzione sandinista. A partire da quella data il Banco ambrosiano, per mezzo della propria filiale di Managua, trasferì centinaia di milioni di dollari nel Paese. Da un'altra banca del Sudamerica dell'Ambrosiano, il Banco andino di Lima, sono passate molte delle operazioni di traffico d'armi e di petrolio con Cile, Nicaragua, Argentina, Brasile, Nigeria ed i traffici con la Tradeinvest dell'Eni, fino al finanziamento di 21 milioni di dollari concesso al Psi. Esaminando i conti dell'Andino, alla fine del 1981, gli ispettori della Banca d'Italia scoprirono un 'buco' da 1.000 miliardi, inizio della fine di Calvi. Nel medesimo periodo, anche il gruppo Rizzoli ebbe una grande espansione editoriale in Sudamerica, mentre il Corriere della Sera in Italia pubblicava le interviste di Roberto Gervaso (P2) a Videla e Somoza e censurava gli articoli sui desparecidos del corrispondente dall'Argentina. Giova solo ricordare che il duo Massera-Videla viene processato in Argentina, accusato di aver organizzato centri di tortura in tutto il Paese e di aver assassinato trentamila oppositori, bambini compresi.

Il caso Psi-Argentina.

Durante la perquisizione degli uffici di uno dei trafficanti d'armi, tale Michele Jasparro, arrestato il 16 giugno 1983, titolare di una fabbrica di giubbotti antiproiettile legato all'Agusta, il giudice Palermo venne in possesso di una lettera proveniente dall'Argentina. A scriverla era Gaio Gradenigo, amministratore della Comte srl di Buenos Aires. Il Gradenigo informava Jasparro che "Bettino Craxi è furibondo per il fallimento delle trattative per la costruzione della metropolitana di Buenos Aires" e parlava dell'interesse del Psi per la costruzione della fabbrica di elicotteri che l'Agusta avrebbe dovuto realizzare in Argentina, dopo la sconfitta nella guerra delle Falkland. Sull'interesse del Psi nelle due operazioni esistono riscontri obiettivi: la metropolitana milanese (il cui presidente Natali, padrino del giovane Craxi nel Psi, è attualmente in carcere per tangenti) realizzò lo studio di progetti per il metrò di Buenos Aires. Per la realizzazione del metrò erano in gara la Fiat, l'Ansaldo e la Breda, ma il generale Gualtieri preferì destinare i fondi al potenziamento degli armamenti e alle autostrade, facendo arrabbiare Craxi. Per quanto riguarda la fabbrica di elicotteri Agusta, che fa capo all'Efim, presidente Fiaccavento di area Psdi, nel 1983 subì l'offensiva del ministro delle Pp.Ss. De Michelis. Il Psi nell'Agusta aveva già un'importante pedina, l'amministratore delegato Raffaele Teti, ma De Michelis propose di portare l'Agusta sotto il controllo dell'Iri, liquidando la quota rimasta al vecchio proprietario, il conte Agusta, scaricando contemporaneamente i debiti della società sull'Iri. Per l'acquisizione della quota del conte Agusta (20%), il Psi aveva già un'acquirente di fiducia, tale Pietro Fascione, al prezzo di 80 miliardi. In poche parole il Psi, per via pubblica e privata, puntò al controllo totale dell'Agusta, proprio nel periodo in cui si prospettava la costruzione della società di elicotteri in Argentina. Ma vi è di più. Durante la guerra delle Falkland una delegazione di maggiorenti argentini, guidata dal segretario del partito socialista argentino, Pasquale Ammirati, si incontrò con Craxi per ottenere la revoca dell'embargo posto dal presidente del Consiglio Spadolini e dal ministro degli Esteri Colombo. Cosa che puntualmente avvenne, con il sostegno di Psi e Pci. Della delegazione che incontrò Craxi facevano parte anche i fratelli Macrì, i maggiori industriali argentini, rappresentanti degli interessi della Fiat. I Macrì sono due fratelli, Antonio e Franco, sono accusati di aver messo sul tappeto la questione della fabbrica di elicotteri e di traffico illegale di armi. I Macrì controllano con la loro holding oltre 50 imprese, hanno acquisito il controllo della filiale Fiat argentina in forte perdita. Durante il periodo delle dittature militari hanno costruito strade ed autostrade, hanno l'appalto per la pulizia di Buenos Aires e rappresentano la Techint (Fiat). I Macrì erano strettamente legati ai militari P2 dell'Argentina, Massera e Mason, e sono imparentati con uno dei dirigenti del peronismo, Carlos Grosso. Un documento dei servizi segreti inglesi accusò i fratelli Macrì di aver cercato in Italia l'appoggio per l'acquisto di missili Exocet, formalmente destinati al Perù, durante il periodo dell'embargo posto dalla Francia. La delegazione argentina, prima di incontrare Craxi, fece tappa a Zurigo, dove operava il trafficante Hans Kunz, in contatto con Roberto Calvi durante il suo ultimo viaggio nel giugno 1982. Nello stesso frangente le banche argentine, tra le quali l'Ambrosiano, trasferirono grossi capitali nelle loro filiali svizzere. Il governo argentino era disposto a pagare per un missile più di 2 milioni di dollari, contro i 700.000 dollari normalmente richiesti sul mercato ufficiale. Il periodo della trattativa sugli Exocet coincise con il viaggio di Calvi il quale, prima di approdare a Zurigo, venne portato da Pazienza a Carboni in Austria, a Klagenfurt, dove operava il trafficante d'armi Sergio Vatta, inquisito dal giudice Palermo. Il Vatta era in contatto con il trafficante e agente del Nsa Glauco Partel, il quale da un lato attirò gli argentini in una trattativa fasulla (per gli Exocet) e contemporaneamente informò i servizi segreti inglesi. Molto probabilmente, una delle cause della morte di Roberto Calvi sta nel ruolo svolto dall'Ambrosiano e dalla P2 in appoggio all'Argentina durante la guerra delle Falkland. Dobbiamo ricordare che i servizi segreti britannici sono strettamente legati alla massoneria inglese della quale Calvi, molto probabilmente, faceva parte, perché esistono fotografie che lo ritraggono a fianco della regina Elisabetta, notoriamente gran patronesse della massoneria. Del resto, il ritrovamento nelle tasche della giacca e sui genitali del cadavere di Calvi di alcuni mattoni (oltre al nome del ponte Frati neri) nel simbolismo massonico starebbe a indicare tradimento. Tornando al caso Argentina-Psi, sulla base degli elementi emersi, il pubblico ministero di Trento, Enrico Cavaliere, avrebbe voluto emettere subito mandati di comparizione e convocare Bettino Craxi come testimone. Il giudice istruttore Palermo lo convinse a pazientare, chiedendo di poter approfondire le indagini e interrogando l'ex addetto stampa di Craxi, il piduista Vanni Nisticò, ed un personaggio introdotto nell'industria bellica, Giancarlo Elia Valori. Elia Valori, amico personale di Peron, contendeva a Gelli il controllo della P2 in Argentina e per questo ne fu espulso. In Italia Elia Valori è legato agli ambienti della Dc nelle Pp.Ss., è stato vicepresidente della Italstrade, attualmente forlaniano legato al cardinale Palazzini dell'Opus dei e agli ambienti golpisti della Fiat (Chiusano e Scassellati). Dopo essere stato ad indagare in Argentina, il giudice Palermo tornò in Italia con un nome: Ferdinando Mach di Palmenstein, amministratore di alcune società facenti capo al Psi, già comparso nel caso Eni-Petromin. Le società sono: la Sofinim, al 99% del Psi, fondata nel 1976 da Nerio Nesi, presidente della Bnl; Vincenzo Balsamo e Rino Formica, tutti del Psi; la Coprofin, con sedi a Bucarest e Maputo in Mozambico; la Promit, con sede a Roma. Il Mach è anche presidente di una società di Firenze, la Promec, specializzata nella acquisizione di appalti e forniture pubbliche.

Ferdinando Mach, nelle sue molteplici attività e traffici, era in stretto rapporto con Francesco Pazienza (esistono numerose registrazioni telefoniche) e fu per suo tramite che Pazienza si incontrò più volte con Bettino Craxi, con Michael Leeden, spione e provocatore della Cia, organizzatore con lo stesso Pazienza, assieme ai servizi libici, del Billygate che assestò un duro colpo al presidente Carter, favorendo l'elezione di Reagan nel 1981.

Il caso Psi-Somalia.

I rapporti del Psi con la Somalia di Siad Barre sono molto stretti; lo stesso cognato di Craxi, Pillitteri, è console onorario di Somalia a Milano. Famoso, nei rapporti Psi-Somalia, è stato il caso del piano regolatore di Mogadiscio. Nel 1975, l'ingegner Luciano Ravaglia, con il patrocinio della regione Lombardia, iniziò a interessarsi del piano regolatore di Mogadiscio. Nel 1978, il Ravaglia si incontrò con Siad Barre ed ottenne l'avvallo alla prosecuzione dello studio. Il 5 agosto 1981, il progetto Ravaglia venne inserito negli accordi firmati a Mogadiscio dal ministro degli Esteri, Colombo, entrando così nella fase operativa. Improvvisamente, l'11 novembre 1981, il sottosegretario agli Esteri Roberto Palleschi del Psi avocò a sé con effetto immediato il carteggio del piano, che venne sospeso. Nel marzo 1982, il progettista Ravaglia ricevette una comunicazione dal sottosegretario Palleschi, nella quale si affermava che "d'accordo col ministro somalo Habib, il piano regolatore di Mogadiscio è stato affidato all'architetto Portoghesi" del Psi. Ma le attività di mediazione nel territorio africano da parte delle società facenti capo al Psi sono numerosissime: oltre al piano regolatore, esse hanno trattato la costruzione di dighe, impianti siderurgici, allevamenti di bestiame, impianti per surgelati ecc. Tutto ciò sempre in rapporto con le industrie pubbliche, le banche dell'Iri e col ministro degli Esteri. Ferdinando Mach si interessò anche della vendita di aerei da guerra e da trasporto G-222 al Mozambico, riuscendo strumentalmente a fare sì che il presidente Pertini si incontrasse con la delegazione degli acquirenti. Il Mach è accusato di avere venduto aerei G-222 alla Nigeria, un affare da 170 miliardi per il quale ottenne una tangente del 20%. Allo scopo di agevolare i propri traffici, lo stesso Mach scrisse al Psi per ottenere che all'Ufficio italiano cambi venisse nominato un uomo fidato, carica che venne ricoperta da uomini della P2. L'occasione dell'affare più ghiotto venne offerta, come sempre, dalla Somalia che aveva ottenuto un finanziamento Usa per l'acquisto di 116 carri H18-A5 e 20 elicotteri Cobra HgS con 1.000 missili Tow per un totale di 600 miliardi nel 1982. Non potendo esporsi direttamente, gli Usa attivarono il canale della Cia e del Sismi, vale a dire Santovito, Pugliese e Partel. Il 17 ottobre 1982 avrebbe dovuto essere firmato il contratto a Mogadiscio, contemporaneamente nella città era presente una delegazione del Psi, guidata da Pillitteri e comprendente Ferdinando Mach. Occasionalmente, nello stesso giorno, era in visita in Somalia il ministro della Difesa, il Psi Lagorio. Sfortunatamente, tutto andò in fumo perché il giudice Palermo, con mandato di cattura, aveva provveduto ad arrestare i trafficanti Partel e Pugliese. A questo punto, il giudice decise di rompere gli indugi, accusando Ferdinando Mach di associazione per delinquere al fine di traffico di armi e, contemporaneamente, il segretario del Psi di violazione dell'art.7 della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Nel mandato di perquisizione a carico della società Sofinim, Palermo commise però l'errore di citare i nomi di Craxi e Pillitteri senza avere ottenuto l'autorizzazione a procedere dal Parlamento e dalla Commissione inquirente. Avvertito tempestivamente, Bettino Craxi scrisse su carta intestata il famoso telex al Procuratore capo Tamburrino, il quale bloccò la perquisizione (che non verrà mai più effettuata) e diede inizio al provvedimento disciplinare nei confronti di Carlo Palermo.

Intimidazioni, suicidi, fughe, provocazioni, errori, avocazioni e repressione.

Sin dall'inizio della sua inchiesta, il giudice Palermo ricevette intimidazioni e minacce, sicché gli dovettero raddoppiare la scorta. Altri fatti intervennero per disinnescare la portata dell'inchiesta internazionale su armi e droga. Karl Kofler, uno dei testimoni chiave, benché in carcere isolato, venne trovato 'suicidato': gli avevano infilato uno spillone nel cuore e tagliato la gola. Altri imputati, testi, riuscirono misteriosamente ad evadere dal carcere mentre il principale imputato, l'agente della Dea Henry Arsan, morì per arresto cardiaco nel carcere di san Vittore. Vi è poi il caso degli avvocati Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, figlio del Procuratore della repubblica di Bolzano, entrambi difensori del trafficante Giovannelli di Olbia. L'avvocato Ruggiero che, da intercettazioni telefoniche, risulta essere conoscente di Bettino Craxi, è stato accusato da Palermo di traffico d'armi e indicato come collaboratore del libico Tannouri, al pari del commercialista Arnaldo Capogrossi, legato a sua volta al trasportatore Giovannelli. Nel giugno del 1983, durante un interrogatorio da parte di Palermo del Giovannelli, l'avvocato di questi, Ruggiero, interruppe continuamente il giudice, il quale commise l'errore di perdere le staffe, accusando l'avvocato di condurre in modo disonesto la professione. L'avvocato Ruggiero fece verbalizzare il tutto e lo trasmise al Procuratore generale della Cassazione Tamburrino. Due mesi più tardi, i carabinieri fecero avere al giudice Palermo il testo dell'intercettazione di una telefonata tra gli avvocati Ruggiero e Giudiceandrea, dalla quale erano ravvisabili i reati di favoreggiamento e divulgazione di segreti d'ufficio. Il giudice Palermo fece arrestare i due avvocati, scatenando la reazione dei colleghi romani che scesero in sciopero.

Stranamente e solo dopo gli arresti, i carabinieri si accorsero di aver commesso un errore nella trascrizione della registrazione, nel senso che, laddove l'avvocato Giudiceandrea affermava "ho preso il fascicolo", si doveva intendere "ho appreso dal fascicolo". Un errore molto opportuno. Il giudice Palermo venne sommerso da un'ondata di critiche, screditandosi il valore di tutta l'inchiesta su armi e droga.

Il 1 maggio 1983, il giudice istruttore di Trento prosciolse Ruggiero e Giudiceandrea dai reati di favoreggiamento e corruzione e il 24 ottobre il pretore Vettorasio dichiarò non doversi procedere contro i due per rivelazione di segreti d'ufficio. Il 15 novembre l'avvocato Giudiceandrea inviò un esposto al Tribunale di Trento contro Palermo per "avere effettuato intercettazioni non autorizzate e per non aver informato il Pm e il Procuratore generale sui cambiamenti avvenuti nell'inchiesta". Il 13 gennaio 1984, sulla base della denuncia di Giudiceandrea, il giudice Palermo venne indiziato di interesse privato dal Procuratore della repubblica di Venezia. Di fronte a tanti attacchi, i magistrati di Trento scesero in campo rendendo pubblico un documento di solidarietà nei confronti di Palermo. Gli avvocati di Gerlando Alberti, sfruttando la situazione, chiesero la ricusazione del tribunale di Trento, che venne accordata. In questo modo, tutto il filone mafia dell'inchiesta Palermo venne stralciata e trasferita al tribunale di Brescia, dove tuttora giace dal 17 giugno 1984. Un altro imputato, la spia della Guardia di finanza Oberhofer, chiese ed ottenne la ricusazione del tribunale di Trento dal Procuratore generale Capriotti che già l'aveva negata nel 1981. Dopo il Procuratore generale Tamburrino, scese in campo anche il ministro Martinazzoli, il quale avviò un'inchiesta disciplinare nei confronti dei giudici trentini, investendo anche il Csm. Da quando, con la sua inchiesta, il giudice Palermo aveva chiamato in causa i massimi livelli politici del Psi, gli sono piovuti addosso attacchi di ogni genere e il suo lavoro venne smembrato in mille rivoli. Nel giugno 1984, Palermo chiese di lasciare l'inchiesta armi e droga. In suo appoggio intervenne il presidente del Tribunale di Trento, Rocco La Torre. Il presidente del Tribunale dichiarò: "Ci sono state velenose e virulente reazioni determinate dal processo a causa dei sudici, sotterranei, colossali interessi colpiti. Contro la persona di Palermo ci sono stati molesti, incessanti e frustranti attacchi".

Lo stesso Palermo denunciò che, da quando aveva imboccato la pista politica, erano stati riesumati provvedimenti già dati per archiviati. Nel giugno 1984, di fronte al magistrato di Venezia che lo interrogava, Palermo affermò: "Non pare fuori luogo notare fin d'ora che le più pesanti accuse mosse nei miei confronti da parte di avvocati, imputati e politici sono seguite al sequestro di documenti operato il 16 giugno 1983, in cui compariva, per la prima volta, il nome dell'onorevole Craxi in relazione al commercio illecito di armi con l'Argentina e sono proseguite con maggiore spinta, dando luogo a procedimento penale e disciplinare nei miei confronti allorché, il 10 dicembre 1983, sequestrai la documentazione da me trasmessa alla Commissione inquirente". Nel luglio 1984, il giudice Palermo inviò una memoria difensiva al Procuratore della Repubblica di Venezia dottor Naso, affermando: "Successivamente all'intervento del Procuratore generale Tamburrino (su sollecitazione di Craxi) il dottor Naso ha emesso comunicazione giudiziaria nei confronti del sottoscritto, dopo che egli stesso aveva chiesto l'archiviazione delle denunce degli avvocati Ruggiero e Giudiceandrea perché ritenute infondate. Lo stesso dottor Naso mi riferì che anche la Procura generale di Milano aveva chiesto l'archiviazione dell'esposto presentato dall'avvocato Ruggiero perché infondato". Nonostante tutto ciò, nell'agosto del 1984, dopo che Palermo ebbe inviato alla Commissione P2 e all'Inquirente gli incartamenti sul coinvolgimento dei politici nell'inchiesta armi e droga, la Corte d'appello di Trento decise di accogliere la richiesta dell'avvocato Ruggiero, togliendo l'inchiesta al giudice Palermo.

La Commissione parlamentare inquirente ha scagionato Bettino Craxi e il cognato Pillitteri. Ancora una volta, la rete protettiva attorno a Bettino Craxi ha funzionato; rimangono aperte le inchieste nei confronti delle finanziarie del Psi e di Ferdinando Mach, l'accusa di traffico d'armi nei confronti dell'avvocato Ruggiero ed il procedimento penale nei confronti del giudice Palermo.

Da Trento a Trapani.

Isolato, sottoposto a provvedimento disciplinare, espropriato dell'inchiesta armi e droga, il giudice Palermo chiese 'spontaneamente' di essere trasferito da Trento alla Procura di Trapani. La città dalle mille banche non ha un palazzo di giustizia funzionante, quello vecchio è cadente, quello nuovo è in costruzione dal 1958 e la Dc domina la città. Carlo Palermo è andato a prendere il posto di Ciaccio Montalto, il Procuratore assassinato dalla mafia perché stava seguendo la pista del traffico di droga internazionale. Anche Ciaccio Montalto, sentendosi completamente isolato a Trapani e a Roma, chiese di lasciare la Sicilia per trasferirsi a Firenze, da dove avrebbe voluto proseguire le indagini, seguendo una pista che collegava la famiglia Minore con uno dei cavalieri del lavoro, Carmelo Costanzo. Prima di andarsene, nel dicembre 1982, da una serie di intercettazioni telefoniche trovò le prove che un Procuratore della repubblica, Enzo Costa (poi arrestato) era un uomo della mafia, legato ai Minore. Un mese dopo, il 25 gennaio 1983, alcuni killer venuti dagli Usa, assieme ai trapanesi, assassinarono il giudice Montalto. In passato, Ciaccio Montalto si era scontrato coi politici locali, mettendo sotto accusa gli ex parlamentari dc Diego Playa, consigliere provinciale, Giuseppe Magaddino e il repubblicano Francesco Grimaldi. I fratelli Minore, accusati di essere i mandanti dell'assassinio di Montalto, opportunamente avvertiti, sono riusciti a fuggire e sono tuttora latitanti, dopo che furono assolti grazie all'intervento del Procuratore Enzo Costa. L'indagine innescata dal giudice assassinato era però destinata ad avere un seguito. Le bobine delle intercettazioni telefoniche da lui ordinate (ben 26) furono fatte sparire dal commissario Collura. Le ritrovò, parecchio tempo dopo, il Procuratore capo di Caltanissetta, Patanè, che le consegnò a quello di Trapani, Lumia. Quest'ultimo, in procinto di essere trasferito per procedimento disciplinare dal Csm a causa dei suoi rapporti con il Procuratore Costa, probabilmente per rivalsa nei confronti dei politici, diede incarico al nuovo arrivato, Carlo Palermo, di occuparsi appunto delle intercettazioni telefoniche. Le conseguenze furono immediate: Carlo Palermo fece incarcerare Calogero Favata, un finanziere della mafia, Salvatore Bulgarella, presidente dei giovani industriali siciliani e legato al clan dei Minore. In galera finiscono anche un funzionario dell'Agip, Jano Cappelletto, ed un armatore di Messina, Antonio Micali, accusati di voler acquisire con tangenti l'esclusiva per i collegamenti con la piattaforma dell'ente petrolifero. Colpiti i personaggi minori, Carlo Palermo si trovò nuovamente sulla pista dei politici. Infatti, su Panorama del 15 aprile 1985, sono stati indicati i nomi di costoro, menzionati nelle intercettazioni che il giudice Patanè ha provveduto ad inviare alla Procura generale di Palermo.

Essi sono: Francesco Camino, dc; Aldo Baffi, dc; Domenico Cangelosi, dc; Calogero Mannino, dc; Guido Bodrato, dc; Aristide Gunnella, Pri; Gianni De Michelis, Psi; Vincenzo Costa, Psdi. Le registrazioni avevano dormito per lungo tempo, con l'arrivo di Palermo si sono messe in moto le inchieste, anche quelle della Guardia di finanza sui fondi neri e le false fatturazioni dei cavalieri Rendo, Costanzo, Graci, industriali da tempo in odore di mafia, che nessuno aveva mai osato inquisire. Il Procuratore capo Lumia, in procinto di andarsene, avocò a sé l'inchiesta riguardante i cavalieri del lavoro che Palermo chiedeva di arrestare. Alcuni giorni dopo, il 2 aprile 1985, è avvenuto l'attentato contro Carlo Palermo.

Il seguito lo conosciamo, sono partiti i mandati di cattura contro Rendo, Costanzo, Graci. Puntualmente, sono arrivati dal Palazzo gli inviti a Carlo Palermo perché desista, arrivano anche le reazioni indignate della Confindustria e dei Cdf delle industrie di proprietà degli arrestati, preoccupati per l'economia dell'isola e per il posto di lavoro. Mentre il Tribunale di Venezia conferma l'istruttoria di Palermo contro 33 mafiosi italiani e turchi, rincarando la dose delle accuse ed emettendo nuovi mandati di cattura, e viene scoperta un'importante raffineria di morfina base a Castellammare del Golfo (Trapani), gli avvocati dei pezzi da novanta, profittando del discredito buttato sul giudice, tentano di far saltare il processo. Dopo aver subito l'attentato, Palermo ha dovuto denunciare ancora una volta l'isolamento nel quale lo Stato lo lascia, riducendogli addirittura la scorta ed ha aggiunto che la mafia e i servizi segreti "hanno formato un potere parallelo pericolosissimo" per le stesse istituzioni. Fatto gravissimo, Bettino Craxi, spalleggiato dal ministro degli Interni Scalfaro, è nuovamente sceso in campo contro il neo sostituto Procuratore di Trapani, esprimendo preoccupazione per i mandati di cattura emessi da Palermo (contro i Rendo, Graci, Costanzo, Parasiliti) durante il suo discorso di fronte all'Assemblea regionale siciliana, il 30 aprile 1985. Il gioco del segretario del Psi e presidente del Consiglio si fa sempre più scoperto e pesante, segno di nervosismo e difficoltà.

Il seguito.

L’assoluzione degli inquisiti in sede giudiziaria avvenne in passaggi successivi. In primo grado, il Tribunale di Venezia, cui fu assegnata la cognizione della causa dalla corte di Cassazione, dopo 30 udienze e 10 ore di camera di consiglio, mandò assolti 22 imputati, condannandone altri 9 : Glauco Partel, a 7 anni e 8 mesi più la interdizione dai pubblici uffici per associazione a delinquere e violazioni della legge sulle armi del 1967; con le stesse accuse Carlo Bertoncini a 6 anni, Ivan Galileos a 5 anni e 4 mesi, Renato Gamba a 5 anni e 8 mesi; a pene più lievi sotto il profilo delle sole violazioni di legge, lo spedizioniere Vincenzo Giovannelli a 3 anni, a 2 anni e 8 mesi ciascuno Vincenzo Corteggiani, il colonnello Massimo Pugliese, il turco – tedesco Ertem Tegmen e il siriano Nabil Moahamed Al Maradni (sentenza del 1 febbraio 1988, presidente Giuseppe La Guardia, p.m. Nelson Salvarani). Contro la sentenza di primo grado si appellarono i 9 condannati e la Corte d’appello di Venezia assolse anche loro con la motivazione della insussistenza, per i primi 4, della associazione a delinquere e, per tutti, che ‘il fatto non costituisce reato’ in merito alle violazioni della legge sulle armi ritenute in primo grado. La Corte accolse le tesi avanzate dallo stesso rappresentante dell’accusa, Ennio Fortuna, secondo cui la intermediazione destinata allo smercio di armi non è prevista come reato dalla legge italiana se concerne gli stati esteri, senza transito in Italia, né abbisogna in questo caso di autorizzazioni; alle tesi del p.m. si rimisero i difensori, rinunciando alle arringhe in aula (sentenza del 12 aprile 1989, presidente Giuseppe Di Leo).  

Mentre era in corso il processo a Venezia e nei giorni della sentenza, la stampa pur riferendone dava maggior risalto ad altri fatti, quali gli attacchi di Martelli a Leoluca Orlando che si apprestava ad aprire le porte di ‘Palazzo delle Aquile’ al Pci, e l’esito del terzo processo contro ‘Cosa nostra’ a Palermo, che il 15 aprile 1989 mandò assolti i componenti della cosiddetta ‘cupola’ (fra cui i Greco, Provenzano, Riina) così che l’esito del processo ‘armi e droga’ non suscitò particolare clamore. Esito peraltro quasi scontato in un Paese come l’Italia che non criminalizza né la intermediazione né il commercio di armamenti ma li protegge in conformità con i propri fini politici, non certo pacifici, e l’inserimento nella Nato.

Appena intervenuta l’assoluzione, l’ex ufficiale dei carabinieri Massimo Pugliese che ha smentito di aver trafficato in armi, asserendo la non veridicità del rapporto del servizio che lo indicava come personaggio centrale nel traffico e fu alla base della sua incriminazione, iniziò una lunga polemica contro il giudice Palermo, dai toni accesissimi, sia in sede giornalistica che giudiziaria, denunciandolo unitamente ai giudici che collaborarono all’inchiesta, con l’accusa di essere un “sequestratore” per aver fatto carcerare innocenti e financo della morte di Arsan, avvenuta in carcere per cardiopatia, il che definisce “omicidio bianco”. Citò inoltre a giudizio gli allora ministri delle Finanze Colombo, della Difesa  Zanone e il presidente del Consiglio De Mita, nell’intento di ottenere un risarcimento di 9 miliardi, giungendo per non aver trovato ascolto in Italia, fino alla corte di Strasburgo. Più interessante è l’oggetto di una ulteriore denuncia, anch’essa archiviata dal Tribunale dei ministri, contro gli on. Spadolini e Capria per “180 miliardi trasferiti a Zurigo, con l’autorizzazione dell’on. Spadolini, come compenso di mediazione a M. Al Talal per le navi da guerra ‘vendute’ all’Iraq, che non le pagò e le lasciò sul gobbo di Pantalone per 2.500 miliardi di lire” (cfr. il suo volume Perché nessuno fermò quel giudice editrice Adriatica e La rivincita del colonnello, ne L’Espresso 5 marzo 1989).  Il giudice Palermo dal canto suo, continuò a difendere la sua inchiesta non nascondendo l’amarezza per l’esito finale, e a denunciare i traffici di armi e droga anche in sede politica (fu deputato della Rete) e giornalistica (cfr. fra gli altri i servizi pubblicati da  Avvenimenti il 2 ottobre 1991 Ecco il cuore dei crimini di Stato. Le banche dei servizi segreti che prende spunto dallo scandalo della Bbci, e il 19 febbraio 1992). Egli si è ritirato dalla magistratura per esercitare la professione. La sua inchiesta è pubblicata per ampi stralci in Armi e droga. L’atto di accusa del giudice Carlo Palermo, Editori riuniti 1988, con saggio introduttivo di Pino Arlacchi ed è descritta nelle varie fasi fino alla vigilia dell’esito assolutorio, in Fermate quel giudice, di Maurizio Struffi e Luigi Sardi, Reverdito editore, Trento 1986.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

Da quanto si apprende da “La Repubblica” la struttura organizzativa della massoneria italiana subisce una radicale mutazione durante il Risorgimento. L'esoterismo e la speculazione filosofica sono messi in secondo piano sovrastati dai processi politici e sociali di costruzione dell'Unità d'Italia. Il nuovo corso massonico in Sicilia nasce con la scelta di Garibaldi di fondare nel 1860 il "Supremo Consiglio Grande Oriente d'Italia di rito scozzese antico e accettato Valle dell'Oreto sedente all'Oriente di Palermo" assumendone la guida (in una sola seduta è investito di tutti i gradi del Rito Scozzese, dal 4° al 33°). Il progetto è di creare un soggetto politico che, facendo perno su Palermo, supporti il processo che porterà all'unità d'Italia con Roma capitale. Il gran maestro Garibaldi, infatti, in un suo decreto del 1865 ribadisce che il Grande Oriente d'Italia ha «sede provvisoria a Palermo, finché Roma non sia capitale degli Italiani». I massoni siciliani, sotto l'attenta regia di Crispi, plaudono formalmente al progetto di Garibaldi, ma, di fatto, si rendono conto che non possono essere il motore dell'unificazione dei liberi muratori italiani e preferiscono ripiegare sulla dimensione regionale consolidando una struttura alla quale si affida la costruzione del consenso elettorale di Crispi e del partito democratico. È quanto emerge dalla lettura di alcuni fascicoli dell'archivio dell'Oriente palermitano ritrovati casualmente e contenenti una documentazione che va dal 1861 al 1900. Il braccio operativo di Francesco Crispi, maestro venerabile ad vitam 33, a Palermo è Giovan Battista Chianello barone di Boscogrande, maestro venerabile 33 della Loggia Centrale, non solo consigliere provinciale e comunale, ma anche responsabile della segreteria elettorale del presidente del Consiglio. La sua capacità organizzativa è messa alla prova soprattutto nelle elezioni anticipate del 1892: Crispi e il suo gruppo sono in affanno in quanto gli avversari si battono contando sull'appoggio dei presidenti del Consiglio Rudinì prima e Giolitti poi. Boscogrande agisce, in continuo contatto epistolare e telegrafico con Crispi, con grande accortezza raccordando l'impegno dei fratelli con quello dei profani. Sul fronte della massoneria il 28 maggio 1892 organizza un incontro con il maestro venerabile Francesco Crispi 33° presso «il punto geometrico accessibile solo ai liberi muratori regolari della Massoneria universale» (Tempio massonico), posto in via Biscottari nel palazzo Conte Federico, alla presenza dei fratelli delle Logge: Centrale (maestro venerabile Chianello di Boscogrande 33°), Alighieri (maestro Carmelo Trasselli 33°), Risveglio (Giovanni Lucifora 33°), Triquetra (Giuseppe Masnata 30°), Ercta (Francesco Paolo Tesauro 30°), Cosmos (Giorgio Maggiacono 18°). La lettura del resoconto degli interventi della serata fornisce un vivido ritratto delle posizioni politiche sia di Crispi sia dei massoni che operano su Palermo. Boscogrande, inoltre, organizza comitati, promuove banchetti elettorali come quello che si svolgerà all' hotel delle Palme con presenze significative come quelle di Girolamo Ardizzone direttore del Giornale di Sicilia, di Artese direttore del Corriere del Mattino, di Michele Serra direttore dell'Amico del Popolo o dell'avvocato Gioacchino Seminara. L' obiettivo è quello di raccogliere fondi per la campagna elettorale affidandone la tesoreria al fratello massone Napoleone La Farina. Il giorno delle elezioni segue lo spoglio e invia il seguente telegramma a Crispi: «Congratulazioni auguri sinceri a vostra eccellenza rieletto con voti 2138». In realtà, i risultati non sono esaltanti: Crispi è eletto, ma Muratori, altro candidato crispino, soccombe sotto i colpi dello spregiudicato Trabia. Crispi, nel frattempo, si era reso conto che il progetto di Garibaldi di utilizzare l'Oriente palermitano come strumento per il processo di unificazione della massoneria italiana era diventato impraticabile e appoggia il progetto di un Grande Oriente romano al quale aderiscano tutte le altre realtà regionali. Nel 1877 Tamajo, massone di sicura fede crispina (senatore prima e prefetto poi), quale rappresentante della Comunione massonica italiana sedente in Roma, e l'avvocato Pietro Messineo 33, in nome del Grande Oriente d'Italia sedente a Palermo, stipulano un concordato in base al quale l'Oriente di Palermo è dichiarato Sezione del Supremo Consiglio della massoneria italiana sedente in Roma capitale della nazione. Tra le adesioni si trovano numerosi protagonisti della politica palermitana quali il senatore Gaetano La Loggia, l'avvocato Pietro Messineo, Camillo Finocchiaro Aprile, il principe Pietro Vanni di San Vincenzo. Un altro filone che emerge dalle carte dell'Oriente palermitano è quello relativo alla sua attenzione nei confronti della vita universitaria. Il barone di Boscogrande diventa interlocutore privilegiato del mondo accademico siciliano per due motivi: il primo per interloquire con il Consiglio superiore della pubblica istruzione per la gestione dei concorsi; il secondo per governare i finanziamenti che il Comune e la Provincia di Palermo danno al Consorzio costituito per la realizzazione di laboratori scientifici. Le affiliazioni alla Loggia Centrale di professori universitari sono numerose fra le quale si trova traccia di quella del professor Damiano Macaluso, ordinario di fisica, che si affilia nel settembre del 1888 e ha come garante il confratello 30 professore Gaetano Giorgio Gemmellaro. I massoni Gemmellaro (1874-76 e 1880-83) e Macaluso (1890-93) saranno eletti Magnifici Rettori, mentre Boscogrande, come maestro venerabile della Loggia Centrale, diventa il referente per la gestione degli "affari" universitari. Il vissuto dell'Oriente di Palermo non è soltanto gestione del potere, ma anche scontro politico sul programma, sul processo di riunificazione, sulle alleanze. La spedizione dei Mille spazza via non solo i borbonici, ma anche il vissuto delle logge dei liberi muratori del Settecento siciliano intorno al quale si aggrega la cultura democratica siciliana e il complesso progetto riformatore che fa capo a viceré massoni come Caracciolo e Caramanico. Garibaldi è colui che apparentemente si carica della responsabilità di avviare il cambiamento, ma, in realtà, queste carte permettono di ipotizzare un'ipotesi di ricerca che veda in Crispi il vero motore del progetto di rifondazione massonica in Sicilia.

Ma cosa ha sviluppato tanto impegno della massoneria in Sicilia?!?

Dalla stampa si apprende che otto persone tra poliziotti, medici, imprenditori, boss e iscritti a logge massoniche sono stati arrestati dai carabinieri di Trapani e Agrigento in diverse città. L'accusa è di essersi accordati per ottenere di ritardare l'iter giudiziario di alcuni processi in cui erano imputati affiliati a cosche delle due città siciliane. I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Palermo. Gli arrestati, tra i quali figurano un'agente della polizia di Stato, un ginecologo di Palermo, imprenditori di Agrigento e Trapani, un impiegato del ministero della Giustizia in servizio ad una cancelleria della Cassazione e un faccendiere originario di Orvieto, sono tutti accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, peculato, accesso abusivo in sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreti d'ufficio. L'operazione, per la quale sono state anche svolte decine di perquisizioni, è stata denominata "Hiram", vede impegnati anche i carabinieri, non solo di Agrigento e Trapani, ma anche quelli di Palermo, Roma e Terni. Dall'inchiesta emerge che boss mafiosi, grazie all'aiuto di persone appartenenti a logge massoniche, avrebbero ottenuto di ritardare l'iter giudiziario di alcuni processi in cui erano imputati affiliati a cosche di Trapani e Agrigento. L'indagine ha preso il via da accertamenti svolti sulle famiglie mafiose di Mazara del Vallo e Castelvetrano, in provincia di Trapani. Oltre alle perquisizioni controlli vengono svolti anche su conti correnti bancari intestati agli indagati. Avviso di garanzia a un sacerdote. I pm hanno inviato un avviso di garanzia anche a un sacerdote, gesuita, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il religioso vive a Roma. La sua abitazione è stata perquisita. Secondo l'accusa il prete, su indicazione di uno degli indagati, avrebbe predisposto lettere inviate a giudici, al fine di condizionare l'esito di procedimenti penali nei quali erano coinvolti esponenti vicini a Cosa nostra. Il peso e l'autorevolezza del sacerdote che apponeva la sua firma alle lettere inviate ai magistrati, per l'accusa avrebbero influito sull'esito dei ricorsi giurisdizionali proposti a diverse autorità giudiziarie. Perquisiti gli uffici della Cassazione. Nell'ambito della stessa operazione sono state effettuate anche perquisizioni in alcuni uffici della Cassazione. Secondo quanto si apprende da indiscrezioni, fra le persone arrestate vi sarebbe anche un impiegato del ministero della Giustizia in servizio proprio in una cancelleria della Cassazione.

E non è tutto.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante.

"Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta.

"L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale, ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). 

Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate).

Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. 

Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). 

Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconoscimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. 

Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. 

Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge.

Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani".

Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta

Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970.

Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. 

La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina

Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo

Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni. 

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante:

"Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:

- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;

- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;

- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore".

Cosa ne è scaturito da tutto ciò?

Alla Regione Sicilia finora si andava dal peculato alla concussione, dal voto di scambio all’intestazione fittizia di beni. Stavolta scattano la frode e l’esercizio abusivo dell’attività finanziaria con gli ultimi due deputati della Regione Sicilia finiti nella maglie di un’inchiesta giudiziaria. Due deputati del Pdl, Roberto Corona in cella e Fabio Mancuso ai domiciliari. Da aggiungere ai 26 già inquisiti fino a ottobre, quando il deputato Mario Bonomo di «Alleati per la Sicilia» risultò indagato per concussione nell’ambito dell’inchiesta in cui era stato già arrestato a marzo il suo ex compagno del Pd Gaspare Vitrano, fermato mentre intascava una mazzetta di dieci mila euro da un imprenditore del fotovoltaico.

Si sta per sfiorare così il record del 30 per cento di inquisiti nel parlamento più antico del mondo dove il presidente Francesco Cascio cerca di spingere il dibattito e il disegno di legge sulla riduzione degli “onorevoli” siciliani da 90 a 70. Ma intanto lo spettacolo è sempre più indecoroso nella regione che ha visto condannare per mafia il governatore Totò Cuffaro e che da un anno e mezzo è in fibrillazione per il suo successore, Raffaele Lombardo, indagato per favori alla mafia dalla procura di Catania che ne ha poi chiesto l’archiviazione.

Si arriva al paradosso che i finanzieri della Polizia Valutaria in collaborazione con lo Scico notifichino un ordine di custodia ai domiciliari a un loro ex collega, appunto Fabio Mancuso, un tempo maresciallo della Guardia di Finanza impegnato nella caccia alle cooperative fasulle e ai dirigenti corrotti. Ormai considerato un problema e non certo una risorsa per le Fiamme Gialle, tre legislature all’Assemblea debbono aver lasciato il segno. Come è accaduto per l’onorevole Vitrano, anch’egli parlamentare da guinness dei primati visto che non s’era mai visto un deputato in “esilio” a Roma, con “obbligo di dimora fuori dalla Sicilia”. Lui fa parte del drappello dei quattro finiti dentro negli ultimi tre anni. Un panorama desolante se si considera che c’è pure chi, come il deputato di Forza del Sud Franco Mineo, è addirittura ritenuto prestanome dei boss del quartiere palermitano dell’Acquasanta.

Ma ci sono altre cose che non si sanno.

IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO E LE SETTE DI STATO.

Il sapere è potere. Tutto quello che non devi sapere...Sara Tommasi e Melania Rea le probabili vittime del “'Monarch” militare, scrive Antonio Del Furbo. Il magistrato Paolo Ferraro continua la battaglia sui presunti abusi avvenuti all'interno della città militare della "Cecchignola". Lui, Paolo Ferraro, l'uomo che ha pagato screditato come uomo prima e come istituzione poi prosegue il viaggio per far conoscere a tutti le sue inchieste. I militari e i servizi segreti non avrebbero mai concluso il progetto di controllo mentale ma addirittura avrebbero rimodulato tale progetto con l'aggiunta di riti satanici e atti sessuali. Il magistrato, come riferito in più circostanze, ha incontrato più volte Melania Rea nei corridoi della procura di Roma. La donna sarebbe stata a conoscenza delle pratiche che si svolgevano all'interno della caserma di Ascoli Piceno e della Cecchignola. «Basi segrete per la manipolazione mentale, angherie sulle reclute, festini a base di sesso e droghe» racconta Ferraro. Poi tiene a precisare che: «quando mi sono unito con la mia nuova compagna e iniziare una convivenza in un appartamento della Cecchignola destinato ai militari, l'ex marito della donna sottufficiale dell'esercito, non si è assolutamente opposto all'unione ma, anzi, l'ha incoraggiata». Ferraro s'insospettisce soprattutto guardando l'atmosfera e gli sguardi di chi gli sta intorno: strani sguardi d’intesa tra vicine di casa, che però non si parlano, anzi all’apparenza sembrano detestarsi, bambini che sembrano automi. Il magistrato comincia a notare strani comportamenti nella moglie che, dopo insistenze da parte di Ferraro, ammette di aver fatto parte di una specie di setta. I racconti appaiono fumosi e con molte lacune. A quel punto il magistrato decide di registrare tutto ciò che avviene in quella casa quando lui è a lavoro: da lì inizia una triste storia. Ferraro scopre che, in sua assenza, all'interno dell'appartamento avvengono fatti indicibili. La sua compagna è la protagonista involontaria di orge di gruppo anche con minori. Si riconosce la voce atona di lei che risponde come un automa a comandi di altre persone. Gemiti suoni risposte strozzate, tentativi di rifiuto “Bevi. No non mi va”. Secondo Paolo Ferraro nella stessa rete sarebbe caduta anche Sara Tommasi che ha più volte dichiarato: «Mi mettono in casa il gas dai bocchettoni. Mi addormento e dormo tantissimo. Mi danno sostanze perché sia più lasciva durante le riprese, dietro ci sono i servizi segreti». La Tommasi ultimamente ha ritrattato tutto dicendo di aver rilasciato tale dichiarazioni solo per farsi pubblicità. Certo è che il beneficio del dubbio ammette anche un'altra ipotesi: che la showgirl possa essere stata ricattata dalla Camorra. La criminalità organizzata gestirebbe il servizio delle escort in tutt'Italia e, tramite Fabrizio Corona e Lele Mora, sarebbe entrata nella fornitura delle prostitute in casa Arcore. Leo Lyon Zagami è un siciliano aristocratico, un massone gran maestro di 33°grado affiliato alla loggia massonica P2 di Monte Carlo, il quale ha rotto i legami con gli illuminati a giugno del 2006 e sta rivelando tutti i segreti inconfessabili del satanismo collegato ai vertici politici degli USA, del Vaticano e dei Gesuiti. Insieme a Zagami, molti altri “pentiti” hanno rivelato segreti che nessuno avrebbe mai potuto conoscere riguardo gli illuminati. L'uomo, che ha vissuto sulla propria pelle i metodi criminali utilizzati dai vertici corrotti di Massoneria e Illuminati che, come denuncia da anni, arriverebbero a utilizzare la manipolazione mentale, la tortura, l’omicidio, il sacrificio di sangue e la pedofilia per compiere i loro obiettivi del tutto “terreni”. Lo SMOM, Corpo Militare dell'Ordine di Malta, avrebbe forti collegamenti con la Cecchignola e ambienti militari italiani. Elio Lannutti, il 17 novembre 2011, presentò un'interrogazione al Ministero della Giustizia e al Ministero della Difesa in cui chiedeva conto delle informazioni a disposizione del Governo sui fatti esposti da Paolo Ferraro e Milica Fatima Cupic. Ancora oggi non se ne sa nulla.

Salvatore Parolisi complice di personaggi innominabili ancora a piede libero: ecco le prove, scrive “La Voce Delle Voci” il 19 Settembre 2015 su “L’Infiltrato”. “Salvatore Parolisi non fu forse assassino ma complice. Di personaggi innominabili”, scrive Rita Pennarola, che in un’inchiesta pubblicata nel 2012 su La Voce delle Voci raccontava una storia cui nessuno dava credito. Salvo ricredersi, come sempre accade con le inchieste de La Voce, dopo anni. Ecco la ricostruzione shock su Salvatore Parolise e i “personaggi innominabili” che sarebbero stati i veri esecutori del delitto. Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell’ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l’arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l’accusa di omicidio, ovviamente, il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo – o più probabilmente, potuto – rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell’altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all’interno dell’esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell’assassinio.

LA LEZIONE DI IMPOSIMATO. «Accade talvolta – dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi – che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d’indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato – che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l’altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent’anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito – spiega Imposimato – non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l’ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi. Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell’immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive. 

IL GIP CHE SAPEVA TROPPO. A disporre l’arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l’omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest’ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l’autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand’anche essi fossero all’interno della stessa magistratura. Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l’arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all’istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l’uomo che aveva dettagliato l’esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani. Il 9 agosto Giovanni Cirillo lascia da un giorno all’altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d’Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un’intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l’incarico: «Da due ore – esordisce – non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «Il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l’ordinanza di custodia cautelare del pm Monti, ndr), l’idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l’amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all’ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com’è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania – dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l’indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sé». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi, iniziato a febbraio e tuttora in corso. Di sicuro, però, nel numero di luglio 2011 la Voce aveva ricostruito questa vicenda in maniera assai simile, con un Salvatore Parolisi costretto dalle sue stesse attività illecite prima a rendersi complice (non sappiamo con quale grado di consapevolezza) dell’assassinio di sua moglie, e poi a tacere, per evitare che dopo la prima, orrenda ritorsione nei suoi confronti, ce ne fossero altre.

LA FIRMA DEI CASALESI. Sì, su quel corpo straziato della giovane mamma di Somma Vesuviana c’è una firma a lettere di fuoco. La firma della camorra. Dopo l’atroce fine di Melania – moglie di un caporalmaggiore che era stato in Afghanistan, e sul cui conto corrente erano stati trovati 100mila euro durante le prime indagini – più nessuno potrà azzardarsi ad agire “in proprio” per trarre profitto da commerci sui canali “esclusivi” di gente come i Casalesi. Un linguaggio, quello degli omicidi di camorra, ben noto a pubblici ministeri e gip che abitualmente si confrontano con corpi “incaprettati” o mutilati in zone particolari, proprio per lanciare un avvertimento agli altri. Storie rimaste sepolte nei fascicoli giudiziari, o sottaciute nel buio dell’omertà per decenni, poi portate alla luce per la prima volta da Roberto Saviano e Matteo Garrone. Oggi sono patrimonio di una certa letteratura, eppure risultano ancora lontane dalla mentalità e dalle attitudini di taluni investigatori, «specialmente – dice un pm antimafia con lunghissima esperienza, oggi in pensione – se parliamo delle Procure di provincia dell’Italia centrale o del Nord, dove le Direzioni Distrettuali Antimafia sono lontane e così pure i metodi investigativi, soprattutto la tempestività delle prime ore, o la conoscenza approfondita di quei dettagli che immancabilmente conducono alle organizzazioni di stampo camorristico». Ma gli indizi, tanti, che nel delitto di Melania Rea potrebbero portare ai clan, pare non abbiano trovato spazio in alcuna attività investigativa specifica. Eppure sono tutti là, a formare una impressionante sequenza. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l’addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell’ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell’ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l’ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l’immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell’esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell’area il 18 aprile, a quell’ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

DA KABUL A TOLMEZZO. Poi c’è un’altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell’esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «Mi hanno iniziato all’eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall’Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall’Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un’indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall’Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l’arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un’altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall’Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Un anno fa, ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall’Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l’arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né dell’inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio – commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra – quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l’hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent’anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è stato in qualche modo complice. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. È la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

PAOLO FERRARO, magistrato di sinistra si candida con Forza Nuova, scrive Emanuele Nusca. Alla fine anche lui si è candidato: il magistrato di sinistra Paolo Ferraro si candida con Forza Nuova alle prossime elezioni politiche. Ferraro sarà capolista nel Lazio delle liste di Forza Nuova. L’annuncio arriva da Roberto Fiore, segretario nazionale del partito. Un’alleanza trasversale tra ex di destra e sinistra che vuole andare al di là degli schemi politici per meglio rappresentare le esigenze della società attuale. In definitiva Ferraro ha scelto di entrare nelle fila di F.N., partito di estrema destra che lo ha accolto dopo la contesa con la Rete dei Cittadini. Paolo Ferraro è sul web dal 201o quando inizia la sua operazione divulgativa della personale esperienza di magistrato controcorrente che scopre, all'interno dei palazzi, vari sistemi spaventosi di controllo mentale, denominati Progetto MONARCH e MK-Ultra e sistemi di massonerie deviate e sette sataniche che agiscono in seno allo stato che noi concittadini continuiamo a credere tale e definire come Italia. Nei numerosi blog scritti nel tempo, Ferraro riassume tutte le vicende che lo hanno portato a documentare le più grandi porcherie che lo stato italiano sia mai stato in grado di concepire attraverso insospettabili colleghi magistrati e militari che operavano ed operano tutt'ora nelle strutture che dovrebbero garantire la nostra sicurezza, quella dei cittadini Italiani. Pare quindi, che abbia tutte le intenzioni di svelare al grande pubblico le sue scoperte e di formare una forza politica che sia in grado di unire il più possibile correnti di pensiero diverse. Sul blog si legge: Il creare una alleanza trasversale e un polo alternativo UNIFICANDO insieme correnti moderate, ed ex  di destra e sinistra,  con una operazione storico politica mai realizzata , in Italia , richiede una grande elasticità e capacità di rivedere schemi ed etichette.

DAL CASO FERRARO ATTRAVERSO LA GRANDEDISCOVERY, ALLA ENUCLEAZIONE DEL GOLPE STRISCIANTE E DELLE ATTIVITA' E METODOLOGIE CRIMINALI, SINO ALLA RICOSTRUZIONE DEL RUOLO TATTICO E STRATEGICO DELLA "SUPERGLADIO" E DELLA SUA COMPOSIZIONE. SCHEDA RIASSUNTIVA E ARTICOLI RILEVANTI SULLA "SVOLTA" del 2014 2015, si legge sul blog di Paolo Ferraro.

Solo due parole di premessa: un mobbing orizzontale e verticale criminale e posto in essere mediante una impressionante sequenza di falsi ed attività illecite anche a copertura, estrema, nasce da sentimenti inferiori e accerchia un soggetto. In questo caso un soggetto che si ritiene da eliminare per doti, qualità e per non appartenenza ad ambiti socio antropologici e sotterranei di casta. Questa era ed è la chiave di lettura principale, ma posizionata sul piano individuale e sottaciuta sino ad oggi. Mi venne confermato e detto sinanche da Solange Manfredi e glielo aveva analiticamente detto e confermato concreta persona ben interna a quegli ambienti e contemporaneamente cooperante coi servizi. Chiedeteglielo per conferma (non mi costringete a dare la "solita" prova). Mancava integralmente la lettura storico politica e questa è divenuta completa e possibile con quattro anni di lavoro, perchè nella smania malata di distruggere Paolo Ferraro sono stati messi in campo il top delle attività e delle metodologie ed il TOP dei rispettivi referenti. SE e quanto a valle dopo la "scoperta" della Cecchignola e le ulteriori a cascata, vi sia stata una diretta valutazione ancor più "superiore" interferente non possiamo dire con la stessa assoluta certezza con la quale abbiamo informato che a livello nazionale fu "una scelta condivisa". Ma a carte scoperte detto la nitidezza di alcune nostre analisi geopolitiche e storiche e la nostra integrale ricostruzione di forze, metodologie, strumenti ed attività sul piano tattico e strategico, non ha   giocato nel 2011 e 2012 a nostro favore: ha "aggravato" il giudizio sulle nostre effettive qualità personali, e reso "inevitabile" il tentare di portare a termine la nostra totale distruzione. Senza dimenticare che i due esposti memoria dell'ottobre novembre 2012 avevano fatto saltare sulla sedia vari sepolcrini sbiancati dalla preoccupazione: di qui anche la sguaiata e folle reazione del tentativo/proposta di amministrazione di sostegno nel 2013.  Poi i nostri “approfondimenti” con prove analitiche nel 2014, le azioni sotterranee e rappresaglie tra la fine del 2013 e il giugno 2015, e le ulteriori prove che hanno definitivamente posto allo SCOPERTO tutto ed un nucleo operativo che si poggia su basamenti non solo nostrani.  Ora sapete bene e con prove e riscontri analitici quello che per ventitre anni è stato fatto. LA GRANDEDISCOVERY per punti essenziali e metodo. La semplice verità è che quello che ho inizialmente scoperto e che mi ha portato a capire è successo a me ed in quanto tale (anche se vi sono cose simili successe a molti, selezionati per colpirli) solo a me... e la scommessa è stata dimostrarlo in toto ed in vitro facendo rivivere integralmente in audio ed analisi tutto. Dovete tutti aiutare me e voi a vivere l'esperimento reale e concreto che ho messo INTEGRALMENTE a disposizione perché ciò apre cervello cuore istinto ed anima. Il resto, analisi e approfondimenti, viene da solo ... o si capisce solo con la integrale intelligenza di un reale NON PROPRIO rivivendolo anche interiormente come proprio. Solo così il sapere REALE OGGETTIVO scientifico si trasmette profondamente e realmente. Ecco il perché della mia attenzione agli audio ed a vari aspetti emotivi descritti o trasmissibili mediante percezione diretta. LA GRANDEDISCOVERY E' UNA GRANDE SCOMMESSA, la prima della storia ... Questo è certo per tutti gli elementi e le realtà che vi confluiscono e per la intermediazione sui vari piani da me gestita e portata avanti. Entrare e capire, far entrare e far capire. Questo il compito collettivo primario, contrastando i disinformatori e le manovrette atte a cercare di togliere dimensione ed idea al tutto. Poi le analisi più storiche o sofisticate ed il progetto fatto di cultura prove e politica che andiamo costruendo. COMUNQUE ....per i pigri inguaribili (e gli gnorri in malafede) semplifichiamo qui,  segnalando che sono le prove concrete e le analisi ed i riscontri che contano con metodo concreto e storico documentale, empirico e investigativo ( gnosis, e cioè conoscenza reale scientificamente riscontrabile, mediante attività di intelligence ), non i meri "racconti": un magistrato ( noto, impegnato e ancor più stimato nel mondo giudiziario romano e diagnosticato per caratteristiche e doti da tempi addietro) viene “messo in mezzo “ con tecniche varie in stile servizi deviati, sin dal 1992, e già attenzionato da prima, ma scopre sempre qualche minuto prima quello che non doveva scoprire e che svela un intero vaso di pandora coinvolgente anche mondi militari ed altri ( oltre quello che gli accadeva vicino), quando nel 2008 riesce ad acquisire prove che gli consentono di capire ed avviare una vera e propria inchiesta, "sotto attacco concentrico". Per tappargli la bocca, visto che continuava ad approfondire e capire, lo sequestrano nel 2009 con una attività da tempo costruita nei suoi presupposti a tavolino dalla psichiatria deviata secondo i moduli dell'ancient Tavistock Institute (ti accerchiano, distruggono famiglie e situazioni personali e poi cercano di tombare il tutto compreso l'accerchiato). L'operazione non riesce per vari motivi, tra cui carattere coriaceo e speciale attitudini della vittima predestinata, così come falliscono ed erano falliti i vari tentativi distruttivi e di inserire step e profili nella vita dello stesso magistrato, un po' ingenuo e puro ma tanto tanto "odiosamente" intelligente. Di fronte ad una valanga di prove montante cercano di delegittimarlo per la via della ignominiosa dispensa dal servizio, ma questa è talmente incongrua sul piano della nota e reale professionalità del magistrato che fanno l'ennesimo autogol, a prescindere dal coacervo di falsità costruite a tavolino e manipolatorie. Non paghi perseguono la via del distruggerlo tramite la morte civile e l'infangamento e sinanche un incredibile tentativo di nominare amministratore di sostegno, dopo aver avviato lo strangolamento economico, destituendolo. Da ultimo tra il settembre 2013 ed il giugno 2015 nel tentativo a tenaglia di distruzione dell'uomo ed intellettuale, e dell'ultimo rapporto interpersonle (quinto) emergono prove finali conclusive su vari piani, di rilievo generale. Dalla analitica ricostruzione con prove del tutto emerge, e viene progressivamente analizzato, uno spaccato tecnico metodologico, storico strategico a matrice anche internazionale, e la normalissima e vera identità di quelli che si definiscono "poteri forti" e che forti non lo sono più perchè INTEGRALMENTE posti allo scoperto, sinanche nei patti e legami con associazioni criminali territoriali.   LA "SUPER GLADIO" come associazione per delinquere condivisa "bicromatica", strettamente inquadrabile nella configurazione legale delle associazioni di stampo mafioso, alla cui scoperta finale si erano "solo" avvicinati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  LA SUPER GLADIO.  RISPOSTA A CHI OSCILLAVA TRA IL CHIEDERE E PROVOCARE: "Una organizzazione siffatta, composta ai vertici da una nomenclatura trasversale di qualche centinaia di persone di casta pubblico privata e militare e conseguente articolazione sociale ( non sufficientemente guidata in modo diretto),  con un cordone cultural operativo e teorico alimenta artificialmente il mito di sè (stessa) attivando tutti i simboli, metodiche e strumenti che si poggiano su ignoranza, subcultura e "primitività". Una volta scoperta è inerme, ma può ancora contare sul potere individuale dei singoli e sulle coperture di sistema e sotto alleanze. Una volta spezzata la coesione, disarticolate le alleanze perché incrinata la subalternità, può ancora contare sulle coperture di sistema e sul "lavoro" di "pubblicità" informativo propagandistica e di condizionamento culturale, ma "verso il basso". Non appena disarticolata la "fascia di copertura" inesorabilmente, in fase di crisi, è assoggettata al vaglio di opportunità della sua sopravvivenza e il numero dei "caduti" è direttamente proporzionale alla intensità del giudizio di inopportunità suindicato ed alla incisività della lucida azione avversa. La banalizzazione umana di Aleppe coincide con la sconfitta della organizzazione criminale storicamente determinata. Si riapre poi il nuovo ciclo storico. "Satana" in terra (banali uomini e organizzazioni segrete) è nudo e ormai, grazie al nostro lavoro la gente, e le istituzioni non deviate vedono uomini ed associazioni criminali per quello che sono, sotto copertura e non - di fiori colorati -  " Con ciò introducendosi una riflessione dal titolo illuminante: "LA MITIZZAZIONE AUTOGENA DELLE MOLTEPLICI REALTA' OPERATIVE OCCULTE DELLA SUPERGLADIO tra simbolismo, racconti terrifici, informazioni devianti e numerologie primordialiste". Ma vi è anche un  sottotitolo più semplice, per il diverso simpatico avvocato Franceschetti e correlati disinformatori di "apparato",  e per gli adepti del blog della "crusca della scuola", ostinati nel loro infantile ruolo denigratorio, scambiato per missione disinformativa: " Come ti mitizzo una organizzazione criminale non legata al territorio, e le sue operazioni ed attività, disegnandola come realtà esoterica invincibile implacabile, pericolosa , ingenerando artificialmente omertà e mantenendone la segretezza: Non era il sistema, non era la Rosa rossa. E' un apparato deviato e segreto che ha "esaurito " il suo ruolo tattico, e non lo sa, lo teme solo, confusamente, e confusamente ormai agisce. Liberiamo l'Italia. LA GRANDE DISCOVERY IL CASO PAOLO FERRARO E LE SORTI DELLO STATO. La grande discovery, un'inchiesta circostanziata e corredata da un concreto impianto probatorio attraverso cui si delinea il quadro di una occupazione sistematica dei gangli vitali delle istituzioni da parte di organizzazioni deviate incistate nel cuore dello Stato e nelle sue articolazioni. Ruoli, metodologie, strumenti e tecniche vengono messi a nudo così come messi a nudo protagonisti e una dimensione strategica ignota prima. Il golpe scientifico ed il ruolo della SUPER-GLADIO ed i collegamenti internazionali necessari emergono dettagliatamente. IL CASO PAOLO FERRARO utilizzato come pietra di paragone, strumento di analisi con prove e passpartout alla conoscenza dei sedimenti del vero potere sotterraneo che tiene parzialmente in pugno Repubblica e i tre poteri dello Stato, proprio in quanto il magistrato noto e stimato fu attenzionato e "diagnosticato" sin dal 1992 come un pericoloso potenziale "successore" troppo capace, indipendentemente e rigoroso per non essere fermato, accerchiato, gestito ed infine ( a scoperte avvenute) sottoposto al tentativo di distruzione più eccellente che sia a noi noto. Il CDD (Comitato Difendiamo la Democrazia) indica tappe e strumenti di un apparato criminale che può essere fermato ora che sono individuati proprio i segmenti anche istituzionali e normativi che ha posizionato in un ventennio ed oltre di marcia sotterranea, e che ne è plasticamente raffigurata già una prima nomenclatura di vertice. La partita si gioca sensibilizzando le quote residue degli apparati legali e non deviati dello Stato e se così non fosse avremmo già perso in partenza,  combattendo contro un apparato illegale che ha assommato la forza dello Stato deviata, la forza militare anche internazionale, la forza criminale della grande criminalità organizzata, la potenza degli apparati psichiatrico sociali magistratuali costruiti sotterraneamente per venti anni e di metodologie  tecniche e attività di controllo su vari piani frutto della “intelligence” internazionale, mentre tutti guardavano,  abbindolati, al gioco della politica visibile. A ciò si aggiunge la potenza intrinseca del capitalismo finanziario nonchè infine la FORZA OGGETTIVA DISTRUTTRICE DELLA CRISI STRUTTURALE DEL CAPITALISMO, almeno nell’anziano occidente in particolare mediterraneo, ad oggi. Il nuovo progressivo regime totalitario a copertura pseudo democratica che va macinando diritti libertà e sicurezza sociale, e squinternando valori società e altro, si ferma solo chiamando a raccolta tutte le risorse sociali, statuali ed internazionali, su una analisi completa e chiara e su proposte e priorità conseguenti.

Ascolta il video su “Vera Tv”. Si parla anche del luogotenente De Cicco. Si parla del luogotenente dei Carabinieri De Cicco, in gravissime condizioni all’ospedale per un brutto incidente. E’il quarto episodio che De Cicco subisce. Le telecamere avrebbero permesso di vedere che contro l’auto di De Cicco si è schiantata in contromano un’altra vettura. Commenta Paolo Ferraro: Imposimato tace imbarazzato su Paolo Ferraro, vicende denunce e contesti, e racconta che tra MD e Falcone vi era mero dissenso su mera questione istituzionale strategica, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, tra l’altro senza neanche spiegare perchè Falcone voleva una maggiore garanzia di giurisdizionalità .. VERGOGNA. Chi ha l’ardire di raccontare che vi era mero dissenso tra Falcone e la nomeKlatura di MD e che il tema era “la separazione delle carriere” .. fa una operazione “amplificatrice di false versioni che hanno gestito la copertura della guerra grave e sotterranea in atto dalla seconda metà degli anni ottanta . Una operazione pertanto semplicemente di sviamento ed occultamento.... sul fronte protetto interno della vera supermassoneria di apparato … E lo fa mentre era assente allora e non conosceva…

Eppure Imposimato lo conosciamo con una veste diversa.

Quando il giudice diventa complottista…, scrive John B su “Giornalettismo. Ad alimentare il circo delle teorie complottiste ci si mettono anche i magistrati… Ferdinando Imposimato è uno di quei magistrati che hanno legato il loro nome ad alcuni dei più grandi (se non grandi discussi) misteri della storia italiana degli ultimi decenni. E’ stato responsabile dell’inchiesta giudiziaria per il tentato omicidio di Papa Wojtyla, per il quale fu arrestato Ali Agca, sospettato di aver agito per conto di servizi segreti esteri che volevano togliere di mezzo il papa che stava mandando a rotoli il Patto di Varsavia e la Cortina di Ferro. Prima ancora aveva diretto le indagini sul rapimento di Aldo Moro ed ha preso parte – sempre in qualità di magistrato – a importanti inchieste sugli affari di mafia. Da ultimo ha detto la sua sul caso della sparizione di Emanuela Orlandi, un altro mistero che chiama in causa terribili intrecci tra Vaticano, servizi segreti italiani e stranieri, mafia e banchieri. Adesso Imposimato è un avvocato, nonché presidente aggiunto (onorario) della Cassazione. Tra le tante cose di cui si è occupato gliene mancava una: gli attentati dell’11 settembre 2001. Ma ha rimediato con un annuncio che sta già facendo discutere Web e media. Imposimato sostiene che la CIA sapeva in anticipo degli attentati e non ha fatto nulla per evitare che accadessero. Di più: secondo Imposimato i grattacieli del World Trade Center erano infarciti di esplosivi preposizionati che ne causarono il collasso. La teoria complottista della demolizione controllata delle Twin Tower e dell’Edificio 7 è una tra le più datate e diffuse storielle messe in giro dopo l’11 settembre, ancora oggi cavalcata da una nutrita schiera di sostenitori dell’auto-attentato. In Italia è sostenuta da Giulietto Chiesa (giornalista), Massimo Mazzucco (regista e fotografo), Maurizio Blondet (scrittore), Dario Fo (attore), Franco Cardini (storico medievale), giusto per citare quelli più conosciuti. Negli Stati Uniti la tesi della demolizione controllata è abbracciata da Steve Jones (fisico nucleare), David Ray Griffin (teologo), Richard Gage (architetto) e una innumerevole schiera di altri personaggi che fanno da contorno. Inutile dire che dopo dieci anni di teorie di ogni genere (l’ultima è quella dell’utilizzo di un esplosivo “spalmabile”, derivato da un composto chiamato nano-termite) nessuno è mai riuscito a produrre uno straccio di prova a sostegno di queste fantasie. Imposimato sembra convinto di poter ribaltare la situazione e di riuscire a dare “dignità giuridica” alle teorie complottiste, portando il caso diritto davanti al Tribunale Internazionale dell’Aja. Almeno questo è un elemento di novità: finora i complottisti si erano guardati bene dal rivolgersi ai giudici nonostante affermino da dieci anni che le prove del complotto sono schiaccianti ed evidenti (infatti le hanno trovate strimpellando sui tasti del PC e navigando sul Web). Vedremo come va a finire, considerato che la comunità scientifica (quella vera) non solo non ha alcun dubbio sulla responsabilità di Al Qaeda ma ha anche prodotto fior di documenti che spiegano le dinamiche dei collassi attribuendole alle caratteristiche intrinseche del materiale strutturale (acciaio) e all’azione combinata degli impatti e del calore sviluppato dagli incendi. Né va sottaciuto che un vero e proprio processo c’è già stato: il processo Moussaoui (il cosiddetto 20° dirottatore) ha analizzato ogni particolare relativo agli attentati, comprese le indagini dell’FBI e le segnalazioni della CIA, senza riscontrare alcuna responsabilità di natura dolosa a carico delle autorità americane. Tra l’altro, gli atti delle inchieste ufficiali già hanno evidenziato che non tanto la CIA, quanto proprio l’FBI aveva elementi utili per individuare e rintracciare alcuni dei dirottatori (lo stesso Moussaoui, Al-Mihdhar, i fratelli Al-Hazmi) dopo il loro ingresso in USA, ma gli investigatori ebbero le mani legate dal sistema di garanzie procedurali previste dall’ordinamento giuridico americano (circostanza che ha contribuito non poco alla stesura del controverso Patriot Act). Addirittura uno degli agenti dell’FBI che lavoravano sulle tracce di quei terroristi inviò un messaggio profetico ai suoi colleghi: “Qualunque cosa succeda, un giorno qualcuno morirà, e procedure o meno la gente non capirà per quale ragione non siamo stati più efficaci e non abbiamo dedicato ogni risorsa disponibile per affrontare questa minaccia. Speriamo che la Sezione Legale dell’FBI vorrà difendere questa decisione, specialmente nel momento in cui si saprà che a Osama Bin Laden, la nostra più grande minaccia, sono applicate tutte le garanzie giuridiche”. La teoria di Imposimato, secondo cui la CIA non informò l’FBI, è quindi sbagliata già in premessa. La cosa curiosa è che tutto questo è scritto nero su bianco sul Joint Inquiry, il rapporto definitivo dell’inchiesta condotta dal Congresso americano sull’operato dei servizi di intelligence e di contro-terrorismo con specifico riferimento al fallimento nel prevenire gli attentati dell’11 settembre. Questo rapporto ha preceduto il ben più noto 9/11 Commission Report ed è di gran lunga più importante perché mette a nudo tutti gli errori e le manchevolezze del sistema di sicurezza anti-terrorismo degli Stati Uniti in quegli anni. Probabilmente nessun complottista lo ha mai letto, compreso Imposimato. Del resto chi volete che si metta a studiare un rapporto di 838 pagine? A leggere ciò che scrivono i complottisti, si capisce bene nessuno di loro ha letto nemmeno il 9/11 Report, che di pagine ne ha la metà. Non è nemmeno il caso di parlare dell’inchiesta del NIST o degli atti del processo Moussaoui: decine di migliaia di pagine e documenti. Purtroppo l’aspetto più triste della vicenda è la ricaduta sull’immagine e sul prestigio della magistratura, già notevolmente compromessa da altri episodi. A Imposimato (che di recente ha dichiarato che Emanuela Orlandi è viva e risiede in Turchia assieme ai suoi rapitori) si aggiungono le fantasiose teorie di Priore sulla strage di Ustica, a loro volta riprese recentemente da altri magistrati di rito civile, per non parlare delle sconcertanti “rivelazioni” del sostituto procuratore Paolo Ferraro su sette sataniche massoniche e poteri occulti che controllerebbero quasi ogni aspetto della nostra società. Ci sono almeno un paio di lezioni da trarre da queste vicende. La prima è che queste fantasiose teorie, sostenute anche da persone così “prestigiose”, finiscono per ipotecare la possibilità che informazioni serie e fondate riescano a emergere dal minestrone. La seconda è che la referenzialità di un individuo non è mai sinonimo di veridicità delle sue affermazioni. A quanto pare la paranoia del complottismo può colpire chiunque (anche se sembra manifestarsi con maggiore frequenza con l’avanzare dell’età anagrafica…) e qualsiasi valutazione non può prescindere dalla sussistenza di elementi oggettivi (prove documentali innanzitutto). In conclusione, non si può che rimanere estremamente perplessi e sconcertati, ove si rifletta sul fatto che troppo spesso le nostre vite e le speranze di fare chiarezza su vicende molto gravi sono affidate a persone che solo nel tempo rivelano abnormi tendenze paranoiche. Forse sarebbe il caso di implementare meccanismi che consentano di individuare per tempo certe anomalie, almeno per coloro che esercitano funzioni pubbliche così delicate.

Sono le 12.48. E' il 18 aprile 2011, un lunedì. Sul Pianoro di Colle San Marco, luogo di scampagnate e di giochi sopra Ascoli Piceno, un uomo si aggira disperato. Tiene in braccio una bambina e cerca sua moglie. L’uomo è il caporalmaggiore dell’esercito Salvatore Parolisi, la donna scomparsa è Carmela Rea, che tutti chiamano familiarmente Melania.

"Lo strano caso di Melania Rea" (edito da da Fivestore - R.T.I S.p.A e collana di una serie di Quarto Grado) è il primo libro su un mistero fatto di bugie, tradimenti, segreti. Un delitto che divide l'Italia.

Tutto parte da una misteriosa sparizione e dal successivo ritrovamento del cadavere. Da lì, da quel bosco, inizia uno dei casi più intricati, contraddittori delle nostre cronache giudiziarie, un giallo in cui tradimenti, segreti, bugie e sesso sfociano purtroppo in un finale orribile. La penna è quella attenta di un abile scrittore e cronista di nera, Antonio Delitala, giornalista professionista, saggista, che è mancato all’improvviso poco prima di veder pubblicata la sua opera. “Scrivere di un delitto non è motivo di morbosità. E' il desiderio di capire le cose, di scoprire l’umanità sofferente che li ha generati”. Particolari inediti, trascrizioni degli interrogatori, confessioni di Salvatore Parolisi (unico indiziato dell’omicidio di sua moglie) allo stesso Delitala, arricchiscono il racconto di questo giallo che è ancora un mistero assoluto della cronaca nera italiana. Lo Strano Caso Di Melania Rea non è dunque solo un triste eufemismo col quale appellare uno dei casi di cronaca nera più tremendi ed inspiegabili dell’ultimo anno. E’ una tragedia che porta a sondare i numerosi dubbi che l’opinione pubblica si pone sulle coincidenze e le contraddizioni del caso. Ma soprattutto è un libro in cui l'autore cerca di mostrare l’interiorità di Salvatore Parolisi, un Parolisi diverso e leggermente psicanalizzato da colui il quale era diventato suo speciale confidente, Antonio Delitalia appunto, un giornalista che si era appassionato al caso dell’omicidio Rea ed aveva da sempre portato avanti l’innocenza del Parolisi. Si mostra nel testo tutta la visione più sofferente di un Parolisi che ha vissuto barcamenandosi tra due storie incompatibili, quella con la moglie e quella con l’amante. E, tra sogni premonitori ed incubi nei quali rivede il volto della moglie, Parolisi non sembra chiarire i punti ancora oscuri di questa vicenda. Ed è proprio questo non saper spiegare o non voler spiegare a rendere poco credibile la sua innocenza.

"Scarsa sensibilità per il dolore di una famiglia che ancora non si capacita della perdita di Melania", spiega l'avvocato Mauro Gionni per esprimere il proprio disappunto circa l'iniziativa dei giornalisti Ilaria Mura e Antonio Delitala. Questi ultimi hanno infatti realizzato il progetto di pubblicazione del volume "Lo strano caso di Melania Rea", in cui si narra delle vicende relative all'omicidio della giovane donna di Somma Vesuviana scomparsa il 18 Aprile e ritrovata accoltellata dopo due giorni nel Bosco delle Casermette in zona Ripe di Civitella. Il rappresentante legale di parte dei Rea ha chiarito che il libro è "una pubblicazione inopportuna, considerando che le indagini sono ancora in corso, e che - sostiene l'avvocato - contiene solo riferimenti ad atti parziali, frasi mai dette, o comunque riportate non fedelmente di agenti, avvocati, e altri.

L'uomo, secondo quanto riferito dai colleghi del caporalmaggiore, mentre amici e parenti cercavano la povera Melania, trascorreva le sue ore in caserma. Gli stessi colleghi hanno suggerito a Parolisi: "Forse tua moglie aveva una relazione con un altro uomo, forse è scappata con un altro". I militari, peraltro, alle forze dell'ordine nel corso di un interrogatorio hanno riferito che Parolisi tra il 18 e il 20 era molto preoccupato in parte per la scomparsa della moglie, ma soprattutto per la possibilità che le recenti vicissitudini potessero portare allo scoperto le relazioni extraconiugali che intratteneva con altre donne.

Nel corso delle indagini è stato sentito l'ex sostituto procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ferraro; il suddetto aveva portato avanti delle indagini sulle eventuali presenze massonico-sataniche entro l'ambito militare. Per dar credito alle testimonianze raccolte, l'uomo sarebbe stato sottoposto a due perizie psichiatriche che l'hanno identificato come individuo sano di mente. Tali accertamenti si sono resi necessari in quanto il Consiglio superiore della magistratura lo aveva sospeso per quattro mesi per presunta infermità mentale.

Secondo quanto dichiarato dall'uomo, le sue problematiche si sarebbero sviluppate in concomitanza con l'inizio di quel tipo di indagini all'interno del contesto militare nella caserma romana della Cecchignola. Ferraro, in presenza dei pm Davide Rosati e Greta Aloisi, ha dichiarato di aver visto una donna molto simile alla vittima in prossimità della Procura di Roma un po' di tempo prima della inspiegabile scomparsa. Non è ancora stata resa nota l'attendibilità delle dichiarazioni, ma tale avvenimento potrebbe trovar riscontro nella dichiarazione rilasciata da una amica di Melania, Imma Rosa, la quale aveva sostenuto che la donna dopo aver scoperto la relazione extraconiugale del marito con una collega di lavoro, aveva in un primo momento pensato al suicidio e successivamente pensato di procedere per via offensiva denunciando pubblicamente la storia dei due amanti. 

Obiettivamente la denuncia avrebbe danneggiato a livello lavorativo tanto il marito della vittima, Salvatore Parolisi, quanto la sua amante, Ludovica Perrone. Quest'ultima avrebbe infatti riferito agli inquirenti di aver ricevuto minacce dalla vittima nel corso di una conversazione telefonica.

Unico indagato del delitto è il marito della vittima, il caporalmaggiore Parolisi, con l'accusa di omicidio. Intanto vi è un evento strano a danno degli investigatori. É un lavoro da esperti professionisti, ribadiscono gli investigatori: sono state prese di mira due colonne della magistratura e delle forze dell'ordine teramane. Il maresciallo ha condotto le indagini per tutti gli eventi criminosi avvenuti a Teramo. Il giudice ha esaminato il caso Enichem, l'omicidio Fadani e Rea.

Nella notte tra venerdì 18  e sabato 19 novembre 2011 chi ha cosparso di benzina le auto lo ha fatto in modo per così dire professionale, professionisti che hanno operato sapendo esattamente cosa e come fare,  ben conoscendo i possessori delle due macchine parcheggiate in via Colombo e via Brescia a Martinsicuro. Marina Tommolini, è stata giudice monocratico a Giulianova e Teramo prima di diventare giudice per le indagini preliminari. È stata anche pretore a Manfredonia, si è occupata di indagini importanti legate alla Enichem, e dell'omicidio Fadani, ed è anche il gip che si dovrà occupare del caso di Salvatore Parolisi. Il maresciallo Spartaco De Cicco è un uomo di spicco del reparto operativo provinciale dei carabinieri. Ha condotto le indagini su tutti gli omicidi degli ultimi tempi, dal caso Fadani a quello di Adele Mazza. Oltre che a vaste operazioni antidroga effettuate in provincia. Gli orari del doppio attentato si possono desumere dalle telefonate di allarme giunte ai vigili del fuoco: la prima alle 5.14, quando in via Brescia brucia l’Audi A4 del maresciallo De Cicco poi alle 5.35,  l'allarme per l'incendio in via Colombo che interessa l’Audi A6 bianca del magistrato. I piromani hanno scavalcato il recinto di cemento cospargendo di benzina la vettura, immediatamente prendono fuoco carrozzeria e pneumatici. In seguito all'allarme giungono il prima possibile i vigili del fuoco da Teramo, Nereto e Roseto degli Abruzzi spegnendo il rogo, ma oramai le auto sono carbonizzate. Le indagini si concentrano nei fascicoli delle indagini tenute dal  giudice e dal sottufficiale, si cerca anche un solo indizio che unisca i due attentati.  L'unica cosa certa per adesso è il chiaro messaggio intimidatorio che è stato lanciato come una sfida alle istituzioni dalla malavita.

Un magistrato di Teramo e un ufficiale dell'arma di Teramo, che si occupano del caso Melania Rea, sono stati entrambi vittime di due attentati incendiari ai danni delle loro vetture, realizzati alle cinque di mattina del 20 Novembre. Pochi giorni prima era stata acquisita per tre ore dalla Procura di Teramo la testimonianza dettagliata del magistrato dott. Paolo Ferraro, in merito: alla denunciata "presenza di sette esoterico sataniche a partire dall'esercito; alle possibili connessioni e coperture; al coinvolgimento di magistrati, avvocati, e psichiatri arruolati; alle indicazioni relative alla inquadrabilità del fenomeno in un contesto più ampio, che lascia intravedere rapporti e intrecci tra massonerie, satanismo, poteri deviati, aldilà delle correlazioni con il "caso" Melania Rea. E sono stati depositati dati e banca dati che illustrano altresì ascendenze internazionali con utilizzo di tecniche e strumenti elaborati in ambiti militari e dei servizi ". Intimidazioni a giornalisti, silenzio della stampa ufficiale e una miriade di piccoli fatti fanno da corollario, oltre alle intimidazioni e persecuzioni subite dal detto ultimo magistrato. Allontanato dal C.S.M. per una presunta e mai dimostrata "Infermità", il dott. Ferraro è il Pubblico Ministero che indagava su una organizzazione militare che coinvolgerebbe gli alti vertici del potere in massoneria occulta, pedofilia, sette sataniche. La reazione dei cosiddetti poteri forti nei confronti del P.M. non è tardata ad arrivare. Ma anche gli interrogativi.

Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06272

Pubblicato il 17 novembre 2011 Seduta n. 637

LANNUTTI – Ai Ministri della giustizia e della difesa. - Premesso che:

il pubblico ministero di Roma, Paolo Ferraro, ha condotto in prima persona un’indagine su una presunta setta satanica, a cui avrebbero aderito anche alcuni esponenti dell’esercito, un gruppo segreto che si riunirebbe in eventi dove confluirebbero riti esoterici e banchetti a base di sesso e droga. Ad avvalorare questa pista ci sarebbero anche dei file audio che contribuirebbero a dissolvere qualsiasi dubbio sulla tesi del magistrato;

l’indagine di Ferraro potrebbe, a detta dello stesso, intrecciarsi anche con il delitto di Ripe di Civitella dove il 20 aprile 2011 fu ritrovata morta Melania Rea, moglie di un caporalmaggiore del 235° Reggimento Piceno;

successivamente il Consiglio superiore della magistratura (CSM), nella seduta del 16 giugno 2011, come si legge su “giustizia quotidiana.it”, ha deliberato di collocare in aspettativa per infermità, per quattro mesi, il pubblico ministero di Roma Paolo Ferraro. Il provvedimento è stato adottato con una procedura d’urgenza, motivata dalla asserita gravità ed attualità dell’inidoneità del magistrato ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio»;

dopo la decisione del CSM di sospenderlo per quattro mesi dal servizio per gravi motivi di salute, il magistrato decide di rendere pubblica la sua vicenda cominciata quando nel 2008 andò a vivere nella città militare della Cecchignola, a Roma;

pertanto ad oggi Paolo Ferraro rimane sospeso per quattro mesi per motivi di salute, nonostante lui si dichiari perfettamente abile e a suo sostegno ci siano diverse perizie mediche che lo certificano;

i difensori del pubblico ministero denunciano l’anomalia dell’azione del CSM e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per denunciarne l’illegittimità. In particolare gli avvocati Mauro Cecchetti e Giorgio Carta hanno espresso forti critiche verso il modus operandi del CSM nei confronti del loro assistito;

si legge sul sito sopra citato: “Il procedimento cautelare seguito dal Csm risulta non solo costellato di violazioni delle garanzie difensive, ma addirittura atipico, perché non previsto da alcuna norma. Non risulta fondato su alcuna perizia medica, se non una risalente al 2008 che, peraltro, attestava l’idoneità allo svolgimento di attività professionali anche complesse”. Un particolare alimenta ulteriori sospetti nei due legali: “Il Csm – hanno riferito gli avvocati – ha stranamente ritenuto ininfluenti le numerose perizie mediche di parte, private e pubblica del 2011, attestanti la specifica idoneità ed anzi qualità intellettuale del magistrato, ed ha ignorato una denuncia analitica e argomentata depositata in atti, che evidenzia fatti gravissimi a suo danno patiti dal 2009 in poi”. Il pubblico ministero Paolo Ferraro non ha mai avuto provvedimenti disciplinari di alcun tipo, mentre ha sempre avuto giudizi di ottimo rendimento, occupandosi di inchieste anche importanti;

considerato che la signora Milica Cupic, cittadina italiana, lamenta una serie di comportamenti quanto meno opinabili di organi della giustizia militare e civile in ordine a fatti da lei denunciati;

in più occasioni ed in data 4 ottobre 2003, la signora Cupic ha denunciato gravi fatti a sua detta ascrivibili a personaggi identificati e identificabili. In particolare riferiti al suo ex marito, generale a due stelle e dunque alta carica dell’Esercito italiano, che ella ebbe a denunciare già nel 1996 in relazione alla morte violenta della propria figlia e di un sottoufficiale dell’Esercito avvenuta il 3 febbraio 1986;

secondo quanto riferito dalla stessa signora Cupic ella avrebbe altresì avuto modo di segnalare come un alto grado della Guardia di finanza avrebbe favorito la promozione al suo ex marito. Tale personaggio sarebbe poi diventato Comandante Generale della Guardia medesima;

la Procura della Repubblica di Roma, dopo aver ricevuto l’esposto firmato dalla signora Cupic, lo avrebbe trasmesso al Procuratore Aggiunto, dottor Ettore Torri, come esposto anonimo, mentre, ad avviso dell’interrogante, ne risultava esattamente identificato il soggetto che lo aveva inviato;

tali denunce sono state archiviate, ma è evidente che in tal caso la signora Cupic avrebbe dovuto essere indagata per calunnia, cosa che non è mai avvenuta;

sembra per la verità che la denuncia della signora Cupic in merito alla morte del Sottoufficiale e della propria figlia siano state archiviate, giustificandole con il fatto che la signora sarebbe affetta da «sindrome delirante lucida» e che di ciò la procura militare, per quanto riferito dall’interessata, sarebbe stata informata nel 1996, in modo improprio dal Tenente Colonnello dottor Corrado Ballarini di Bologna. La Cupic ha avuto più incontri, di sua spontanea volontà con il Capitano psichiatra criminologo Marco Cannavici nel 1995 presso il Policlinico Militare Celio di Roma, il quale fece in effetti un rapporto al direttore del Celio pro tempore sullo stato psicologico della signora, nel quale tuttavia mai pronunciò la diagnosi che avrebbe portato all’archiviazione;

in data 15 gennaio 2005, la signora Cupic presentò alla procura militare di Roma una formale denuncia contro il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giulio Fraticelli, per «omissioni in atti d’ufficio», in relazione alle denunce presentate nei confronti dell’ex marito ed alla documentazione a suo dire inviata al generale Pompegnani. Il generale Fraticelli avrebbe comunicato alla signora Cupic di aver relazionato al procuratore Intellisano, il quale, peraltro, in un incontro avvenuto con la Cupic il 7 dicembre 2004, negò di aver mai ricevuto alcuna cosa;

della denuncia di cui sopra esiste traccia nella lettera che la Procura militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma ha inviato allo studio legale Lombardi in data 16 maggio 2005, (Numero 8/C/04INT «mod. 45» di protocollo) a firma del Procuratore Intellisano;

nel dicembre 2004 la Cupic ebbe a presentare una denuncia alla Procura Militare contro il Tenente Colonnello Ballarini inviandola al A.G. Maresciallo Cervelli;

considerato infine che la sospensione del dottor Ferraro, improvvisamente ritenuto inadatto ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, appare all’interrogante di dubbia legittimità, si chiede di sapere:

di quali informazioni disponga il Governo sui fatti esposti in premessa;

quali iniziative di competenza intenda adottare.

Intervista a Paolo Ferraro, magistrato sospeso misteriosamente dal CSM.  Su Agenzia Stampa Italia

Salve e benvenuto. In queste settimane, il caso mosso intorno al nome del Magistrato Paolo Ferraro ha lasciato esterrefatta la pubblica opinione. Come rivelato ai microfoni di SkyTg24, Lei sostiene di aver riscontrato in prima persona, durante il Suo periodo di residenza presso la cittadella militare della Cecchignola, comportamenti ed attività “non normali”, scoprendo un mondo “sotterraneo, sconosciuto, poco chiaro, ambiguo, fumoso”. Attenendoci chiaramente ai limiti imposti dal segreto istruttorio, può dirci più nel dettaglio cosa ha scoperto attraverso le sue indagini?

Sporsi a suo tempo nel Novembre 2008, una Denuncia immediata, avendo proceduto ad un primo ascolto di registrazioni audio relative a sei mattine e due pomeriggi, registrazioni che effettuai avendo acquisito una serie di elementi  che lasciavano sospettare una “situazione ambientale” inquietante. Ebbi dichiarazioni conformi che la disegnavano a grandi linee, e feci ascoltare l’audio sia ad un ufficiale di P.G. particolarmente qualificato, che ad una psicologa incaricata tramite avvocato che ritenevo di fiducia, psicologa cui avevo conferito il compito di un sostegno esterno e affiancamento, ovviamente alle persone da me ritenute vittime dirette o indirette. La qualità dell’audio non era ottimale, anzi era mediocre, sicché indicai subito la necessità di procedere ad elaborazione del volume ed ad un attento ascolto tramite programmi adeguati. Sia l’Ufficiale di P.G., a titolo di amicizia e stima personale, che la psicologa, vagliarono la evidente anormalità della situazione ed anzi quest’ultima in un ascolto durato più di due ore e mezza fornì valutazioni, preoccupate, mentre l’Ufficiale di P.G. parlò di un fenomeno collettivo complesso e allarmante. Dall’ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza, ma più in particolare la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei soggetti che li ricevevano, ma soprattutto un contesto veramente anomalo con ingresso di numerose persone di varie età, senza suonare prima, ed utilizzando chiavi in loro possesso ed una posizione di soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell’appartamento. Il tutto secondo una analisi fonica poi progressivamente approfondita da me e da un perito fonico, cui diedi il solo incarico di trascrivere quanto emergeva dalla sola prima registrazione. Comunque alcune frasi apparivano curiosamente pronunciate dagli astanti con tono metrico cadenzato o musicaleggiante, in un paio di casi per fonemi riconducibili a linguaggio “medievalistico”, e colpivano altresì alcune frasi tipiche sintetiche espresse come comandi brevi, cui di norma le risposte erano un assenso implicito ovvero dei “si” che colpivano per atonia ed inespressività. Tra i  comandi ricorrente una espressione “nessuno vi è adesso” ovvero “ se andiamo via non c’è nessuno”, ovvero “ dobbiamo apparire, dobbiamo riapparire”, ma l’elenco sarebbe lungo. Il contesto sembrava ad un ascoltatore inesperto come io ero farneticante, torbido, non riconducibile ad esperienze ordinarie. Anche le modalità di interazione verbale dei soggetti erano talmente inusuali, talvolta cupe, e vocalmente atipiche  da lasciare interdetti. Tutto ciò non fu sentito dalla P.G. incaricata. Ma vi erano complessivamente nelle registrazioni più di dieci tra adulti, maschi e donne, e almeno quattro non adulti. Almeno otto i nomi pronunciati. Nelle registrazioni “per decreto” emergevano “frasi, parole e rumori riconducibili alla normale attività quotidiana di una persona all’interno della propria abitazione”. E la persona autrice dei racconti, ma assoggettata, negò poi tutto. Nessuno gli contestò quello che si sentiva. Ma io avevo altri accertamenti fatti, alcune registrazioni di telefonate o colloquio tra presenti, sms ed e-mail utilmente valutabili, feci accertamenti ricordando particolari a suo tempo raccontati, e, dopo l’archiviazione del procedimento, rimasto sbalordito, elaborai le basi audio potenziandone il volume ed estrapolando  circa 45 frasi e contesti divisibili sulla base di una precisa griglia logica di classificazione. Non posso dire altro, oltre che a suo tempo solo alcuni amici miei ascoltarono e mi confermarono l’ascolto mediante adeguato strumento audio. Feci una parziale discovery con gli “interessati” e come mi era successo nel Gennaio del 2009 accadde un qualcosa, uno strano incendio sul terrazzo della mia casa in villetta che mi spinse ad andarmi a lamentare della circostanza con l’ufficio mio, che mai mi aveva ascoltato direttamente, né aveva valutato in alcun modo la massa del materiale di prova o indiziario da me raccolto. Il giorno dopo, trasecolando, subii una proposta di TSO eseguita a tempo di blitz in forma coattiva, in assenza di ogni presupposto di legge formale e sostanziale. Quanto segue è anche oggetto di procedimento penale, solo poi scopersi di rapporti intrecciati a mia totale insaputa e alle mie spalle e del ruolo di uno psichiatra che aveva preparato per lo strumento alcuni miei  parenti in rapporti comprensibilmente complessi con me. Oggi so che modalità, tempistica, organizzazione e metodi hanno clamorose conferme anche in clamorosi precedenti, basta documentarsi. Ad oggi molte persone hanno valutato, condiviso valutazioni e pubblicato articoli coraggiosi, fedeli e suggestivi per la suggestività della storia, su internet, nel silenzio assordante di una certa stampa cartacea ufficiale.

Se fosse confermato un simile quadro dei fatti, questo sconvolgente scenario esoterico potrebbe allargarsi anche ad altri ambienti militari ed è pertinente ipotizzare dei collegamenti internazionali con simili organizzazioni “deviate” nel resto del mondo?

 

Ero concretamente a conoscenza di viaggi a nord, e verso Napoli. Del pari di una possibile forma, apparenza politico–militante del gruppo, della presenza ragionevole di ufficiali, alcuni dei quali individuabili foneticamente o perché da me osservati, della presenza tra essi di un uomo dalla voce autorevole arrogante la cui attribuzione a persona è possibile tramite un quadro indiziario concreto e riscontrabile. Fatti concreti, elementi verificabili, non altro. Incredibilmente quando, uscito da un silenzio costretto, raccontai di fatti, contesto, conseguenze patite, trovai un atteggiamento di assoluta volontà di non ascoltare. Fatti precisi indicati sarebbero diventati “frasi criptiche”, “allusioni incomprensibili”, o giudizi “sommari” di assoluta “inverosimiglianza”. Chi li ha pure riportati davanti al CSM, che ha fondato su tali giudizi un provvedimento grave di sospensione cautelare, a fronte di statistiche ineccepibili e numerose certificazioni di sostanziale perfetta salute, non ha tenuto conto di chi fossi, della mia storia, delle mie note capacità, della circostanza peraltro a loro non nota, che era stato depositato un memoriale analitico, chiaro e riferito a fatti oggettivi in una Denuncia a Perugia. La situazione derivatane è assurda, ma presagisco molto di più. È tutto quello che mi è accaduto dal 2009 in poi, pressioni, intimidazioni indirette, inviti ripetuti a tacere, e gli eventi dal Marzo ad oggi che hanno squarciato ulteriori veli. In particolare è vero che io ho notato una donna talmente tanto simile a Carmela Rea in un orario non d’ufficio nei corridoi della procura di Roma, da farmi affermare ancora oggi che era lei o potrebbe essere una sosia e comunque nessuno mi ha mai detto chi fosse, perché fosse accompagnata ad un colloquio riservato alle 19 di sera. Alcuni articoli su internet lanciavano ipotesi parallele alle mie rilevazioni, in Roma, ma soprattutto su internet venne fatto il nome di un alto Ufficiale dell’Esercito e qui debbo fermarmi.

Il provvedimento che ha più lasciato interdetti è stato indubbiamente la sospensione per un periodo di quattro mesi, stabilita dal CSM lo scorso 16 giugno 2011, ufficialmente “per gravi motivi di salute”. Come spiegate questa decisione e quali saranno le principali armi giuridiche cui ricorrerete per opporvi alla decisione?

La decisione, purtroppo si spiega da sola per abnormità, atipicità, essendo carenti entrambi i requisiti  rigorosamente chiesti per un provvedimento di dispensa dal servizio . Ma intendo precisare che in casi del genere disinformazione, assenza di conoscenza di dati reali e presunta attendibilità di indicazione fornite da vertici di uffici, o da presunti autorevoli soggetti con responsabilità “politiche” tra i  magistrati può avere influito. Il provvedimento allinea documenti, che risultano oggettivamente e criticamente essere destituiti di fondamento, allegando indizi concreti, prove documentali e informazioni ignote al CSM. Quello che colpisce è che sembra che nulla sia accaduto, tutto viene inanellato lasciando fermi, errori valutativi, disinformazioni su fatti precisi. Ma agli atti della commissione è stato depositato un memoriale approfondito, in copia, neanche letto, sembrerebbe.  Ma continuo ad avere fiducia che fatti e dati verranno realmente approfonditi. Se mancherà l’approfondimento necessario, ne potremo trarre varie altre conclusioni. In questa vicenda è a me apparsa evidente una particolare “collocazione” di due magistrati e ho dovuto fornirmene una approfondita spiegazione, che si riverbera sul rilievo e sulla importanza generale dei fatti. Un probabile epicentro. Ma è proprio la magistratura a dovere indagare e valutare. E se non si indaga a fondo non si valuta e se non si valuta non si indaga. Ma se si colpisce chi ha valutato a fondo per conto suo, e ormai indirettamente tutti quelli che condividono valutazioni ed altro, i ragionevoli inquadramenti e le ipotesi accertabili si fanno prospettive concrete. Inquietanti, e perciò io chiedo al CSM di dissipare veli e dubbi e di vagliare fino in fondo, a tutela  della immagine e credibilità dell’organo di autogoverno della magistratura.

Paolo Ferraro risulta essere, da più fonti, un magistrato integerrimo e molto stimato nel suo ambiente di lavoro. Dopo la sentenza del CSM, quali sono state le reazioni dei suoi amici e colleghi? Ha percepito degli improvvisi cambiamenti in alcuni dei suoi rapporti inter-personali?

Vi è stato sgomento, sbigottimento, incredulità , nei miei confronti, e preoccupazioni  per me, per sé e generali:  come starà, ammesso che stia male come dice il vertice dell’ufficio, ma  se la vicenda è vera in tutto od in parte riscontrabile,  se gli hanno fatto quello che ha poi denunciato, cosa può succedere anche a noi, se lo appoggiamo o se ci trovassimo per sbaglio in una situazione analoga?!.  Ma lo stupore nasce da un prevalente meccanismo di autodifesa psicologica: non voglio, non posso credere, ho paura di  credere e ragionare su questi fatti. Avete parlato mai con un malato terminale , che discetta di influenza non curata bene o di piccola bronchite, la speranza e la paura si tramutano in negazione psichica dei fatti, della  realtà. Ma chi ha mai parlato di credere. Ho detto, sappiate, verificate  ascoltate, valutate. La paura, per me, per la storia, per l’immagine dell’ufficio, per sé è per ora,  prevalsa, ma nell’ambito ristretto e solo in parte. Non sono invece mancati abbracci, in bocca al lupo, affermazioni di profonda stima, da magistrati, avvocati e proprio da carabinieri che non lavorano a stretto contatto con me. La frase detta circa quattro mesi fa, senza preavviso, “noi stiamo con lei” e accompagnata da una duplice forte stretta di mano. Io un po’ sbigottito, come ha fatto a spargersi la voce, visto il cupo silenzio che circondava la vicenda..?! Il tono ?! Di chi sa di che storia si tratti, e molti sanno, ritengo, della valenza generale della vicenda: un giovane brigadiere di una stazione  CC, sapeva tutto ed alla mia occasionale mera battuta sulle UAV ( unità di addestramento ) ha fatto dei cenni inequivoci. So per certo che molti sanno, e molti anche senza avere un ruolo qualunque. E allora se di una vicenda strana,  coinvolgente in apparenza solo due palazzine  sanno in tanti, in varie parti, come può essere un fatto solo locale? Non lo è, ragionevolmente, e molto dipenderà  dalle indagini  di Ascoli Piceno (e a Teramo un celebre processo ormai conclusosi in Cassazione sull’esercito bianco , a Roma un procedimento di fatti e luogo omologhi, del 2000, e altri avvocati stanno raccogliendo le tracce generali nella recente storia giudiziaria in merito a circostanze  che sembrano rinforzare la lettura unitaria del fenomeno).

Questa vicenda è appena agli inizi e la battaglia che si appresta ad affrontare potrebbe non essere delle più semplici. Nella rete, molti cittadini ed una parte dell’informazione non-mainstream si sono stretti intorno a lei, mostrando grande attenzione e stima per la sua storia. Quali sono le aspettative e le speranze di Paolo Ferraro, sia come magistrato sia come uomo?

Verificare e capire, allargando conoscenze e raccogliendo sensibilità e disponibilità. In fondo si tratta solo di una struttura a base di setta, di gruppi di militari, di impossibilità di  accertare, di un magistrato della capitale sottoposto a TSO, e su tutto il resto “trasversali dubbi”… un polpettone saporito non addentabile agevolmente, ma siamo a dieta, il cuoco è un “visionario”, meglio non fare indigestioni. I curiosi che credono alla democrazia ed ai suoi valori però non la pensano così.

Le massonerie sono ordini iniziatici e istituzioni gerarchiche rivolte alla conoscenza. I membri delle massonerie sono definiti massoni e condividono valori morali, filosofici e spirituali comuni. Nei secoli scorsi le massonerie sono sorte sotto forma di associazioni di mutuo soccorso e come società segrete. In seguito assumono una funzione più speculativa, trasformandosi in confraternite di tipo iniziatico e mistico, caratterizzate dal segreto rituale. Gli affiliati di una massoneria ne condividono gli ideali morali e le regole e sono organizzati in una rigida struttura gerarchica dominata dalla figura del Gran Maestro. Al Gran Maestro viene attribuito il più alto grado di conoscenza, a cui l'affiliato possa aspirare. Le massonerie nel mondo sono migliaia e non è possibile quantificarle, né qualificarle per i loro scopi, avendo ciascuna di esse un proprio regolamento e proprie precipue finalità. In molti casi le massonerie sono regolari e legalmente riconosciute dagli ordinamenti giuridici in cui operano (in Italia, per es., la Gran Loggia Regolare d'Italia). In altri casi vi sono massonerie spurie, che non hanno nulla a che vedere con le associazioni regolari, che mantengono il loro carattere segreto o fenomeni di associazionismo locale che celano il mero raggiungimento di interessi privati, favoritismo e aiuto reciproco tra affiliati.

Dal punto di vista storico la massoneria esiste fin dall'antichità. In origine le società segrete hanno il fine di creare un Ordine, spesso parallelo, con obiettivi spirituali, religiosi, culturali, economici o politici. Nel corso della storia dell'uomo si sono avvicendate centinaia di migliaia di massonerie, tutte caratterizzate dal numero chiuso degli affiliati, da un rito di accettazione e dalla presenza di obiettivi comuni da perseguire. Durante il Medioevo le massonerie hanno avuto anche il compito di conservare la conoscenza delle tecniche e del sapere. Le più note sono le corporazioni di muratori composte dalle maestranze bizantine. Da questo potrebbe derivare il simbolismo muratorio ancora oggi usato in molte corporazioni. Nel corso del periodo pre-industriale le confraternite di mestiere (corporazioni) perdono la loro ragion d'essere. Lo stesso accade con l'avvento dell'Illuminismo alle massonerie dedicate alla conoscenza e alla ricerca scientifica, le quali non devono più condurre in segretezza i propri studi e non devono più temere le accuse di eresia. E' difficile tuttavia dare una definizione generale della massoneria o riassumere un percorso storico del fenomeno in poche righe. Ad esempio, gli Ordini massonici con finalità spirituali o religiose non sono influenzati dall'illuminismo o dalla rivoluzione industriale, avendo scopi diversi dalle altre corporazioni appena citate.

In genere gli storici distinguono le organizzazioni corporative più antiche da quelle più moderne nate alla fine del XVII secolo, in quanto non esiste un nesso di continuità tra le corporazioni di artigiani medievali e quelle speculative nate successivamente. Dal primo '800 all'epoca contemporanea le organizzazioni massoniche conservano perlopiù obiettivi politici, culturali, spirituali ed economico-finanziari.

La piramide è un simbolo antichissimo dalle origini tuttora oscure; il triangolo con l'occhio (poi inglobato nel cristianesimo come simbolo divino) può essere fatto risalire alla prima massoneria. L'utilizzo combinato di questi simboli si realizza sostituendo al vertice della piramide il Delta Luminoso ed ha origine nel 1776, quando il primo di maggio Adam Weishaput (che al tempo insegnava diritto canonico all'università di Ingolstadt) fonda una società segreta nota come Ordine degli Illuminati di Baviera. Weishaput definì l'occhio al vertice della piramide "The Insinuating Bretheren" ma nell'ambiente era più conosciuto come "Occhio Gnostico di Lucifero", od "Occhio Onnisciente". Il significato complessivo della Piramide del Potere è l'ambizione stessa dell'ordine: un governo mondiale guidato da una ristretta elite di sapienti, ovvero loro stessi. Tra gli altri scopi dell'ordine vi era la trasformazione del cristianesimo in una religione "scientifica", in cui la ragione prendesse il posto del divino.

Notare come la Piramide abbia tredici livelli e alla base scritto MDCCLXXVI: questo simbolo è stato studiato accuratamente in modo che chiunque conosca i significati delle metafore utilizzate sia in grado di interpretarlo. MDCCLXXVI non è che 1776 scritto in numeri romani, l'anno in cui nacquero gli Illuminati e in cui venne dichiarata l’indipendenza degli Stati Uniti d’America; le tredici file di mattoni rappresentano le 13 fasi di 13 anni l'una che gli Illuminati avrebbero seguito per conquistare il potere: si parte dalla fondazione e si va fino al 1945. Tuttavia, risalendo la piramide anno per anno, nel 1945 non si raggiunge il vertice, ma lo spazio che separa il corpo della piramide (simbolicamente la "Prima Era") dall'occhio.

Questo intercapedine va interpretato in modo leggermente diverso: rappresenta infatti una fase di 26 anni (13+13) definita "Seconda Era" che inizia nel 1945 e termina nel 1971. Si raggiunge così il Delta Luminoso, ovvero la "Terza Era". In progressione geometrica, questa è formata da tre fasi di 13 anni l'una (39 anni in tutto) che vanno dal 1971 al 2010. A questo punto, secondo i progetti degli Illuminati, nessuno sarebbe più in grado di contestare l'ormai completo "Nuovo Ordine Mondiale".

Questa è solo una delle molte diverse interpretazioni di questo simbolo: il delta luminoso rappresenta anche un elemento “divino” nettamente separato dalla materia (la piramide), ad esso subordinata. Ingrandendo il Delta Luminoso si potrà notare come l’occhio sia in realtà ben poco “umano” in quanto attorniato da squame. Gli illuminati si consideravano infatti strettamente legati ad una antica specie rettile a cui attribuirebbero l’origine della specie umana.

La Piramide del Potere è oggi visibile a tutti sul fronte della banconota da un dollaro a sinistra del Gran Sigillo. Qui sono presenti due scritte: in basso "Novus Ordo Seclorum" ed in alto "Annuis coeptis". La prima è l'obbiettivo stesso degli Illuminati (il Nuovo Ordine Mondiale), la seconda è il loro motto: "la provvidenza ha favorito il nostro impegno" (tradotto anche come "Dio ha acconsentito"). La scritta in basso conterrebbe un grossolano errore ortografico: la scrittura corretta infatti sarebbe “Secolorum” e non “Seclorum”. In realtà questo non è un errore, quanto piuttosto uno stratagemma usato dagli Illuminati per far sì che la scritta sia composta da 13 caratteri.

La Piramide del Potere venne mostrata al mondo per la prima volta il 4 luglio del 1776 sulla bozza della banconota da un dollaro. Questa bozza verrà poi corretta varie volte invertendo tra l’altro la posizione dell’Aquila calva (il Gran Sigillo) e quella della Piramide (che al tempo si trovava a destra), prima della versione definitiva del 20 giugno 1782. Il Congresso approverà l’utilizzo del Gran Sigillo per rappresentare gli Stati Uniti il 15 settembre del 1792. Successivamente, il dollaro verrà modificato numerose altre volte, nel 1933 Franklin Delano Roosvelt (Presidente degli Stati Uniti dallo stesso 1933 al 1945, nonché massone del 32° grado) fece coniare la prima banconota americana da un dollaro con la Piramide ed il Gran sigillo sul lato posteriore (da allora ad oggi si è mantenuta questa impostazione). La Piramide del Potere era visibile anche sullo stemma del DARPA (Defence Advanced Reseach Projects Agency) prima che, nel 2004, questo venisse modificato.

SIGNORAGGIO: AL VERTICE DELLA PIRAMIDE. Che cos’è il signoraggio?

Si tratta di un diritto dei "signori", adottato fin dal passato. Oggigiorno è una delle maggiori cause di indebitamento pubblico e di ulteriore arricchimento dei potenti e dei ricchi. Se ne parla poco, ma esiste, da secoli. Il procedimento è molto semplice: la Banca Centrale Europea produce, ad esempio, una banconota con soli 5 centesimi di spesa, ma l’affitta alle varie nazioni a 100 €. Ciò significa che la società privata che stampa ed emette la banconota guadagna in pratica 95 €. Il signoraggio corrisponde quindi alla differenza tra il valore nominale della moneta (che troviamo scritto su di essa) e i costi di produzione della stessa.

Settimio Severo, imperatore romano vissuto nel III secolo d.C., adottò anch'egli questo metodo, dimezzando il materiale utilizzato per le sue monete, ma mantenendo identico il valore nominale scritto su di esse. La differenza, materiale inutilizzato, rimaneva nelle casse dello stato.

In Europa è la BCE (Banca Centrale Europea) che detiene il diritto esclusivo di battere moneta, arricchendosi alle nostre spalle. E, attenzione, si tratta di una banca privata! Lo stato paga l’affitto della moneta con Titoli di Stato, indebitandosi e, alla fine, chi ci rimette siamo sempre noi, poveri cittadini. Infatti, siamo noi a pagare questo debito, con le tasse. Se invece fosse lo stato a battere moneta, non vi sarebbero tasse. Ma si parla di abbattere un sistema ormai radicato da secoli.

In passato le cose erano diverse, perché un grammo d'oro valeva come un grammo d'oro. Una moneta d'oro aveva un valore intrinseco, pari al suo valore nominale. Solo in seguito i signori iniziarono a coniare monete utilizzando minor materiale prezioso, dando vita al signoraggio. Fin dall’antichità la plebe ha sempre dovuto sottostare alle scelte dei ricchi signori, uniti tra loro in logge di potere e società segrete. La maggior parte dei politici presenti nei vari paesi del mondo, sia che siano di destra sia che siano di sinistra, così come i grandi imprenditori e i fondatori di importanti multinazionali apparterrebbero in molti casi a logge massoniche, e dal vertice della piramide sociale controllerebbero il destino degli uomini.

Guardacaso, la prima banca centrale a livello mondiale fu proprio creata da un massone, William Peterson, che la fondò assieme ad alcuni Fratelli approfittando della situazione di debito pubblico nella quale si trovava il suo paese: si trattava della Banca d’Inghilterra, ed era l’anno 1694. Già Karl Marx ne Il Capitale denunciava senza mezzi termini le banche centrali, definendole “società di speculatori privati”. La Banca d’Inghilterra venne presa come modello di riferimento da tutti gli altri paesi del mondo. Perfino il Vaticano godrebbe del diritto di signoraggio, per via delle molte medaglie ed emblemi messi in circolazione. Nella storia dell’umanità ci furono persone che provarono ad abbattere questo sistema. Una di queste è John F. Kennedy.

Nel giugno del 1964 sfidò la Fed (Federal Reserve Note), società privata che deteneva, e detiene ancora oggi, il monopolio sul conio monetario. A novembre dello stesso anno, il presidente venne eliminato, e proprio a Dallas, una delle sedi delle dodici banche statunitensi. E prima di lui anche altri presidenti avevano tentato di imporre una banconota statale; tra questi ricordiamo Lincoln, McKinley e Roosevelt, tutti e tre uccisi. L'ex questore di Genova Arrigo Molinari citò in giudizio Bankitalia per “la truffa del signoraggio”. Aveva l'udienza il 5 ottobre 2005, ma venne ucciso a coltellate il 27 settembre! Della serie: chi tocca il signoraggio muore.

In Italia, il signoraggio fino a pochi anni fa era diritto della Banca Centrale d’Italia e, in seguito, della Banca Centrale Europea, entrambe private. Ma c’è di più. Tra le banche socie di quest’ultima troviamo anche quella d’Inghilterra, di Danimarca e di Svezia, associate rispettivamente al 15,98 %, 1,72 %, 2,66 %, pur non avendo accettato di aderire all’Euro. Parte del signoraggio europeo finisce quindi nelle tasche di queste società private estere. In pratica, noi italiani stiamo aiutando questi tre paesi a pagare le loro tasse! Questi potenti, a parte il signoraggio, utilizzerebbero anche altri metodi utili al loro arricchimento, sempre alle spalle della povera plebe. I ricchi banchieri e i loro sostenitori sarebbero infatti collegati anche a fondazioni, multinazionali e sette di potere, come Scientology, l’Opus dei, e l’Amway corporation.

POLITICA E MASSONERIA. Ma guarda un po’ cosa vai a scoprire da fonti notoriamente di sinistra, come può essere un’intervista di “Repubblica” a firma di A. Statera. "Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera", recita ironico il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo un po' risorgimentale, ex segretario locale del defunto Partito repubblicano di Ugo La Malfa, quando gli si chiede di commentare l'improvvisa fiammata antimassonica di parte del Partito Democratico. E l'Opus Dei? E Comunione e Liberazione? E tutti i mariuoli, clericali o non, ormai in circolazione per ogni dove? E tutti i seri problemi del paese che il Pd tende spesso a rimuovere imboccando improbabili vie di fuga? Il Gran Maestro se lo chiede, ma la delibera assunta dalla Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer, proveniente da una vecchia famiglia massonica il cui capostipite Mario, padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari, in fondo non gli dispiace: "Al di là della temporanea sospensione dei fratelli pd iscritti - dice - c'è un percorso serio per capire la questione e non infliggere una censura dogmatica; è un percorso laborioso, ma simile a quello già tracciato saggiamente dal lodo di Valerio Zanone e Giovanni Bachelet". Ma non gli va giù che i problemi interni di un partito in cui si è rivelata difficile la convivenza tra l'anima cattolica ex democristiana con quella laica ex repubblicana, ex socialista ed ex comunista, tirino inopinatamente in ballo "una delle più importanti agenzie produttrici di etica che abbia creato dal suo seno la storia dell'occidente, come il professor Paolo Prodi ha efficacemente definito la massoneria".

Un fatto è certo, i massoni del Partito democratico, che dovranno ora rivelarsi, sono a bizzeffe, come garantisce l'ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli. Col Gran Maestro recalcitrante, che giura di non aver mai chiesto di mostrare la tessera di partito ai suoi fratelli ("Se no verrei messo fuori dal consesso della massoneria mondiale") tentiamo un computo, che ci porta a un totale di oltre 4 mila su quasi 21 mila iscritti in 744 logge, il 50 per cento dei quali concentrati in Toscana, Calabria, Piemonte, Sicilia, Lazio e Lombardia, con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. Di questi almeno 4 mila diessini, molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali, come in passato il Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, che è stato vicesindaco socialista di Livorno. Adesso dovranno rivelarsi ed è facile prevedere che non sarà un'operazione indolore.

Ma Gustavo Raffi pensa che potrebbe venirne persino un bene, cioè "la fine di questa leggenda della segretezza, frutto avvelenato delle gesta del materassaio di Arezzo, che non ha ragione di persistere. Ma come si fa - si accalora - a confondere il Grande Oriente, scuola di etica e di classe dirigente, con i mariuoli che infestano il paese anche in false massonerie? Il fascismo, perseguitandola, costrinse la massoneria al segreto, ma oggi siamo un'istituzione trasparente tornata nella storia. Lo dimostrano le decine di nostri convegni culturali con partecipanti del calibro di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Umberto Galimberti, Giuseppe Mussari, Ignazio Marino, Paolo Prodi, Gian Mario Cazzaniga e tanti, filosofi, storici, accademici di reputazione e scienza preclare. Il Pd si accorge adesso che la sinistra è figlia anche della massoneria? Fanno fede i nomi dei fuorusciti a Parigi durante il fascismo, le Brigate partigiane in Spagna e la Costituente, dove su 75 membri 8 erano massoni, da Cipriano Facchinetti ad Arturo Labriola, Meuccio Ruini... ".

Gran Maestro - lo interrompiamo - per favore, non torniamo a Garibaldi e Bakunin e ai generi massoni di Marx, il fatto è che in un passato più recente le vicende della massoneria ufficiale non sempre sono apparse commendevoli. Tra l'altro, nel governo e nella attuale maggioranza di destra si dice ci sia la più alta concentrazione di massoni (e di Opus Dei) mai vista, come ha rilevato l'ex presidente Francesco Cossiga, che se ne intende. A parte Berlusconi, Cicchitto, che erano nella P2, e al consulente di Gianni Letta, quel Luigi Bisignani che ne era il reclutatore, ce ne sarebbero molti altri, a cominciare da Denis Verdini, che però ha smentito. Per non dire dei Lavori Pubblici, culla della Cricca degli appalti, considerato il ministero col maggior numero di dirigenti massoni. Il Gran Maestro non sfugge: "Io le posso dire in tutta coscienza che, tolti quelli che giocavano a nascondino col materassaio di Arezzo e che con noi non hanno nulla a che fare, abbiamo fatto un'attenta analisi dei nomi emersi come appartenenti alla Cricca e delle intercettazioni telefoniche pubblicate sui giornali. Abbiamo trovato solo un nome nelle nostre liste e l'abbiamo sospeso immediatamente. Se ne emergeranno altri, stia certo subiranno la stessa sorte". Inutile insistere per ottenere il nome, il Gran Maestro garantisce di non ricordarlo, ma promette di ricercarlo, perché dice di sognare una massoneria supertrasparente come quella americana, cui i fratelli sono fieri di appartenere, dove le logge sono indicate al centro delle città con grandi cartelli stradali, "come già abbiamo fatto a Ravenna mettendo la targa sulla nostra sede, perché se ti nascondi finisci alla gogna". Ma nulla autorizza la componente cattolica del Pd a confondere la massoneria storica con pseudomassonerie affaristiche, "se no è come se io dicessi non che un partito è degenerato, ma che tutti i partiti sono degenerati, mentre, pur se disastrati, continuano ad essere il cardine della democrazia. Mai dirò che i partiti inquinano la massoneria, ribaltando l'affermazione di quel parlamentare del Pd, il quale ha osato dire che la massoneria inquina il suo partito". Se la teoria del senatore di Magliano Sabina Lucio D'Ubaldo prendesse piede nel Pd, il Gran Maestro vi scorgerebbe un arretramento clericale e culturale quasi a due secoli fa, all'enciclica "Mirari Vos" di Gregorio XVI che condannò la separazione tra Stato e Chiesa e qualunque libertà di coscienza.

Chissà se la delibera dei garanti pd guidati da un Berlinguer frenerà ora le iscrizioni al partito, notoriamente non in splendida salute, o al Grande Oriente d'Italia, che conta 1600 "bussanti" all'anno, più di un terzo dei quali respinti in attesa di "passaggi all'Oriente Eterno" di anziani fratelli.

Bettino Craxi, l’ultimo uomo di Stato. La storia è talvolta così distante dalla realtà, i fatti vengono stravolti e la verità negata: così l’onore di un uomo viene sfibrato per cancellarne la memoria e la sua stessa vita. Mentre tutti gli scagliavano contro sentenze e ingiurie, mentre il magistrato Antonio Di Pietro spasimava per il grande momento e qualcuno gridava “Tonino facci sognare”, sicuramente nessuno di loro sapeva che lui aveva tentato di salvare l’Italia, e così non restava che un’unica soluzione: andare via il prima possibile, una fuga immediata.

I fatti erano ben diversi, alle spalle vi era un piano, chiamato “Apocalisse”, studiato nei minimi dettagli e gestito direttamente da Londra (Secondo David Icke Londra sarebbe il centro del controllo globale). Nacquero in quegli anni in Italia molte scuole di lingua inglese, come copertura dei servizi segreti; molti agenti del Sisde e del Sismi furono intimoriti, altri si suicidarono: la campagna mediatica dei giornali, e non solo delle televisioni, avanzò impietosa. L’obiettivo di fondo consisteva nel rovesciare i governi e porre al potere dei criminali, dei “contadini”, di destra e di sinistra, islamici e non, per poi privare uno Stato della sovranità monetaria, privatizzare ogni cosa e rastrellare le ricchezze esistenti, creando così un sistema economico completamente diverso, quello del “rent”, dell’affitto, basato dunque non più sul concetto di possesso, bensì su quello di uso. Un ambizioso progetto da realizzare mediante la svalutazione della moneta, la riduzione della spesa pubblica, la deregolamentazione del mercato con politiche liberiste, la fissazione di alti tassi di interessi, con la lotta alla corruzione, la privatizzazione del patrimonio statale e della Banca Centrale, ed infine la rifondazione della Nato come organismo militare per sabotare le iniziative dell’Onu.

In realtà il signoraggio non è il solo problema, ma è un anello di un meccanismo molto più complesso che si serve di una forma di potere centralizzata e piramidale, andando a creare quelle che molti studiosi definiscono società “rettiliane” o demagogie pure. Un sistema questo che si è rivelato efficace, dobbiamo riconoscerlo, in contesti medievali in cui non esisteva la comunicazione di massa, le attuali tecnologie e forme di crimine psicologico: la nostra società rimane tuttora ancorata a schemi di potere antichi e arcaici.

Craxi, come qualcuno prima di lui, aveva intuito che il sistema era concatenato perché ragionava come un uomo di Stato, ed è stato tradito dal serpente che è dentro in noi. Voleva salvare l’Italia, parlava di svolta, di cambiamento e di rinnovamento, parole che certamente hanno fatto tremare gli eminenti Banchieri di Londra. Craxi cercava di combattere uno degli anelli del sistema tramite la “lira pesante”, che consisteva nel coniare la “5 lire in argento” con l’effigie di Garibaldi, cosa che sicuramente non è stata ben gradita alle lobbies bancarie che scatenano guerre sanguinarie solo per imporre il costo di una commissione bancaria in un paese.

Mentre cercava di salvare l'Italia, si accorse cos’è veramente il “potere”. Ho sacrificato la mia vita e venti anni di studi e di ricerche per capire ciò che i politici sostanzialmente dicono in frasi del tutto accidentali. Egli intendeva rifondare il tessuto sociale, il modo di fare economia, e il concetto stesso di partecipazione politica perché aveva intuito che il mercato si stava trasformando: l’economia cresceva tra usura e collusione , e da tempo ormai era in atto un etnocidio, ossia lo sterminio dell’identità etnica, delle tradizioni, e della cultura mediante strategici piani di “globalizzazione” e l’appropriazione dell’intelligenza dei popoli.

Tutto quello che si è realizzato con il Trattato di Maastricht è stato accuratamente programmato nel 1978 da un piano strategico e complesso, che già allora fece le sue prime vittime. Maastricht si è appropriato del potere democratico per antonomasia in quanto va incidere sulla redistribuzione della ricchezza reale, trasferendo in maniera illegittima e incostituzionale la sovranità monetaria ad un ente non rappresentativo della volontà sovrana dei cittadini. L’unione monetaria ha creato una macchina che distrugge, depreda e porta guerra tra i popoli; la banca, dal canto suo, si finge un’istituzione, che entra come un parassita nell’azienda per alimentare un sistema di denaro virtualizzato. I Grandi Banchieri si sono resi responsabili dell’olocausto, senza che nessun tribunale internazionale li abbia mai condannati, e continuano a sterminare popoli in maniera sempre più subdola in forma di etnocidio.

L’eurosocialismo è caduto. Tutte le colonie del regime comunista sono state attaccate perché i sistemi economici ibridi tra comunismo e capitalismo andavano eliminati ad ogni costo in modo da evitare anche lo scontro diretto con la civiltà araba: ed ecco perché Craxi era considerato un filo arabo.

Nel 1992 non era più possibile salvare l’Italia e Craxi aveva un compito tanto complicato quanto impossibile da portare a termine. Mentre Maastricht vedeva nascere l’Europa dei Banchieri Ladroni, la magistratura arrestava Mario Chiesa, e procedeva con gli avvisi di garanzia che avrebbero portato avanti la crociata contro “la corruzione”. Nel luglio del ’92 le parole di Craxi alla camera dei deputati denunciano una criminalizzazione della classe politica, un vero e proprio processo storico e politico ai Partiti, e "un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico,... non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica”.

Il Buon Tonino probabilmente solo quando fece il grande gesto teatrale di togliersi la toga dinanzi alle telecamere e di rassegnare le dimissioni dalla magistratura, diede prova di aver capito che era stato usato e manipolato come una pedina in una guerra strategica senza scrupoli. Ma il nostro ex commissario doveva capire che il sangue sporco si deve mischiare con quello nuovo. Mani pulite è stato dunque qualcosa di più, aveva l’obiettivo di controllare le masse, eliminare la classe politica e sostituirla con soggetti dalla mente semplice e poco intelligente, assolutamente inadeguati a contrastare i veri poteri, mentre le privatizzazioni e il saccheggio dell’Italia proseguiva.

Il caso dunque volle che i folli avevano arrestato i sani, e la storia insegna che chi si mette contro questi poteri va eliminato: Jesus fu crocifisso perché chiedeva a Cesare perché sulla moneta veniva coniata necessariamente la sua immagine, l’oro in fin dei conti è sempre oro. “Dai a Cesare ciò che è di Cesare”, ma molti non sanno cosa vuol dire realmente e se lo sapessero credo che diventerebbero tutti improvvisamente kamikaze.

Nello stesso anno, Giovanni Falcone in una macabra esplosione accreditata alla mafia trova la morte; così come l’ingegnere Raul Gardini che muore per mano di un anomalo suicidio: episodi che in realtà nascondono ben altro. Lo stesso scenario che si è venuto a creare ultimamente in Libano con Hariri, che stava organizzando la borsa del Petrolio in euro. In quel periodo tutti gli ambasciatori e le Associazioni sconosciute millantavano democrazie sconosciute, e si meravigliavano scandalizzati della corruzione in Italia, ma non ricordano ciò che la Federal Reserve fece nel 1923, da cui il motivo che spinse gli americani a combattere una guerra mondiale.

A colpire Craxi è stata la finanza internazionale, i Banchieri, un mondo sconosciuto alle masse, gerarchie ristrette e estremamente chiuse, persone che non vedrete mai camminare tra la folla. Lo temevano così tanto che al pensiero che Craxi potesse trovarsi in suolo italiano e rilasciare scomode dichiarazioni li preoccupava seriamente, tanto è vero che era costantemente controllato ad Hammamet.

Le sue parole devono essere di insegnamento a questi politici contadini, diventati i camerieri di Banca Intesa e Unicredit e non più protagonisti della regolamentazione del sistema economico. Si sono autodefiniti pastori del gregge, ma bisogna ricordare che l’unico uomo di Stato che non è stato accettato dall’Inghilterra era Craxi, contrastato dagli stessi giornali che ora santificano Carla del Ponte e additano Slobodan Milosevic per aver condotto una pulizia etnica.

Oggi è l’era dei pappagalli, della civiltà schiavizzata dai banchieri, agganciati a loro volta ai servizi segreti, che hanno creato “comitati di controllo e gestione delle crisi”, utilizzando strutture come la Gladio, e Società di sicurezza per compiere qualsiasi tipo di attentato e di omicidio.

La velocità della magistratura nel vendere l’ Italia è stata strabiliante. Accusare Bettino Craxi è stato come chiudere la porta in faccia allo Stato stesso, per il quale si sono combattute guerre, alzate barricate, in nome di una bandiera si moriva con onore dinanzi al plotone di esecuzione, gridando “Viva l’Italia”. Tutto questo non è servito a riunire gli uomini, ma a distruggere la fratellanza, perché alla guida di una nazione erano stati posti piccoli uomini e non Statisti, banali intellettuali che non sapevano cos’è davvero il potere. Spero che oggi la nostra classe politica abbia capito che siamo posseduti dal sistema bancario, e che hanno venduto l’Italia a dei baroni Ladroni.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA. Massoneria, politica e criminalità. L’importanza dell’inchiesta di De Magistris, e la dimenticata inchiesta Cordova. Ci aiuta a capire un resoconto del Prof. Paolo Franceschetti.

L’inchiesta portata avanti da De Magistris probabilmente tocca quello che a nostro parere è il problema più grosso del nostro Stato, da decenni: i rapporti tra criminalità organizzata, politica e finanza. Pochi si ricordano dell’inchiesta che nel 1992 Cordova fece sulla massoneria calabrese. E pochi hanno notato le similitudini con l’attuale inchiesta di De Magistris. Vale la pena di ricordarle. Prima però segnaliamo che oggi tutte queste inchieste – ma molto altro ancora - sono raccontate in un libro, Fratelli d’Italia, di Ferruccio Pinotti. Il libro è grande, 800 pagine circa. E’ ben documentato, e contiene anche interviste ad alcuni Gran maestri di diversi Riti. Ma da esso è possibile ricavare alcuni punti fermi che possono essere oggetto di approfondimento.

Analizzare il sistema massonico, e capire tutte le implicazioni che comporta questa istituzione, le interferenza con la società, con la giustizia, ecc., è una cosa impossibile da fare nelle poche righe di un articolo. Sarebbe un po’ come voler spiegare il funzionamento del mondo in poche righe. Il nostro scopo quindi è solo fornire alcuni spunti di riflessione per permettere poi un ulteriore approfondimento a chi lo vorrà fare, rimandando ad altri libri o testi. Evidenziando, in particolare, quei punti che vengono di solito trascurati quando si parla di massoneria, che sono importanti per capire realmente il sistema nel suo insieme.

In massoneria sono iscritte in Italia circa 50.000 persone, tra iscritti ufficiali e non ufficiali. Questo numero immenso di persone è costituito prevalentemente da militari, imprenditori, professionisti, docenti universitari, politici. In altre parole buona parte dell’inteligencia italiana e delle persone che ricoprono incarichi di potere. Tra questi ricordiamo come legati direttamente o indirettamente alla massoneria, Cossiga, Andreotti, Prodi, Berlusconi, De Benedetti, molti componenti legati alla famiglia Agnelli, Vittorio Valletta (dirigente Fiat per molti anni, l’uomo che ha portato la nostra fabbrica al successo degli anni d’oro), i governatori della Banca d’Italia Fazio, Ciampi, Carli, l’ex presidente di Mediobanca Cuccia, l’ex presidente del senato Marcello Pera, ma anche molti cardinali, vescovi, il Preside della facoltà di beni culturali di Bologna Panaino, ecc…

In particolare il mondo bancario, finanziario e imprenditoriale ha legami fortissimi con la massoneria. Oltre ai già citati Agnelli, De Benedetti, e molti presidenti della Banca d’Italia, troviamo Volpi, Joel, Toeplitz, Stringher, Caltagirone, De Bustis (che apparterrebbe agli illuminati, secondo il libro di Pinotti), secondo alcune voci Consorte, Fiorani e tanti altri.

D’altronde, per capire i buoni rapporti tra massoneria e cariche ufficiali dello stato, basti pensare che Prodi alla riunione di apertura del GOI (Grande oriente d’Italia) ha mandato un messaggio di augurio e benvenuto, di cui vale la pena riportare il testo: “La repubblica e il Governo vi salutano, la Repubblica si riconosce nei valori della massoneria”. Il saluto è stato portato dal sottosegretario alle politiche giovanili De Paoli.

Mentre l’ex Presidente della Corte Costituzionale e della RAI Baldassarre ha presenziato di recente ad una riunione del GOI, intervenendo sul tema della tripartizione dei poteri dello stato. In altre parole: i legami tra alte cariche dello stato e massoneria sono fortissimi ed indiscussi. Sono poco pubblicizzati e poco dichiarati, questo si. Ma sono ufficiali. Nulla di strano in ciò. Basti ricordare che il primo parlamento dell’Italia unita era composta in gran parte da massoni come Crispi, Depretis, Zanardelli.

Ogni tanto poi spuntano collegamenti con la massoneria deviata, addirittura da personaggi insospettabili. Pannella infatti tentò di candidare nelle sue liste nientemeno che Licio Gelli, il capo della famigerata P2 al fine, si presume, di fargli avere l’immunità parlamentare. Ma la sua spiegazione ufficiale fu che lo candidava perché in cambio Gelli prometteva di rivelargli i suoi segreti. Una spiegazione delirante, che Pannella dette addirittura in commissione parlamentare. Ma che dimostra come il potere politico vada a braccetto in tranquillità con personaggi che hanno cospirato contro lo stato, e commissionato delitti di ogni tipo, stragi comprese, fino a portarli dentro al parlamento.

La massoneria è un fenomeno mondiale, organizzato cioè su scala mondiale. Il vertice del Grande Oriente, in tutto il mondo, si trova nella corona inglese. Sono appartenuti alla massoneria quasi tutti i Presidenti degli Stati Uniti, e personaggi come Gheddafi e Arafat, presidenti Francesi, Re Del Belgio, di Olanda, e via discorrendo. Ovverosia i vertici del mondo. E’ una creazione della massoneria – come, perché, e in che misura, sarebbe un problema tutto da studiare e approfondire – l’ONU, ma anche la Croce Rossa , il WWF (il cui presidente è Filippo Di Edimburgo). Fu una creazione massonica il cosiddetto gruppo Bilderberg, e lo fu anche la cosiddetta commissione Trilaterale.

Per capire il problema che potenzialmente può crearsi, in virtù di questa fratellanza tra esponenti di spicco di ogni parte del mondo, si cita spesso l’episodio del Britannia, del 1992; in quell’anno, sul Piroscafo Britannia, della Corona inglese, si riunirono alcuni vertici della finanza e della politica mondiale, tra cui Draghi e Prodi e si decise che sarebbero state privatizzate alcune aziende italiane. Passarono in mani straniere dopo questa riunione la Buitoni, la Invernizzi, Locatelli, Ferrarelle, ecc... Inoltre in quell’occasione, stando a quello che riportano alcuni storici e giornalisti, pare – ma il condizionale è d’obbligo – che si decidesse l’affossamento della lira che infatti avvenne negli anni seguenti, ove la nostra moneta conobbe una svalutazione senza precedenti (fine della svalutazione era quella di far acquistare le nostre aziende ad acquirenti stranieri, per un prezzo irrisorio).

Si spiega probabilmente così – in virtù del legame massonico mondiale - la presenza della Banca d’Inghilterra (i cui vertici sono nominati dalla Corona Inglese) nella BCE con il 17 per cento delle quote (nonostante non sia un paese dell’area Euro); e si spiega così perché molte banche italiane effettuano investimenti ingenti in azioni di Chase Manhattan Bank, Barclayrd, Morgan Stanley, ecc., tutte legate direttamente o indirettamente alla Corona Inglese per mezzo di un complicato gioco di scatole cinesi, creando dei conflitti di interessi spaventosi.

La massoneria ha diverse sfaccettature. Esistono migliaia e migliaia di logge, e decine di istituzioni massoniche o paramassoniche (organizzate cioè come la massoneria, senza potersi chiamare ufficialmente con questo nome). Abbiamo il Grande Oriente, la più diffusa a livello mondiale. Poi abbiamo i Rosacroce, I cavalieri di Malta, i Templari, l’Opus Dei e chissà quante altre magari sconosciute. Tutte queste istituzioni sono caratterizzate dal segreto per quanto riguarda il loro funzionamento interno, e dal fatto di trasformarsi, spesso, in veri e propri comitati di affari, anche illeciti. Queste istituzioni sono diverse tra di loro, e talvolta sono in conflitto. Ma molto spesso collaborano e cooperano. Basti ricordare che Gelli apparteneva contemporaneamente alla P2, che tecnicamente era una loggia del Grande Oriente, ma era iscritto anche ai Cavalieri Di Malta e ai Templari, per sua stessa ammissione.

In teoria la massoneria è un istituzione in cui si entra per fare un percorso iniziatico di conoscenza e approfondimento dei temi principali dell’esistenza. Questo è senz’altro vero per alcuni o molti dei suoi iscritti e per numerose logge. In teoria poi la lista degli iscritti dovrebbe essere pubblica, essendo vietate dal nostro ordinamento le associazioni segrete. Ma in realtà esiste il fenomeno delle logge massoniche coperte, o segrete, dove si iscrivono uomini politici che non vogliono rivelare la loro appartenenza alla massoneria; e a queste logge si affiliano anche boss mafiosi come Inzerillo, Bontate, Riina, Bagarella, Lo Piccolo, Mandalari (il commercialista di Riina) che certamente non entrano in questa istituzione per una sete di conoscenza e approfondimento della ricerca interiore.

La ragione dell’esistenza delle logge coperte la spiega il Gran Maestro Di Bernardo, a pag. 396 del libro: “Le logge coperte sono sempre esistite. La loro funzione era quella di salvaguardare persone di particolare importanza istituzionale, politica e finanziaria, proteggendole da pressioni indebite da parte di altri fratelli”. Le logge massoniche coperte insomma sono il collante tra criminalità organizzata, politica, finanza e imprenditoria (non a caso i più grandi scandali finanziari italiani hanno visto come protagonisti dei massoni). E le logge massoniche coperte sono il motivo, o comunque uno dei motivi, dell’espansione della criminalità organizzata mafiosa nelle regioni del centro e del nord.

Un esempio chiarirà meglio la questione. Se un capo camorra deve costruire un grosso immobile al nord, qualora sia affiliato alla massoneria, chiederà aiuto ai “fratelli” del nord. Che, per il solo motivo di avere davanti un fratello, lo aiuteranno in questa impresa. Se deve riciclare denaro sporco, sono ancora una volta le collusioni con un banchiere massone che consentiranno questo riciclaggio. E il legame massonico è la spiegazione dell’espansione della mafia negli stati dell’Unione Europea. Considerando che la massoneria è una fratellanza “mondiale” non sarà difficile per un mafioso trovare appoggi in Russia, in America, o alle Cayman. Così come non è difficile, per massoni appartenenti alle varie mafie, entrare in collegamento tra loro e stringere patti di alleanza; di qui nascono i patti di alleanza tra mafia, ‘ndrangheta e camorra. Ecco il motivo per cui quando un magistrato inizia ad indagare sulle cosiddette logge massoniche coperte viene regolarmente silurato, fisicamente e/o lavorativamente.

Ora, qui sta il nodo centrale del problema massoneria, tra gli iscritti alla massoneria esiste un giuramento di fedeltà che li porta ad aiutarsi l’un l’altro. Questo è il nodo cruciale del problema massonico: è possibile che un pubblico ufficiale o un funzionario statale siano servitori dello stato ma, contemporaneamente, prestino fedeltà ad un’istituzione non statale? Il tema, ovviamente, è tutto da approfondire, perché ovviamente i più alti esponenti della massoneria negano che il loro giuramento di fedeltà prevalga sulle leggi dello stato. Ma, francamente, quando in una loggia coperta operano mafiosi, esponenti dei servizi segreti, imprenditori, e politici, c’è perlomeno da dubitare di queste affermazioni di lealtà allo stato. Occorre inoltre tenere presente una cosa che pochi sanno; all’interno la massoneria ha i propri tribunali, organizzati in tre gradi proprio come avviene nell’ordinamento giudiziario italiano.

La massoneria si configura quindi come un vero stato nello stato. Potremmo dire uno stato al di sopra dello stato. O perlomeno, per usare le parole della 32 Commissione parlamentare antimafia, “le logge coperte … sono in grado di determinare gravi interferenze nell’esercizio di funzioni pubbliche”. Ecco il motivo dell’allarme che suscita la possibilità che un presidente del Consiglio (Romano Prodi) possa appartenere ad una loggia coperta di San Marino o comunque avere interessi ad essa legati. Ecco la potenziale bomba che potrebbe scoppiare se l’inchiesta di De Magistris, nei suoi contenuti, fosse portata alla luce. Ed ecco perché il clamore mediatico si preferisce dirottarlo sul problema del suo “presenzialismo” in TV, per stornare l’opinione pubblica da un problema immenso, che coinvolge il problema dei rapporti tra politica e criminalità organizzata.

C’è un dato importante poi che non bisogna trascurare: i servizi segreti sono quasi sempre stati diretti da appartenenti alla massoneria, con tutte le conseguenze del caso. E’ documentalmente accertato che furono diretti per quasi 30 anni da appartenenti alla massoneria, oggi non si sa poiché mancano elenchi di iscritti recenti. Ma non a caso è coinvolto nell’inchiesta di De Magistris l'odierno capo della sezione calabrese del Sismi, oltre a vari politici. Per qualche decennio i servizi segreti non rispondevano, insomma, al Governo, ma a Gelli. Ed è probabilmente per questo – per la presenza dei servizi segreti deviati - che in tutti i fatti giudiziari più gravi di questi ultimi anni, quando erano presenti i servizi segreti, i testimoni sono morti in modo misterioso e sempre con le stesse tecniche (suicidi in ginocchio; incidenti stradali; infarti improvvisi). Diciamo “probabilmente” perché il dubbio è sempre un obbligo, quando si tenta di ricostruire un sistema di potere senza avere prove documentali certe (cosa peraltro estremamente facile quando chi deve indagare è legato a quel gruppo di potere e per non tradire il giuramento fatto non indaga). Tuttavia è un fatto che nei principali episodi stragisti dell’Italia di questi ultimi decenni (solo per far qualche esempio: Italicus, Ustica, Moby Prince, Piazza Fontana; Strage di Bologna; strage di Via D’Amelio e strage di Capaci) i servizi segreti deviati erano sempre coinvolti in vario modo; e i testimoni sono sempre morti nello stesso identico modo: con una tecnica che oltre ad essere sempre uguale, è indizio dell’intervento di persone che adottano tecniche sofisticate (ecco il significato dell’espressione “menti raffinatissime” usata da Falcone riguardo al suo attentato all’Addaura). Ciò indica che probabilmente c’è un filo conduttore tra tutte queste stragi. E questo filo conduttore probabilmente lo si troverebbe nello logge massoniche deviate.

In conclusione: le logge massoniche coperte sono il collante che lega tra di loro criminalità, finanza e politica. Il giuramento massonico, e i vari legami che in queste sedi si creano, sono la spiegazione dell’espansione della criminalità organizzata in tutti i campi della vita sociale e politica. Ai vertici della finanza, della politica, dell’imprenditoria, ci sono molto spesso persone legate, direttamente o indirettamente alla massoneria. E i servizi segreti deviati sono stati, da sempre, il braccio armato della massoneria deviata.

Ma su queste logge è impossibile indagare, perché, appunto, chi tocca questi fili muore, o viene delegittimato. Per questo motivo è importante seguire da vicino, per tutti noi che ci occupiamo di queste vicende, le vicende di De Magistris, Woodcock e Forleo. Perché, consapevolmente o inconsapevolmente, hanno toccato i vertici del potere. Hanno toccato cioè quel filo sottile che lega politica e criminalità, ove risiede la spiegazione della maggior parte dei disastri che affliggono il nostro paese da decenni.

GLI INTRECCI AFFARISTICI TRA POLITICA, IMPRENDITORIA, MASSONERIA E POTERI OCCULTI RAPPRESENTANO ORMAI UN SISTEMA COLLAUDATO...EMERGE DA ESSO LA SPARTIZIONE DEL DENARO PUBBLICO, IL FINANZIAMENTO AI PARTITI, IL RUOLO DI LOBBY E POTERI OCCULTI DEVIATI. (Dagli atti del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris).

Nel mese di luglio 2007, le maggiori agenzie di stampa hanno diffuso la notizia che il P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, nell'ambito di un'indagine sull'assegnazione dei fondi comunitari, a carico di soggetti appartenenti a logge massoniche, aveva inviato un avviso di garanzia al Presidente del Consiglio, Romano Prodi, sospettato di appartenere alla loggia di San Marino, chiamando in causa alcune figure vicine ai massimi vertici istituzionali. Da allora, stiamo assistendo ad una violenta campagna di delegittimazione della parte sana della magistratura, ad opera di vasti settori della politica, delle istituzioni e del C.S.M. che mirano, senza mezzi termini, a paralizzare ogni indagine in corso sul rapporto tra affari, mafia, politica e massoneria.

Secondo l'ex Gran Maestro venerabile Giuliano Di Bernardo, in un'intervista rilasciata a Ferruccio Pinotti, collaboratore della CNN e dell'International Herald Tribune, pubblicata nel recente volume, "Fratelli d'Italia", edito dalla Biblioteca Universale Rizzoli, uscito nelle librerie lo scorso novembre, vi è un'analogia tra l'attuale situazione politica italiana e quella ai tempi della prima indagine sulle logge massoniche dell'ex Procuratore Capo del Tribunale di Palmi, Agostino Cordova, nel 1992. Nell'analisi dell'ex maestro reggente che, anni orsono, lasciò il "Grande Oriente d'Italia", denunciandone le deviazioni, per fondare la comunione dei cd. "Illuminati", la situazione della massoneria in Calabria "è esattamente quella di allora, dai tempi di Cordova, per quanto riguarda la collusione mafia - massoneria". Solo in Italia, continua Di Bernardo, dalla sua posizione di esperto conoscitore del problema: "la massoneria continua a nascondersi...". "La realtà massonica è rimasta immutata". "La differenza, oggi, potrà farla solo la magistratura, in termini di qualità delle indagini. Quello che è accaduto con l'inchiesta di Catanzaro è la riprova del fatto che i problemi sui quali avevo cercato di intervenire, senza riuscirvi, sono rimasti gli stessi di allora"... "Simili anche le condizioni ambientali."

Non è casuale, secondo Giuliano Di Bernardo, il periodo in cui questa nuova inchiesta esplode. "Se noi andiamo con la memoria all'inchiesta Cordova, vediamo che inizia nel 1992, proprio quando la crisi politica era totale e si preparavano situazioni fino ad allora imprevedibili. Secondo alcuni analisi il trasferimento dell'inchiesta Cordova al "porto delle nebbie" romano concise con la "pax mafiosa", seguita all'assassinio di Falcone e Borsellino del 1992". "Il 5 febbraio di quell'anno, il Sisde inviava una nota al ministro dell'Interno: "non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive stipulino con la criminalità organizzata accordi di collaborazione a fini operativi per la destabilizzazione del Paese". Mentre al giudice istruttore di Bologna, Leonardo Grassi, arrivava il 4 marzo una segnalazione di "fatti intesi a destabilizzare l'ordine pubblico, al fine di instaurare "un nuovo ordine massonico deviato"(...)".

Secondo Di Bernardo oggi ci ritroviamo alle prese con le stesse identiche situazioni politiche, lo stato di crisi è esattamente quello che caratterizzava l'epoca in cui Silvio Berlusconi scese in politica per "sopperire" ad una situazione che appariva drammatica, come quella che stiamo vivendo adesso. La politica era in crisi, la gente non aveva più fiducia della classe dirigente, "ecco che allora applaudì l'uomo forte, lo portò sugli scudi e lo fece eleggere". In tale ottica è indubbio sia in atto uno scontro tra un "nuovo ordine massonico" e uno "vecchio" (sui quali vige un assoluto divieto d'indagare, senza soluzione di continuità), nonché tra una "nuova mafia emergente" e una "vecchia" (i cui capi dei capi dopo oltre 40 anni sono stati consegnati alla giustizia per sedare la pubblica indignazione e ridisegnare gli equilibri del potere mafioso). Uno scontro del tutto sommerso e dagli oscuri contorni, dove chiunque prevalga, non c'è logicamente spazio per la legalità e la verità, a cui un Paese civile dovrebbe ambire, ovvero per quella "differenza" in termini di qualità di indagini poc'anzi citata.

Come noto, l'inchiesta di Cordova sulle logge massoniche, dopo il trasferimento del magistrato alla procura di Napoli (promuovere per rimuovere), venne infatti affossata dalla procura di Roma nel giugno 1994 e affidata ai P.M., Lina Cusano e Nello Rossi. Il procedimento restò pressoché fermo per quasi sei anni, eppoi nel dicembre 2000 il giudice per l'indagine preliminare Augusta Iannini dispose la formale archiviazione dell'inchiesta, nonostante fossero stati raccolti ben 800 faldoni e innumerevoli fonti di prova sulle attività illecite delle più importanti logge italiane con ben 61 indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano e, tuttora, continuano a spartirsi impunemente, i proventi leciti e illeciti derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale ("Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con prefazione di Stefano Rodotà, 1994, Rizzoli).

A distanza di oltre 16 anni dalla strage di Capaci la "pax mafiosa" rischiava nuovamente di incrinarsi sotto i colpi delle nuove investigazioni delle procure di Catanzaro, Potenza e del G.I.P. di Milano, Clementina Forleo, ma con l'illegittima avocazione delle indagini del P.M. De Magistris, da parte del Procuratore Generale e le strumentali procedure di trasferimento avviate dal C.S.M., anche nei confronti del G.I.P. di Milano, Forleo, la storia si ripete, dando un segnale forte alla magistratura non asservita alle logiche delle logge e dei partiti di regime, che oltre un certo livello non si può indagare.

Chi lo fece, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita. Nel nuovo ordine sociale "massomafioso" il prezzo è il pubblico discredito, la delegittimazione, la procedura di trasferimento, le minacce velate, gli incidenti mortali... E' ciò che puntualmente accade quando si toccano i poteri forti e l'intreccio tra affari, mafia, politica, massoneria.

All'interrogativo se Stato, mafia, massoneria siano divenuti una "cosa sola" è pertanto legittimo rispondere che sono divenuti parte di un unico sistema, attraverso il quale si riproduce il controllo capillare del territorio e delle logiche di governo delle istituzioni democratiche, soffocando in radice la legalità e ogni anelito di giustizia. Tale concezione paradigmatica costituisce una nuova prospettiva teorica per analizzare il fenomeno mafioso e il degrado delle istituzioni, fornendo una chiave per realizzare un mutamento epocale dei rapporti tra governati e governanti. E' indubbio che a taluni potrà risultare ostico digerire che Stato, mafia e massoneria si siano coesi, tanto da fare parte di un unico sistema di malaffare criminale. In specie, per chi vive troppo lontano - o troppo vicino - all'agone politico e giudiziario, subendone il retaggio e rimanendo, in entrambi i casi, vittima di un distorto senso dello Stato e di una cultura dogmatica delle istituzioni che, nell'accezione più diffusa e non condivisibile, "vanno difese ad oltranza e a qualsiasi costo per non pregiudicare i cardini dello Stato di diritto e le basi sociali della pacifica convivenza". In verità, così facendo, si ottiene l'effetto opposto di distruggere nei cittadini il senso di appartenenza e di identificazione nello Stato. Si distrugge la credibilità delle istituzioni e della magistratura, alimentando la storica diffidenza dei cittadini verso il potere. D'altronde, l'esistenza di una "cupola mafiosa" che controlla anche la vita giudiziaria, da sud a nord del Paese, in grado di neutralizzare il lavoro dei magistrati onesti, non è frutto di illazioni o di mere ipotesi sociologiche, bensì il risultato di appronfondite indagini a cui sono approdati, ancora prima del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, il Procuratore Antimafia di Reggio Calabria, Salvo Boemi e il suo sostituto Roberto Pennini e l'ex Procuratore di Palmi, Agostino Cordova.

I primi, denunciarono, ripetutamente, in alcune interviste a Panorama e L'Espresso, tra il 1995 e il 1998, di essere stati abbandonati e boicottati dal C.S.M. e dallo Stato, in quanto ritenuti "rei" di "non essersi accontentati di colpire il braccio militare della ‘ndrangheta" e di "avere denunciato i magistrati massoni che a Reggio Calabria avevano deciso di mettere una pietra sui processi anticosche". In proposito, il Dr. Boemi racconta a Panorama: "come dopo lo scandalo della P2, nella massoneria fossero incominciati ad entrare i parenti stretti dei magistrati (i quali volevano evitare in tal modo un coinvolgimento diretto) e come le logge avessero sempre contrattato a Roma chi dovessero essere i capi degli uffici giudiziari", aggiungendo, infine, di essere scampato a un attentato alla sua vita, solo grazie alle rivelazioni di un pentito (Panorama 21.9.95 e L'Espresso 16.7.98).

L'intensa e proficua attività investigativa del Dr. Agostino Cordova, soffocata con il suo strumentale allontanamento dalla Procura di Palmi è invece ben documentata in "Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con la prefazione di Stefano Rodotà e una postfazione di Agostino Cordova, edito da Rizzoli (1994). Il lavoro degli Autori non si limita a ricostruire l'opera del magistrato, ma ci introduce nella più larga dimensione dell'agire complessivo delle istituzioni e del modo in cui esse si intrecciano con la società. Il libro è il racconto delle vicende d'una regione, la Calabria, e del modo in cui venne perduta dallo Stato. Di come lì lo Stato, affermano gli Autori, "abbia cambiato natura, si sia ritirato, lasciando emergere un modo d'organizzazione dell'insieme dei poteri pubblici che perdeva progressivamente i caratteri della legalità e ad essa sostituiva una normalità modellata, invece, sull'accettazione di comportamenti illegali divenuti la norma fondante della società". L'opera ben descrive la sparizione dei confini tra Stato e Antistato, tra diritto e crimine e mette in luce come lo Stato perda i caratteri che dovrebbero caratterizzarlo e, quasi per una forma mimetica ormai obbligata, affermano gli Autori, assuma quelli dei suoi antagonisti, di quelli che dovrebbe avversare". Si perde insomma la possibilità di individuare l'Antistato perché è lo Stato ad essersi dissolto.

Nella postfazione, lo stesso Cordova si sofferma a sottolineare come le indagini sulla massoneria deviata, avviate dalla Procura di Palmi, siano state costellate da una serie di anomali contrattempi, mai avvenuti in altri procedimenti: dal divieto di utilizzare uffici provvisori a Roma (si tenga presente che i locali erano già stati reperiti sia dalla Polizia che dai Carabinieri) dove si trovava la sterminata mole di atti sequestrati, fatto che cagionò oltre tre mesi di ritardo durante la fase iniziale delle investigazioni, precludendo l'immediato sviluppo del materiale acquisito; alla soppressione della Procura Circondariale di Palmi, determinando l'utilizzo di soli tre dei sei magistrati applicati dal Csm, e tante altre difficoltà operative. Eppure i risultati conseguiti, pur tra tante difficoltà, ci ricorda il Dr. Cordova, avevano consentito di riferire alla Commissione parlamentare antimafia che "la massoneria deviata è il tessuto connettivo della gestione del potere, e ciò sia per la natura che per il numero delle attività illecite e degli interessi accertati, sia per la qualità e il numero dei personaggi coinvolti, tutti occupanti appunto posti di potere, e costituenti un enorme partito trasversale ramificato non solo in tutto il territorio nazionale, ma collegato con corrispondenti o analoghe organizzazioni in tutto il mondo".

In conclusione, chiosa, il dr. Cordova, "come ho ripetutamente affermato in ogni occasione, ritengo che la società italiana sia nelle mani di inesplorati gruppi occulti di potere e di altre consociazioni e congregazioni e che solo di tanto in tanto, e unicamente in occasione di vicende eclatanti, se ne renda conto. Per dimenticarsene immediatamente dopo, spesso perché l'attenzione è subito distolta o sviata da altre vicende: come abitualmente avviene nel nostro Paese, in cui la memoria è corta e non si va oltre l'episodio contingente".

E' indubbio, quindi, siamo di fronte a verità storiche ed oggettive che ci offrono il nucleo di quello che può definirsi un vero e proprio paradigma, da cui ripartire per analizzare i mali della società e individuare i rimedi più acconci; paradigma che non potrà tardare a venire recepito dalla comunità scientifica, prigioniera della decadente cultura politica masso-mafiosa, la cui sudditanza alle logiche dei poteri dominanti, appare, abbondantemente, suffragata dalla generale situazione di irreversibile degrado sociale ed economico, in cui versa il Paese, da oltre 40 anni, dove la società civile è, suo malgrado, costretta a convivere, fianco a fianco, della mafia e della corruzione politico-istituzionale. Il Paese ha, quindi, urgente bisogno di una magistratura indipendente e senza padrini politici, libera di indagare in ogni direzione, onde garantire le sue alte funzioni istituzionali di controllo della legalità, conferitegli dalla Costituzione, e il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il mahatma Gandhi affermava che "il livello di civiltà di un paese si misura dalla considerazione in cui viene tenuta la giustizia". Il problema è, quindi, quello di seguire le orme di Falcone e Borsellino e di non lasciare soli quei magistrati come la Forleo e De Magistris che si adoperano per fare il loro dovere fino in fondo, senza guardare in faccia nessuno, assicurando al Paese una giustizia efficiente e uguale per tutti.

LOGGIA PROPAGANDA 2. La data di fondazione della loggia massonica Propaganda Due si perde nel tempo, come spesso accade per simili consorterie. E' noto, comunque, che era un antico sodalizio che accoglieva gli elementi più importanti e prestigiosi, fin da quando, nel secolo scorso, la massoneria, aveva avuto un ruolo centrale nelle vicende italiane. Dopo la seconda guerra mondiale era stata riorganizzata anche la loggia P2, con l'aiuto della massoneria USA, trasferendovi i massoni più in vista o che dovevano restare "coperti". Nel Dicembre 1965 il Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli presenta l'apprendista Licio Gelli al Gran Maestro Gamberini, il quale lo eleva immediatamente di grado nella gerarchia massonica e lo inserisce nella loggia P2. Nel 1969 Ascarelli e Gamberini affidano a Gelli un non meglio precisato incarico speciale nella loggia. Nel 1971 Gelli diviene segretario organizzativo e ha il totale controllo della loggia. Nel frattempo molti personaggi eccellenti, soprattutto militari e finanzieri si sono iscritti, tra questi il generale Allavena che porterà in dote le copie dei fascicoli delle schedature del SIFAR. Nel '69 capi massonici diranno che grazie a Gelli 400 alti ufficiali dell'esercito sono stati iniziati alla massoneria al fine di predisporre un "governo di colonnelli", sempre preferibile ad un governo comunista. Nel 1972 il nuovo segretario organizzativo cambia nome alla loggia in "Raggruppamento Gelli-P2" accentuandone le caratteristiche di segretezza evitando qualsiasi tipo di controllo. Nel 1973 la loggia segreta "Giustizia e Libertà" si fonde con la P2. Alla Gran Loggia di Napoli del Dicembre 1974, qualcosa di simile a un conclave massonico alcuni tentarono di sciogliere la P2 e di abrogarne i regolamenti particolari, ma senza successo, Gelli aveva acquisito troppo potere nel frattempo. Lino Salvini, maestro del Grande Oriente d'Italia, quindi, nonostante non vedesse di buon occhio tanto potere concentrato in quella loggia, il 12 Maggio 1975 decretò ufficialmente la ricostituzione della loggia P2 elevando Gelli al grado di maestro venerabile. La loggia P2 valicherà presto i confini nazionali e conterà affiliati in diversi paesi dove non si limiterà a fare proselitismo, ma parteciperà, nei modi che la caratterizzano alla vita politica, economica e finanziaria di tali paesi. In Argentina, per esempio favorirà il golpe militare, per poi perorare la causa del ritorno di Peron, così come risulterà implicata nello scoppio del conflitto delle isole Malvinas. La loggia P2 risulterà attiva in Uruguay, Brasile, Venezuela, negli Stati Uniti, in diversi paesi europei e non ultima in Romania, dove Gelli avrà importanti rapporti con il regime "socialista" di Ceausescu, nonostante l'anticomunismo viscerale di tutti gli aderenti alla P2. Evidentemente a Ceausescu non era rimasto niente di comunista e Gelli lo sapeva. Analizzare gli intrighi, la partecipazione a tentativi di colpo di stato o a colpi di stato riusciti, a stragi, attentati, omicidi, depistamenti, operazioni finanziarie sporche e' praticamente impossibile. Basti pensare che dopo il ritrovamento di una parte dei documenti relativi alle attività della loggia ad Arezzo il 17 Marzo 1981 e di altri a Montevideo in Uruguay e' stata costituita una commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi, i cui atti sono raccolti in 76 volumi di dimensioni consistenti e che la documentazione raccolta occupa diverse scaffalature anch'esse di dimensioni consistenti. Semplicemente ci limiteremo a dare un parziale elenco delle vicende in cui la P2 e' implicata. Anche l'elenco degli iscritti che forniamo e' parziale, purtroppo però è l'unico conosciuto, si calcola comunque che gli iscritti alla loggia fossero 2500/3000 e non 963 come risulta dalle liste sequestrate ad Arezzo.

GLADIO. Quella del gladiatore G.71 è una storia scomoda, per anni tenuta sotto silenzio. Una storia tipicamente italiana, fatta di spie, imprevedibili retroscena, rivelazioni importanti e supportate da documenti. Una vicenda talmente scomoda che anche quando, per frammenti, è arrivata sulle pagine di alcuni giornali nazionali, non ha causato alcun sommovimento politico: il solito muro di gomma l'ha fatta tornare nell'ombra. E’ la storia di Antonino Arconte, 47 anni di Cabras, che fin dal 1997 ha affidato al web il racconto della sua vita all'interno dell'organizzazione Gladio. Agente di una struttura militare segreta facente capo al Sid, Arconte è stato protagonista di operazioni che si sono svolte in mezzo mondo: dal Vietnam alla Russia, dalla Cecoslovacchia al Libano, dagli Stati Uniti all'Africa. Dalla sua testimonianza è emersa una struttura profondamente diversa da quella svelata in Parlamento da Giulio Andreotti il 2 agosto del 1990: non una rete ideata per fronteggiare una possibile invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia (la “Stay Behind”), ma una struttura informativa e operativa che agiva esclusivamente all'estero. La storia ha cominciato a emergere dall'ombra lentamente e a fatica. L'allora ministro della Difesa Sergio Mattarella, rispondendo a un'interrogazione del senatore di Rifondazione Giovanni Russo Spena sulla struttura supersegreta alla quale apparteneva Arconte, si è limitato a rispondere burocraticamente: «Dagli atti del Servizio non sono emerse evidenze in ordine a...». Risposta assolutamente insoddisfacente. Ma il racconto di Arconte non si ferma qui e qualche mese più avanti infittisce di nuovi particolari alcuni dei misteri italiani. Il "caso Moro" in particolare. G.71 ha infatti svelato che, nel marzo del 1978, venne inviato in missione in Libano per consegnare un documento al gladiatore G.219. Si trattava del colonnello Mario Ferraro, passato poi al Sismi, morto misteriosamente nel luglio del 1995, «suicidato», come si dice in gergo militare, visto che è stato ritrovato impiccato alla maniglia della porta del bagno benché fosse alto 1 metro e 90. Nel documento "a distruzione immediata" (Arconte non ha mai distrutto il documento e lo ha esibito alla magistratura inquirente, dalla quale attendiamo ancora un giudizio certo sull'autenticità) viene ordinato di «cercare contatti con gruppi del terrorismo mediorientale, al fine di ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell'onorevole Aldo Moro». L'aspetto inquietante di questa missione è che il documento è datato 2 marzo 1978. Cioé 14 giorni prima del rapimento del presidente della Dc. Qualcuno, quindi, sapeva che Moro sarebbe stato rapito.

GLADIO & CENTURIE. Facciamo qualche passo indietro. Gladio è il nome dato in Italia ad una struttura segreta, collegata con la Nato e istituita nel dopoguerra con la denominazione "Stay Behind" (stare indietro), che aveva il compito di attivare una resistenza armata in caso di invasione sovietica. L'esistenza di questa struttura segreta venne scoperta nel 1990 e successivamente confermata pubblicamente, nel febbraio del 1991, dall'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Secondo quanto riferito in quell'anno dall'ex primo ministro italiano, la Gladio "Stay Behind" sarebbe stata composta da 622 membri civili i quali avevano il compito di svolgere operazioni dentro il territorio nazionale riguardanti attività informative a carattere difensivo e sotto le direttive della Nato. Quella che racconta Antonino Arconte nel suo memoriale, invece, è tutta un'altra storia. Accanto alla cosiddetta Gladio "civile", infatti, sarebbe stata istituita nel nostro Paese una struttura armata dei servizi segreti militari, tenuta per 50 anni nascosta, che avrebbe operato al di là dei confini italiani attraverso un'attività regolata da direttive nazionali e non dalla Nato. Nel memoriale, Arconte spiega che Gladio era in realtà divisa in tre centurie. «La Prima Centuria era chiamata Aquile, erano cioé aviatori, alcuni paracadutisti della Folgore - scrive Arconte - la Seconda Centuria era chiamata Lupi, io appartenevo a questa, composta da quelli provenienti dalla Marina e dall'Esercito. Poi c'era la Terza Centuria detta Colombe. Non era composta da militari ma da civili, anche donne, che dovevano fare da supporto per le informazioni». Per conto dello Stato italiano, il "gladiatore" G-71 avrebbe partecipato a diverse operazioni estere: dalle repubbliche dell'Est comunista al Nord Africa, dal Sahara spagnolo al Vietnam. Arconte rivela, tra l'altro, del ruolo svolto dai nostri agenti segreti armati in Maghreb per la destituzione del presidente Burghiba. G-71 racconta anche di aver ricevuto un riconoscimento formale da parte di Bettino Craxi il quale lo avrebbe invitato, come si evincerebbe da documenti, a tacere per il bene del Paese. L'attività di questa Gladio si svolgeva presso il ministero della Difesa, direzione generale Stay Behind-personale militare della Marina e la mobilitazione dei gladiatori avveniva tramite Consubin (comando subaquei incursori di La Spezia). Un'attività segreta così come quella degli Ossi (operatori speciali servizio informazioni, alle dipendenze di Gladio) che operavano armati e i cui compiti sono stati ritenuti “eversivi dell'ordine costituzionale” da due pronunciamenti della magistratura.

DA ARCONTE A MORO. Arconte è forse depositario di alcuni dei segreti che formano il filo nero che ha cucito e legato il potere dello Stato allo Stato occulto, attraverso il terrorismo nazionale e internazionale, attraverso insabbiamenti e “suicidi” misteriosi. Il libro di Arconte, pubblicato qualche anno fa negli Stati Uniti (ottenendo peraltro un discreto successo e diventando oggetto di studio), ha aperto nuovi, inquietanti scenari sulla Gladio segreta. Vi compare anche l’immagine del documento top secret sul caso Moro. In quel documento si legge che il 2 marzo 1978 - e cioè 14 giorni prima del rapimento di Moro e dell'uccisione della sua scorta - la X Divisione "S.B." (Stay Behind) della direzione del personale del Ministero della Marina, a firma del capitano di vascello, capo della divisione stessa, inviava l'agente G71 appartenente alla Gladio "Stay Behind" (partito da La Spezia il 6 marzo sulla motonave Jumbo M) a Beirut, per consegnare documenti all'agente G 129, ivi dislocato, dipendente dal capocentro, colonnello Stefano Giovannone, affinchè prendesse contatti con i movimenti di liberazione nel vicino Oriente, perchè questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Moro. Il nome del "gladiatore" G-71, Antonino Arconte, non figura nella lista dei 622 resa nota in Parlamento, lista risultata, comunque, "del tutto inattendibile". «Non è vero - ha scritto più volte Falco Accame, ex presidente della commissione difesa - che il "gladiatore" Arconte sia un "signor Nessuno": lo può testimoniare un altro agente di Gladio che operava come civile, il cui nome di battaglia è "Franz». Nel 1997 "Franz" si fece ricevere a Tunisi da Craxi e portò la lettera di Arconte e di un altro gladiatore, Tano Giacomina (ucciso in circostanze misteriose a Capoverde) che chiedeva al leader socialista di rendere pubblica la storia della "Gladio delle Centurie". Secondo "Franz", Craxi aveva chiesto di essere ascoltato dalla Commissione Stragi (cosa che era stata concessa al generale Maletti) e intendeva riferire in quella sede sulla Gladio, ma l'incontro con la commissione non fu mai possibile. L'ipotesi di una Gladio “segreta” che operasse all'estero con modalità di guerra non-ortodossa non è affatto peregrina, anzi, è in linea con modelli operativi ispirati a quelli della Cia. I contatti con la Cia sono documentati fin dall'inizio della nascita di Gladio, negli anni '50, e si svilupparono con il memorandum di Roma del 20 dicembre '72, di cui parla nel suo libro il generale Serravalle, capo dell’organizzazione dal '71 al '74”. Di Gladio come "scuola di eversione" aveva parlato, nel dicembre 1991, Antonio Maria Mira in un articolo sull'Avvenire, in relazione all'Operazione Delfino e a «uno strano documento di Gladio che - scriveva Mira - sta preoccupando i magistrati padovani e romani, il Comitato di controllo sui Servizi e la Commissione Stragi. E' datato aprile '66 e riguarda un'esercitazione denominata "Delfino" che si svolse nella zona di Trieste dal 15 al 24 aprile 1966, e che doveva procedere ad un programma di "attività provocatorie" coordinate dai servizi segreti ed in accordo con la Cia, che prevedevano la partecipazione delle unità di Gladio». Sull'argomento interveniva Antonio Garzotto nel '92, scrivendo: «La "Delfino" altro non sarebbe che un "vademecum per la guerriglia", messo a punto dalla Cia e concepito dal generale Westmoreland, il comandante Usa in Vietnam. Si trattava di un vero e proprio manuale di strategia della tensione: agenti della Gladio avrebbero dovuto infiltrarsi sia nelle file e nelle manifestazioni del Pci, ma pure nelle frange della sinistra estrema per provocare "azioni violente, moti di piazza, uccisioni". Fare, insomma, "insorgenza", in modo tale da sollecitare una forte reazione, la "controinsorgenza", e legittimare un intervento di "stabilizzazione del potere" da parte dell'Autorità di Governo».

GRADOLI STRASSE. Recentemente è sempre Falco Accame, in qualità di presidente dell'Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e famiglie dei caduti, a sollecitare la commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin, per approfondire gli elementi riguardanti la vicenda Moro, che non si esauriscono con le dichiarazioni di Arconte. Nel silenzio generale, infatti, alle affermazioni di Arconte (ricordiamo, sempre supportate dal documento “a distruzione immediata” ancora da valutare), si sono aggiunte negli ultimi mesi anche le dichiarazioni di un altro dei gladiatori che operava all'Est in maniera segreta, Pierfrancesco Cangedda, il quale ha più volte dichiarato di aver ricevuto, mentre operava nella Repubblica democratica tedesca durante i 55 giorni del sequestro Moro, una informazione che proveniva dalla Stasi, contenente un'indicazione specifica sulla base dei brigatisti in via Gradoli. Una base che era situata in “Gradoli Strasse”. Questa informazione, come risulta anche da alcune inchieste ancora in corso alla Procura di Roma, venne raccolta dal “terminale” della struttura, l'ufficiale dei servizi segreti Tonino La Bruna, l'uomo che avrebbe reclutato personalmente lo stesso Arconte. Le due “metà” della storia sembrano combaciare perfettamente. Vista la portata di queste dichiarazioni, e le importanti conseguenze che potrebbero avere qualora ottenessero ulteriori riscontri, è giusto cominciare a fare chiarezza da subito senza tenere lontano i riflettori dei media nazionali dalla vicenda. Siamo a un bivio nella ricostruzione della storia italiana degli anni '70 e '80, a partire dalla genesi del terrorismo rosso fino al caso Moro. O i due gladiatori sono dei cialtroni mitomani, e vanno perseguiti dalla magistratura; oppure si dovrà tener conto di quello che dicono e finalmente si arriverà ad aprire un varco nel “muro di gomma”.

P3 E CRICCHE ANNESSE. Giorgio Napolitano, il 22 luglio 2010, durante la cerimonia del Ventaglio, alla vigilia dell'approvazione finale alla Camera della manovra finanziaria, ha lanciato molti avvertimenti al Paese e, in particolare, alla classe politica. Uno prima di tutti gli altri: «Ci indigna e ci allarma l'emergere di fenomeni di corruzione e di trame inquinanti, anche ad opera di squallide consorterie».«Per ora sicuramente vedo tanto squallore. Poi vedremo cos'altro emergerà. L'importante è che si riesca a far fare alla magistratura il proprio lavoro fino in fondo per accertare fatti e responsabilità».

"Ha fatto bene il presidente della Repubblica a lanciare l’allarme sulle squallide consorterie dei modelli piduisti, ma che l’Italia abbia gli anticorpi è tutto da dimostrare". Lo afferma il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro in un’intervista rilasciata a Sky Tg24 il 23 luglio 2010.

Si parla della vicenda della cosiddetta P3, che vede coinvolti faccendieri, uomini di governo e magistrati. Magistrati che occupano posti di rilievo, importanti, il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone, il presidente della Corte d’Appello di Milano Marra; e altri. Il ministro della Giustizia ha detto: “No alle streghe”. Poi ha aggiunto che il "sistema-giustizia" ha in se stesso "tutti gli anticorpi".

Non è questione né di streghe né di stregoni, dice Valter Vecellio, noto giornalista rai e radicale di lungo corso. Il problema è che tra i collaboratori stretti del ministro della Giustizia troviamo personaggi i cui comportamenti sono perlomeno imbarazzanti. Per riassumere i termini della questione, così come la stampa ha dato ampio risalto. C’è questo Pasquale Lombardi che nel suo giro è conosciuto per l’incapacità di sedere a tavola senza sporcarsi di sugo, “quanno magna se sporca sempre”, si legge in un’intercettazione. Un tipo che sembra di casa in Cassazione, al ministero dell’Economia e a quello della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura, al consiglio regionale della Lombardia e alla presidenza della Regione Sardegna e in svariate procure. I suoi interlocutori li chiama amichevolmente “Fofò”, “Nicolino”, “Pinuccio”, “Giacomino”, fino ad arrivare a definire il vice-presidente del CSM Nicola Mancino “un cesso” (e cosa abbia fatto il vice-presidente Mancino per meritarsi questo poco encomiabile, ma inequivocabile titolo, Mancino per primo e noi con lui, dovremmo chiedercelo).

Questo Lombardi fa campagna all’interno del CSM per il suo amico “Fofò” Alfonso Marra che diventa capo della corte d’Appello di Milano, e per altri. E’ intimo del sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo e del capo del Servizio di controllo interno del ministero della Giustizia Angelo Gargani; e quando, a proposito della esclusione della lista Formigoni dalle elezioni regionali, i magistrati di Milano non si comportano come la cricca desidera, chiede consiglio ad Arcibaldo Miller, altro magistrato, e capo degli ispettori del ministero della Giustizia, e invoca un’ispezione ministeriale. E questo Miller, invece di mandare Lombardi a quel paese, amichevolmente e in modo spericolato gli dà consigli su come fare per ottenere questa ispezione. Lo stesso Miller che viene invitato da Lombardi a riunioni, a pranzi a casa del coordinatore del PdL Verdini o in ristoranti per definire le strategie da adottare.

Ora va bene che viviamo in un paese dove un ex ministro come Claudio Scajola può dire che qualcuno gli paga la casa a sua insaputa, e ristruttura la stessa casa e il conto lo paga il SISDE; e un altro sottosegretario, Guido Bertolaso, può dire impunemente in televisione che lui non sa nulla delle operazioni poco limpide che si sono fatte all’ombra del vertice del G8, anche se quelle cose poco limpide erano state puntualmente denunciate in una dettagliata interrogazione di Elisabetta Zamparutti e degli altri parlamentari radicali un anno prima che la vicenda esplodesse. Però è davvero incredibile, letteralmente inaudito che il ministro della Giustizia parli di scongiurare una “caccia alle streghe”, invece di annunciare: ho convocato il sottosegretario Caliendo, il capo del servizio di controllo Gargani, il capo degli ispettori del ministero della Giustizia Miller, e li ho pregati di farsi da parte fino a quando l’inchiesta sarà conclusa, e nel frattempo ho avviato un’inchiesta interna per accertare come sono andate le cose. Questo un ministro della Giustizia avrebbe dovuto fare. Questo il ministro della Giustizia Alfano non ha fatto. Altro che caccia alle streghe!

Se questi sono gli anticorpi in un sistema marcio, figuriamoci che fine possono fare gli esposti e le denunce di semplici cittadini inviati al Ministero della Giustizia, che rilevano abusi ed omissioni di sistema causati da apparati giudiziari.

La prima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha deciso di avviare il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale nei confronti del presidente della Corte d'appello di Milano, Alfonso Marra, a seguito del suo coinvolgimento nelle intercettazioni relative all'inchiesta sull'eolico. La decisione è passata con quattro voti a favore; in commissione ha votato contro soltanto il laico di centrodestra, Anedda. Non ha partecipato al voto Giuseppe Berruti, che nelle intercettazioni viene considerato il maggior ostacolo alla nomina di Marra.

In un'informativa datata 18 giugno 2010, parlando dell'attività svolta dal gruppo occulto, i carabinieri descrivono la "vicenda che ha visto protagonista il neo presidente della Corte d'appello di Milano. Non appena Marra - riferiscono i militari - ha ottenuto, dopo un'intensa attività di pressione esercitata dal gruppo (e in particolare da Pasquale Lombardi) sui membri del Csm, l'ambita carica, i componenti dell'associazione gli chiedono esplicitamente, peraltro dietro mandato del presidente Formigoni, di porre in essere un intervento nell'ambito della nota vicenda dell'esclusione della lista Per la Lombardia". Marra ha commentato: "Sono contento che il Csm abbia aperto la procedura così si chiarirà la mia posizione".

Intanto restano in carcere l'affarista sardo Flavio Carboni e il magistrato tributario Pasquale Lombardi. I giudici del tribunale del riesame di Roma hanno respinto, infatti, le istanze di remissione in libertà o concessione degli arresti domiciliari per i due indagati. I pubblici ministeri avevano dato parere negativo alle richieste dei legali.

In seguito a ciò, il 16 luglio 2010 è stato pubblicato l’editoriale del direttore di “Libero”, Maurizio Belpietro dal titolo: “La cricca dei giudici”. "Se uno di noi fosse sospettato di aver violato la legge e di essere al servizio di pericolosi criminali, il minimo che gli potrebbe capitare sarebbe di essere indagato, il massimo di finire in galera. Cosa che non accadrebbe se si trattasse di un magistrato. Nel qual caso infatti si verrebbe trattati con mille attenzioni, anzi, con mille attenuanti, perché la casta delle toghe è seria, non come quella dei politici, che fa finta di essere potente e poi finisce alla berlina ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. Dunque, cari lettori, non fatevi ingannare dal caso Marra, il presidente della Corte d’appello di Milano finito nelle intercettazioni telefoniche della P3. Il suo trasferimento per incompatibilità è infatti la manovra per mettere tutto a tacere o, peggio, per imbrogliare le carte. Mi spiego. Se Marra fosse per davvero un magistrato in combutta con la cricca di Flavio Carboni e si fosse macchiato della grave colpa di aver brigato per favorire la P3 - cosa a cui io non credo -  non dovrebbe essere trasferito ad altra sede, come si appresta a fare il Csm. Semmai, dovrebbe essere radiato, perché non ha le qualità morali per fare il magistrato. Il trasferimento al contrario stabilisce che Marra non faccia più il giudice a Milano, ma possa continuare a farlo altrove, come se nulla fosse accaduto. Del resto, il Consiglio superiore della magistratura è specialista nell’assolvere i suoi protetti.....".

Ma l'amico... l'amico Lombardi è in grado di agire?". Al telefono Roberto Formigoni è supplichevole. Teme che la sua lista venga esclusa dalle elezioni e invoca l'intervento dell'"amico Lombardi": "Ti prego!". Ignora chi sia l'uomo di cui sta invocando il sostegno: un geometra che fatica a parlare in italiano e fa replicare alla supplica del governatore con un "dicitangill pure a chill amic tui su a Milan (diteglielo anche a quell'amico tuo su a Milano)". Eppure l'irpino Pasquale Lombardi, celebre nel suo giro per l'incapacità di sedere a tavola senza imbrattarsi di sugo ("Il nostro comune amico che quanno magna se sporca sempre..."), con il suo eloquio da Pappagone riusciva ad entrare in tutti i palazzi del potere. Il suo motto era semplice: "Arriviamo, arriveremo dove dobbiamo arrivare". In Cassazione, nel ministero dell'Economia e in quello della Giustizia, nel Consiglio superiore della magistratura, nel Pirellone, nella presidenza della Sardegna, in ogni procura d'Italia, il geometra Lombardi trovava sempre le porte aperte. Snocciolava una serie di diminuitivi affettuosi - Fofò, Nicolino, Pinuccio, Giacomino - con cui si rivolgeva a sottosegretari, coordinatori di partito, governatori e procuratori della Repubblica. Fino a incontrare "Chillu cess' e Nicola", al secolo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm e suo compaesano. E non era l'unico a godere di simili frequentazioni, intime e pericolose.

Democrazia limitata. In pochi mesi gli italiani hanno scoperto l'altro volto del potere: le cricche, termine antico che indica "un gruppo informale e ristretto di persone che condividono degli interessi". Aggiunge il dizionario: "Generalmente in una cricca è difficile entrarvi". Invece di questi club esclusivi se ne sono emersi parecchi. Un'orda che si è infilata dovunque: hanno influito e interferito su ogni decisione importante degli ultimi dieci anni, dal Giubileo al G8, dalle nomine al vertice della magistratura alla designazione dei presidenti di Regione, dai processi nella Suprema corte al lodo Alfano. Centurie del malaffare, avversarie e alleate a seconda della posta in gioco e dei loro punti di forza, pronte a scambiarsi favori e tirarsi addosso dossier al veleno.

Deviazioni per tutti i gusti. Ogni cricca ha la sua specialità. C'è quella degli appalti, con Diego Anemone - geometra sconosciuto al pari di Lombardi - che riunisce a tavola e negli affari il capo della Protezione civile Bertolaso, il gran commis di tutte le opere pubbliche Balducci, il ministro Scajola e l'ex Lunardi, il coordinatore pdl Verdini, il cardinale Angelo Sepe, un alto magistrato e una sterminata lista di beneficiati eccellenti. C'è quella del riciclaggio scoperchiata dal pm Giancarlo Capaldo, tra traffici sulla telefonia e sospetti di narcotraffico, del pregiudicato romanissimo Gennaro Mokbel e del suo senatore Nicola Di Girolamo, che muovono tanto denaro da non riuscire a contarlo ed esclamare "c'avete rotto il cazzo co tutti sti milioni". C'è poi la rete su scala minore dei fratelli De Luca, imprenditori campani delle ferrovie, con parenti al Csm, agganci in Vaticano e intrallazzi al ministero delle Infrastrutture. E il sogno infranto di Giampi Tarantini, che era entrato nelle notti di Villa Certosa e Palazzo Grazioli, passando dai contratti della sanità pugliese alle holding internazionali come Finmeccanica. Senza dimenticare sullo sfondo la nebulosa di Why Not, la ragnatela di contatti messa a nudo dall'indagine di Luigi De Magistris: una mappa delle relazioni altolocate, senza risvolti penali ma comunque significative per capire cosa resta della democrazia.

Le regole dei clan. Scordatevi delle tessere o dei cappucci: elenchi massonici come nella vecchia P2 sono ricordi del passato. E quanto c'entri la massoneria nel diffondere questo contagio ancora non è chiaro, anche se l'aura dei liberi muratori circonda molti protagonisti tra Toscana e Sardegna. Pur senza gran maestri e gerarchie, come in un gioco di ruolo ogni cricca per funzionare richiede alcune figure specializzate. C'è il tesoriere, in genere un imprenditore, che sostiene le spese del gruppo. Il clan degli irpini poteva attingere ai capitali di Arcangelo Martino, ex assessore socialista napoletano diventato un ras delle forniture ospedaliere: sede legale a Lodi, base operativa nel Casertano e oltre cento Asl nel carniere. Con Formigoni ha un filo diretto e non solo con lui: sono in molti a scommettere che il prossimo filone riguarderà la sanità e sarà dirompente. La gang degli appalti invece usava i fondi di Anemone, costretto a sudare quattro camicie per ragranellare il cash prima di cene con Bertolaso e generoso nel finanziare le dimore di Scajola, di un generale del Sisde e di altre perdine ministeriali. Ma Anemone spesso pagava in natura, ossia faceva lavori a gratis o a prezzo di costo a tutta la Roma che conta. In più c'era la santa alleanza con il cardinale Angelo Sepe che aveva offerto il catalogo di Propaganda Fide, con case da sogno a prezzi modici. Tutte le consorterie cercavano un padre spirituale con mire materiali. Sepe era intimo di Balducci, Bertolaso e company ma avrebbe tenuto relazioni intense anche con Arcangelo Martino e viene chiamato a benedire un convegno dei magistrati sedotti dal geometra Lombardi. Molto attivo e trasversale monsignor Francesco Camaldo, cerimoniere del papa e delle raccomandazioni. Invece i fratelli De Luca si rivolgono al cardinale Fiorenzo Angelini, ben introdotto tra i parlamentari cattolici e nell'ufficio di Bertolaso "che ha aiutato moltissimo...".

Quella nomina fu una ferita mai rimarginata. E con le intercettazioni sulle manovre sotterranee per ottenerla è tornata a sanguinare. Al punto da dover correre ai ripari in tutta fretta, per quanto si può. La decisione di far presiedere la corte d’appello di Milano ad Alfonso Marra divise a metà il Consiglio superiore. Era il 3 febbraio scorso. Marra ottenne 14 voti contro i 12 dell’altro candidato, Renato Rordorf. Fu una spaccatura trasversale, anche all’interno delle correnti. Dentro Unicost e Magistratura indipendente, i due gruppi «moderati», Berruti e Patrono si schierarono a favore di Rordorf, considerato «di sinistra». E tra i «laici» eletti dall’Ulivo, Celestina Tinelli preferì Marra. Come i tre membri dell’ufficio di presidenza (Mancino, il presidente della Cassazione Carbone e il procuratore generale Esposito); per motivi di opportunità, fecero trapelare, legati a un precedente voto unanime in favore dello stesso giudice, e perché Rordorf aveva lavorato al Csm.

Spiegazioni che all’epoca non convinsero. Perché nei corridoi del palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si sussurrò fin da subito che dietro i voti determinanti della Tinelli, di Mancino e di Carbone c’era qualcosa di strano. Niente di dimostrabile, ma molto di avvertito. Nell’abituale resoconto per gli aderenti alla sua corrente, la consigliera di Magistratura democratica Elisabetta Cesqui, già pubblico ministero nel processo alla Loggia P2, sulla nomina di Marra si lasciò andare a considerazioni amare: «L’aria viziata delle pressioni si è sentita fortissima... Il Consiglio può fare tutti gli sforzi di rinnovamento che vuole, ma quando si parla di decisioni veramente importanti, l’esigenza di presidio di certi territori e di certi uffici prevale sistematicamente sulle logiche di merito effettivo».

Ora le registrazioni di alcuni colloqui messi a fondamento dell’arresto dei tre ispiratori della presunta «associazione segreta» che si sarebbe adoperata, fra l’altro, per la nomina di Marra, ha dato nuovi argomenti a chi sosteneva quella tesi. Al di là della loro rilevanza penale. I dialoghi fra Pasquale Lombardi, il «ministro della Giustizia» del gruppo, con lo stesso Marra e con il sottosegretario Giacomo Caliendo (ex magistrato di Unicost) sembrano dare concretezza ai sospetti. Come se avessero strappato un velo.

«Mi pare che ho concluso, per te, col capo», diceva Lombardi a Marra dopo un incontro con Carbone. «Ma bisogna avvicinare ’sto cazzo di Berruti... », ribatteva Marra. E Lombardi a Caliendo: «Per quanto riguarda Berruti te la devi vedere tu». Poi ancora a Marra: «Ho parlato con Giacomino e... stiamo operando». Alla Tinelli chiedeva: «È opportuno che ne parli un poco con il presidente Carbone?». E lei: «Sì, assolutamente». In altri dialoghi Lombardi faceva intendere che il voto di Carbone si poteva conquistare prolungando la sua permanenza al vertice della Cassazione, con un emendamento sull’età pensionabile; riferiva di incontri con Mancino, e consigliava Marra di rivolgersi all’ex ministro Diliberto per convincere la «laica» Letizia Vacca.

Tutte chiacchiere e millanterie, replicano gli interessati; Carbone avrebbe persino avvisato il ministro della Giustizia che non avrebbe accettato proroghe della sua presidenza. Ma è difficile districarsi tra intercettazioni e giustificazioni. Restano la puzza di bruciato che si avvertì al tempo della nomina e le conversazioni che oggi rivelano le pressioni. Almeno tentate, visto il tempo trascorso al telefono da Lombardi per il suo amico Marra. «Pasqualì, poi facciamo ’na bella festa, a Milano o a Roma», diceva il giudice. E l’altro: «Eh, ce la facimm’ ’na bella festa!». La rapidissima decisione del Csm, giunto a fine mandato, scadrà fra due settimane,  di avviare la pratica per la rimozione di Marra sembra il tentativo di cancellare una pagina opaca della propria storia. Quasi certamente toccherà al prossimo Consiglio decidere il destino di quel giudice, ma chi l’ha nominato ha voluto mettere le basi per dissipare l’ombra di una scelta condizionata da un gruppo di potere occulto e illegale, almeno secondo l’accusa. Lo stesso Csm ha chiesto alla Procura di Roma «ogni utile informazione» su altri magistrati i cui nomi emergono dall’inchiesta. A cominciare da Arcibaldo Miller, il capo degli ispettori del ministero della Giustizia, che, hanno scritto i carabinieri nel loro rapporto, «forniva il proprio contributo alle attività di interferenza». Al pari del sottosegretario Caliendo e dell’ex avvocato generale della Cassazione Antonio Martone, che però hanno abbandonato la toga.

Anche la decisione della Procura generale di aprire l’istruttoria per un procedimento disciplinare a Marra suona come uno squillo di riscossa rispetto alla «questione morale» nella magistratura; e così l’allarme del segretario dell’Associazione magistrati Giuseppe Cascini, che confessa di aver provato «vergogna, indignazione e rabbia» a leggere i dialoghi dei suoi colleghi intercettati. L’Anm ha chiesto ai probiviri di valutare sanzioni, fino all’eventuale espulsione. Come se ci fosse l’urgenza di fare pulizia nella corporazione, a costo di dividere i magistrati e le loro correnti, pure al proprio interno. Per dare un esempio alla politica, l’altro potere toccato dall’indagine giudiziaria, col quale le toghe (non tutte, a leggere i resoconti dell'intercettazioni) sembrano in perenne conflitto.

"Prendono parte alle riunioni nelle quali vengono impostate le operazioni e paiono fornire il proprio contributo alle attività di interferenza". Venti nomi che scottano. Quelli delle toghe coinvolte nell'inchiesta sull'eolico e sulla nuova loggia "P3". Il rapporto dei Carabinieri non lascia adito a equivoci. Era fitta la rete di giudici e procuratori attraverso la quale la banda Carboni portava avanti i suoi piani di "interferenza" sulle istituzioni. Tutto ruotava intorno al ruolo di Arcibaldo Miller (capo degli ispettori del ministero della Giustizia), Giacomo Caliendo (sottosegretario alla Giustizia) e Antonio Martone (ex avvocato generale in Cassazione). Loro gli incaricati di costruire la ragnatela da stendere sui magistrati.  Qualcuno aveva un ruolo di primissimo piano nell'attività dell'associazione segreta, altri davano informazioni preziose. Altri ancora erano semplicemente oggetto di tentativi di avvicinamento da parte della combriccola che - per perseguire i propri obiettivi illeciti - si avvaleva della copertura offerta dal centro studi "Diritti e libertà".

Sono sempre Miller, Caliendo e Martone i commensali del famoso pranzo a casa Verdini del 23 settembre scorso in cui sarebbe stato pianificato il condizionamento della Consulta per far approvare il Lodo Alfano. Martone era stato invitato senza giri da parole da Lombardi all'incontro a piazza dell'Aracoeli: "Noi ci dobbiamo vedere all'una meno un quarto". "Ma io sono impegnato con il procuratore... Mandalo affanc. che chisto non porta voti e vieni da noi...", insiste Lombardi mostrando una certa confidenza.

Caliendo poi è presente in tutte le manovre. Dopo il pranzo a casa Verdini, Lombardi raccomanda al sottosegretario di fare la conta dei giudici costituzionali a favore e contro il Lodo: "Ci dobbiamo vedere ogni giorno, ogni settimana, capire dove sta o' buono e dove o' malamente: vuagliò, ti hai la strada spianata per fare il ministro". Le carte raccontano che Caliendo, su pressione di Lombardi, ha sollecitato al vicepresidente del Csm Mancino la nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte d'Appello di Milano. Nomina che si è rivelata poco decisiva: Caliendo infatti è poi intervenuto, senza fortuna, con lo stesso Marra per far accogliere il ricorso di Formigoni contro l'esclusione della sua lista nelle elezioni regionali lombarde. Successivamente, davanti alle pressioni dello stesso Lombardi per far inviare gli ispettori alla Procura di Milano, il sottosegretario ammetterà: "L'ho chiesto trenta volte al ministro!". Della stessa vicenda è protagonista anche Miller, chiamato confidenzialmente Arci dai membri della banda, che in una telefonata del 5 marzo 2010 suggerisce ad Arcangelo Martino cosa fare per ottenere l'ispezione: "Ci vorrebbe un esposto...".

Un magistrato vicino a Lombardi, Angelo Gargani, compare frequentemente nell'inchiesta: con il tributarista, dopo il pranzo a casa Verdini, parla della vicenda del Lodo e gli fornisce il numero di un ex presidente della Consulta da contattare, Cesare Mirabelli (che respingerà la "corte" del disinvolto faccendiere napoletano). Lombardi attiva di continuo la sua rete di contatti con i magistrati. Lo fa all'occorrenza e soprattutto in occasione dell'elezione di Marra che - secondo i carabinieri - è avvenuta proprio grazie all'interferenza della banda. Il tributarista ne parla il 21 ottobre 2009 con Celestina Tinelli, componente del Csm. Alla quale chiede informazioni anche sulle chances di altri due "amici" in corsa per incarichi di rilievo: Gianfranco Izzo per la Procura di Nocera e Paolo Albano per Isernia. Lombardi parla in quel periodo con diversi magistrati. Fra i voti da conquistare (e poi conquistati) per l'elezione di Marra, c'è quello di Vincenzo Carbone, primo presidente di Cassazione: il 22 ottobre Lombardi invita Caliendo a "lavorarselo per bene", e gli comunica di avere già prospettato un aumento dell'età pensionabile da 75 a 78 anni. Una modifica della legge che proprio in quei giorni il governo proporrà con un emendamento. Lo stesso Carbone, un mese prima, aveva chiesto a Lombardi: "Che faccio dopo la pensione?".

Un altro giudice, Francesco Castellano, il 31 gennaio 2010 conferma all'attivissimo Lombardi di avere segnalato alla Tinelli il nome di Marra. Ma intanto Lombardi aveva già parlato del caso Marra a Beppe ("verosimilmente il giudice Giuseppe Grechi", scrivono i carabinieri). Anzi, è quest'ultimo il 16 novembre 2009 a chiedere a Lombardi qual è l'intenzione del "comune amico" Carbone in vista del voto: "Tienilo sotto che lo tengo sotto anch'io", dice il tributarista.

Il 19 gennaio 2010 Lombardi parla con Gaetano Santamaria della candidatura di tale "Nicola" per la Procura di Milano. A Cosimo Ferri, altro componente del Csm, arriva a chiedere il rinvio di quella nomina. Ferri, in realtà, si ritrae imbarazzato. A Lombardi sta a cuore, in quel periodo, anche la candidatura di Nicola Cosentino alla guida della Regione Campania. Vede due volte il procuratore di Napoli Giambattista Lepore per chiedergli informazione sulla situazione giudiziaria di Cosentino, indagato per rapporti con la camorra. Dopo l'incontro del 20 ottobre 2009, Lombardi riferirà, violando tutte le procedure, ad Arcangelo Martino che le prospettive per il sottosegretario (appena dimessosi) non sono buone: "Negativo al 90 per cento". Agli atti anche una telefonata fra Lombardi e il magistrato Giovanni Fargnoli: parlano del ricorso in Cassazione contro la richiesta di arresto a carico di Cosentino: Fargnoli assicura a Lombardi che gli farà sapere perché il ricorso è stato rigettato. Una conferma, l'ennesima, della rete che lega i componenti della combriccola, i politici e i magistrati: il 14 ottobre 2009 Ugo Cappellacci, presidente della Sardegna, chiama Martino per avere il numero di telefono di Cosimo Ferri: vuole evitare il trasferimento di Leonardo Bonsignore, presidente del tribunale di Cagliari, ad altra sede: "Perderemmo un amico carissimo e una persona valida". Martino si attiva subito e parla con la segretaria di Ferri. Secondo i carabinieri proprio per questo motivo Martino "poteva ritenersi creditore nei confronti di Cappellacci".

Le P...Poteri occulti, ma non troppo!!.

La loggia di Licio Gelli.

Propaganda Due, nota come P2, è stata una loggia massonica segreta con fini eversivi. Dal 1970 venne guidata da Licio Gelli (sotto), nel 1982 fu sciolta per legge. Quasi mille gli iscritti alla loggia segreta. Il 17 marzo 1981 il colonnello Vincenzo Bianchi si presenta a Villa Wanda, a Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo, residenza dell'allora quasi sconosciuto Licio Gelli. Ha in tasca un mandato di perquisizione dei giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che indagano sull'assassinio Ambrosoli e sul finto sequestro di Sindona, mandante del delitto. Dopo qualche ora di lavoro, l'ufficiale riceve una telefonata del comandante generale della Finanza, Orazio Giannini. Si sente dire: «So che hai trovato gli elenchi e so che ci sono anch'io. Personalmente non me ne frega niente, ma fai attenzione perché lì dentro ci sono tutti i massimi vertici». Poche parole, dalle quali Bianchi è colpito per la doppia intimidazione che riassumono. Cioè per quel «non me ne frega niente», che esprime un assoluto senso d'impunità. E per quel «tutti i massimi vertici», che capisce va riferito ai vertici «dello Stato e non del corpo» di cui lui stesso indossa la divisa. Ed è proprio vero: c'è una parte importante dell'Italia che conta, in quella lista di affiliati alla loggia massonica Propaganda Due, che il colonnello sequestra assieme a molti altri documenti e trasporta sotto scorta armata a Milano. Ci sono 12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di Finanza, 22 dell'Esercito, 4 dell'Areonautica militare, 8 ammiragli, direttori e funzionari dei vari servizi segreti, 44 parlamentari, 2 ministri in carica, un segretario di partito, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, giornalisti, magistrati. Insomma: nella P2 ci sono 962 nomi di persone che formano «il nocciolo del potere fuori dalla scena del potere, o almeno fuori dalle sue sedi conosciute». Una sorta di «interpartito» formatosi su quello che appare subito come un oscuro groviglio d'interessi dietro il quale affiorano business e tangenti, legami con mafia e stragismo, il golpe Borghese, omicidi eccellenti (Moro, Calvi, Ambrosoli, Pecorella) e soprattutto un progetto politico anti-sistema. Quando, dopo due mesi di traccheggiamenti, gli elenchi sono resi pubblici, lo scandalo è enorme. Il governo ne è travolto e il 9 dicembre 1981, anche per la spinta di un'opinione pubblica sotto shock e che chiede la verità, s'insedia una commissione parlamentare d'inchiesta, che la presidente della Camera, Nilde Jotti, affida alla guida di Tina Anselmi. Da allora l'ex partigiana di Castelfranco Veneto, deputata della Dc e prima donna a ricoprire l'incarico di ministro, comincia a tenere un memorandum a uso personale oggi raccolto in volume: «La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi», a cura di Anna Vinci (Chiarelettere, pag. 576, euro 16). Tra i primi appunti, uno è rivelatore del clima che investe la politica («i socialisti sono terrorizzati dall'inchiesta») e l'altro del metodo che la Anselmi intende seguire: «Fare presto, delimitare la materia, stare nei tempi della legge». Un proposito giusto. Lo sfogo del colonnello Bianchi le ha fatto percepire l'enormità dell'indagine e i livelli che è destinata a toccare. Diventa decisivo, per lei, sottrarsi all'accusa di «dar la caccia ai fantasmi» e di certificare quindi l'attendibilità delle liste (su questo si gioca la critica principale), come pure evitare che l'investigazione si chiuda con il giudizio minimalista accreditato da alcuni, secondo i quali la P2 sarebbe solo un «comitato d'affari». È un'impresa dura e difficile, per la Anselmi. Carica di inquietudini. Lo dimostrano i 773 foglietti in cui annota ciò che più la colpisce durante le 147 sedute della commissione. Riflette, ad esempio, il 14 aprile 1983: «Strano atteggiamento del Pci... non mi pare che voglia andare a fondo. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti, che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo? Più probabile la prima ipotesi. Mi pare che Br e P2 si siano mosse in parallelo e abbiano fatto coincidere i loro obiettivi sul rapimento e sulla morte di Moro». Altro appunto, del 26 gennaio '84, con l'audizione di Marco Pannella: «Com'è possibile che Piccoli, Berlinguer e Andreotti non sapessero della P2 prima del 1981?». Ragionando poi sul fatto che gli elenchi non sono forse completi e che Gelli potrebbe essere solo «un segretario», si chiede se la pista non vada esplorata fino a Montecarlo, sede di una evocata super loggia. E ancora, il 16 dicembre '81 mette a verbale che il parlamentare Giuseppe D'Alema (padre di Massimo) «consiglia di parlare» con un poco conosciuto giudice di Palermo che cominciava a conquistarsi le prime pagine sui giornali: Giovanni Falcone. S'incrocia di tutto in quelle carte. La fantapolitica diventa realtà. Ci sono momenti nei quali la commissione è una «buca delle lettere»: arrivano messaggi cifrati, notizie pilotate o false, ricatti. Parecchi riguardano la partita aperta intorno al Corriere della Sera, che era stato infiltrato (nella proprietà e in parte anche nella redazione) da uomini del «venerabile» e alla cui direzione c'è ora Alberto Cavallari, indicato da Pertini per restituire l'onore al giornale. In questo caso sono insieme all'opera finanzieri e politici, ossessionati dalla smania di controllare via Solferino. Si agitano anche pezzi del Vaticano, il cardinale Marcinkus, senza che la cattolica Anselmi se ne turbi e lo dimostra ciò che dice al segretario, Giovanni Di Ciommo: «Non ho fatto la staffetta partigiana per farmi intimidire da un monsignore». Ma a intimidirla ci provano comunque. La pedinano per strada. Qualche collega, passando davanti al suo scranno a Montecitorio, le sibila: «Chi te lo fa fare? Qua dobbiamo metterci i fiori». Fanno trovare tre chili di tritolo vicino a casa sua. Lei tira dritto. Quando, il 9 gennaio '86, presenta alla Camera la monumentale conclusione del suo lavoro, 120 volumi, definisce la P2 «il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale» (il piano di Rinascita Democratica di Gelli). Nel diario aveva profeticamente scritto: «Le P2 non nascono a caso, ma occupano spazi lasciati vuoti, per insensibilità, e li occupano per creare la P3, la P4...». Sono passati trent'anni e la testimonianza di Tina Anselmi, dimenticata e da tempo malata, è da riprendere. Magari riflettendo su un dato: nella lista compariva anche il nome di Silvio Berlusconi. All'epoca era soltanto un giovane imprenditore rampante e i parlamentari non ritennero di sentirlo perché era parso un «personaggio secondario».

La cricca di Carboni.

È stato ribattezzato P3 il presunto gruppo di potere occulto che ruotava intorno a Flavio Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi: avrebbe tentato di condizionare la Corte Costituzionale e altre istituzioni. Dalla scoperta della P2 di Licio Gelli sono passati ormai trent'anni. E una legge, l'Anselmi, che ha bandito ogni organizzazione segreta. Eppure da le indagini di due Procure (di Roma e di Napoli) si sono concentrate sull'esistenza di nuovi circoli occulti, ribattezzati P3 e P4, finalizzati ad ottenere indebiti vantaggi (appalti, nomine, finanziamenti) tramite lo scambio di favori.

La Loggia P3.

Il caso nasce nel 2010, nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Roma sugli appalti per l’eolico che porta in carcere l’imprenditore Flavio Carboni, il geometra Pasquale Lombardi e il costruttore Angelo Martino. Nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, finiscono anche il senatore del Pdl Marcello dell’Utri, il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, il coordinatore del Pdl Denis Verdini e l’ex assessore all’avvocatura della Regione Campania, Ernesto Sica. La presunta loggia, guidata da Carboni, oltre a consorziarsi per bypassare la concorrenza nella vittoria di appalti pubblici avrebbe anche progettato di influenzare i giudici della Corte Costituzionale incaricati di pronunciarsi sul Lodo Alfano. Carboni, Lombardi e Martino avrebbero tentato persino di avvicinare i magistrati della procura di Firenze che stavano indagando sui Grandi Eventi e sugli appalti legati al G8. Secondo gli inquirenti, il gruppo "per acquisire e rafforzare utili conoscenze nell'ambiente della politica e della magistratura" utilizzava l'associazione culturale "Centro studi giuridici per l'integrazione europea Diritti e Libertà"di Lombardi.

E la Loggia P4.

E’ il nome dato ad una presunta associazione segreta su indagine della Procura di Napoli. Il suo scopo sarebbe quello di “interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo”. L’inchiesta è condotta da due pm di Napoli, secondo i quali i membri dell’associazione si scambiavano favori nell’assegnazione di appalti, di nomine e di finanziamenti. Tra gli indagati ci sono un poliziotto partenopeo ed Enrico La Monica, maresciallo nella sezione anticrimine dei carabinieri di Napoli. I pm ritengono che La Monica abbia rivelato “in più occasioni notizie coperte da segreto, anche attinte da altri appartenenti alle forze dell’ordine”. Gli ultimi a finire nel registro degli indagati sono Luigi Bisigani, giornalista e consulente aziendale, da molti considerato il personaggio chiave della vicenda, arrestato per l'ipotesi di favoreggiamento in relazione alla rivelazione di notizie coperte da segreto, e il parlamentare Pdl Alfonso Papa. Secondo gli inquirenti la P4 sarebbe un sistema informativo parallelo, creato per ottenere notizie riservate su appalti e nomine., con ogni mezzo: dal dossieraggio clandestino al ricatto, anche attraverso organi costituzionali. Quello degli appalti pilotati è la parte più delicata sulla quale i sostituti procuratori napoletani stanno lavorando. La "cricca" avrebbe agito sostanzialmente in due modi. Da un lato, acquisendo, negli ambienti giudiziari, informazioni secretate relative a procedimenti penali in corso. Dall’altro, raccogliendo dati sensibili sulle alte cariche dello Stato. Informazioni e notizie che poi sarebbero state utilizzate in modo "illecito" con lo scopo di ottenere "indebiti vantaggi". Anche il direttore de L’Avanti, Valter La Vitola era satto interrogato come teste riguardo alla faccenda legata alla casa di Montecarlo del presidente della Camera Fini. Ad insospettire gli inquirenti sarebbero stati alcuni scoop messi a segno dalla testata.

Il dossier di Bisignani.

È stato chiamato P4 il «sistema parallelo» messo in piedi da Bisignani e Papa: un sistema finalizzato alla gestione di notizie riservate, appalti e nomine, anche attraverso interferenze su organi costituzionali. P4, la rete di Bisignani e Papa: finanza, giudici e 007. Sui giornali nuove indiscrezioni sull’inchiesta sulla presunta associazione segreta che ha portato all’arresto dell’uomo d’affari e che coinvolge anche il deputato del Pdl. Tra i loro contatti ci sarebbero anche Pollari e Toro.

L'inchiesta sulla cosiddetta P4.

Nuove indiscrezioni sui giornali sull’inchiesta sulla presunta P4 che ha portato ai domiciliari Luigi Bisignani e alla richiesta di custodia cautelare in carcere per Alfonso Papa, deputato eletto nel Pdl. Un’inchiesta su una presunta associazione segreta, i cui membri avevano rapporti ad alti livelli nel mondo della politica, pubblica amministrazione e dell'impresa, che raccoglieva informazioni riservate e le usava per esercitare pressioni, ricatti e ottenere vantaggi personali. Una nuova bufera che ha coinvolto anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta che, secondo indiscrezioni, sarebbe stato il referente principale di Bisignani.

In primo piano sui quotidiani di venerdì 17 giugno 2011 i rapporti di Luigi Bisignani con la Guardia di Finanza e i giudici. Alfonso Papa sarebbe stato il suo contatto per costruire la rete. “Non c’è dubbio che i canali informativi di Alfonso Papa erano prevalentemente nella Guardia di Finanza. Al riguardo, lui aveva rapporti con ufficiali del Corpo”. Queste le parole che Bisignani avrebbe detto, secondo quanto riporta Repubblica. Il legame tra Papa e la Guardia di Finanza risale al 2001 quando giovanissimo magistrato - pm, lascia Napoli per assumere l’incarico di vice-capo di Gabinetto del ministro di Giustizia Roberto Castelli. Da lì in avanti dieci anni di lavoro per agganciare lo stato maggiore della Guardia di Finanza. Secondo il quotidiano diretto da Ezio Mauro “il parlamentare del Pdl diceva di conoscere e vedere i generali Adinolfi, Barbi e Mainolfi”. Tra gli amici di Papa, secondo quanto riportano sia Repubblica sia il Corriere della Sera citando dichiarazioni di Bisignani, ci sarebbe anche l’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari. Non solo. L’ex parlamentare Alfredo Vito avrebbe messo a verbale: “La candidatura di Papa fu conseguenza di un intervento diretto di Pollari, lui era legato ai servizi segreti”. Il Corriere della Sera pubblica una pagina dei tabulati relativi alle intercettazioni in cui Papa farebbe riferimento a un appuntamento con “quel generale”. Per quanto riguarda invece i contatti con i pm, Papa avrebbe avuto stretti legami con le Procure di Roma, Napoli, Trani, Bari e Milano. In particolare, in un articolo di Repubblica a firma di Francesco Viviano si citano i nomi del procuratore aggiunto di Roma Achille Toro e del figlio Camillo. L’ex presidente della Corte d’appello di Salerno Umberto Marconi, anche lui coinvolto nell’inchiesta sulla P3, avrebbe detto al collega Woodcock secondo quanto riportano sia Repubblica sia il Corriere della Sera: “Sono certo che Papa abbia spiegato e spieghi le proprie energie intrecciando rapporti con i carabinieri, con i servizi segreti.. concentrato sempre ad agire sull’ombra. Papa ha praticamente a disposizione delle truppe che utilizza per perseguire i suoi scopi personali”. La Stampa parla anche di ricatti che Papa avrebbe fatto ad alcuni imprenditori. Come Vittorio Casale, che "per un paio di anni ha pagato a Papa la garconnière di via Giulia a 800 euro al mese. In cambio Papa gli aveva promesso soluzione ai suoi problemi giudiziari. E' stato arrestato". Sul quotidiano anche un ritratto di Alfonso Papa dal titolo "Il trafficante di segreti che mancava alla destra". Sui giornali vicini al centrodestra continuano invece a sostenere che tutta l’inchiesta sia solo un modo per mettere in difficoltà il governo. “Svolazzano attorno a Berlusconi. E’ il momento dei corvi. Basta leggere Repubblica per capire: nell’inchiesta sulla presunta loggia P4 tirano in ballo Letta per colpire il premier” titola Il Giornale. Libero invece riprende una storia pubblicata da l’Espresso e gli dedica la prima pagina: “Il bunga bunga dell’Idv. Una giovane disoccupata accusa il senatore Pedica e il deputato Zazzera: “Mi hanno estorto sesso promettendomi un lavoro. Che non ho mai visto”. Da Toro ad Arcibaldo Miller, "Così Papa controllava le procure". Molti i nomi di magistrati finiti nell'ordinanza del Gip di Napoli sull'inchiesta su Bisignani che dice ai giudici: "Quando parlo di giri e giretti del deputato del Pdl mi riferisco all'ambito napoletano. Lì lui attingeva informazioni". Di FRANCESCO VIVIANO su La Repubblica del 17 giugno 2011.

Roma, Napoli, Trani, Bari, Milano. Una rete che gli permetteva di entrare nelle procure di mezza Italia. Tra fascicoli e segreti d'ufficio. Alfonso Papa, già magistrato poi deputato Pdl, aveva amicizie importanti e, a quanto pare, loquaci. Tanto loquaci da procuragli, a suon di informazioni riservate, uno scranno in Parlamento. Un giro che partiva da Bisignani, toccava molti esponenti della maggioranza e arrivava dritto al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Tanti i nomi di magistrati finiti nell'ordinanza del gip del tribunale di Napoli. Amici di una vita, colleghi di vecchia data, militanti della sua stessa corrente, Unicost, ma anche molte toghe che non sapevano di passare informazioni al collega assetato di potere. Che era interessato alle inchieste più importanti: la P3 di Roma, la P4 di Napoli e quella sul G8. Ma, più in generale, a qualsiasi fascicolo coinvolgesse qualche politico. Spuntano così il nome del procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, con cui Papa diceva di essere in buoni rapporti e dell'ex procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, già coinvolto nell'inchiesta sui Grandi Eventi. L'amicizia tra i due era di dominio pubblico. Maria Elena Valanzano, assistente parlamentare di Papa, il 18 febbraio scorso, mette a verbale: "Per quanto riguarda l'ambito giudiziario romano, Papa spesso mi parlava dei suoi contatti e delle sue aderenze con il procuratore Achille Toro e con il figlio, Camillo". Un legame molto stretto, tanto da cercare di dare una mano all'amico caduto in disgrazia. Il 9 marzo 2011 Bisignani chiarisce: "Era molto amico dell'allora procuratore aggiunto di Roma Achille Toro e del figlio Camillo. Al riguardo più volte mi chiese di poter trovare qualche incarico per Toro". Alcune delle toghe citate sono state sentite dal pm John Henry Woodcock. Come nel caso di Arcibaldo Miller che fu "maestro" proprio di Woodcock. Il capo degli ispettori di via Arenula, citato in alcune conversazioni si è difeso: "Voglio ribadire di non aver mai chiesto a Papa di interessarsi delle vicende processuali nella quali è comparso il mio nome". Dall'inchiesta emerge anche che l'onorevole avrebbe tentato di "contattare" il vice presidente del Csm, Michele Vietti. A raccontarlo è la sua ex assistente, Maria Roberta Darsena, una a cui Papa teneva parecchio, tanto da regalarle una Jaguar. È il 12 aprile, la donna spiega: "Dissi a Papa che ero stata a una cena con Vietti, al riguardo mi fece un sacco di domande e mi chiese con insistenza morbosa quale fosse il ristorante, che io non ricordavo, e tutti i dettagli della serata". La procura decide quindi di convocare Vietti, ritenuto una "possibile vittima dell'acquisizione di fatti privati a scopo di pressione". Le sue dichiarazioni non vengono nemmeno riportate. I contatti migliori erano, però, quelli partenopei. "Diceva che a Napoli, in ambito giudiziario, la "comandava lui"", ha spiegato Luigi Matacena ai magistrati. Rapporti consolidati, a detta dello stesso Bisignani. "Quando parlo di Papa, dei suoi "giri" o "giretti" e delle sue "fonti" dalle quali attingeva notizie riservate di matrice giudiziaria, faccio riferimento all'ambito napoletano, nel senso che mi ha sempre detto di avere amicizie e legami tra le forze di polizia e in procura a Napoli". Contatti continui, le informazioni sui procedimenti a carico dei politici sono merce di scambio. L'ex Presidente della Corte di Appello di Salerno, Umberto Marconi, coinvolto anche nell'inchiesta P3 per il falso dossieraggio nei confronti di Caldoro, ha detto al collega Woodcock: "Sono certo che Papa abbia spiegato e spieghi le proprie energie intrecciando rapporti con i carabinieri, con i servizi segreti... concentrato sempre ad agire nell'ombra. Papa ha praticamente a disposizione delle "truppe" che utilizza per perseguire i suoi scopi personali". La trama puntava dritto a palazzo Grazioli. Lo stesso Giacomo Caliendo, sottosegretario alla Giustizia, il 9 dicembre racconta: "Dopo le ultime elezioni il presidente Berlusconi, in una occasione, mi chiese notizie su Papa dal momento che aveva ricevuto qualche segnalazione diretta a fargli ottenere un incarico".

WALT DISNEY, IL MASSONE?

L’Uomo, il Regista, il Produttore cinematografico e il Massone, scrive "Goilo Lombardia". Fumettista, animatore, imprenditore, cineasta e doppiatore statunitense, come regista e produttore cinematografico realizzò molti film d'animazione e di storie a fumetti. Creatore di personaggi che sono diventati famosi in tutto il mondo, diede vita a un universo immaginario basato su una costante: la lotta e il trionfo del bene sul male, della luce sulle tenebre. Riconosciuto da tutti come uno dei principali cineasti del XX secolo e come il padre dei film d'animazione. Walter Elias Disney nasce il 5 dicembre 1901 a Chicago, trascorre un'infanzia molto difficile a causa della madre che abbandona la famiglia. A dieci anni vende giornali per la strada, ben presto nasce il suo amore per il disegno che diverrà per lui una professione di successo: inizia a lavorare a Kansas City presso una agenzia pubblicitaria dove incontra Ub Iwerks, che diverrà il suo più stretto collaboratore con cui realizza una piccola serie di cartoon satirici, successivamente fonda (1922) una piccola società di produzione con cui realizza 7 brevi fiabe. L'impresa purtroppo fallisce e Disney, insieme al fratello Roy e Iwerks si trasferisce a Hollywood dove fonderà qualche anno dopo la Walt Disney Production. Nel 1928 realizza un cartone animato con un personaggio che segnerà la storia dell'animazione: Mickey Mouse (Topolino). Negli anni successivi realizza nuovi film di animazione, prima muti, poi sonori creando nuovi personaggi. Nel 1933 è la volta de I tre piccoli porcellini, la cui canzone, "Who's Afraid of the Big Bad Wolfe?", diventa l'inno della campagna elettorale di Roosvelt. Nel 1934 compare Donald Duck (Paperino). Nel 1937 abbiamo Biancaneve e i sette nani, il primo lungometraggio a cui seguono Pinocchio (1939) e Fantasia (1940). Nel 1941 arriva Dumbo, seguito da Bambi l'anno successivo. Durante lo svolgimento della 2° guerra mondiale, il Governo USA chiese a molti editori e registi di Hollywood di fare propaganda antinazista con i mezzi culturali a loro disposizione; nacquero film come “Il grande dittatore” (Charlie Chaplin, 1940), “Il prigioniero di Amsterdam” di Alfred Hitchcock, ecc , ma sono stati soprattutto i film di animazione uno dei media più utilizzati ai fini di propaganda militare volta al rafforzamento dello spirito patriottico. Non mancò di dare il proprio contributo anche Walt Disney con ad esempio il cartone animato The Fuehrer’s face (Il volto del Fuhrer) in cui il povero Paperino è vittima di allucinazioni, incubi infestati di svastiche e altri simboli nazisti e trova pace solo in una Statua della Libertà in miniatura. Terminata la guerra la Walt Disney Production riprende la produzione con nuovi successi cinematografici: Cenerentola nel 1950, Alice nel paese delle meraviglie (1951), La bella addormentata nel bosco (1958) fino ad arrivare ad uno dei più grandi successi della Disney, La carica dei 101 (1961). I suoi film ricevono 32 premi Oscar. Nasce Disneyland. Fumatore accanito, muore il 15 dicembre 1966 a causa di innumerevoli problemi ai polmoni.

IL MASSONE (UN POSSIBILE ENIGMA MASSONICO) Messaggi subliminali: Walt Disney. Walt Disney. La più grande industria di cartoni animati, film, fumetti ecc., fondata dall'omonimo Walt Disney (membro della Massoneria), amata da milioni di famiglie e da milioni di bambini. Non tutti però sanno che dietro a questa industria si cela un segreto. Anzi, non proprio un segreto, perchè oramai è noto che nella maggior parte dei film o cartoni o fumetti della Disney sono presenti messaggi subliminali visivi. Messaggi a sfondo sessuale e satanico che colpiscono ogni giorno l'innocenza dei bambini. Per quale motivo usano questi messaggi? Semplice, la riduzione delle nascite, uno degli obbiettivi degli Illuminati. Vedendo continuamente i messaggi subliminali di tipo sessuale, dopo un po' una persona non fa altro che pensare al sesso. Ciò conduce a infedeltà verso il proprio partner, a matrimoni brevi dove due persone non hanno il tempo di progettare la nascita di un bambino. Quindi, quale metodo migliore di colpire, se non colpendo un frutto non ancora maturo? Inoltre la compagnia è stata coinvolta in un processo, nel 2004, nel quale veniva accusata di aver inserito dei messaggi subliminali sessuali e satanici nei suoi prodotti e da dove è venuta fuori soltanto dopo aver pagato 70 milioni di dollari, dimostrando così la sua colpevolezza. Ovviamente, una volta resi noti, i messaggi subliminali vengono rimossi nei nuovi DVD e nelle nuove versioni dei film. Ma ora passiamo ai fatti. Quali sono i messaggi subliminali in questione? Il film più contaminato è sicuramente "La Sirenetta". Questa è la copertina del film. Notate niente di strano? Una delle torri del castello è a forma di fallo. Questo granchio non vi ricorda forse un... fallo? Durante il matrimonio il prete ha una erezione, o sbaglio? Ma ora guardate quest'altro video: Un altro film contaminato è "Bianca e Bernie". A quanto pare, su una delle finestre del palazzo appare un donna nuda. Nel cielo del film "Il Re Leone" le stelle formano la scritta "SEX". In una scena del film "Chi ha incastrato Roger rabbit?"  il taxi che trasportava Jessica e l'attore Bob Hoskinssi si scontra contro un lampione e i due vengono sbalzati fuori. Mentre la bella Jessica rotea nel vuoto, il vestito rosso si alza, ed essa appare senza mutandine. In quest'immagine, un palazzo a una forma fallica. In un fumetto "Topolino" è presente una squadra e un compasso, simbolo massonico.

Notoriamente Walt Disney è considerato un Fratello Massone e come tale citato in diversi elenchi dei Massoni Famosi in circolazione e nelle citazioni che lo riguardano. Cercare di documentare e/o comprovare questa appartenenza non è una impresa facile per la scarsissima documentazione di merito esistente sulla sua vita, la mancanza di studi approfonditi sulle sue opere e i legami con la nostra Istituzione; l’alternativa è stata quella di cercare tramite ricerche mirate di ricostruire tale legame attraverso le sue opere cinematografiche e fumettistiche sfruttando tutte le informazioni possibili reperite. La sua produzione artistica riguarda storie, apparentemente banali, ma che hanno segnato un’epoca e che rivediamo ancora volentieri, specialmente se ci troviamo a svolgere il compito che fu dei nostri genitori; spesso queste avventure sono ancora presenti nella nostra libreria di casa o vengono da noi ancora regalate e perché no riviste. Avventure i cui protagonisti sono animali umanizzati, fanciulle bellissime che soffrono per le angherie subite da una matrigna/strega, oppure chi non si è identificato in un giovane Garzone che con l’aiuto di un buon Maestro è diventato Re (e non Re comune ma nel mitico Artù), oppure quante volte abbiamo sorriso per la danza degli ippopotami o abbiamo assistito ai guai causati dai poteri magici di Topolino nella veste di Apprendista stregone e infine chi non ha cantato almeno una volta  la canzone dei Sette nani che andavano al lavoro con i loro picconi in spalla; gli esempi sarebbero ancora molti ma limitiamoci a dire che in buona sostanza chi più e chi meno tutti siamo cresciuti con questi capolavori realizzati da Walt Disney, un personaggio che ci ha affascinato  in passato e che ora, da grandi, ci stupisce per gli innumerevoli messaggi e  simboli che scopriamo nelle sue opere. Sicuramente possiamo dire che il tema di fondo delle sue opere è un'esaltazione dei valori morali in fiabe a lieto fine da trasmettere ai principali destinatari delle sue opere; i giovani (e non solo); opere in cui è presente una costante, un tema ricorrente: la lotta e il trionfo del bene sul male, della luce sulle tenebre. Partendo da ciò cercheremo di meglio evidenziare questi messaggi/simboli presenti nelle sue opere quali: Una simbologia palese, ne è un esempio il vestito di Topolino composto da un paio di braghette rosse con due bottoni che non sorreggono nulla, il tutto completato da un paio di guanti bianchi. La persona comune può sorridere su questo buffo modo di vestire e accettare il tutto senza chiedersi nulla limitandosi a prestare la propria attenzione alla sola storia che vede protagonista il nostro eroe ma un Massone riconosce molto bene questi "elementi" e se a ciò aggiungiamo il contenuto della storia investigativa in cui viene calato di volta in volta il personaggio riconosce in lui un Fratello che nel mondo profano di Topolinia combatte e sconfigge il male o se vogliamo dire meglio la sua opera permette di edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio e lavorare al Bene e al Progresso dell’Umanità aiutando il Commissario Basettoni e l’Ispettore Manetta che, se pur in modo scherzoso, rappresentano l'Autorità e il rispetto della legge (o se vogliamo dei Regolamenti) nel mondo parallelo di Topolinia. In questo filone inseriamo tutta una serie di simboli massonici che riportiamo di seguito; per tutti vale quanto compare in Fantasia nell’episodio della danza degli animali attorno a un tempietto classico in cui per alcuni istanti è visibile il simbolo della Squadra e del Compasso. Una simbologia occulta - Il termine non è bello ma evidenzia bene il messaggio trasmesso dalle storie raccontate ossia, come già citato, la lotta del bene contro il male e qui possiamo citare l’esempio di Biancaneve che sfugge ai pericoli e alle paure presenti nel bosco (il mondo profano - la vita),  giunge a una casetta (la Loggia) in cui vivono sette nani che trascorrono la vita lavorando quotidianamente in una miniera (l'Officina massonica) da cui estraggono pietre preziose (già squadrate e che brillano) e con il loro aiuto vince la Strega (la cattiva matrigna) o se vogliamo il male che l’aggredisce e cerca di ucciderla e quindi distruggere i valori positivi che rappresenta nella sua innocenza giovanile. Oltre la storia una particolare riflessione meritano questi nostri eroi (buffi in apparenza) che aiutano Biancaneve: sette nani o e vogliamo sette operai che lavorano nelle profondità della loro Officina (la miniera), sette come i Fratelli necessari per poter dare inizio ai lavori rituali di Loggia e che giornalmente devono compiere un lavoro senza fine (il percorso massonico) per far emergere dalle proprie profondità interiori (la caverna) le pietre preziose (i valori positivi) da utilizzare in un costante impegno quotidiano per migliorare il mondo profano, la loro lotta contro il male (la strega) utilizzando i loro strumenti muratori di lavoro. Con il massimo rispetto per i Fratelli di Loggia i sette nani sono i Liberi Muratori identificati non per i loro nomi ma dalle caratteristiche personali che li identificano e che ne loro insieme di diversità sono la ricchezza della Loggia e la guida per cari Fratelli Apprendisti che, nel caso della fiaba, sono rappresentati da Cucciolo, che (come sappiamo) non può parlare ma deve osservare e ascoltare con attenzione. Un esempio di percorso interiore è rappresentato da Semola che nel racconto de “La Spada nella Roccia” da una condizione di sguattero / garzone tutto fare attraverso una serie di trasformazioni fisiche e interiori (passaggio attraverso alcune prove) assume lo stato di Artù (il mitico Re celtico) estraendo la spada dalla roccia (elemento di unione tra la terra e il cielo) passando da una condizione terrena iniziale a una condizione superiore impugnando e innalzando verso il cielo il simbolo solare per eccellenza “la croce” contenuto nella spada stessa che, da sempre, è stata simbolo di investitura. Per inciso percorso interiore compiuto grazie agli insegnamenti di un Maestro, Merlino che con i suoi consigli lo aiuta a squadrare la pietra grezza che è in lui. Il discorso della simbologia massonica nelle opere di Walt Disney è troppo vasto per essere esaurito in poche e modeste note biografiche e quindi concludendo (ma non considerando esaurito l'argomento) conviene limitarci a citare il tema di fondo della Massoneria " il miglioramento dell'uomo" ricordato nell'episodio di Una notte su Montecalvo (Fantasia) in cui le immagini e la splendida musica ci mostrano la vittoria delle forze del bene “simboleggiate dall'apparire della luce” che sconfiggono e cacciano le tenebre della notte (le forze del male). Immagini di Walt Disney e di Topolino con i paramenti e le insegne dell’Ordine De Molay.

Walt Disney, cartoni animati e Massoneria, scrive Davide Consonni il 12 febbraio 2014 su "Radio Spada". E’ del rapporto tra Walt Disney e l’esoterismo massonico che si vuole in questo articolo discutere. Ma non sarò io ad argomentare e disquisire circa il costante rapporto tra le produzioni della Disney e la massoneria statunitense. Saranno niente di meno che due membri stessi della massoneria a parlarci di questi rapporti e della presenza di ampi e vasti riferimenti all’esoterismo massonico all’interno delle produzioni Disney. Infatti, qui di seguito riporterò per intero una tavola massonica (elaborato scritto che gli iniziati leggono in loggia durante i lavori rituali) che tratta proprio del tema sopra accennato. Il titolo di questa tavola massonica è “La massoneria nelle opere di Walt Disney”, il cui autore è l’anonimo Fr. E. D., iniziato alla loggia Hocma n° 182 di Trapani. Successivamente ad aver riportato la suddetta tavola massonica, riporterò per intero anche un articolo apparso sul sito Ritosimbolico.net ad opera del massone Giovanni Lombardo, per dovere di cronaca va rammentato che il Lombardo fu colui che denunziò il Gran Maestro Gustavo Raffi, come potete leggere QUI. L’articolo di Giovanni Lombardi, massone ribelle, ovviamente tratta dei rapporti tra l’esoterismo massonico e le opere di Walt Disney. Giusto per metterci anche del mio in questo articolo, vi invito a visitare il sito ufficiale del Disney Club 33, un club privato con sede nel parco divertimenti di Disneyland riservato ai finanziatori della Disney. QUI il sito ufficiale e QUI la pagina Wikipedia. Ritengo inutile argomentare il fatto che nel mondo, anche in Italia, esistano decine di associazioni para massoniche il cui nome è “Club 33″, le quali, beninteso, non hanno nulla a che fare con la Disney. Cercare per credere. Prima di procedere con l’esposizione dei sopracitati documenti massonici e articoli ritengo doveroso proporre delle coordinate biografiche utili ad inquadrare la controversa figura di Walter Elias Disney. Walter Disney non fu mai iniziato alla massoneria, documenti che provino la sua iniziazione sono stati a lungo cercati ma invano. Ciò che invece è certo che Walter Disney fu iniziato all’Ordine DeMolay, un’istituzione dimostratamente para massonica viste e considerate le strette connessioni e collaborazioni che nei decenni sono intercorse tra i due ordini. La devozione di Walter Elias Disney per il DeMolay è oltremodo evidente da questa sua celebre dichiarazione: “Mi sento molto obbligato e grato verso l’ordine DeMolay per la parte importante che ha avuto nella mia vita. I suoi precetti sono stati inestimabili nel prendere decisioni, nell’affrontare i dilemmi e le crisi. DeMolay è sinonimo di tutto ciò che è bene per la famiglia e per il nostro paese. Mi sento un privilegiato per aver fatto parte dell’ordine DeMolay”  [Fonte: Cartoon e massoneria, Ippolito Spadafora, Edizioni ETS, 2014, p. 172] Inoltre è possibile citare una famosa lettera che Disney indirizzò ai giovani dell’ordine DeMolay dell’Acacia Chapter in Stuart, oggi questa lettera è conservata nel Disney History Institute. In questa lettera, la quale può essere interamente letta a pagina 172-173 del testo “Cartoon e massoneria” di Ippolito Spadafora, Disney scrive in merito alla sua iniziazione all’ordine DeMolay ed in merito ai valori esoterici che grazie a codesta iniziazione sono stati introdotti nella sua vita e quindi nel suo operato, continua ribadendo il suo orgoglio nel ricoprire la carica di Legionario d’onore considerando il fatto che fu uno dei primi giovani ad essere iniziato all’Ordine DeMolay appena sorto e nato nella città statunitense Kansas City nel 1919. Qui di seguito riporto per intero il testo della tavola massonica sopracitata: “La Massoneria nelle opere di Walt Disney ha sicuramente aderito alla Massoneria agli inizi degli anni ‘20, anche se non esiste alcun documento che provi la sua appartenenza ad un’Obbedienza, se non all’Ordine DeMolay, un Ordine che negli Stati Uniti si può considerare l’anticamera della Massoneria, in quanto finalizzato ad avvicinare i giovani tra i 12 ed i 21 anni alla Massoneria, nel quale Disney fu iniziato nel Capitolo “Mather” nel 1923; ad esso, ad esempio, aderì Bill Clinton e l’Ordine ha una rappresentanza anche in Italia.. Tuttavia egli non ha mai nemmeno smentito la sua appartenenza; e la testimonianza inconfutabile di essere un Fratello si ha nelle sue stesse opere – sia i disegni che i film o le produzioni televisive – in cui numerosissimi sono i riferimenti ai principi ed alla simbologia massonica. La prima testimonianza massonica nelle strip di Walt Disney risale al 1938 con il titolo “Mickey Mouse Chapter”; pubblicata proprio su l’ “International DeMolay Cordon”, il bollettino ufficiale dell’Ordine, propone Topolino che, assieme ad alcuni amici, tra cui Orazio, fonda egli stesso una “Chapter”, cioè una Loggia; della striscia però rimangono solo 3 tavole: la prima è proprio la Fondazione della Loggia, le altre due si svolgono durante una Tornata. Ma nelle strisce di Walt Disney spesso compaiono chiari simboli massonici, quali Squadra e Compasso oppure il Pentacolo, spesso in bella vista, talvolta più defilati; Squadra e compasso sono chiaramente visibili in una strip di Topolino del 19 febbraio 2002. Ma le stesse “Giovani Marmotte” a cui appartengono i nipotini di Paperino Qui, Quo, Qua, hanno una struttura più massonica che da Boys Scout, con a capo un Gran Mogol (normalmente chiamato G.M., come Gran Maestro; ricordiamo, in ogni caso, che anche i Boys Scout sono stati fondati da Baden Powell, anch’egli Massone). Ma dove Walt Disney ha lasciato più marcata la sua impronta massonica è stata la sua produzione cinematografica, sia nei film d’animazione che in quelli a tecnica mista; ricordiamo che Walt Disney dava indicazioni ben precise sulla sceneggiatura dei film, e controllava i disegni dei suoi operatori fotogramma per fotogramma prima di dare il via libera; nessun simbolo poteva nascere senza un suo ordine e la sua approvazione. Tra i suoi cortometraggi, nel 1959 “Paperino nel mondo della matematica” è un vero e proprio manifesto della cultura massonica ed esoterica: in esso Paperino viene iniziato in una Accademia Pitagorica, e lì gli vengono spiegati i simboli della numerologia, nonché i segreti della geometria e della matematica ed i loro rapporti “magici” con la musica e l’architettura; i segreti del Pentacolo ed i segreti del suo rapporto con la Sezione Aurea; un bambino non ne può non rimanere affascinato ed incuriosito, e da adulto probabilmente farà di tutto farà di tutto per avvicinarsi a questa “visione diversa” delle scienze esatte. Ovviamente, è nei film che troviamo le maggiori tracce: tal di là dei buoni sentimenti – che sono caratteristici delle produzioni per l’infanzia – tutti hanno come fil rouge l’iniziazione ad una nuova vita, l’abbandono dei vecchi valori materiali per risorgere ad una nuova vita, fatta di valori più alti. Fin dal suo primo lungometraggio – “Biancaneve e i sette nani” (1937) – Biancaneve muore (per la Regina e per tutti è morta, uccisa dal cacciatore) per rinascere in una nuova comunità composta da sette Fratelli; e lo fa dopo avere superato tre prove: un corso d’acqua, un turbinio di vento, gli occhi di fuoco delle belve: vi entra al buio, e tutto sembra terribile; ma poi arriva la luce (del giorno) e l’ambiente diventa confortevole ed ospitale. Anche Cenerentola (1950) muore come serva e rinasce come Principessa quando abbandona i metalli, cioè perde la scarpina di cristallo. Ed è superfluo sottolineare i valori massonici di cui sono intrisi film come “Alice nel Paese delle Meraviglie” (1951) – il labirinto, la scacchiera, lo specchio – o “Le avventure di Peter Pan” (1953) – gli eterni valori dell’Isola che non c’è -, “Pinocchio” (1940), “La spada nella roccia” (1963), che riporta il mito di Camelot, Re Artù e Mago Merlino, e dove il giovane Artù muore e rinasce Cavaliere dopo essere stato trasformato in scoiattolo (terra), pesce (acqua) e uccello (aria). Fortemente simbolico è “La Bella Addormentata nel bosco”; qui il Principe fa letteralmente ritornare alla vita Rosaspina grazie alle Tre Fatine – Tre Luci – che materialmente non intervengono nella rinascita, ma forniscono al Principe i mezzi per compiere l’atto (una “spada di verità” e uno “scudo di virtù”). Ma altri riferimenti li troviamo in “La Bella e la Bestia” (1991) ed in maniera lapalissiana in “Alla ricerca di Nemo” (2003), dove l’iniziazione alla Massoneria viene raccontata in maniera palese. Un’intera tavola meriterebbe “Mary Poppins” (1964); possiamo solo citare le colonne che adornano l’ingresso della (sola) casa in cui arriva Mary Poppins con il vento dell’Est (Oriente), la “medicina” di sapore diverso secondo i gusti dei bambini, la “parola” – Supercalifragilisticespiralidoso – che ti introduce in un mondo “diverso”, l’iniziazione di Banks che, con un preciso rituale e per mezzo della parola magica, muore come essere legato ai metalli per rinascere con nuovi valori, come padre, come marito e soprattutto come “uomo”. Ma anche in Televisione Walt Disney non manca di lanciare messaggi di origine massonica: tra il 1957 ed il 1959 produce 78 episodi di Zorro, della cui origine massonica si è molto parlato: massone era l’autore del personaggio – Johnston Mc-Culley -, alchimista era il reale personaggio storico che lo aveva ispirato – Guillèn Lombardo de Quzman – condannato a morte dal Tribunale dell’Inquisizione come eretico; ed infine il 4° Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato – Maestro Segreto – ha come divisa il mantello nero e come lettera simbolica la “Z”; e se non bastasse, Zorro è accompagnato da un servitore (apprendista) che non può non rispettare l’obbligo del silenzio: infatti è muto.

Ma Walt Disney non si è limitato ad inviare messaggi simbolicamente massonici: ha firmato massonicamente il suo film forse più esplicito: “L’Apprendista Stregone”; in questo film, Topolino è convinto di potersi appropriare delle arti magiche anche senza l’aiuto dello Stregone (il Maestro); ma combina solo caos, finchè non interviene lo Stregone (il Maestro) a mettere ordine. E sapete come si chiama lo Stregone? si chiama YEN SID! Leggetelo al rovescio: DISNEY!

Alla Gloria del G.A.D.U. Fr. E. D.” Qui di seguito potete leggere il suddetto articolo del massone Giovanni Lombardi: “Quando ho appreso che anche il celebre Walt Disney apparteneva alla nostra Famiglia confesso di avere provato un senso di stupore e pure di gioia: avevo finalmente trovato la giustificazione del sentimento di gratificazione provata da ragazzo – e mai del tutto scomparsa – quando leggevo le sue storie, i cui personaggi ho sempre considerato come esseri veri, reali e a me vicini. Da adulto, in compagnia delle mie bambine, ho spesso rivisitato le sue opere cinematografiche più famose, che oggi considero a ragione vere e proprie “tavole architettoniche”, essendo peraltro del tutto accidentale, e d’importanza affatto secondaria, la circostanza che esse siano tramandate attraverso il linguaggio ‘mitico’ e mediante lo strumento del cartone animato. Di queste opere, la più famosa è senz’altro Biancaneve e i sette Nani, ma anche le altre, quali La Bella Addormentata nel Bosco, Cenerentola, Dumbo, La Sirenetta, per citare soltanto le più famose, si svolgono attraverso un comune filo conduttore: la sconfitta del Male e l’affermazione dell’Amore. A tanto il protagonista arriva attraverso una vera e propria iniziazione, nella duplice accezione di ingresso in una comunità esoterica, nonché di trasformazione dell’Io per effetto di una rinascita spirituale che si verifica a seguito di varie vicissitudini, o prove iniziatiche. La vicenda di Biancaneve è paradigmatica: la ragazza è costretta dalla malvagia matrigna ad abbandonare la casa paterna, simbolo dei valori pertinenti alla vita vissuta fino ad allora, e a trovare rifugio in un bosco fitto ed oscuro, che ricorda così da vicino il gabinetto di riflessione. Dopo aver superato un corso d’acqua, resistito a un turbinìo di vento e vinta infine la paura suscitata dalla visione degli occhi degli animali, occhi fosforescenti simili a fiamme lampeggianti, la fanciulla giunge presso una capanna, la casa dei nani. Rammento che nella lingua tedesca hütte significa tanto capanna, rifugio, quanto loggia, e ciò non è casuale: invito voi tutti, carissimi Fratelli, a riflettere quante volte nella Storia la loggia massonica è stata l’ultimo rifugio per idealisti, eretici o scismatici, colti e incliti, disparati e disperati, accomunati tutti dall’essere perseguitati dal Potere. A costoro la Massoneria ha generosamente aperto le porte dei suoi templi, chiedendogli non già da dove venissero, ma piuttosto dove volessero andare. In questa capanna accade un fatto apparentemente banale ma in realtà importante: Biancaneve, anziché lasciarsi sopraffare da un ambiente nuovo e, probabilmente, ostile, lo esplora e fa amicizia con gli animali del bosco, che vede adesso, alla luce del giorno, in una dimensione totalmente nuova da quella, erronea e terrifica, della sera precedente. Si parva licet… questo episodio mi fa venire in mente l’insegnamento di Platone, secondo il quale l’iniziato deve essere, anzitutto, “desideroso di conoscere”, e anche di Dante, esaltatore della curiosità di Ulisse, mosso a varcare i confini dell’ignoto per soddisfare il proprio desiderio di “virtude e conoscenza”. Ma non basta. In uno slancio di generosità la fanciulla decide di pulire la casa dei nani, mettendo al lavoro pure gli animaletti di cui è frattanto diventata amica. Sottolineo questo episodio perché esalta sia il valore dell’amicizia fra i diversi che l’importanza del lavoro in comune. Questi temi sono evidentemente cari al Fr. Disney, dal momento che li ritroviamo in quasi tutte le sue opere. Esemplare è, a tal riguardo, la vicenda dell’elefantino Dumbo, schernito dai suoi stessi consimili perché afflitto da due orecchie abnormi, mostruose: ebbene, sarà un topo – questa bestia, nella realtà, è invisa agli elefanti – a rassicurarlo e infondergli il coraggio necessario per affrontare le difficoltà della vita. E, guarda caso, le figure da cui il protagonista riceve aiuto sono quasi sempre le creature più umili, volendo così sottolineare la perenne antinomia fra Essere e Divenire: i valori del mondo della Manifestazione sono profondamente diversi da quelli del mondo dell’Essere e chi è ‘ultimo’ nell’uno sovente è ‘primo’ nell’altro. La disponibilità ad accettare il prossimo, ancorché diverso e quindi lontano dai propri modelli paradigmatici, a rimettersi in discussione, è condizione necessaria ma non ancora sufficiente perché l’opera di catarsi possa dirsi compiuta: occorre superare varie prove, che riecheggiano molto da vicino le “prove” iniziatiche che ciascuno di noi ha subito prima di essere proclamato “fratello”. Sfacciatamente simili a quelle massoniche sono le prove che dovrà affrontare il giovane Artù nella Spada nella Roccia: accompagnato dal Mago Merlino, sarà trasformato dapprima in scoiattolo, poi in pesce, quindi in uccello. Supererà così la prova di terra, di acqua e di aria prima di affrontare l’ultima, la più impegnativa, quella del fuoco, nella fattispecie, tirare la spada magica fuori dalla roccia in cui era incagliata. Ci avevano provato in tanti, cavalieri e non, ed il suo cimentarsi è giudicato follia: ma, talvolta, solo un “puro folle” può arrivare ai recessi negati invece alla razionalità farisaica e conformista. La spada è un simbolo ‘assiale’, riecheggia cioè l’axis mundi, il filo a piombo del Grande Architetto che mette in comunicazione fra loro gli stati molteplici dell’Essere, microcosmo e macrocosmo, ma è anche un simbolo solare perché riflette la Luce: emblematica è a tal proposito la scena del combattimento fra il principe e il drago nella Bella Addormentata nel Bosco. Le fate, tre come le Luci, hanno appena liberato dai ceppi il giovane principe, affinché a sua volta egli liberi Rosaspina dal sortilegio della strega. La quale, nel tentativo di fermare il giovane, si trasforma in un drago fiammeggiante. Per gli studiosi di psicoanalisi il riferimento è chiarissimo: “vincere il drago” è infatti l’equivalente di “scavare oscure e profonde prigioni al vizio”, lottare cioè contro noi stessi per liberare il proprio Io dalle tensioni e dalle passioni che lo ancorano alla materialità cagionandogli frustrazioni e sofferenze. Le fate non possono più aiutare attivamente il Nostro, ma solo assisterlo in forma totemica; tuttavia gli offrono, prima del combattimento, una “spada di verità” e uno “scudo di virtù”. Al momento di colpire la bestia la spada si illumina, riflettendo una luce abbagliante, quindi, vinto il drago, esaurisce la sua funzione e perde così tutto il suo splendore, ritornando ad essere un semplice oggetto privo di qualsivoglia valore. Personalmente ho ravvisato in questa scena anche un’esortazione a considerare i ‘metalli’ per quello che sono: uno strumento, un aiuto per l’uomo, del quale però egli può e deve fare a meno se realizza che gli sono d’intoppo per la sua crescita spirituale. Ricordate il Discorso della Montagna? Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli. Ma cosa vuol dire essere poveri di spirito? Difettare forse di spiritualità? Se però così fosse, come si potrebbe aspirare al Regno dei Cieli? Osservo che nel testo greco la locuzione di spirito è tradotta tò pnéumati, cioè è espressa con il caso del dativo-ablativo, che è, per antonomasia, il caso corrispondente al complemento di causa efficiente. Credo allora che si possa – e si debba – tradurre: beati coloro che, deliberatamente, hanno optato per la semplicità, che per libera scelta hanno privilegiato la dimensione dell’Essere piuttosto che quella dell’Avere, e ancora, che se chiamati a posizioni di responsabilità, si sforzano di lavorare per il perfezionamento che prelude all’elevazione di quella porzione di umanità, più o meno grande, destinataria del loro servizio. Questo tema è sviluppato assai chiaramente nella Sirenetta. Il vecchio Re del Mare aveva ceduto alla strega il suo tridente d’oro – simbolo della regalità, del potere indissolubilmente legato alla saggezza, alla luce – barattandolo con la vita della figlia. In quel preciso istante tutte le creature marine sono trasformate in vermi. Dopo che la strega sarà stata uccisa dal principe Erik, l’umano innamoratosi della sirena Ariel, il tridente, lasciato cadere dalla strega moribonda, torna ai piedi del vecchio re che, impugnatolo, ritrova le antiche fattezze, e assieme a lui tutti i suoi sudditi. Se da ciò possiamo ricavare un insegnamento, mi pare che esso sia il seguente: la Luce, intesa anche come potestà di comando, non può essere affidata a mani che non sono degne di riceverla, e di tanto ognuno di noi dovrebbe ricordarsi in tutte le occasioni della vita, anche e soprattutto in quelle ‘profane’. Alla fine sarà poi proprio il re Tritone, dapprima così diffidente verso gli umani, a trasformare in donna la sirenetta sua figlia e concederla in sposa al principe, rammentandoci così che amare una creatura non significa tenerla perennemente legata a sé, bensì favorire l’armonioso sviluppo della sua personalità per metterla in condizione di scegliere con cognizione di causa. Ci sia infine permessa un’ultima considerazione, sulla magia. L’argomento meriterebbe uno studio più approfondito, ma non è questo il momento per una trattazione esauriente. Mi limiterò, perciò, a un breve accenno sul tema, sperando che le seguenti riflessioni siano di stimolo a chi voglia approfondirlo. Dal latino magis – di più, maggiormente – magus è, in ambito esoterico, colui che lavora alla trasformazione del proprio io interiore, non già chi si avvale dei poteri segreti della Natura per trasformare bastoni in serpenti e suscitare ammirazione fra gli increduli, come faceva Simon Mago. Per gli alchimisti, la trasmutazione del piombo in oro era essenzialmente simbolica: in realtà essi miravano a un’altra metamorfosi, ben più impegnativa ma tanto più feconda: il disvelamento del divino che è in ciascuno di noi. Chi riesce in questa impresa consegue la Bellezza nell’accezione archetipa del termine. Così la Sirenetta, oppure la stessa Biancaneve, a trasformazione avvenuta, estasiate dalla bellezza che le circonda, provano una gioia prima sconosciuta, laddove Grimilde, la malvagia regina che, accecata dall’invidia, prepara la mela avvelenata con la quale uccidere Biancaneve, è costretta a perdere la propria bellezza esteriore e a diventare una vecchia deforme e ributtante sol per sperare di riuscire nell’impresa. Siamo così giunti alla fine della pellicola e, con essa, delle nostre riflessioni. Resta da esaminare il tema della trasformazione, o meglio, più specificamente, della rinascita, eloquentemente descritto in Biancaneve. La fanciulla, in sonno, dunque in condizione di profanità, è adagiata in una bara di cristallo e di oro, simboli alchemici, rispettivamente, di purezza e di eternità. Nani e bestie la piangono, accomunati dal dolore. La risveglierà il Principe, con un bacio di Vero Amore, e insieme si dirigeranno a ‘oriente’ dove si staglia, confusa fra le nubi, una costruzione dai caratteri non ben definiti, dunque ‘imperfetta’, ma dalla quale ogni spettatore si sente nondimeno attratto, affascinato dal suo fulgore di Luce.” Non soddisfatto delle argomentazioni fin’ora portate ritengo doveroso proporre altri esempi di come la cartoonistica moderna sia permeata di esoterismo massonico, passo a citare esempi forse più concreti di quelli fin qui esposti. E’ di esempi fin troppo espliciti che sto per scrivere. Partiamo con il primo: E’ una serie di cortometraggi animati muti il cui protagonista è Bobby Bumps, prodotti dalla Bray Productions dal 1915 al 1925, di proprietà della Paramount Pictures. La puntata che ci interessa fu pubblicata nel 1916 col titolo “Bobby Bumps apre una Loggia” [Bobby Bumps starts a Lodge]. La trama vede protagonista Bobby nel convincere un amichetto ad iniziarsi nella sua Loggia, gli regala un grembiule e lo benda per l’iniziazione, proprio come prevede la ritualità massonica. L’amico di Bobby non ci sta ad iniziarsi nella sua loggia, fugge per la campagna e la foresta inseguito dal massone Bobby. Giunti ad un dirupo l’amico di Bobby viene attaccato da un orso. Bobby salva l’amico solo a condizione ch’egli dopo s’inizi alla sua loggia massonica: Alla fine i due amici vengono iniziati insieme alla massoneria, infatti la ritualità massonica prevede un periodo di cecità iniziatica anteposto all’iniziazione vera e propria. Passiamo ora al secondo esempio d’inizio 900, s’intitola Bimbo’s Initiation [iniziazione di Bimbo] ed è del 1930. Il cartone animato è davvero molto scuro e bizzarro, ma basta una minima conoscenza del simbolismo massonico per rendersi conto che il cartone è tutto sulle società segrete e le tribolazioni che un iniziato deve passare per essere accettato. All’inizio del cartone animato, Bimbo (un nome azzeccato per un non-iniziato?) cammina lungo la strada senza curarsi di ciò che accade attorno a lui. Improvvisamente, Bimbo cade in un tombino/trappola, tanto che è lo stesso Topolino a intrappolarlo all’interno mettendo un enorme lucchetto. Strano come questo personaggio sia il reclutatore che porta all’iniziazione Bimbo. Bimbo si trova nella tana sotterranea di una strana società segreta composta da uomini mascherati con le candele in testa (che simboleggia l’illuminazione?). Uno gli chiede: “Vuoi essere un membro? Vuoi essere un membro?”. Quando Bimbo risponde “NO!”, viene mandato in delle camere che richiamano le varie prove che vengono imposte ai nuovi iniziati nelle reali società segrete. A un certo punto, quando si trova nella stanza in cui ha i piedi incollati al pavimento e una candela sta bruciando la corda che tiene sopra la sua testa un pannello pieno di spunzoni, Bimbo è indotto a pensare che sarebbe morto. Le esperienze pre-morte hanno fatto parte delle iniziazioni alle società segrete fin dall’antichità. Nella prova della “Porta del Mistero”, (scena in cui si trova di fronte a 4 porte) Bimbo affronta importanti simboli associati a società segrete: Skull & Bones e il numero 13. Dietro la porta della Skull & Bones c’è uno specchio, dunque aprendola si trova di fronte a sé stesso. <<La cerimonia di iniziazione al primo grado prevede una domanda fatta al profano nella quale si chiede:” Talora foste accettato nella Loggia, riconoscerebbe colui che fino ad oggi ha ritenuto come suo nemico come fratello?”. Alla risposta positiva seguirà questa affermazione: “Adesso vi mostreremo chi è il vostro peggior nemico”. Tolta la benda, gli si offrirà la sua immagine riflessa nello specchio.>> Dietro la porta numero 13 invece trova uno scheletro che parla al telefono. Il numero 13 è anche legato ai tarocchi con la carta della morte di cui il significato principale è relativo al cambiamento. Può essere interpretato come il mondo materiale in contatto con l’aldilà. Inoltre il numero tredici nella numerologia esoterica indica la rottura dell’armonia, incarnando il disordine. Infatti, è il numero che con l’aggiunta di una unita al dodici, interrompe la ciclicità, obbligando ad una trasformazione radicale. Il significato del tredici è negativo, infatti è detto aritmico, rompendo la legge dell’equilibrio e della continuità. Bimbo, dopo essere riuscito a prendere la bicicletta, entra in una stanza dal pavimento massonico, nella quale al centro vi è una piscina piena d’acqua. Quando apre la porta per uscire dalla stanza, scopre che dietro ce n’è un’altra. Continua fino a che non ha aperto altre 7 porte. Anche il 7 è un numero esoterico molto importante. Il numero sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta un ciclo compiuto e dinamico. Considerato fin dall’antichità un simbolo magico e religioso della perfezione, perché era legato al compiersi del ciclo lunare. Durante le sue prove terrificanti, Bimbo impara a conoscere la natura illusoria del mondo materiale, un concetto fondamentale comunicato nelle iniziazioni occulte. Mentre scappa nel corridoio con delle lame dentate che si chiudono dietro di lui, ad un certo punto si trova con il cuore in mano. Questa simbologia è ricorrente nella massoneria e nella fase d’iniziazione alla massoneria l’iniziato deve dire: «che il mio cuore venga strappato se tradisco i segreti». Dopo che Bimbo si è rifiutato ripetutamente di diventare membro della massoneria, viene sedotto da Betty Boop, che gli fa capire che se accetterà, avrà successo e donne. A quel punto Bimbo accetta di buon grado. Questi appena esposti sono solamente due degli esempi più lampanti d’iniziazione massonica presente nei cartoni animati d’inizio secolo. Non sembra esserci motivo per stupirsi del fatto che con il passare degli anni la simbologia e i riferimenti esoterici siano sempre più presenti nell’industria culturale per giovani e giovanissimi.

Walt Disney e la Massoneria di Antonella Albano del 9 novembre 2016. Mickey Mouse incarna l’elemento dinamico, allegro, marinettaio, giovanile, curioso e avventuroso e soprattutto di sostanziale moralità, qualità che permisero a Topolino, e solo a Topolino, di sfuggire alle rigide censure autarchiche del fascismo, a cui Walt Disney aderiva essendo stato un conservatore di estrema destra. L’intera produzione Disney mette in luce i suoi aspetti simbolici e metaforici che fanno apparire, per chi volesse vederlo, un senso segreto da cui emergono simbologie massoniche, messaggi subliminali ed immagini archetipiche; una sorta di filo conduttore magico-esoterico, intessuto di risvolti mitici, leggendari, sino al punto che alcuni hanno parlato di “nazismo magico disneyano”. Se si vuole, però, estrapolare da tutta la produzione Disney, la vera firma di Walt Disney, si deve, secondo me, necessariamente, riferirsi al personaggio, eterno protagonista, che ha dato vita ad un mondo magico, unico, originale: Mickey Mouse. La sua prima apparizione avvenne a New York quando fu proiettato sul grande schermo il primo cortometraggio in abbinamento, per la prima volta nella storia del cinema, all’utilizzo del “sonoro” (all’interno della pellicola). E già questo generò clamore e ammirazione in tutto il mondo. Mickey Mouse incarna l’elemento dinamico, allegro, marinettaio, giovanile, curioso e avventuroso e soprattutto di sostanziale moralità, qualità che permisero a Topolino, e solo a Topolino, di sfuggire alle rigide censure autarchiche del fascismo, a cui Walt Disney aderiva essendo stato un conservatore di estrema destra. Personalmente ritengo che sia in Mickey Mouse che si concentrino le vere intenzioni di Disney perché è il personaggio che, essendo stato da lui personalmente “ideato”, riassume in sé tutti i processi mentali del suo creatore, quindi è impregnato di tutti i significati, eventuali, di cui lo ha voluto corredare. Indossa guanti bianchi, talvolta disegnato nella posizione che ricorderebbe un massone all’ordine d’apprendista. Sua compagna d’avventura Minnie, altrimenti detta “Minerva”, ornata, nei primi fumetti, in cui compaiono squadre e compassi, con un non ti scordar di me. In alcune interviste Walt Disney ha dichiarato di essere affezionatissimo al suo personaggio, di identificarsi con esso, tanto da prestargli la sua voce nel famoso cartoon “Fantasia” in cui compare il tanto celebre episodio l’ “Apprendista Stregone”. Donandogli la sua voce lo ha animato e chiamato ad esistere in sua rappresentanza nel mondo della Immaginazione: Fantasia appunto. Ed è su questo aspetto della sua produzione che voglio soffermarmi, sulla scelta del nome “fantasia” e sul celebre episodio di chiaro riferimento massonico. Questa storia, infatti, è ispirata, anzi identica, seppure in forma di cartone animato, ad una altra celebre opera di un altro celebre massone, ovvero la ballata di Goethe (ispirata alla storia del Golem) intitolata per l’appunto L’apprendista stregone e da cui il celebre compositore francese Paul Dukas ricavò, un secolo dopo, l’omonimo poema sinfonico. Musica che Walt Disney ha utilizzato per il suo cartone “Animato”. Questa storia racconta di uno stregone che lascia solo nel suo laboratorio (Officina – Atanor) il suo apprendista, raccomandandosi di fare “pulizia”, di tenerlo in “ordine”. L’apprendista in assenza del suo maestro, di cui indossa il cappello magico (cappello – testa, mente – keter) si serve di un incantesimo per dare vita ad una scopa affinché essa compia il lavoro al suo posto. La scopa una volta attivata, continua a rovesciare acqua sul pavimento, come le è stato “ordinato”, fino al punto però di allagare le stanze, poiché, nel frattempo, il giovane mago apprendista non è in grado di impartire un “contrordine”, ovvero non è capace di gestire, padroneggiare la sua volontà o energia psichica. Così tenta un rimedio, spezza la scopa in due con una accetta, col solo risultato di peggiorare la situazione e creare ulteriore “caos”, in quanto anziché interromperne l’incantesimo, la duplica all’infinito, incrementando esponenzialmente l’energia che l’attiva, e solo il ritorno del maestro, della saggezza evoluta, rimedierà al disastro. Il maestro nel cartoon, rappresenta, secondo la mia interpretazione, il maestro interiore dell’apprendista, o dell’iniziato in generale; non per caso il nome che Disney ha scelto di assegnare allo stregone, al Mago, è stato Yensid, ovvero Disney pronunciato al contrario. Fantasia, il titolo dell’Opera, richiama alla mente il senso di ciò che si cela dietro ogni opera di Walt Disney e più in generale dietro ogni altra favola: l’Immaginazione. Non potremmo parlare delle sue opere, dei suoi personaggi se prima ancora lui non gli avesse immaginati, quindi creati. La parola Immaginazione è una parola di etimologia latina, ha la stessa radice della parola Magia, quindi Immaginazione da Imago, aut in-mago. Il mago, nel senso puro del termine, è colui che estrae dal caos la forma, l’ordine, disciplinando, canalizzando e infine realizzando la sua volontà. Il Bagatto dei tarocchi. (Le cose magistralmente pensate, immaginate, sono fatti veri, perché diventano reali. Kremmerz – “La Scienza dei Magi”). Immaginazione, quindi, intesa come il Potere di trasformare per mezzo della Volontà, quale vera azione mentale creatrice, che fissa, cristallizza, la sua Forza, (energia vibratoria del pensiero) in forme concrete. Così considerata l’immaginazione è il possibile di cui la realtà invisibile, ovvero ancora non emersa dal regno dell’indifferenziato, è carica a livello potenziale, è ciò che si annuncia alla mente e che si canalizza e che, scientificamente parlando, pre-forma ed in-forma il “campo” per farlo diventare prima progetto mentale e poi realtà. Ma è anche ciò che vorrebbe diventare reale, ovvero Voce, Sogno, del desiderio mentale dell’uomo che, immaginando, fantasticando, distrugge, anche solo momentaneamente, le cristallizzazioni mentali che lo attanagliano in una realtà quotidiana ripetitiva. Quindi opera di svago. L’immaginazione disneyana si rivela però essere vero atto magico, destinato a far apparire l’oggetto desiderato, la scopa si “Anima” e si moltiplica tra le mani del giovane apprendista solo grazie alla forza del suo pensiero. Come tale ha la capacità di far esistere (da ex-sistere-uscire dal presente, dall’eterno presente), qualsiasi realtà e quindi immaginare è un’ azione, un atto operativo, e non solo contemplazione passiva delle proprie immagini interiori, ma consapevolezza fondata sulla Idea Madre, che esista un livello, un grado di realtà Energetica suprema e superiore a tutte le altre forme energetiche e che, fondandosi sulla onnipotenza del pensiero, ci rende mai realmente separati dalla grande Mater-ia Eterica, a cui siamo sempre olograficamente connessi. In fondo non è da essa, dalla Immaginazione, dal grande Vuoto, che nasce Tutto? Così come l’intera produzione disneyana riconduce ad una corposa “fantasia” primigenia non sono forse anche tutte le rappresentazioni di Dio, pure “creazioni” umane, fantasie eccitate o commosse? La favola, la Fantasia, l’immaginazione, è la lingua materna del genere umano il cui fondamento è da ricercare nella Potenza di suggestione che essa produce a livello soggettivo. Tutte le religioni devono riconoscersi quali invenzioni dell’uomo, sistemi cognitivi primitivi, metafore, ma pur sempre prodotto di fantasia, quindi immaginazione figurale, creazione visionaria, infine sistemata, cristallizzata, imbalsamata in icone di appropriazione istituzionale. Rappresentazione scenografica del cosiddetto sacro, quale desiderio dell’uomo, inventore, attore e autore di storie in cui proietta se stesso per esprimere e fissare (come l’artista fa sulla tela) le sue istanze ascendenti, dando Forma ai suoi sogni o ai suoi deliri più arditi, alle sue Illusioni. Teatro cosmico, eterno carnevale, illusorio, consolatorio, il cui senso è da ricercare nella esigenza umana di elevazione etica, morale, ma spesso degradante nel fanatismo iconico, nei feticci, nella superstizione collettiva del sacro, talvolta anche sofisticata e colta, che mistifica oggetti, statue, luoghi, esseri umani, decadendo nella idolatria pura, spesso anche e soprattutto per interessi Profani di un Potere che assoggetta la massa “credulona”. Oggettivamente tutti i miti sono favole, incluse, per me, le tanto famigerate rappresentazioni del male classificabile a mio giudizio al genere ironico o tragicomico. Fictio o oscura sapienza antica? Si sa le favole, i miti religiosi, restituiscono alla vita le illusioni di cui abbiamo bisogno per sorreggere il nostro cammino, per dare senso alla vita, le restituiscono il valore dell’avventura, del sogno, della speranza, ci riportano nel grembo materno desiderosi di protezione e di sostegno, ci ricollegano ad una realtà sovraumana, ipotetica, a cui vogliamo credere e a cui per molti versi ci conviene credere, per de-responsabilizzarci da ciò che comporterebbe, in termini di caos, di disordine interiore e sociale, la distruzione delle illusioni fondamentali, quelle su cui abbiamo costruito la nostra instabile, precaria, identità storica e che ci aiutano a sopravvivere in quella che pensiamo essere la realtà, stabilendo dei criteri standard a cui fare riferimento nei momenti di crisi, dissolvendo momentaneamente le nostre paure recondite, principalmente quella del divenire che è la vita quale inarrestabile mistero che non sempre sembra prometterci eternità, ma al contempo, ed è questo per me il loro grande pregio, le favole non ci impongono alcunché, ci lasciano liberi di interpretarle come vogliamo. La vera favola, come tutte le religioni, (riferendosi al vero etimo della parola religione) afferma la vita così come è per ognuno di noi e non mai tentativo di dare voce e forma ad una verità ultima inafferrabile e comunque ineffabile. Sono storie infinite, l’eterna ricerca con cui l’uomo tenta di calmare, placare le proprie ansie esistenziali, le proprie angosce, rivestendo ingenuamente, a volte persino pateticamente i propri interrogativi esistenziali. Storie di Fantasie intese a rappresentare lo scenario collettivo che ci rende tutti figli delle stesse domande, vitali perché capaci di motivare nuove speranze e di dirigere la nostra vita, ma è così che ad esse poi deve, secondo me, sopravvenire la Ragione, la Scienza, che deve operare criticamente, e nel senso benefico, demitizzando e trasformando, (convertendo), i misteri in cognizioni, e la pretesa Conoscenza mistica in Conoscenza scientifica, quindi in co-Scienza gradualmente elevata a misura non più di sogno, di allucinazione, ma di Uomo e quindi di risultanze utili e applicabili alle contingenze del presente, sdoganando il Libero Pensiero proprio in virtù della “creatività mentale” che ci caratterizza e proprio a beneficio di una sana, decondizionata e “civile” evoluzione individuale e collettiva. Mortificare i miti, sviscerarli portarli fuori dal sogno, dalla visione mistica, non significa dichiararsi agnostici, semmai può significare tentare di andare oltre il dogma, oltre il sogno, oltre la favola, oltrepassarla, impossessarsene e riportarla a noi in forma concreta, operativa, utile al bene/Essere personale e della collettività. Quindi, non demolizione del mito per istaurare altro, ma tentativo di oltrepassarlo, annichilendo, demolendo, i suoi meccanismi intrappolanti. Quell’apprendista stregone rappresenta ciascuno di noi che, grazie al suo maestro interiore, inteso come vera natura decondizionata da tutti i retaggi che la nascondono deve imparare a riconoscere il suo potenziale interiore, avere il coraggio di attraversare, esplorare il suo abisso interiore e, attraverso l’assoluta padronanza di sé, il rigoroso controllo del suo psichismo, della sua Volontà, riemergere dallo stato di caos e, con l’ausilio dei quella scopa (strumento) ripulire, riordinare, la propria interiorità, elevando le facoltà intellettive lavorando (liberi muratori) per la Luce nella Luce. (il Lumen della Ragione- Conoscenza). Il futuro mago di Walt Disney, è colui che lavora alla sua trasformazione interiore, non colui che trasforma i bastoni in serpenti o scope in strumenti di convenienza per suscitare ammirazione nei creduloni come faceva Simon Mago. In Giordano Bruno, per esempio, il tema della magia (da “de magia”) è centrale, ma essa è essenzialmente considerata come potere cognitivo basato sull’uso della immaginazione. Ben lontana, quindi, dall’essere un risultato di un processo mistico, mette piuttosto in risalto l’emancipazione interiore, che l’uomo può raggiungere tramite la Ragione, l’Intelletto, l’Intelligenza, e non tramite superstizioni dogmatizzate. Il nolano condannava infatti le forme di magia deviata e quindi non compresa, e rivendicava la dignità della magia al cospetto della sua demonizzazione per mano degli iniziati ignoranti (nel senso che ne ignoravano il vero significato). Per Bruno il mago é un saggio con capacità pratiche, non colui che fabbrica talismani, simboli, o che tenta invano di compiacere un essere trascendente avvalendosi di preghiere, offerte, pozioni magiche, rituali, cerimonie o altro. Per lui magia significava scienza (la parola scienza vuol dire conoscenza) e non esitò ad intraprendere una vivace, forte, aggressiva, polemica contro l’oscurantismo, provocando una discussione semantica intorno alle parole, mago, magia ed immaginazione. Il mago di Bruno come l’apprendista stregone di Walt Disney non è in nessun caso lo stregone che provoca o si provoca, come si suol dire, il “sonno della ragione partoriente mostri” (come quella scopa impazzita). La magia, come rivela nei suoi scritti, è scienza che disvela i processi, le dinamiche intrinseche della Natura, intesa come totalità e oppone lo stregone, (il ciarlatano), al mago, quale vero “pontefice” tra sé e la totalità. Lo stregone in questo senso è, rispetto al mago, ciò che sono il superstizioso religioso e l’esoterista fanatico rispetto all’uomo veramente spirituale ovvero che partecipa, spesso nel Silenzio, dell’anima universale. Il mago, Yensid che è dentro ognuno di noi, sperimenta su se stesso e solo in rapporto a se stesso, le dinamiche evolutive del proprio potenziale e lo fa mettendosi alla prova; infatti dal film di Walt Disney sono scaturiti i film ispirati alle storie dei cosiddetti “scienziati pazzi”, ovvero che provano su di sé gli effetti delle loro scoperte. In Fantasia, il piccolo mago, conosce se stesso commettendo errori, e come lezione impara a non delegare a terzi la responsabilità o il merito del proprio lavoro interiore, come ha tentato di fare nel lasciarsi sostituire, per il suo “lavoro”, da quella scopa. In ogni caso in tutte le favole, molte dalla Disney Production riprodotte ma di cui non è Walt Disney l’autore, si presenta un denominatore comune e costante, i protagonisti vivono vere iniziazioni, intese come ingresso in comunità esoteriche, da cui ha inizio la loro trasformazione interiore per effetto di una rinascita e in tutte è presente la Spiritualizzazione degli esseri e delle cose. Alberi e animali che parlano, oggetti animati, ovvero ogni realtà, ad ogni dimensione, è in grado di trasformarsi in essere animato e di entrare in rapporto con altre realtà di altre dimensioni, quella vegetativa con quella umana, quella umana con quella angelica o elfica, ecc, in altri termini c’è sempre una compartecipazione “virtuale” al numinoso, in supposizione dell’esistenza di una unica Forza, intesa come Energia, che si colloca al centro dell’universo magico e ne costituisce l’energia madre. In effetti la nozione stessa di magia, di scienza, presuppone l’esistenza prima di una Forza, senza la quale non sarebbe possibile collegare, e rendere intercomunicanti i processi di conoscenza, una Forza universale che mette in “comunicazione” fra loro, attraverso una “connessione” sincronica, gli stati molteplici dell’Essere Universale che si manifesta in infinite forme. L’Esistenza, l’Essere, ontologicamente, è Eterna fonte di possibilità che si attuano all’infinito. E’ il principio mentale, Minerva, l’Oriente, l’Eterna Sorgente, nel senso che è da lì che sorge qualsiasi tipo di struttura. La scienza, il sale di Minerva, (Minerva, dea della sapienza, dei fulmini e della guerra, è la controparte di Aries dio della Forza, Athena per i greci. Rappresenta l’energia evoluta, strategica, mirata al raggiungimento di un obiettivo, di un risultato) penetra con la sua intelligenza, con la Luce dei suoi occhi (il suo simbolo è la civetta che vede anche nel buio) le tenebre fino ad oltrepassare le famose colonne d’Ercole, momento in cui avviene la cosiddetta e dolorosa “morte delle illusioni” e la rinascita ad oriente, il punto critico in cui la mente riconosce di essere artefice e prodotto di se stessa. Noi massoni secondo me abbiamo principalmente il dovere di interrogarci sulla realtà di ogni giorno ed è abbastanza ovvio che la nostra esperienza esoterica ci obblighi a mettere in discussione soprattutto la quotidianità, dalla quale non dobbiamo allontanarci troppo rimanendo ancorati all’esperienza comune, condivisibile, nel tentativo di risolvere questioni pratiche e sociali, oltre che interiori; evitando di avvitarci su riflessioni sganciate totalmente dal mondo che ci circonda; perché, a mio parere, un tipo di speculazione esoterica che scivolasse costantemente nei meandri dell’astrattismo più radicale e si scatenasse in fantas/mago/riche descrizioni di realtà che non sono quelle umane andrebbe respinta o perlomeno ridimensionata e sperimentata, affrontata con senso critico, in quanto l’Uomo è Uomo, ovvero pensiero calato nella materia e Materia elevabile a pensiero. E vivere operativamente, “agire” nel mondo concreto, nella società, ispirati da una sana apertura mentale che sappia concepire ed accogliere una realtà infinitamente relativizzabile ed interpretabile, riferendola all’uomo non più idealisticamente inteso come spirito separato dalla materia, ma all’uomo come Natura , come Totalità, ovvero come il risultato del continuo interagire tra il singolo e l’ambiente in cui esso vive: Madre Terra!* In questa prospettiva, la massoneria, secondo me, non ha esclusivamente una funzione prettamente gnostica, non propone mete di perfezione (perché riconosce che tutto è perfezionabile all’infinito), al contrario, essa ci rende consapevoli degli elementi di disordine e di conflittualità che continuamente emergono nel rapporto tra l’individuo e l’ambiente o tra individuo ed individuo e ci fornisce gli “strumenti”, insieme intuitivi, logici ed operativi, adeguati a risolvere tali conflitti, per instaurare evoluzione sociale, nuova armonia, sempre nuovo ordine. Soltanto quando portiamo alla coscienza questi aspetti problematici, ovvero quando li analizziamo, quando li ragioniamo cominciamo a riflettere su di essi, se non si presentasse alcuna situazione di disagio, (come quella capitata all’apprendista stregone con la sua scopa) l’esperienza non potrebbe concettualizzarsi, non potremmo interiorizzarla, quindi non potrebbe diventare conoscenza. Usare la logica, (il Logos, il Verbo), il Raziocinio, di cui tutti disponiamo e che ci distingue dalle altre forme di vita, e trasformare una situazione indeterminata, istintuale e caotica (caos) in una situazione completamente determinata (ordine). La magia, comunque intesa, non è mai scomparsa e mai scomparirà. Le sue promesse (la luce, spostarsi rapidamente da un posto all’altro, comunicazione a distanza, il volo) sono state tutte, e infinite altre ne verranno, messe in pratica dalla scienza (elettricità, trasporti, telefono, radio, navicelle spaziali, computer quantico) e tutte inizialmente sono state percepite come cosiddetti “fatti” del diavolo e accettate con ostilità, con paura, con pregiudizio e per paura ed ignoranza respinte, condannate, giudicate, ma non possiamo negare il loro indispensabile, vitale, contributo alla Società mondiale. Né possiamo negare che l’immaginazione, le favole, i miti, ci aiutino a mantenere il contatto con il nostro daimon interiore, che nelle vesti di principe azzurro, si riaffaccia alle porte della torre che imprigiona la nostra mente, per risvegliarla dal sonno della ragione e della omologazione passiva. Distinguerci in quanto massoni, tenendoci principalmente distanti dal regno della Volgarità esoterica, non sottomettendo al suo abominio superstizioso la nostra Intelligenza e facendo attenzione che ogni nuova conquista intellettiva non sia che un’altra forma insidiosa di perpetuazione mitica, un’altra favola, un altro dogma. Tentando di schiudere in noi, invece, la Rosa d’Oriente, l’Intelligenza di Minerva, la feconda legge della sintesi e al contempo della espansione, la stella segreta dei “Magi” che conduceva alla caverna interiore del “Bimbo Re”. Tutte le favole, per finire, ci proiettano in una dimensione senza tempo e senza spazio, hanno inizio tutte con un “c’era una volta”, non si sa dove (spazio), non si quando (tempo) ed hanno fine con un “e vissero felici e contenti”, perché si sa ci facciamo a metà, anzi in mille pezzi, alla ricerca dell’altra metà, alla ricerca dell’Unità, per riappropriarci di ciò che perdiamo in ogni istante in cui ci separiamo da noi stessi”. (Solo l’immaginazione ci rende la vita possibile salvandoci dalle contraddizioni di una ragione che, se scatenata, produrrebbe il deserto – Hume)